Zelensky in Finlandia, un crocevia necessario e fondamentale
La visita breve in Finlandia del presidente ucraino Zelensky ha dimostrato di essere un’utile prova per tastare la reazione e la posizione ucraina dopo la telefonata tra Trump e Putin ed i dubbi esiti di essa. La Finlandia e il presidente Stubb sono tra i paladini più vicini a Zelensky nella vicenda bellica in corso in un angolo di Europa, sostenendo la resistenza del paese aggredito in modo chiaro e senza ambiguità, il che discende anche dalla secolare storia stessa dei rapporti finno-russi, rapporti geograficamente evidenziati dal lungo confine tra i due Stati.
Se il periodo della ‘finlandizzazione’ del dopoguerra fu contrassegnato da prudenza e neutralità, ben gestite dal carismatico presidente Uhro Kekkonen, la caduta del regime sovietico contrassegnò l’avvio del percorso di integrazione europea del Paese baltico, culminato un paio d’anni fa proprio nell’ingresso, insieme alla Svezia, nella Nato. Ingresso che però potrebbe non rassicurare troppo in questo momento storico in cui l’amministrazione Trump sembra insofferente agli impegni assunti nell’alleanza atlantica.
Kekkonen riassunse in una frase la politica da lui perseguita all’epoca: “l’unico modo per rimanere indipendenti accanto ad una grande potenza è conoscere i propri limiti”, frase che rifletteva il suo approccio pragmatico e realistico nei rapporti con Mosca, sottolineando la necessità di equilibrio tra indipendenza nazionale e cooperazione con l’allora URSS, per garantire la sicurezza della Finlandia. Questa ricetta sarebbe stata possibile per prevenire la guerra in corso tra due popoli che in comune hanno di certo più elementi che tra russi e finlandesi? Una ricetta valida per un’epoca specifica può essere obsoleta per una diversa e la storia, come si sa, non si fa con i ‘se’.
Nei numerosi incontri a Helsinki con il presidente Stubb e altri politici ed esponenti locali, culminati nella conferenza stampa all’Università della capitale – ove a risposto anche a domande di studenti -, Zelensky è stato categorico su un punto: la sovranità e l’integrità territoriale del suo paese sono di fondamentale importanza, aggiungendo che l’Ucraina non intende cedere alcun territorio occupato dalla Russia dalla sua invasione poco più di tre anni fa. Affrontando una domanda analoga, Stubb ha fatto riferimento alle concessioni che la Finlandia fu costretta a fare in seguito alle guerre d’inverno e di continuazione negli anni ’40, “L’Ucraina non deve ritrovarsi nella stessa situazione della Finlandia dopo le guerre, perdendo la sua sovranità e i suoi territori”. Per Zelensky, “l’unica soluzione è che la Russia ponga fine alla sua guerra d’aggressione in Ucraina”.
Stando così le cose, sembrerebbe un dialogo tra sordi, e la telefonata Trump-Putin un inutile tassello su una scacchiera molto intricata. L’unico impegno di Putin di non bombardare per un mese infrastrutture civili è stata l’unica concessione, ma non il cessate il fuoco richiesto da Trump.
Zelensky ha ricordato che la Russia ha continuato a bombardare l’Ucraina nonostante i negoziati in corso, il che ” dimostra che la Russia non è pronta a porre fine alla guerra. Le parole e le azioni della Russia non coincidono”. Tuttavia, anche apparenti fallimenti di questo tipo di contatti diretti non devono essere ritenuti definitivi, pur nella scarsa fiducia di Zelensky, e Stubb, negli impegni di Putin. Il presidente finlandese ha anche ribadito il continuo supporto della Finlandia all’Ucraina: sottolineando come “l’Ucraina fa parte dell’Europa e l’Ucraina è europea”. Zelensky ha ringraziato la Finlandia per il continuo sostegno militare e umanitario fornito all’Ucraina dall’invasione della Russia nel febbraio 2022 aggiungendo che “stiamo lottando per la nostra sovranità e la nostra indipendenza: vinceremo questa guerra”. La notizia della visita del presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Helsinki ha dominato i giornali finlandesi mercoledì, con una copertura che spaziava dai dettagli del suo alloggio alle ampie misure di sicurezza e agli argomenti chiave in programma per la discussione. Un editoriale del quotidiano Iltalehti ha evidenziato il potente simbolismo della visita, sottolineando che la presenza di Zelensky in Finlandia non è solo un gesto diplomatico, ma una dichiarazione di valori condivisi e una “difesa della sovranità europea di fronte all’aggressione russa”.
Durante l’incontro nell’Università con studenti e giornalisti, Zelensky ha ribadito che “L’Ucraina non è sola. La Russia è sola, aggiungendo che ammira le decisioni della Finlandia di unirsi sia all’UE che alla NATO. Il presidente Stubb ha detto al pubblico che l’Ucraina e il resto dell’Europa vogliono un cessate il fuoco e in definitiva la pace, ma la Russia deve ancora inviare un messaggio simile. “Non siamo sicuri che lo vogliano”, ha detto Stubb. Nonostante la serietà dell’argomento, Zelensky ha sorriso e fatto battute durante l’evento, dicendo al pubblico composto principalmente da studenti che è importante essere positivi, soprattutto nei momenti difficili.
Con un 27° pacchetto di aiuti in termini di rifornimenti bellici approvato di recente, raggiungendo un totale dio 3,3 miliardi di euro, la Finlandia si colloca tra i principali sostenitori dell’Ucraina, l’Italia ha erogato circa 3 miliardi di euro.
Le ombre sulla democrazia americana
Prima del voto di novembre, la candidata democratica Kamala Harris ha molto insistito sul rischio che il ritorno di Donald Trump avrebbe comportato per la tenuta delle istituzioni democratiche degli Stati Uniti. Dati alla mano, esperti di opinione pubblica hanno rilevato come questo sia stato un errore, visto che le questioni che più hanno determinato il voto erano economia e inflazione. È possibile che la campagna di Harris abbia sbagliato strategia elettorale. Ma il rischio su cui l’ex vicepresidente ammoniva non era per questo meno reale.
Tutto il potere alla Casa BiancaNelle ultime settimane hanno tenuto banco le iniziative di politica estera di Trump: dal tentativo di riavvicinarsi alla Russia a discapito dell’Ucraina ad appelli sempre più espliciti per la pulizia etnica a Gaza; dalle mire espansionistiche su Panama, Groenlandia e Canada alle tariffe, ora adottate ora sospese poi di nuovo minacciate in un disegno che non sembra avere alcun senso economico, ma che risponde a un’idea di esercizio del potere attraverso un sistema tributario di relazioni estere in cui chi si piega è (momentaneamente) risparmiato e chi resiste viene punito.
Ma l’azione di governo è stata non meno spregiudicata – e allarmante – sul fronte interno. Sarebbe inutile cercare una coerenza ideologica o una strategia politica nel frenetico attivismo mostrato dall’amministrazione. Non che manchino elementi ideologici nell’azione presidenziale – al contrario, sono molto importanti; ma non sono questi a darle senso. L’azione di Trump diventa più comprensibile se la si considera volta a sovrapporre relazioni personali a quelle di natura istituzionale e formale, e conseguentemente ad accentrare il potere sull’esecutivo e in particolare sul presidente.
Il corollario di quanto sopra è l’indebolimento del sistema di pesi e contrappesi che caratterizza la democrazia americana: il Congresso e le corti, ma anche funzionari federali di nomina non politica che garantiscono contro la politicizzazione delle funzioni ordinarie del governo; agenzie indipendenti che dovrebbero prevenire la concentrazione monopolistica di potere di mercato ed evitare conflitti di interesse; un sistema di istruzione e ricerca fondato sul principio dell’autonomia, e la libera stampa.
Lo smantellamento dello stato amministrativoOggi l’intera amministrazione federale dipende da una persona senza carica formale, il multimiliardario Elon Musk, che dirige un ufficio, il famigerato Dipartimento per l’Efficienza del Governo (DOGE), al quale Trump ha dato un’autorità senza precedenti. Il DOGE ha avuto accesso a informazioni sensibili di milioni di cittadini americani; sta tentando di controllare o forse già controlla (è impossibile stabilirlo con certezza data l’opacità con cui opera) sistemi di pagamento ordinari del governo federale; si è arrogato il diritto di licenziare centinaia di migliaia di funzionari governativi, perseguendo una dichiarata strategia volta a traumatizzare la burocrazia federale, in modo da sfoltirla di chi non è allineato e rinnovarla con un esercito di lealisti.
Dipartimenti federali che perseguono finalità contrarie all’agenda ideologica dell’amministrazione in carica come USAID, l’agenzia per lo sviluppo, o il Dipartimento per l’Istruzione sono stati smantellati con fiat presidenziale, nonostante siano stati costituiti per legge dal Congresso e solo da quest’ultimo eliminabili. Agenzie indipendenti create per garantire il rispetto di standard di salute, ambiente e lavoro e per la protezione dei consumatori, alcune delle quali avevano avviato indagini contro le aziende di Musk, sono state depotenziate o di fatto passate sotto il controllo della Casa Bianca.
Conflitti di interesse e intimidazione di stampa e universitàNel frattempo, le aziende di Musk continuano ad assicurarsi ricchissime commissioni pubbliche. Musk non è però l’unico multimiliardario dell’high-tech che si sta adeguando alla logica clientelare che domina la Casa Bianca di Trump. Jeff Bezos, proprietario di Amazon, ha pagato oltre 40 milioni di dollari per produrre un documentario su Prime sulla first lady Melania. In campagna elettorale, Bezos aveva impedito al Washington Post, di cui è proprietario, di pubblicare una raccomandazione di voto per Harris e ha poi ordinato che la pagina degli editoriali affrontasse tematiche gradite all’amministrazione in carica. Il caso è emblematico di una stampa indebolita da anni di incessante campagna contro le presunte fake news (ovvero la stampa non allineata) da parte del presidente e di tutta la galassia mediatica del conservatorismo di destra americano.
Trump sta usando la mano pesante anche nei confronti dell’alta istruzione. La Columbia University di New York si è piegata alle pretese del governo di introdurre durissime regole contro le proteste pro-Palestina, adottare una definizione di antisemitismo che si teme possa abbracciare ogni forma di critica a Israele e di privare il Dipartimento di Studi Mediorientali di autonomia nel tentativo – peraltro non ancora riuscito – di non perdere 400 milioni in finanziamenti governativi. Similmente, il governo ha lasciato intendere che l’Università di Pennsylvania potrebbe perdere 175 milioni in sussidi se non si adegua a un’agenda anti-DEI (ovvero a difesa di diversità, inclusione ed equità).
L’attacco allo stato di dirittoNel frattempo, l’amministrazione ha attaccato gli studi legali che hanno rappresentato oppositori politici di Trump o semplicemente perorato cause invise all’amministrazione. Il presidente ha proibito ai funzionari federali di avere ogni contatto con questi studi, che rischiano pertanto di non poter più rappresentare i loro clienti, in massima parte aziende che lavorano col governo. Uno di questi studi, Paul, Weiss, Rifkind, Wharton & Garrison, ha accettato di difendere in tribunale iniziative governative per evitare di fallire (l’accordo prevede che la difesa sia offerta pro bono fino a un valore di 40 milioni). L’azione intimidatoria del governo sta creando panico negli ambienti legali – e non solo – americani.
Anche le misure adottate sul fronte della migrazione sconfinano nell’indebolimento dello stato di diritto. Il caso più eclatante è quello di Mohammed Khalil, un ricercatore della Columbia di origine palestinese che si è visto arrestare e revocare il regolare permesso di soggiorno non per aver commesso un reato ma per avere espresso critiche nei confronti di Israele che l’amministrazione, senza alcuna evidenza, ha liquidato come pro-Hamas. Il caso di Khalil non è isolato, e ci sono stati diversi episodi in cui turisti sono stati trattenuti per giorni o respinti alla frontiera. Né si può mancare di menzionare l’intenzione di usare come centro di detenzione per migranti Guantanamo, la tristemente famosa prigione militare dove l’amministrazione Bush mandava sospetti terroristi per sottrarli alla giurisdizione civile, o la deportazione di centinaia di venezuelani (accusati di essere membri di una gang) in base a una legge del 1798 che autorizzerebbe l’espulsione di cittadini di stati con cui l’America è in guerra.
In cerca di una resistenzaLa rapidità e la spregiudicatezza dell’azione intimidatoria dell’amministrazione hanno tramortito tanto gli oppositori quanto i sostenitori. Il Partito Democratico, privo di una leadership unificante, è in minoranza in entrambe le camere del Congresso e quindi incapace di opporre un argine legislativo. I Repubblicani sono docilmente allineati alla linea dell’amministrazione (e chi non lo è, è troppo spaventato per protestare pubblicamente). Pertanto, nessuna opposizione degna di questo nome arriva dal Congresso.
Finora, l’unico argine è stato opposto dai tribunali. Giudici federali hanno negato che l’amministrazione abbia l’autorità di privare USAID di un bilancio appropriato dal Congresso; di licenziare funzionari governativi attraverso il DOGE; di bloccare i pagamenti federali; di precludere a uno studio legale di avere contatti con funzionari federali; e di espellere migranti senza giusta causa.
L’effetto di queste sentenze, tuttavia, è non è risolutivo. Al contrario, l’amministrazione sta adottando tattiche dilatorie per evitare di rispettarle in pieno o addirittura di ignorarle (come è stato il caso dei venezuelani deportati). Mentre nei tribunali gli avvocati dell’amministrazione questionano di cavilli legali, a livello politico la risposta è molto più netta. La Segretaria alla Giustizia Pam Bondi ha accusato un giudice di interferire negli affari del governo. Trump si è spinto a richiedere l’impeachment dei giudici che annullano i suoi ordini esecutivi, provocando una reprimenda pubblica – circostanza estremamente rara – da parte del presidente della Corte Suprema John Roberts.
È difficile anticipare quanto sia sostenibile per l’amministrazione continuare su questa strada. Non è implausibile supporre che voglia evitare una crisi costituzionale, ignorando le sentenze dei tribunali, ma per ora non ha fatto passi indietro. Se la crisi si dovesse aprire, è possibile che emerga una forte resistenza politica anche a destra, e che pertanto il sistema di pesi e contrappesi torni a funzionare. Ma la facilità e la rapidità con cui è stato indebolito in soltanto due mesi di presidenza Trump gettano una lunga ombra sulla democrazia americana.
La profezia che non deve avverarsi
Poco dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, commentando la rapida quanto inaspettata unità della risposta occidentale, Ivan Krastev emise la profezia che il momento più difficile per il mantenimento dell’unità sarebbe coinciso con la prospettiva della cessazione delle ostilità. La frattura che si è creata fra gli Usa e l’Europa in seguito all’iniziativa unilaterale di Trump di cercare un dialogo con Putin sulle spalle dell’Ucraina è sembrata dar ragione a Krastev. Tuttavia, la frattura transatlantica non si è tradotta in una significativa divisione dell’Europa. A parte il caso dell’Ungheria, la reazione complessiva è stata abbastanza coerente. Abbandonata dall’alleato americano, l’Europa sembra aver preso coscienza di un doppio imperativo: dare finalmente senso alla prospettiva di una maggiore “autonomia strategica“, ma anche acquisire la consapevolezza che l’aggressione all’Ucraina è una componente della minaccia russa che è di lunga durata e che investe tutti. Si tratta quindi di affrontare in condizioni di estrema urgenza due sfide. La prima è quella di assumersi la principale responsabilità delle garanzie da dare all’Ucraina dopo la cessazione delle ostilità tenendo conto del rifiuto americano di prevederne un’adesione alla Nato. La seconda è quella di costruire finalmente quel “pilastro europeo” di cui si parla da molto tempo e di “europeizzare” l’alleanza; porre fine a una dipendenza, ma senza rompere con l’alleato.
Il fatto che la reazione europea possa apparire faticosa e a tratti confusa non deve indurre in errore. Lungi dall’essere velleitaria, essa prende gradualmente forma affrontando i numerosi problemi nella loro evidente complessità: il ritardo tecnologico, l’eccessiva dipendenza dalle forniture americane, la necessità di liberare risorse finanziarie in una situazione spesso difficile dei bilanci pubblici, l’evidente vantaggio che si avrebbe con acquisti e finanziamenti comuni. C’è soprattutto il complesso rapporto fra una difesa che si vorrebbe “europea” e la nostra appartenenza alla Nato; la consapevolezza che poco di veramente autonomo può avvenire nell’immediato, ma anche il fatto che nell’organizzazione delle necessarie catene di comando sarà molto utile approfittare dell’esperienza accumulata in 70 anni di appartenenza alla Nato. Il tutto con un alleato diventato improvvisamente a tratti ostile e sotto la pressione della necessità di far fronte in tempi rapidissimi alla questione delle garanzie all’Ucraina. Nella consapevolezza che, se si fallisce l’obiettivo immediato, cade anche la credibilità del programma più a lunga scadenza.
In questa situazione era inevitabile che le iniziative si muovessero al di fuori degli schemi prestabiliti. Assistiamo infatti a un processo parallelo ma sostanzialmente convergente che coinvolge da un lato le istituzioni europee e dall’altro un gruppo di “volonterosi” guidato da Francia e Regno Unito; un gruppo che per alcune questioni coinvolge anche altri membri della Nato come il Canada, la Norvegia e la Turchia e persino alleati asiatici dell’America. Nulla ci autorizza a dire che questo processo è destinato ad avere sicuro successo, ma possiamo però constatare che è sulla buona strada. Potremo dichiararci soddisfatti solo quando ne saranno chiariti gli aspetti finanziari e operativi e soprattutto quando sarà definitivamente chiaro che esso è sostenuto da un numero coeso di paesi sufficienti a fare “massa critica”.
Il ritorno della profezia?Smentito finora, Krastev potrebbe tuttavia avere ragione nel momento in cui appariranno chiari i contorni di un accordo di “pace” fra Trump e Putin. Ciò che la conclusione dell’accordo metterebbe in gioco non sono tanto le motivazioni del progetto in atto da parte dei “volonterosi”, quanto le basi del consenso politico che lo ha finora sostenuto. L’insidia è doppia. In primo luogo, è infatti plausibile che l’accordo sia accompagnato da una decisione americana di sospendere in tutto o in parte le sanzioni contro la Russia. Non sarebbe una mossa facile a causa degli stretti legami della Russia con la Cina e l’Iran, ma plausibile nel quadro di un accordo ambizioso; sarebbe coerente con progetti di una imprecisata collaborazione economica e con una strategia volta a separare la Russia dalla Cina. Sollecitata a fare altrettanto, l’Europa si troverebbe in una situazione difficile. Tre terreni sarebbero particolarmente critici. Il primo è quello delle sanzioni finanziarie che sono state finora il pilastro principale e il più efficace. È inutile negare che sarebbe molto difficile per gli europei mantenerle unilateralmente in modo efficace; il che porrebbe tra l’altro la questione del destino degli averi russi che sono stati sequestrati e che si trovano in gran parte in Europa. Il secondo terreno è quello dell’embargo sull’esportazione verso la Russia di tecnologie critiche, embargo largamente aggirato dalla Russia, ma a un costo molto elevato e quindi nonostante tutto abbastanza efficace. Tutto può succedere, ma è difficile immaginare che persino Trump correrebbe il rischio dell’abolizione dell’embargo alla luce degli stretti rapporti che esistono fra la Russia e la Cina.
C’è infine la questione più importante per l’Europa: quella delle importazioni europee di idrocarburi russi, in particolare di gas. Importazioni mai completamente cessate, ma ormai molto minoritarie. È difficile prevedere la posizione americana a questo proposito; ci potrebbero essere motivazioni contrastanti che metterebbero in gioco l’interesse di Trump a calmare le pressioni inflazionistiche, ma d’altro canto la competitività del gas americano. Il buon senso e la coerenza dovrebbero portarci alla conclusione che in nessun caso l’Europa dovrebbe cedere a questa tentazione.
La seconda insidia è politica e forse anche più pericolosa. La parola “pace”, quali che fossero le sue reali condizioni e la sua credibilità, risveglierebbe le forze politiche e sociali che in vari paesi europei si sono finora opposte da posizioni di minoranza al sostegno all’Ucraina, oppure che l’hanno subito in silenzio, oppure che sono comunque fondamentalmente reticenti a lanciare i rispettivi paesi in uno sforzo di riarmo con innegabili costi politici oltre che finanziari; posizioni che hanno in comune l’argomento che un programma di rafforzamento della difesa europea ha senso solo se si considera reale e prioritaria la minaccia russa. In altri termini, si avrebbe un tentativo di mettere in discussione il consenso politico che si è creato finora, con il doppio argomento di compiacere l’alleato americano e che “con la Russia comunque bisogna convivere”.
Qual è la gravità del pericolo? Per cominciare, esso sarà tanto più ridotto quanto più avanzato e consolidato sarà il progetto di costruzione di una difesa comune. È comunque molto probabile che la Polonia, i paesi scandinavi e i baltici ne sarebbero esenti. Lo stesso vale probabilmente anche per il Regno Unito. All’altro estremo, il paese più vulnerabile è sicuramente l’Italia. “Sul piano economico a causa dei suoi antichi legami con la Russia, della sua recente dipendenza dalle importazioni di gas e della situazione dei suoi conti pubblici. Sul piano politico, entrerebbero in gioco la volontà di Giorgia Meloni di essere il più possibile vicina a Trump, la tradizionale posizione filo-russa di Salvini e la forte componente pacifista presente nell’opposizione; tutto sarebbe confortato dai sondaggi che mostrano un’Italia molto reticente della maggioranza degli europei nel sostegno all’Ucraina come per il progetto di riarmo. Una defezione dell’Italia, paese di cui l’appartenenza piena e convinta ai “volonterosi” non è del resto ad oggi ancora acquisita, sarebbe grave ma non catastrofica. Il successivo pericolo, molto più grave, è invece in Francia. La prospettiva di compiacere Trump non avrebbe nessun ruolo, ma le voci che reclamano una posizione più accomodante con la Russia sono forti sia a destra (non necessariamente solo estrema) che a sinistra. D’altro canto, la Francia è attualmente alla guida dei “volonterosi”; la caduta del progetto rappresenterebbe un colpo gravissimo per la posizione internazionale del paese.
È però ragionevole concludere che il paese chiave sarà la Germania. Le posizioni filo-russe vi sono tradizionalmente forti all’estrema destra ma anche fra i socialisti e persino nella CDU. Dopo tutto la politica che l’attuale strategia europea sta abbandonando è proprio quella ispirata per anni da Angela Merkel. Inoltre, uno degli elementi fondamentali del cambiamento di strategia sarebbe la riattivazione del gasdotto Nord Stream 2, le cui chiavi stanno in Germania. Forse con eccessivo ottimismo, sono però tentato di pensare che la maturazione delle convinzioni della coalizione che si appresta a governare e del suo futuro Cancelliere, sono sufficientemente profonde per non essere abbandonate in seguito ad avvenimenti che è già oggi possibile anticipare. Non si modifica la Costituzione per abbandonare dopo poco la strategia che ha ispirato il cambiamento. Si sarebbe quindi tentati di concludere che, se la Germania tiene la rotta, gli altri paesi e in particolare la Francia e forse l’Italia, non potranno fare altrimenti. In caso contrario, assisteremmo non solo ala conferma della profezia di Krastev, ma probabilmente anche a una crisi esistenziale del sistema europeo.