

Lee Jae-myung nuovo presidente della Corea del Sud
L’elezione presidenziale straordinaria del 3 giugno scorso nella Repubblica di Corea è stata vinta dal leader del partito democratico Lee Jae-myung. Essa si era resa necessaria dopo l’impeachment e l’arresto dell’ex presidente Yoon Suk-yeol che nel novembre scorso aveva deciso di promulgare illegalmente la legge marziale.
Le cause di tale improvvida iniziativa meritano di essere ricordate. La costituzione della Corea prevede la possibilità di invocare la legge marziale solo in caso di guerra o di incidenti ed altre emergenze nazionali mentre le ragioni addotte da Yoon si riferivano “alla politica anti-stato e pro-nordcoreana” del partito di opposizione, motivazioni ben lontane dal dettato costituzionale. Vigendo una democrazia presidenziale in cui il capo dello Stato è anche capo dell’esecutivo, l’ex presidente si era trovato inevitabilmente in grandi difficoltà dopo le elezioni parlamentari dell’aprile 2024 che lo costrinsero a governare con una maggioranza opposta a quella del suo partito. Una situazione di “coabitazione” assai simile a quella francese. Con questa nuova elezione si può ritenere conclusa la grave crisi istituzionale che aveva colpito il paese.
Sale ora alla massima carica un nuovo leader che potrà contare oltre che sul netto risultato del voto presidenziale anche su una solida preesistente maggioranza in parlamento.
Il nuovo presidente ha il merito di aver guidato, nel rispetto della costituzione, il burrascoso processo di transizione che ha condotto all’impeachment e alla cacciata e arresto del predecessore. Si tratta di titoli che gli dovrebbero consentire di prendere le redini del paese nel quadro di una maggiore coerenza tra il potere legislativo e quello esecutivo.
Ciò non vuol dire che egli avrà la vita facile. Oltre alla gestione interna di un paese che pur avendo realizzato un formidabile sviluppo economico ed industriale soffre anche dei mali delle democrazie mature tra cui la denatalità ed un’atavica ostilità tra progressisti e conservatori. Esso ha però anche dimostrato la sua vitalità democratica reagendo con determinazione a quello che si può considerare un maldestro tentativo di colpo di stato in una situazione politico-strategica molto complessa.
La minaccia rimane anzitutto quella della Corea del Nord sempre più agguerrita ed in possesso ormai non solo dell’arma atomica ma anche di vettori presuntamente capaci di colpire persino l’America. Sono ormai lontani i tempi in cui la Russia applicava rigorosamente contro la DPRK le sanzioni da essa stessa comminate nel quadro del Consiglio di Sicurezza. Oggi si può parlare di una vera e propria alleanza con Mosca come dimostrato dalla partecipazione attiva di militari nordcoreani al conflitto ucraino.
Negli ultimi decenni la politica di Seoul ha oscillato tra una linea di apertura nei confronti della Corea del Nord come promossa dai grandi presidenti progressisti quali Kim Dae-jung agli inizi del 2000 e più di recente da Moon Jae-in. A loro sono succeduti leader conservatori che hanno invece privilegiato il confronto con il Nord. Tra essi figura sicuramente il presidente recentemente silurato che non era ostile neppure all’ipotesi che Seoul si dotasse dell’arma atomica.
Rimane immutata in entrambe le forze politiche la coscienza della dipendenza dagli Stati Uniti e la ricerca di una forte alleanza con Washington senza l’appoggio della quale – la storia insegna – un riavvicinamento con la Corea del Nord non è configurabile. Sicuramente la linea del nuovo presidente Lee Jae-myung è aperturista verso il Nord ma è dubbio che tale orientamento converga con quello attuale di Donald Trump. Quest’ultimo, scottato dal vistoso “fiasco” della sua apertura verso il leader nordcoreano durante il suo primo mandato, difficilmente riprenderà in mano, di sua volontà, il dossier coreano. Il rapporto con Seoul viene oggi visto a Washington anzitutto nel quadro del confronto strategico con Pechino, potente vicino della Corea territorialmente e principale partner economico-commerciale. Il mantenimento di una rotta tra questi due fari sarà la grande sfida per la navigazione che il nuovo presidente coreano si appresta ad intraprendere.
Come le relazioni Ucraina-Ungheria influenzano le elezioni di Orbán
La difficile relazione tra Ucraina ed Ungheria sembra essere peggiorata ulteriormente dopo l’arresto avvenuto il 9 maggio di due presunte spie ungheresi da parte del servizio di sicurezza interno ucraino. Secondo quest’ultimo le due spie erano parte di una rete più ampia gestita dall’Ungheria. Questo avvenimento e la ritorsione di Budapest rappresentano l’ultima tappa del rapporto complicato tra Ucraina e Ungheria.
Perché le relazioni tra Ucraina e Ungheria sono così complesse?Le relazioni attuali tra i due Paesi sono rimaste relativamente positive fino al 2016. Nel 2017 l’allora presidente ucraino Poroshenko firma una legge per rendere l’ucraino lingua di studio ufficiale e obbligatoria di tutte le scuole del Paese dalle medie in poi. L’insegnamento in altre lingue rimane comunque permesso, ma come materia separata. Questa legge, che coinvolge tutte le minoranze del Paese, è stata pensata per scoraggiare l’uso del russo nell’educazione pubblica. Vari Paesi hanno accolto in maniera critica il passaggio di questa legge, tra cui Polonia, Bulgaria e Romania.
Il Paese che ha reagito più aspramente, però, è stato l’Ungheria per via della minoranza ungherese presente nella regione ucraina della Transcarpazia dove gli ungheresi rappresentano circa il 20% della popolazione. La regione è stata storicamente parte dell’Ungheria per poi venire ceduta prima alla Cecoslovacchia con il Trattato di Trianon fino a diventare parte dell’Ucraina indipendente dopo il 1991. Dopo la firma della legge del 2017 il ministro degli esteri ungherese, Péter Szijjàrto, ha annunciato che l’Ungheria avrebbe bloccato qualsiasi integrazione dell’Ucraina nella NATO e nell’Unione Europea.
Tale rottura è stata esacerbata da fatti quali la distribuzione di passaporti ungheresi in Transcarpazia, l’accordo tra Ungheria e Gazprom del 2021 e soprattutto con la postura ambigua di Budapest dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Se da una parte l’Ungheria ha condannato l’invasione, dall’altra Orbán è stato il leader di un paese UE e NATO più vicino a Putin.
Orbán è stato criticato per la sua opposizione alle sanzioni europee alla Russia, per il rifiuto di inviare armi all’Ucraina e per aver mantenuto rapporti economici e diplomatici con Mosca. L’economia ungherese è infatti costruita attorno all’ambivalenza geopolitica tanto che Orbán stesso l’ha definita un’economia di transito che può sopravvivere solo attraendo investimenti da ambo le parti.
Perché delle presunte spie ungheresi sono state arrestate in Ucraina?Venerdì 9 maggio l’SBU, il Servizio di sicurezza dell’Ucraina, ha affermato di aver arrestato un uomo e una donna, entrambi ex militari delle forze armate ucraine, accusati di passare informazioni ai loro contatti ungheresi in cambio di soldi. Queste due presunte spie secondo l’SBU sono parte di una rete più ampia gestita da Budapest con lo scopo di cercare informazioni e vulnerabilità delle difese della Transcarpazia.
Il Ministro degli esteri ungherese Szijjártó ha respinto le accuse mosse dagli ucraini definendole propaganda, oltre ad aver annunciato l’espulsione di due cittadini ucraini accusati a loro volta di essere spie. Inoltre un terzo individuo, identificato come agente dell’HUR, il servizio segreto militare ucraino, è stato arrestato dalle forze antiterrorismo ungheresi e deportato. L’Ucraina ha risposto con l’espulsione di due diplomatici ungheresi.
Fonti ungheresi affermano che i fatti recenti sono parte di un più ampio gioco di spie che continua da mesi. Una prima parte si era già giocata a febbraio quando il comitato di sicurezza nazionale del parlamento ungherese aveva affermato l’esistenza di un piano ucraino per screditare la figura di Viktor Orbán.
Inoltre, la settimana precedente l’arresto delle due presunte spie, un radar delle forze armate ungheresi aveva rilevato dei droni nella regione di Tokaj. Uno dei droni è stato abbattuto e gli ungheresi sospettano che provenisse dall’Ucraina.
Cosa significa ciò per le relazioni tra Ucraina e Ungheria?In risposta ai fatti del 9 maggio le relazioni tra i due Paesi hanno subito un duro colpo, testimoniato dal cancellamento dell’incontro bilaterale sui diritti della minoranza ungherese in Ucraina previsto per il 12 maggio.
Il viceministro degli esteri ungherese, Levente Magyar, ha affermato come gli eventi dei giorni precedenti non consentano di portare avanti i negoziati sulle minoranze in modo costruttivo.
Tutto ciò inoltre sta avvenendo sullo sfondo della campagna VOKS 2025, un referendum consultivo annunciato il 15 aprile dal governo ungherese circa l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea. I materiali elettorali distribuiti dal governo ungherese sottolineano le percepite conseguenze negative per l’agricoltura nazionale, le finanze pubbliche e la sicurezza pubblica nel caso in cui l’Ucraina entri a far parte dell’Unione.
I fatti del 9 maggio verranno usati per alimentare l’opposizione ungherese all’ingresso dell’Ucraina nell’UE. Tale opposizione, però, si è evoluta nel tempo. A marzo 2022 l’Ungheria si è unita ad altri Paesi per chiedere l’adesione dell’Ucraina all’UE, ma successivamente ha cambiato posizione opponendosi al percorso di adesione “velocizzato”, affermando di voler dare priorità all’allargamento dell’UE nei Balcani.
Ciononostante, le vere ragioni di questa campagna e in generale delle tensioni recenti col vicino orientale hanno relativamente poco a che fare con l’Ucraina e con il suo accesso all’Unione Europea, ma sono fortemente legate a questioni di politica interna.
Che collegamento c’è tra l’Ucraina e la politica interna ungherese?Nell’aprile 2026 sono previste nel Paese le elezioni parlamentari, considerate le prime che Orbán rischia di perdere. Dopo essere tornato al potere nel 2010 il blocco dell’attuale primo ministro è riuscito a rimanere saldamente la prima forza politica, creando un sistema dai tratti illiberali progettato per perpetuare il potere di Fidesz.
Il vero cambiamento nel panorama politico ungherese si è avuto con l’ascesa di Péter Magyar, ex membro di Fidesz. Nel febbraio 2024 Magyar ha annunciato di essersi dimesso da ogni incarico e ha criticato aspramente Orbán. A marzo dello stesso anno si è unito al già esistente Partito del Rispetto e della Libertà (TISZA), che è riuscito a far diventare la seconda forza del Paese ottenendo il 30% alle elezioni europee del 2024. I sondaggi attualmente danno TISZA in testa con circa il 41% dei voti, seguito da Fidesz con circa il 36%.
L’ascesa di TISZA sta preoccupando Orbán. L’intento di Orbán appare quello di usare le posizioni pro Ucraina per screditare Magyar e TISZA dipingendoli come attori al soldo degli ucraini che stanno tentando di sabotare l’Ungheria, mentre soltanto Fidesz può salvaguardarne la stabilità.
Stabilità che però sembra essere messa a repentaglio, tra le altre cose, dalla complicata situazione economica. A ciò sono da sommarsi le proteste che da mesi interessano il Paese in seguito ad un emendamento costituzionale che vieta gli eventi pubblici da parte della comunità LGBTQ+.
Alla luce di quanto successo nelle scorse settimane non si può ipotizzare una normalizzazione delle relazioni tra Ucraina e Ungheria almeno sul breve termine.
Con un’eventuale sconfitta di Orbán nel 2026 e con l’ascesa di Magyar si può pensare sicuramente a un miglioramento dei rapporti, ma la questione della minoranza ungherese in Transcarpazia rimarrebbe comunque aperta.
Inoltre, è da sottolineare come TISZA sia più pro-Ucraina di Fidesz, ma permangono degli attriti. Difatti anche TISZA sostiene è contro l’invio di armi o di truppe in Ucraina. Inoltre il partito ha messo in guardia circa l’adesione accelerata dell’Ucraina all’UE, citando soprattutto l’impatto negativo che ciò avrebbe sull’agricoltura ungherese. Tuttavia TISZA rimane favorevole all’accesso dell’Ucraina all’UE, come emerso da una consultazione in cui il 60% degli elettori di TISZA si sono detti favorevoli.
di Lorenzo Pellegrino
Opposizione decimata alle legislative in Burundi
«L’opposizione parteciperà alle prossime elezioni da votante, non da candidata». Con queste parole, Prosper Ntahorwamiye, presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) del Burundi, a gennaio 2025, ha aperto l’anno elettorale. Infatti, nel giro di tre mesi, tra giugno e agosto, i burundesi rinnoveranno la camera bassa del Parlamento nazionale, i Consigli comunali e i Capi delle colline. Il Senato invece sarà eletto in modo indiretto dai consiglieri comunali.
La tornata elettorale si preannuncia infuocata. E i dati del Paese in fatto di libertà di opinione ed espressione, arresti arbitrari, sparizioni e detenzioni extragiudiziali dipingono uno scenario pre-elettorale caratterizzato da violenza e repressione.
Nulla di nuovo in realtà in questo piccolo Paese dell’Africa centrale, la cui storia è stata segnata da un succedersi di colpi di Stato e ondate di violenza a sfondo etnico. Oltre a una guerra civile (1993-2005) che ha coinvolto e visto scontrarsi i due gruppi etnici principali, hutu e tutsi.
Speranze di cambiamentoNel 2005, con la conclusione della guerra civile e un accordo di condivisione del potere tra hutu e tutsi, Pierre Nkurunziza si è preso la scena politica burundese.
Presidente del Paese fino al 2020, Nkurunziza non ha mai esitato a usare la violenza per reprimere il popolo che chiedeva maggiori diritti e libertà. Un pugno di ferro dispiegato in tutta la sua crudeltà nel 2015 contro i manifestanti che protestavano contro la sua decisione di candidarsi per un terzo mandato (incostituzionale, dato il limite dei due sancito in Costituzione).
Nel 2020, però, Nkurunziza ha lasciato la massima carica dello Stato, designando come suo successore Evariste Ndayishimiye. All’epoca segretario generale del Consiglio nazionale per la difesa della democrazia-Forze per la difesa della democrazia (Cndd-Fdd) – partito che controlla la politica burundese dal 2005 – Ndayishimiye si è imposto con più del 70% dei voti. Ma, ancora una volta, il processo elettorale è stato macchiato da scarsa trasparenza. Il monitoraggio degli osservatori internazionali è stato impedito.
Tuttavia, agli occhi della comunità internazionale, il passaggio avvenuto ai vertici dello Stato ha portato con sé speranze di cambiamento. Effettivamente, nel corso del primo anno di presidenza, Ndayishimiye ha ordinato il rilascio di attivisti per i diritti umani e giornalisti che erano stati incarcerati sotto Nkurunziza. Le relazioni diplomatiche con Stati Uniti e Unione europea – crollate nel 2015 dopo la dura repressione dei manifestanti – hanno invece iniziato a risollevarsi.
Niente di nuovoMa, in realtà, nulla è cambiato. Per qualche attivista e giornalista che è stato rilasciato, ce ne sono tanti altri che sono stati incarcerati, nuovamente in modo arbitrario. Soprattutto se si occupavano di diritti umani, come l’avvocato Tony Germain Nkina e l’ex parlamentare Fabien Banciryanino, entrambi fermati a ottobre 2020.
Per arrestare la giornalista Floriane Irangagiye ad agosto 2022, invece, le forze di sicurezza hanno atteso che rientrasse nel Paese per visitare la famiglia. Avendo criticato l’operato del governo durante una diretta di Radio Igicaniro (una piattaforma in esilio), è stata accusata di aver “minato l’integrità territoriale nazionale”. E perciò condannata a dieci anni di carcere.
Anche le Ong sono duramente attaccate con arresti e intimidazioni. In particolare le organizzazioni il cui lavoro verte su temi “sensibili” per il governo. Tra questi la corruzione – estremamente diffusa tra la classe dirigente – e l’omosessualità – definita un “peccato”, vietata dal Codice penale e punita con la reclusione.
Per silenziare qualsiasi voce di dissenso, accuse come “ribellione” e “minaccia alla sicurezza interna dello Stato” sono ormai diventate lo strumento privilegiato dell’esecutivo. Il cui controllo su polizia ed esercito è pressoché totale. Mentre la milizia giovanile del Cndd-Fdd, l’Imbonerakure – famosa per le continue violazioni dei diritti umani – attacca i dissidenti, soprattutto durante i raduni pubblici.
La scure contro le voci critiche si è accompagnata a un processo di chiusura del Paese nei confronti dell’esterno. I rappresentanti dell’Unhcr sono stati espulsi nel 2016 e tre anni dopo l’agenzia è stata costretta a chiudere i suoi uffici a Gitega. Nel frattempo, il Burundi ha abbandonato il Consiglio sui diritti umani delle Nazioni Unite. E si è rifiutato di accettare qualsiasi visita di esperti volta a stilare report sulla situazione umanitaria interna.
Opposizione sotto attaccoA peggiorare ulteriormente il clima pre-elettorale ha contribuito anche il tentativo della Ceni di mettere fuori gioco mezza opposizione. A gennaio, infatti, l’organo – incaricato di organizzare e supervisionare il voto – ha rifiutato le liste di diversi partiti, sostenendo che non rispettassero alcuni articoli del Codice elettorale. In particolare, riteneva che non venissero garantiti gli equilibri etnici – 60% di candidati hutu e 40% di tutsi – e di genere – 30% di donne.
In realtà, l’obiettivo dell’esecutivo era estromettere i suoi principali rivali. Cioè il Congresso nazionale per la libertà – maggiore partito di opposizione – e la coalizione Burundi bwa bose – nata nel 2024 e composta da diverse figure di spicco del panorama politico burundese. Alla fine, dopo alcune modifiche, le liste di entrambi i movimenti sono state ammesse al voto per le legislative, ma rifiutate per le comunali.
Dall’inizio della campagna elettorale (13 maggio), qualsiasi rivale del Cndd-Fdd è costantemente sotto attacco. I raduni sono interrotti con la violenza dalla polizia e dall’Imbonerakure. Diversi attivisti sono stati arrestati e torturati. Violenze e intimidazioni sono continue e sistematiche, nell’intento di spaventare e indurre al ritiro il maggior numero possibile di candidati.
Come si votaCento deputati sono eletti in modo diretto, in 18 circoscrizioni plurinominali con liste bloccate e sistema proporzionale.
Una volta conteggiati i voti e distribuiti i seggi, la Ceni poi aggiunge un numero variabile di deputati. Li sceglie tra i candidati non eletti dei partiti (a patto che il movimento abbia ottenuto almeno un seggio) affinché la nuova Assemblea nazionale rispetti perfettamente i requisiti etnici (60% di hutu e 40% di tutsi) e di genere (30% di donne). Infine, vengono cooptati anche tre membri della comunità twa, individuati negli elenchi presentati dalle loro organizzazioni di rappresentanza comunitaria.
È la prima volta dal 2005 che le elezioni legislative e quelle presidenziali non coincidono. Nel 2015, infatti, un referendum ha allungato (a partire dal 2020) la durata del mandato del capo dello Stato da cinque a sette anni. Eppure questa campagna elettorale ha sempre più il sapore delle presidenziali. Un po’ per la mobilitazione imponente di risorse e per la discesa in campo dei pesi massimi del partito di governo e dell’opposizione. E un po’ per i toni infuocati, la violenza e la repressione delle voci di dissenso.
In un clima sempre più teso, dunque, il voto del 5 giugno non sta facendo altro che scavare il solco per il prossimo voto. La macchina della repressione si rafforza, preparando la strada al secondo mandato di Ndayishimiye come capo dello Stato.
di Aurora Guainazzi
Italia e Kazakhstan: i due Stati-ponte
Giorgia Meloni il 30 maggio si è recata ad Astana per incontrare il Presidente kazako, Qasym-Jomart Tokayev. L’incontro ha confermato ancora una volta il rapporto privilegiato tra le due economie che, ormai da trent’anni, hanno sviluppato una stretta collaborazione soprattutto nel settore energetico. L’Italia è il primo partner economico del Kazakhstan in Europa, importando soprattutto petrolio, gas e prodotti minerari, mentre il Kazakhstan guarda all’Italia per macchinari industriali e tecnologie (con una crescente attenzione anche per l’agricoltura).
L’incontro di Astana arriva circa cinque anni dopo l’entrata in vigore dell’EU-Kazakhstan Enhanced Partnership Agreement, un accordo quadro che copre 29 aree di cooperazione prioritaria con l’Unione Europea. Tra le diverse materie previste nel trattato bilaterale, in cui anche la cultura e lo spazio meritano menzione, una speciale enfasi è dedicata al nesso tra estrazione mineraria e tutela ambientale.
Nel suo discorso alla presenza di Tokayev, Meloni ha sottolineato il valore geopolitico del rapporto tra Roma ed Astana. L’Italia, con la sua ambizione di proiezione nel cosiddetto Mediterraneo Allargato, si vuole presentare come porta commerciale e culturale dell’Africa e del Medio Oriente verso l’Europa. Sul fronte opposto, il Kazakhstan, da sempre crocevia politico e commerciale tra Europa, Cina e Russia, svolge un fondamentale ruolo di ponte nel quadro dell’Asia Centrale.
Il ruolo del Paese diventa strategico soprattutto nel contesto delle attuali tensioni internazionali a cui Meloni ha fatto più volte riferimento nel corso del suo discorso. La speranza di Roma ed Astana è che la collaborazione tra UE e Kazakhstan – con l’Italia come Stato UE maggiormente interessato a questa partnership – porti ad un’accelerazione degli investimenti nel Middle Corridor (o Trans-Caspian International Transport Route) e quindi alla realizzazione delle imponenti opere infrastrutturali volte a rendere il Kazakhstan un reale snodo euro-asiatico di merci e persone.
Attraverso questo snodo terrestre si potrebbe creare un’alternativa reale all’attuale dipendenza dal canale di Suez e dal commercio marittimo. Ad oggi, i segnali incoraggianti non mancano, provenienti soprattutto dal Caucaso (come nel caso del nodo ferroviario Baku-Tbilisi-Kars), ma le tensioni regionali rimangono l’ostacolo più grande per la concretizzazione di questo progetto strategico.
Il Kazakhstan, che ha avviato anche un percorso riformatore nel 2022, può rappresentare un attore determinato a portare stabilità politica, come dimostrato dai suoi sforzi di collaborazione strutturale con tutti gli attori dell’Asia Centrale. Per questo motivo il governo di Astana, salvo imprevisti traumatici, rimarrà nei prossimi anni un interlocutore privilegiato per Roma e Bruxelles.
Da Vilnius a L’Aia, movimento dei Paesi del fianco orientale d’Europa
Il 2 giugno si è svolto il vertice congiunto dei cosiddetti Nove di Bucarest, B9, e dei Paesi nordici a Vilnius, in Lituania. L’incontro di Vilnius si è concentrato sulla preparazione per il Vertice NATO dell’Aia di giugno (24-25 giugno) e sul sostegno all’Ucraina.
Oltre ai Nove di Bucarest, al vertice di Vilnius hanno partecipato il Segretario generale della NATO Mark Rutte , il Presidente ucraino Volodymyr Zelenskyi e governanti di tutti i Paesi nordici, Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca e Islanda.
La Finlandia è particolarmente coinvolta in questo consesso, dato che è il paese UE col confine più lungo con la Russia: il suo rimo ministro Petteri Orpo ha dichiarato che”La NATO sta tornando alle sue radici e stiamo procedendo nella giusta direzione. Tuttavia, c’è ancora molto lavoro da fare, e questo lavoro deve essere fatto ora. In questa occasione, ci siamo preparati insieme per rendere il Vertice NATO dell’Aia il più possibile un successo”.
L’agenda includeva, tra le altre cose, l’aumento della spesa per la difesa e dell’industria della difesa dei paesi della NATO, il sostegno all’Ucraina nel suo percorso verso una pace duratura e giusta e l’approfondimento della cooperazione euro-atlantica in materia di sicurezza.
I dibattiti svoltisi nel corso dell’incontro hanno sottolineato con forza l’importanza dell’impegno a lungo termine degli Alleati nei confronti dell’Ucraina, nella sua difesa contro l’illegale guerra di aggressione della Russia, nonché la minaccia a lungo termine che la Russia rappresenta per l’intera sicurezza euro-atlantica.
“Il vertice dell’Aia dovrebbe inviare un messaggio forte: il nostro sostegno all’Ucraina è incrollabile. Quando verrà raggiunto un cessate il fuoco e la pace in Ucraina, il Paese avrà ancora bisogno di una forte difesa deterrente contro la Russia. Gli alleati dell’Ucraina devono impegnarsi in questo supporto strategico a lungo termine. Allo stesso tempo, dobbiamo rafforzare la nostra difesa e potenziale di deterrenza”, ha aggiunto Orpo.
Nel corso dell’incontro, il Primo Ministro finlandese ha avuto anche incontri bilaterali con il Presidente ucraino Zelensky e con il Presidente romeno Nicușor Dan, appena entrato in carica .
Il gruppo dei Nove di Bucarest comprende gli stati membri orientali della NATO: Bulgaria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria ed Estonia. Il gruppo è stato fondato dal presidente romeno Klaus Iohannis e dal presidente polacco Andrzej Duda nel 2015. Bisognerà capire se la Polonia resterà in questa compagine, dopo la recente elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
Anche il Segretario Generale della Nato, Mark Rutte, ha partecipato al vertice, affermando che. “Stiamo affrontando il contesto di sicurezza più pericoloso degli ultimi decenni; non siamo in guerra, ma non siamo nemmeno in pace”. Ha sottolineato la necessità di puntare sulla prontezza operativa, includendo un numero significativamente maggiore di forze ben addestrate, ben equipaggiate, pienamente supportate e sostenibili. Rutte ha detto di aspettarsi che il Vertice dell’Aia dimostri il duraturo impegno degli Alleati per la difesa collettiva, attraverso maggiori investimenti nella difesa e una maggiore produzione industriale in tale ambito, e un accordo su nuovi ambiziosi obiettivi di capacità, concludendo di continuare “a contare sul B9 e sui nostri alleati nordici affinché svolgano un ruolo chiave in questi importanti sforzi”.
Il sostegno all’Ucraina sarà una priorità del Vertice dell’Aia. Il Segretario Generale ha elogiato gli sforzi dell’Ucraina e il ruolo dei Paesi baltici e nordici nel fornire un’assistenza militare e finanziaria costante. “Un’Ucraina forte e sovrana è essenziale per la sicurezza euro-atlantica”, ha affermato Rutte. Il documento intitolato “Vilnius Summit Chair’s Statement”, pubblicato a fine vertice, riassume i suoi esiti in preparazione al prossimo vertice NATO all’Aia; in sintesi, il vertice di Vilnius ha rappresentato un momento cruciale per rafforzare la coesione tra i paesi del fianco orientale della NATO, riaffermare il sostegno all’Ucraina e preparare una posizione condivisa in vista delle future decisioni dell’Alleanza.
Le buone notizie da Kyiv
La primavera scorsa l’atmosfera in Ucraina era cupa. La gente temeva un’escalation delle conquiste territoriali da parte della Russia e forse anche il crollo del fronte ucraino. Oggi, il contesto internazionale è ancora più difficile ma, nonostante i tradimenti dell’amministrazione Trump, a Kyiv ho trovato un clima più fiducioso.
Questa fiducia deriva dalla crescente autosufficienza militare del Paese. L’industria ucraina dei droni è impressionante, in termini di avanguardia tecnologica, adattabilità e capacità produttiva, e si rafforza di giorno in giorno.
E anche se la manodopera è un problema, l’esercito ucraino capisce la guerra meglio di altre forze in Europa. Certo, a Kyiv nessuno pensa che questa comprensione della guerra sia sufficiente per riconquistare il territorio perduto. Non ci si aspetta più di ottenere la pace attraverso la vittoria militare sulla Russia, né si teme la sconfitta come in passato: il paese si sta silenziosamente ricalibrando, cercando un cessate il fuoco sostenibile attraverso la deterrenza.
Il ruolo degli USAQuesto non significa che gli ucraini pensino di potere, o tanto meno di volere, andare avanti da soli. Il senso di delusione verso gli Stati Uniti è acuto, ma c’è una consapevolezza che l’Ucraina ha ancora bisogno di Washington, soprattutto per l’intelligence, la sorveglianza, la ricognizione e la difesa aerea.
È vero che l’evidente dimostrazione di sintonia tra la Casa Bianca e il Cremlino è inquietante. Ma gli ucraini sono convinti che Putin continuerà a eccedere nelle sue richieste, e prima o poi, Trump sarà costretto a riconoscere che una tregua è ancora lontana perché Putin la rifiuta.
La guerra in Ucraina non potrà mai terminare in 24 ore come millantato da Trump, perché non è mai stata una guerra per procura tra l’Occidente e la Russia. La guerra non sta finendo perché l’unico uomo che può porvi fine – Putin – continua a pensare di poter vincere. Questa consapevolezza potrebbe non indurre Trump a fare un’inversione di rotta che lo porti a sostenere pienamente l’Ucraina, ma potrebbe portare Washington da una posizione di ostilità attiva nei confronti di Kyiv a una di benevola indifferenza. In questo scenario, gli Stati Uniti si disimpegnerebbero gradualmente dalla guerra, pur continuando a fornire o consentire all’Ucraina di acquistare capacità militari. Non è l’ideale, ma Kyiv può gestire una Casa Bianca benignamente defilata molto meglio di quanto non potrebbe fare se Washington si mettesse di traverso.
L’integrazione dell’Ucraina nel contesto di sicurezza europeaL’altra faccia della medaglia è che l’Ucraina viene progressivamente integrata nella nuova architettura di sicurezza europea. Il 9 maggio, i leader di Francia, Germania, Polonia e Regno Unito sono arrivati a Kyiv, per la prima volta in visita congiunta. Si è trattato di un evento di grande importanza: questi Stati, insieme ai Paesi nordici e baltici, costituiscono il nucleo della “coalizione dei volenterosi” che sostiene l’Ucraina e della nuova architettura di sicurezza europea. Il loro sostegno all’Ucraina è fondamentale per dimostrare al mondo, e a Washington, che è Putin e solo Putin a volere che la guerra continui.
Qualunque cosa accada, è essenziale che i leader europei non si limitino a discutere di una “forza di rassicurazione” post-conflitto. Gli alleati dell’Ucraina devono essere pronti a sostenerla durante la guerra, aumentando il sostegno militare europeo, ma anche contribuendo a rafforzare l’industria della difesa ucraina attraverso progetti congiunti con aziende europee. Altrettanto importante è la più ampia integrazione dell’Ucraina nei piani e nelle azioni di sicurezza e di difesa dell’Europa. L’esperienza bellica dell’Ucraina è preziosa nel momento in cui l’Europa rafforza le sue difese collettive.
La sicurezza europea passa attraverso Kyiv. Capire questo significa che i leader della coalizione dei volenterosi continueranno a sostenere l’Ucraina, consapevoli che la Russia rappresenta la più grande minaccia per l’Europa.
Ma non è una strada a senso unico: mentre gli europei rafforzano le proprie difese contro la Russia, non possono che guadagnare dall’inclusione dell’Ucraina in questo sforzo. Il morale dell’Ucraina è alto grazie alla crescente fiducia in sé stessa. Mentre le principali potenze europee continuano a sostenere Kyiv, anch’esse dovrebbero diventare più fiduciose nel fatto che l’ingresso dell’Ucraina nelle loro istituzioni, industrie e società comuni non potrà che rafforzare l’Europa nel suo complesso.
A Gaza il governo israeliano naviga a vista
Non potrà durare a lungo così. Le operazioni militari israeliane a Gaza, riprese dopo la rottura della tregua, hanno superato ogni limite. Da ultimo, sconvolge le coscienze di tutti la notizia della strage dei nove figli della pediatra palestinese, uccisi a casa loro da una bomba israeliana. L’assedio alla Striscia e le enormi perdite di vite umane tra i civili palestinesi generano disorientamento e rabbia anche in Israele, non solo tra le file dell’opposizione. Cresce la frustrazione dell’amministrazione americana, si raffreddano i rapporti personali tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu. L’Europa cerca una via e si divide sull’ipotesi di revisione/sospensione dell’accordo Ue-Israele. A rendere il quadro ancora più cupo, si è aggiunto l’omicidio a Washington dei due giovani addetti dell’ambasciata d’Israele, vittime dell’odio anti-semita. Il terrorista assassino inneggiava alla Palestina libera, ma non è con il terrorismo che si favorisce la causa palestinese. La storia, non solo recente, dovrebbe averlo insegnato.
Una presa di posizione a nome dei diritti umaniIl governo israeliano, sempre più condizionato dall’estrema destra messianica, naviga a vista a Gaza. Poche ore prima dell’attentato di Washington, aveva rilanciato una proposta di tregua temporanea in cambio della liberazione degli ostaggi, della smilitarizzazione della Striscia e dell’esilio della dirigenza di Hamas. Ma chi da quasi venti mesi tiene ancora prigionieri i pochi ostaggi ancora vivi, o i loro cadaveri, non considera la loro liberazione, né di alleviare le tremende condizioni dei civili palestinesi, condannati a fare da scudo impotente ai terroristi. Le forze israeliane martellano Gaza in maniera spaventosa, il conto delle vittime innocenti aumenta tragicamente. Dove non arrivano le bombe, a decimare un popolo allo stremo arriva la fame.
Non c’è antisemitismo nel reclamare una tregua e la ripresa immediata nella distribuzione degli aiuti, essenziali per la sopravvivenza. La solidarietà con le vittime è d’obbligo anche qui e per molti, anche amici di Israele, non è possibile voltarsi dall’altra parte davanti a una tragedia di queste dimensioni. Questo è il piano umanitario, dove è facile indicare come le cose dovrebbero muoversi.
Il versante politico: pressioni da WashingtonÈ il versante politico a essere imperscrutabile. Nei giorni scorsi chi aveva messo insieme la visita di Trump in Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi con l’esclusione clamorosa di una tappa in Israele; l’apertura alla Siria, graziata con la cancellazione delle sanzioni e con l’incontro del presidente degli Stati Uniti con l’ex jihadista al-Shaara, nuovo uomo forte di Damasco; la ripresa dei colloqui con l’Iran sul nucleare, aveva notato come queste mosse americane fossero come dita negli occhi di Netanyahu. Pur nella imprevedibilità e nella scarsa linearità delle scelte di Trump, si poteva pensare all’avvio di una possibile pressione da Washington sul governo israeliano per fermare la guerra a Gaza e riaprire la via al negoziato, per quanto ancora molto difficile, anche con i Paesi arabi sunniti.
Non è andata così. I fatti hanno ridotto l’ipotesi a illazione. Gli Stati Uniti, i soli a poter esercitare una influenza moderatrice – sempre più necessaria – sul primo ministro israeliano, non danno segni di voler prendere l’iniziativa con Gerusalemme. Eppure, gli argomenti non mancherebbero, nell’interesse stesso di Israele. Le convulsioni in seno al governo di Netanyahu, lo scontro senza precedenti con le forze armate, il disorientamento crescente dell’opinione pubblica per la guerra infinita e non risolutiva – la più lunga della storia di Israele – in teoria potrebbero indurre a valutare nuove opzioni. Una spinta decisa dal maggiore alleato, se necessario azionando la leva degli aiuti militari, potrebbe favorire una svolta. Ma oltre oceano non si intravedono movimenti.
Ora, dopo il crudele assassinio di mercoledì a due passi dalla Casa Bianca e la commozione per i due ragazzi uccisi alla vigilia del loro matrimonio, sarà ancora più difficile immaginare che Trump alzi il telefono e convinca Netanyahu a cambiare registro. Oltre a stroncare la vita di due innocenti, l’odioso crimine di Washington fa stringere i ranghi intorno al governo israeliano e frena ogni eventuale impulso di Trump di premere sull’alleato.
Intanto, il terrorismo antisemita, pur se condannato con forza, non riduce la compassione e la solidarietà per le migliaia di vittime civili palestinesi a Gaza, il che non deve sorprenderci: il prezzo della guerra è sempre più insopportabile, al pari dell’assoluta, perdurante incertezza sul futuro della Striscia e su chi dovrà avere la responsabilità di ricostruirla e governarla.
AeroSpace Power Conference: intervista al Gen. Luca Goretti, Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare
L’aeronautica non è cambiata, ha lo stesso spirito di 100 anni fa, ovvero quello di osare, saper osare e guardare avanti. È una prerogativa di una forza armata che fa della tecnologia l’essenza stessa della propria vita, e quindi noi non possiamo non guardare avanti proprio perché la tecnologia ce lo impone. Per cui possono cambiare le persone, possono cambiare i capi, ma quello che conta è che l’aeronautica non cambia e sono convinto che anche nel futuro l’aeronautica guarderà sempre avanti con una visione da qui a 10/15 anni per poter essere sempre pronta in relazione a quelle che sono le esigenze del nostro Paese ma soprattutto per difendere il nostro popolo. Quindi le persone cambiano, ma lo spirito dell’aeronautica è lo stesso di 100 anni fa.
AeroSpace Power Conference: intervista a Lorenzo Mariani, Executive Group Director Sales & Business Development di MBDA e Managing Director di MBDA Italia
Come vede la cooperazione europea nel campo aeronautico?
La cooperazione nel campo aeronautico è un obbligo, lo è sempre stato, e a mio giudizio l’esistenza oggi di grandi prodotti e progetti, come possono essere in campo strettamente aeronautico l’Eurofighter, nel nostro campo missilistico di MBDA, il Meteor, dimostrano che grandi imprese che non sarebbero possibili senza cooperazione per motivi o di capacità o di soldi, semplicemente di fondi, diventano possibili quando si realizza la cooperazione. E questo è ancora più importante oggi perché i requisiti sono diventati ancora più complessi e perché i tempi si sono ridotti, i tempi in cui noi dobbiamo realizzare nuovi armamenti, nuovi sistemi, introduzione di nuove tecnologie, si pensi soltanto all’intelligenza artificiale, magari anche in sistemi esistenti, la capacità di risposta deve essere più rapida e questo si può ottenere in maniera molto più efficace mettendo a fattor comune delle capacità di diverse aziende e diversi Paesi.
Che ruolo gioca l’Italia quanto a programmi internazionali e innovazione tecnologica?
Secondo me sono due cose strettamente collegate che però poi si possono declinare in maniera leggermente diversa anche a seconda dei settori specifici che andiamo a esaminare. Parlo del settore navale, del settore aereo, o del settore specifico degli armamenti. Io mi attengo soprattutto al settore dell’armamento, quindi quello rappresentato da MBDA, e eventualmente con un occhio anche a quello che il nostro campione nazionale Leonardo fa, che è anche nostro azionista. Secondo me il ruolo dei programmi di cooperazione è elevatissimo perché l’Italia è sempre stata favorevole a una cooperazione. L’Italia è quella che ha avuto sicuramente la visione, insieme a Francia e Inghilterra, di creare MBDA nel 2001. L’Italia ha creato una joint venture che è l’unica oggi esistente nello spazio, la principale nello spazio con Thales, espandibile sicuramente, migliorabile sicuramente, come anche MBDA, però esistente. Ed è quella che ha sempre favorito la cooperazione anche a livello dei programmi. Ricordiamo l’NH90, gli elicotteri, ricordiamo gli Eurofighter, ricordiamo le FREMM, ricordiamo a livello missilistico il Meteor, lo Storm Shadow, l’Aster. Quindi effettivamente è nel DNA italiano una capacità di collaborare, forse anche influenzata dal realismo, quindi dal sapere che da soli non saremmo stati in grado – o per tempi o per costi – di realizzare queste grandi imprese da soli. Quindi sicuramente nei programmi di cooperazione secondo me oggi ancora più di prima siamo attori primari. Sulle tecnologie, secondo me, l’Italia ha una forza particolare che è legata alla coesistenza di grandi campioni – basti pensare a Leonardo, a Fincantieri, a Elettronica, la stessa MBDA nella sua componente italiana – e un patrimonio di piccole e medie imprese che rappresentano una sorgente di idee, di tecnologia particolarmente importante. E proprio per questo una delle sfide principali per il futuro è proprio far sì che si migliori, si renda più rapido, si renda più fluido, l’anello di congiunzione tra le grandi imprese e le piccole e medie imprese.
La guerra in Ucraina ha ridato centralità in Europa alla difesa area e missilistica integrata. Quali sono i piani di MBDA al riguardo?
MBDA ha la fortuna di essere un grande gruppo. Lo dico perché la vastità delle minacce che si sono manifestate effettivamente nei recenti conflitti sono andate da minacce convenzionali a minacce molto evolute, basti pensare all’ipersonico, da minacce singole a minacce di gruppo, basti pensare agli sciami di droni. Questo può essere affrontato veramente solo da un gruppo complesso che abbia al suo interno diverse esperienze. Diverse esperienze che, messe insieme, possono consentire di affrontare una panoplia di minacce così complessa. MBDA ha di conseguenza un duplice fronte. Uno è quello di rinforzarsi nei prodotti convenzionali. Questo significa essenzialmente due cose: incrementare il rate di produzione, riducendo il lead time e introdurre nuove tecnologie all’interno di prodotti esistenti. Numero due: creazione di nuovi prodotti, particolarmente evoluti, che hanno come target minacce specifiche. Basti pensare all’ipersonico con il programma IRIS, che è una cosa condivisa sotto la leadership di MBDA, o basti pensare al futuro missile da crociera che hanno iniziato a sviluppare l’Inghilterra e Francia, poi anche Italia si è associata, che è il successore dello SCALP Storm Shadow per delle minacce che si trovano a centinaia di chilometri. Quindi è una situazione estremamente complessa, dove MBDA può dare di più grazie al fatto che sono 24 anni che siamo un gruppo multinazionale e anche multiforme come esperienze.
Dal confine al cuore dell’Europa: il ruolo strategico del Friuli-Venezia Giulia nell’integrazione europea
Il recente impeto dell’Unione Europea nella politica di allargamento, guidato dall’apertura dei negoziati di adesione con Ucraina e Moldavia e dallo status di candidato della Georgia, riflette la nuova preoccupazione dell’Ue in materia di sicurezza. Negli ultimi tre anni, soprattutto a causa della guerra in Ucraina, l’Europa ha rimesso al centro dell’agenda politica il tema dell’allargamento.
Dopo un lungo periodo di “fatica da allargamento”, le tendenze sfavorevoli verso l’ammissione di nuovi membri si sono invertite: i più recenti Eurobarometers mostrano come l’opinione pubblica europea, spinta dalle rinnovate tensioni geopolitiche, sostiene un’Unione più ampia e integrata.
L’impegno strategico dell’Italia per un’Europa più ampiaL’Italia si è sempre distinta per un atteggiamento positivo verso l’allargamento dell’Ue, sia verso l’Europa settentrionale che orientale. I sondaggi hanno mostrato come gli italiani si siano sempre collocati tra i più entusiasti, tanto che l’Italia è stata tra i primi membri dell’Ue ad insistere affinché fossero avviati negoziati con la Slovenia e l’Estonia.
Grafico. Differenza tra l’attitudine dell’opinione pubblica italiana ed europea a favore dell’allargamento nel periodo 2018-2024. Fonte: Elaborazione dagli Standard Eurobarometer 90–102 (Autumn 2018-Autumn 2024).
L’interesse strategico italiano è principalmente politico ed economico. Da un lato, l’ampliamento dell’Ue garantisce maggiore stabilità politica ed economica in aree oltre i confini, riducendo rischi e tensioni. Dall’altro, la prossimità geografica dell’Italia ai Balcani e all’Europa centro-orientale la rende un partner economico privilegiato di questi Paesi, favorendone l’integrazione economica. Le opportunità di integrazione derivanti da un’Europa allargata sono particolarmente rilevanti nei settori commerciali e industriali, come lo sviluppo della connettività infrastrutturale e dell’energia, della transizione digitale e della manifattura, ma non è da trascurare un ulteriore rafforzamento del coordinamento politico, dagli affari interni e della giustizia.
In questo scenario, il Friuli-Venezia Giulia assume una funzione di ponte naturale tra l’Italia e i nuovi potenziali membri dell’Unione, permettendole di rafforzare la propria presenza nei processi decisionali e nei mercati emergenti dell’Europa centro-orientale attraverso forme di coordinamento delle politiche nazionali e di cooperazione intergovernativa alla base di una futura integrazione.
Da regione ‘periferica’ a cuore dell’Europa: il caso del Friuli-Venezia GiuliaQuesto rinnovato slancio rappresenta una risposta alla situazione internazionale e una riscoperta del valore strategico delle aree di confine europee, tradizionalmente considerate marginali. Il Friuli-Venezia Giulia emerge come simbolo del nuovo paradigma europeo, passando da periferia a nodo centrale della futura architettura continentale. Infatti, non è solo una regione ai margini orientali dell’Italia, ma un ponte naturale che si apre geograficamente, economicamente e culturalmente verso i Balcani e l’Europa centrale. Il suo posizionamento geografico, il suo patrimonio culturale mitteleuropeo e la sua vocazione transfrontaliera lo rendono un attore essenziale nel processo di ampliamento dell’Unione proprio verso quei Paesi che necessitano di una rapida integrazione. La regione rappresenta quindi un laboratorio vivo di integrazione europea, declinandosi su tre livelli: politico, economico e culturale.
Il piano politico, economico ed identitario: una regione mitteleuropea modello
Politicamente, la regione ha saputo trasformare antiche rivalità con i Paesi dell’ex-Jugoslavia in forme concrete di dialogo. Nel post-Guerra Fredda, dopo aver vissuto sulla propria pelle i confini – geografici (durante la Guerra Fredda), linguistici (tra italiano, sloveno e tedesco) e istituzionali, (tra modelli politici diversi) – Trieste è riuscita a superarli attraverso una concreta progettualità transfrontaliera.
Sul piano economico, il Friuli-Venezia Giulia è protagonista di esempi tangibili di integrazione europea. È infatti uno snodo cruciale per i trasporti e la logistica continentale, grazie ai porti di Trieste e Monfalcone e ai corridoi europei TEN-T, che hanno aperto connessioni con il Corridoio Baltico-Adriatico e il Corridoio Mediterraneo. È anche al centro di progetti infrastrutturali strategici, come la possibile riattivazione della tratta ferroviaria Trieste–Lubiana–Zagabria–Belgrado. Inoltre, i programmi europei come Interreg Central Europe e IPA ADRION ne fanno un hub di cooperazione transnazionale che investe nei sistemi di innovazione regionale, nella protezione del patrimonio culturale e ambientale, nei trasporti sostenibili e nello sviluppo dell’integrazione. Grazie a queste iniziative bottom-up, l’Italia può ritagliarsi uno spazio significativo dal punto di vista economico e imprenditoriale nell’Europa Centrale e nei Balcani occidentali, facendo sempre più fare rete e incrementandone di conseguenza la competitività.
Sebbene non si possa ignorare il peso delle considerazioni economiche e geopolitiche sulle azioni di questi attori, sarebbe un errore sottovalutare l’influenza delle questioni legate all’identità e alla memoria. L’integrazione non deve quindi escludere attività di natura specificamente culturale al fine di accrescere la consapevolezza di un patrimonio comune sviluppando un senso di cordiale e propositivo vicinato. Culturalmente, il Friuli-Venezia Giulia incarna l’essenza di una regione mitteleuropea, dove lingue, religioni e tradizioni diverse convivono da secoli. Dopo il crollo della cortina di ferro, la regione ha saputo riscoprire e promuovere la propria identità europea, fatta di radici comuni e memorie condivise con l’Europa centro-orientale. In tal senso, la cultura Mitteleuropea rappresenta una koinè culturale tra quei territori, ma è anche sinonimo di cosmopolitismo e pluralismo. La riscoperta di tale cultura ha dimostrato come la regione ha in sé il seme per promuovere una vera cooperazione. La scoperta di valori comuni e la cooperazione transnazionale sono state le principali motivazioni alla base di tutto il progetto comunitario sin dal principio.
Il Friuli-Venezia Giulia può quindi essere considerato un “modello” per l’Europa policentrica del futuro: dove territori fortemente interconnessi contribuiscono incisivamente alla costruzione del progetto europeo attraverso comunità che, pur attraversate da lingue e storie diverse, hanno imparato a integrarsi senza perdere la propria identità. Questo, se ci pensiamo, è già Europa. Ecco perché il Friuli-Venezia Giulia non è una periferia, ma una cerniera viva: una frontiera che, da zona di frizione, può diventare motore di trasformazione.
AeroSpace Power Conference: intervista a Walter Villadei, astronauta e pilota colonnello dell’Aeronautica Militare
Cosa ti ha colpito di più della tua esperienza sulla Stazione Spaziale Internazionale e nel volo suborbitale?
Sono due voli differenti tra di loro. Un volo suborbitale è un volo più breve dal punto di vista temporale: dura complessivamente due ore dal momento in cui si decolla al momento in cui si atterra. Il periodo di microgravità è meno di cinque minuti, ma non per questo è un volo più semplice. È estremamente complesso, in cui ogni secondo ha la sua importanza per valorizzare al massimo il periodo di microgravità che abbiamo durante quel tipo di volo. Quindi deve essere tutto studiato alla perfezione dal punto di vista delle procedure, incluso per operare alcuni esperimenti, soprattutto in quelle situazioni in cui l’esperimento potrebbe non andare come era previsto. Abbiamo volato nel 2023, abbiamo portato insieme al Consiglio Nazionale delle Ricerche e Virgin Galactic 13 esperimenti. Quindi abbiamo utilizzato una piattaforma suborbitale, e questo è un punto importante, come ulteriore piattaforma che riesce ad aprire e offrire opportunità di sperimentazione in microgravità a costi più accessibili. Il volo a bordo della Stazione Spaziale Internazionale seppur più tradizionale, perché voliamo a bordo della stazione ormai da quasi 30 anni, per chi vola la prima volta è un’esperienza straordinaria: dal momento in cui arriva il countdown a zero, il razzo comincia a vibrare tutto quanto, progressivamente si accelera fino a 4-5 giri, la separazione in 8 minuti a 200 km di quota, 30.000 km/h di velocità e da lì si vede la Terra nella sua bellezza e si iniziano una serie di procedure di inseguimento fino a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. A sorpresa la stazione è un posto straordinario: un laboratorio che è allo stesso tempo una casa, un laboratorio, un’infrastruttura critica e strategica che vola in uno spazio sempre più affollato e congestionato. Colpisce come questa infrastruttura cominci a diventare vecchia anche nel suo concepimento: sono sistemi progettati e realizzati negli anni ‘90. E quindi colpisce molto l’attenzione sulle opportunità che ci sono grazie alle tecnologie moderne, immaginando le stazioni del futuro. La bellezza poi di affacciarsi dalla cupola, prodotta e realizzata dall’Italia, unica nel suo genere, è un po’ come affacciarsi nella Cappella Sistina ed è un evento veramente straordinario, soprattutto quando accade per la prima volta. Quindi devo dire sono voli molto differenti, entrambi però offrono delle capacità importanti anche per l’aeronautica, per la difesa e per l’Italia, per spingere sull’innovazione, la ricerca scientifica e tecnologica. Dobbiamo imparare ad usarli in maniera complementare, quindi credo che nei prossimi anni sarà interessante espandere i ragionamenti su entrambi.
Come vedi il futuro dell’esplorazione spaziale?
In questo momento il futuro dell’esplorazione spaziale è quanto mai “incerto”, ovvero tutto è un po’ in trasformazione ed è il tema che abbiamo trattato anche durante l’Aerospace Power Conference 2025, parlando di “evolving space” e di aerospace power. Sta cambiando anche perché cambia il contesto geopolitico circostante. Ci sono due trend fondamentali. Il primo: la Stazione Spaziale Internazionale è stata un laboratorio di ricerca e collaborazione negli ultimi 30 anni. Una volta che questa sarà deorbitata, sarà sostituita da altre infrastrutture molto probabilmente commerciali, quindi rimarrà comunque un’esplorazione nelle orbite basse tendenzialmente orientata a creare una space economy. Poi ci stiamo espandendo con l’idea di tornare verso la Luna. Come? Questo diventa un po’ più incerto, quindi quelli che sono i programmi finora avviati potrebbero avere delle rivisitazioni anche in ragione dei costi associati a questi. Certamente, la Luna – indipendentemente dall’anno in più o in meno: 2028, 2030 o 2032 – sarà un obiettivo dove torneremo, torneremo per rimanere sulla Luna. Quanto peserà la parte competizione a livello geopolitico con altri soggetti che vogliono arrivare sulla Luna, quanto invece sarà una, come dire, permanenza più pacifica volta a un utilizzo delle risorse anche lunari in ottica di collaborazione internazionale diventa ancora più complicato. Recentemente l’amministrazione americana ha dichiarato anche un forte interesse a riavviare, ravvivare le esplorazioni verso Marte, che chiaramente è un obiettivo ancora molto lontano, soprattutto se vogliamo portare gli astronauti su Marte, non solo le sonde, e quindi anche lì è una “long way to come”. Ma sicuramente anche le esplorazioni lunari aiuteranno a creare quelle tecnologie che poi sono fondamentali per raggiungere anche Marte.
Quali sono i principali punti di forza dell’ecosistema spaziale statunitense?
I principali punti di forza del sistema industriale americano sono due. Uno è la predisposizione al rischio, e non è solo legata alle dimensioni dei volumi di investimento o alle dimensioni economiche dell’industria, ma è anche una questione di mentalità. La seconda è una pragmaticità nei progetti che stanno mettendo in piedi, accompagnata da una capacità di investimento che non abbiamo né in Italia né in Europa. Questi due aspetti sono da una parte culturali, dall’altra parte economici: due elementi di debolezza del sistema europeo. Quindi dal punto di vista della capacità del rischio, SpaceX è un esempio evidente di quando hanno investito su una tecnologia come la riutilizzabilità dei lanciatori a cui nessuno credeva, rendendola possibile e oggi con questa tecnologia hanno trasformato quello che era un oggetto single use – lanciato e buttato – in una flotta. Come abbiamo le flotte degli aeroplani, ora iniziamo ad avere le flotte dei lanciatori. Questo è completamente distruptive. La capacità di thinking out-of-the-box è qualcosa che riescono a fare non solo dal punto di vista teorico, ma anche dal punto di vista pratico. Chiaramente sono accompagnati da un contesto complessivo – di norme, economico, finanziario, politico – che crea le premesse perché questo possa accadere. Forse questa è la cosa su cui l’Italia e l’Europa devono riflettere. E chiaramente, poi, la capacità di investire in maniera rapida, creando delle start-up che nel giro di 2/3 anni diventano delle unicorns, con il supporto istituzionale che dà loro degli obiettivi challenging da raggiungere, è un’altra cosa estremamente importante. Quindi per noi diventa, in questo momento molto instabile, fondamentale certamente mantenere delle radici forti in Europa, ma anche guardare alla tradizionale collaborazione con gli americani che per l’Italia è sempre stata un punto forte.
Il Quirinale celebra i 60 anni dello IAI: discorso del Direttore dello IAI Nathalie Tocci
Signor Presidente,
Per noi dello IAI è un grande onore e una vera gioia festeggiare con Lei questo 60° anniversario.
Sessant’anni sono un tempo lungo, e lo IAI è cambiato profondamente, un cambiamento di cui sono stata testimone negli ultimi vent’anni. Eppure ho avuto anche modo di constatare come, in un certo modo, lo IAI non sia cambiato affatto.
Un tempo, riflettendo i pilastri tradizionali della politica estera dell’Italia, ci occupavamo di Europa, di relazioni transatlantiche e di Mediterraneo, oltre a seguire i temi della difesa e del commercio internazionale. Queste rimangono aree prioritarie, ma abbiamo approfondito e allargato lo sguardo.
Quando ci occupiamo di Europa, guardiamo anche ai Balcani occidentali e l’Europa orientale. Quando studiamo la difesa, allarghiamo l’orizzonte alle questioni di sicurezza e allo spazio. Quando pensiamo al Mediterraneo, lo facciamo consapevoli che non esistono confini netti tra la riva sud ed il Medio Oriente e l’Africa subsahariana. La nostra ricerca sugli attori globali inizia ma non finisce certo con gli Stati Uniti, estendendosi anche alla Russia, alla Cina e altri Paesi dell’Asia. E quando ci occupiamo di economia, approfondiamo i nessi della geoeconomia e della governance globale. Ci sono poi temi che un tempo non rientravano nell’agenda dell’Istituto, come l’energia, il clima, le migrazioni, il digitale e lo sviluppo sostenibile, che oggi invece sono al cuore del nostro lavoro. Lo IAI, 60 anni dopo, è più grande, più diversificato, più giovane e più femminile.
Ma lo IAI non è solo cresciuto. Si è anche adattato a un contesto politico interno e internazionale profondamente diverso anche solo rispetto a 20 anni fa. In passato i valori fondanti dello IAI erano condivisi dalla politica, dalle istituzioni e dall’opinione pubblica. Potevamo permetterci di fare “solo” ricerca con e per gli addetti ai lavori. Oggi quei valori sono contestati internazionalmente quanto anche internamente. Questo ci ha portati a riflettere su come la nostra missione dovesse adattarsi. Non si trattava più solo di interagire coi nostri omologhi in altri Paesi e con le istituzioni italiane e europee. Ci siamo sentiti chiamati in causa a rispondere alla crescente esigenza di conoscenza di questioni internazionali che viene da un’opinione pubblica, e in particolar modo dai più giovani, spesso spaesata da un dibattito in cui la disinformazione abbonda. Tocchiamo con mano questo problema, soprattutto dopo la crisi pandemica, l’invasione russa dell’Ucraina, la guerra in Medio Oriente e ora anche con la minaccia di un abbandono dell’Europa da parte degli Stati Uniti.
A 60 anni dalla sua fondazione, lo IAI si sente parte in causa delle sorti dell’Italia e dell’Europa. È uno IAI consapevole che non può dare per scontati i suoi valori, ma deve promuoverli attivamente.
Ed è in questo senso che si può dire che lo IAI non sia cambiato affatto. I nostri valori, iscritti nello Statuto, sono gli stessi voluti da Altiero Spinelli 60 anni fa. La liberal democrazia, i diritti umani, il diritto internazionale, l’integrazione europea e il multilateralismo erano e restano il nostro faro, la nostra guida.
E sono valori che Lei, Signor Presidente, incarna e difende ogni giorno. Ed è per questo che non poteva farci regalo più grande che festeggiare con noi il 60° compleanno dello IAI.
Grazie.
AeroSpace Power Conference: intervista a Teodoro Valente, Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana
A livello internazionale, come è cambiato negli ultimi anni l’approccio allo spazio da parte delle agenzie spaziali occidentali e degli attori privati in Europa e Nord America?
C’è stato in questi ultimi anni un sensibile cambio di paradigma per quanto riguarda le attività spaziali, con il progressivo ingresso di soggetti privati che ha cambiato un po’ l’approccio e le modalità anche di carattere operativo. Faccio un esempio – non è l’unico – ma se guardiamo al settore dell’accesso allo spazio, negli ultimi decenni i due lanciatori europei che sono Ariane e Vega hanno grosso modo realizzato circa 300 lanci, che è un traguardo molto importante e ragguardevole. Ma negli ultimi due anni i lanci dei privati sono arrivati a circa 340, quindi sono opportunità in più di ampliamento del mercato che viene offerto dalla possibilità di diretto intervento di soggetti privati. Questo porta con sé una serie di conseguenze. La prima è quella che è necessario un contesto regolatorio assolutamente chiaro, trattandosi non solo di soggetti istituzionali che intervengono nelle attività. E su questa linea si muove perfettamente la legge sullo spazio che, per quanto riguarda l’Italia, in questo momento è in discussione al Senato della Repubblica dopo essere stata licenziata dalla Camera dei Deputati e che rappresenta un po’ il precursore di quello che sarà auspicabilmente a breve non più la legge sullo spazio europea, ma il cosiddetto Space Act europeo. Il secondo aspetto importante da prendere in considerazione è legato al fatto che il progressivo ingresso dei privati – e quindi da qui anche tutte le stime che leggiamo quotidianamente sulle evoluzioni della space economy – necessariamente richiede o porta con sé un approccio di carattere commerciale. Il tema della commercializzazione di prodotti o servizi non può essere trascurato e rappresenta anche la nuova motivazione di fondo per cui ci sono stime così elevate per lo sviluppo del settore spazio, nei sui vari domini da qui al 2030-2040 – dipende dagli istituti che elaborano le previsioni. Questo aspetto porta con sé un’ulteriore conseguenza: la necessità, più che l’opportunità, di ampliare la numerosità dei soggetti che intervengono in questo settore, coinvolgendo le cosiddette aziende non-space, per lo sviluppo di prodotti e servizi che possono essere di beneficio per tutti i cittadini. In ultimo c’è l’aspetto geopolitico che in questi ultimi periodi, soprattutto in questi ultimi anni, ha un po’, come dire, posto delle ulteriori aggiuntive condizioni per le attività anche delle agenzie. Attualmente – è così oggi, sarà così domani, sarà così nel futuro – l’impossibilità sostanzialmente di pensare che ci possano essere applicazioni non dual-use, quindi che abbiano sia una componente di carattere civile sia una componente invece a servizio delle attività della difesa.
Come vede l’Europa nello spazio tra 10 anni?
Siamo attualmente in un momento cruciale per quanto riguarda il futuro dell’Europa nelle attività spaziali. Nei prossimi mesi saranno prese delle decisioni molto importanti, sia a livello di Unione Europea, ma anche a livello di Agenzia Spaziale Europea, che in qualche modo condizioneranno quello che avverrà nel futuro. Certo è che l’Europa necessita da un lato di incrementare la propria autonomia e la propria resilienza. Nessun Paese europeo da solo può portare avanti in maniera compiuta le attività in questo dominio, per varie motivazioni – ad iniziare da quella economica, ma non sono le uniche – e quindi di conseguenza è assolutamente necessario uno sforzo che sia in qualche modo orientato a recuperare alcuni ritardi che sono innegabili. Molto dipenderà da quanto accadrà nei prossimi mesi. Noi siamo abbastanza confidenti, tutti noi stiamo cercando di fare la nostra parte, soprattutto anche ricordando che ci sono alcune aree in cui i programmi nazionali sono programmi di valenza, di importanza strategica, e che devono essere in qualche modo poi coniugati e inseriti nell’ambito di un quadro europeo.
Quali obiettivi prioritari per l’Italia nello spazio?
Gli obiettivi prioritari nello spazio per l’Italia sono molti, perché l’Italia è un’eccellenza con il suo ecosistema, fatto di imprese grandi, piccole, medie, start-up, istituti di ricerca, accademia, università, in tutti i domini dello spazio: dall’osservazione della Terra, all’accesso allo spazio, alle telecomunicazioni, alla navigazione, all’esplorazione umana e robotica, al settore della scienza. Per quanto riguarda le attività, anche quelle che sono ideate, progettate o implementate dall’Agenzia, abbiamo oggi un documento molto chiaro di riferimento che sono gli indirizzi di politica del Governo in campo spazio e aerospazio, che sono stati licenziati pochi mesi fa, in cui c’è un insieme di misure su cui concentreremo, di concerto con gli altri attori che operano nel settore spaziale, i nostri sforzi. Da un lato le attività di ricerca e innovazione, l’incremento della conoscenza, il supporto alle discipline STEM di cui abbiamo assolutamente necessità per cogliere le opportunità della space economy. Dall’altro, il sostegno all’ecosistema completo con una particolare attenzione, non esclusiva, al settore industriale, quindi al settore delle piccole imprese, delle PMI. Anche questo è uno degli argomenti che è inserito all’interno del disegno di legge spazio, attualmente in discussione, per favorirne la propria internazionalizzazione e quindi il grado di competitività. E dall’altro anche la opportunità e necessità di mantenere, così come nella tradizione italiana, rapporti bilaterali e multilaterali, con un forte ancoraggio a quelli che sono i nostri partner strategici in questo settore, a cominciare dagli Stati Uniti, ma con una grande attenzione anche ai Paesi dell’Africa – si pensi al Piano Mattei – o dell’America Latina. Tutto questo sarà articolato ed è già in par – te articolato attraverso una serie di azioni specifiche. Basti ricordare, per esempio, l’insieme dei programmi che sono sotto l’egida dell’Agenzia Spaziale Italiana che sono stati supportati dalle misure del PNRR Spazio. Mi riferisco alla nuova costellazione satellitare di osservazione della Terra che si chiama IRIDE, un segmento di eccellenza del settore italiano nei domini spaziali. Mi riferisco anche al tema delle space factory, quindi della digitalizzazione dei processi di fabbricazione, alle tematiche dell’in-orbit servicing, al tema rilevante della sorveglianza e difesa planetaria, quella che in gergo si chiama con l’acronimo SSA. Quindi tutta una serie di misure su cui noi abbiamo concentrato for – temente la nostra attenzione. Poi ci sono nuove misure che sono in fase di valutazione e studio, tra cui, ad esempio, il tema delle telecomunicazioni satellitari sicure. Tutto con l’obiettivo di far in modo che ci siano attività di programma che contemplino contestualmente anche il mantenimento di un’alta attenzione verso le attività di sviluppo, sia di carattere scientifico, che di carattere tecnologico che sono necessari al nostro Paese, al nostro ecosistema, per incrementare e mantenere la propria competitività a livello mondiale.
Il Quirinale celebra i 60 anni dello IAI: discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
Benvenute e benvenuti.
Rivolgo un saluto e ringrazio per la loro considerazioni il Presidente, l’Ambasciatore Valensise, e la direttrice Tocci.
Rivolgo un saluto al Presidente del Consiglio Scientifico, l’Ambasciatore Nelli Feroci. ai membri del Comitato scientifico e a ricercatori presenti. Naturalmente all’Ambasciatore Guariglia, Segretario generale della Farnesina, per tutti quanti.
Per me è un grande piacere accogliervi al Quirinale quest’oggi, in occasione di questo sessantesimo anno di una storia di prestigio.
Lo IAI ha contribuito in modo significativo al dibattito pubblico italiano sulle relazioni internazionali. Un’attività preziosa, divenuta ancor più necessaria in un mondo interconnesso e sempre più complesso, con le sue opportunità, ma anche con le sue sfide.
Conflitti, minacce transnazionali, condizionamenti da parte dei soggetti non statuali che sfuggono alle leggi e alle regole degli Stati, la sfida dell’intelligenza artificiale: sono soltanto alcuni dei temi che richiedono una rigorosa analisi scientifica, un dibattito approfondito e libero. Appunto quel che fa lo IAI con perseveranza da sessant’anni.
È stato osservato – poc’anzi ricordato – come l’Istituto nasca con una forte vocazione europeista, un’impostazione che, negli anni, non ha perso vigore e che si rivela oggi quanto mai attuale. L’Europa rimane il nostro primo orizzonte di riferimento e rappresenta per tutto il mondo esperimento di integrazione più imitato, anche. Non perfetto, ma di maggiore successo.
Eppure, viviamo una congiuntura internazionale – come è stato poc’anzi sottolineato – in cui i valori e il ruolo dell’Unione sembrano bersaglio di ostilità e di tentativi di arretramento.
Peraltro, sappiamo bene che, in ogni fase di transizione, tra le difficoltà vi sono opportunità che vanno colte. La riapparsa minaccia russa e una nuova e imprevista dialettica con gli Stati Uniti hanno conferito centralità al tema dell’autonomia strategica, intesa non soltanto come aumento delle risorse per la difesa, ma particolarmente come visione del ruolo che l’Europa è chiamata a svolgere. Per garantire la sicurezza dei suoi cittadini e per orientare, come sua tradizione da tanti decenni, verso pace e collaborazione la vita internazionale.
Vi rientra naturalmente anche il pieno rilancio del rapporto transatlantico, pilastro della nostra politica estera e tradizionalmente al centro delle analisi dello IAI.
Anche in questo caso il rapporto fra alleati non deve tradursi in arretramento, ma piuttosto in un dialogo riaffermato, caratterizzato dal rispetto reciproco e da consapevolezza degli ampi interessi e valori comuni.
L’Italia ha costruito la sua prosperità sull’integrazione europea, sull’Alleanza atlantica, sul convinto sostegno alle Nazioni Unite.
Lungo queste direttrici, cui si aggiunge la naturale proiezione verso il Mediterraneo e il continente africano, occorre continuare, con determinazione, a costruire il nostro futuro.
Nel tempo, l’Istituto – come abbiamo poc’anzi ascoltato – ha ampliato i suoi interessi anche alle sfide così attuali dello sviluppo sostenibile, della transizione energetica, delle nuove tecnologie. Tematiche, queste, affrontate in una dialettica proficua con le istituzioni – in particolare il Ministero degli esteri -, con il mondo accademico, con altri qualificati centri di ricerca e di propulsione della nostra vita nazionale. Dialettica che ha fatto dello IAI un punto di riferimento a livello nazionale e internazionale.
Da ultimo, desidero esprimere apprezzamento per l’attenzione che lo IAI riserva tradizionalmente ai più giovani. La formazione delle nuove generazioni su questi temi è fondamentale per trasmettere consapevolezza su realtà che non si prestano a letture superficiali.
Sono certo che il passato così importante e il ruolo attuale dell’Istituto garantiscano un futuro pieno di risultati di alto valore.
Auguri.
La parabola. Introduzione al libro di Cesare Merlini
Per i tipi dell’editore Luca Sossella è appena uscito il libro La parabola di Cesare Merlini, che fu presidente dello IAI dal 1970 al 2002. Sottotitolo: Eventi, persone e mutazioni fra due secoli.
Traiamo dalla descrizione della quarta di copertina: “Cesare Merlini intreccia in queste pagine la sua doppia esperienza: quella di studioso delle tecnologie nucleari civili e quella di guida dell’Istituto Affari Internazionali, impegnato da sessant’anni a indagare i temi della deterrenza nucleare e del – le strategie geopolitiche. Le due facce dell’atomo tornano oggi con forza a interrogare il mondo. Attraverso la storia dello IAI, dei suoi rapporti con le istituzioni italiane e internazionali, e con incursioni nella vita personale dell’autore, il libro offre una riflessione sul lungo arco della nostra storia recente. Una parabola che dal secondo dopoguerra conduce alle soglie di un futuro incerto”.
Ci spiega Merlini: “La sagoma parabolica descrive con sufficiente approssimazione il percorso della storia, a cui mi è toccato in sorte di partecipare e di cui ho cercato di trovare un senso. Un corso degli eventi in crescita in termini di multilateralismo, istituzioni internazionali, interdipendenza economica e trattati per il controllo degli armamenti, durante la seconda metà del secolo scorso, e un or – dine internazionale sempre più multipolare, sovranista e conflittuale, quindi decrescente, nel primo quarto di questo secolo”.
E oggi, siamo al piede di arrivo della parabola? gli chiediamo. Ci risponde con le parole che chiudono il suo scritto: “Gli eventi che ci circondano sembrano confermare la fluidità di un presente che è carico di incertezze forse più di quanto il presente è normalmente carico di incertezze, così da aprire anche all’alternativa fra il cadere ulteriore della parabola e lo sperimentare nuovi inizi. Ma questa è materia per chi viene dopo”. Quasi a materializzare il chi viene dopo sembra provvedere Enrico Letta, che fu Presidente del Consiglio de ministri italiano nel 2013-14 e che di recente ha redatto il famoso rapporto sul futuro del Mercato Unico europeo. Sua la postfazione che completa il volume e che qui riportiamo.
Ulisse. Altiero Spinelli, vita e battaglie
Linkiesta e Fandango Podcast lo scorso 19 maggio hanno lanciato “Ulisse. Altiero Spinelli, vita e battaglie”, un podcast che racconta l’esistenza di Altiero Spinelli, figura cardine dell’antifascismo, padre del federalismo europeo e dell’Unione Europea.
Scritto e narrato da Massimiliano Coccia, con la partecipazione dello storico Piero Graglia, biografo di Spinelli, il podcast è un viaggio sonoro che ripercorre la vita e le intuizioni di un uomo che ha segnato il Novecento. Sette puntate che attraversano la vita di Spinelli e tracciano un ritratto di una generazione che ha fatto dell’Europa non sono una ragione ideale ma un vero e proprio motivo di vita. Dall’antifascismo che lo portò al confino a Ventotene, alla redazione del celebre Manifesto – il documento che immaginò un’Europa unita e federale – la vita di Spinelli è stata un’odissea di lotte, solitudine e visioni politiche lungimiranti. Attraverso un intreccio di narrazioni, interviste d’archivio e ricostruzioni storiche, il podcast restituisce l’umanità complessa di Spinelli.
“L’idea – spiega Coccia – è stata quella di creare uno spazio sonoro dove collocare le parole di Altiero Spinelli, inquadrarle da un punto di vista storico per rilanciarlo nel dibattito quotidiano”. Il podcast infatti si avvale di numerosi documenti di archivio provenienti da Radio Radicale che si uniscono alla ricostruzione storica di Piero Graglia e alle testimonianze di chi nel corso del tempo è stato accanto ad Altiero Spinelli come Pier Virgilio Dastoli, suo storico collaboratore.
“Questo è un podcast che somma vari generi al suo interno perché abbiamo voluto restituire in qualche modo agli ascoltatori “il multiforme ingegno” di Spinelli, i patimenti dovuti ad anni di carcerazione e confino, fino alla dimensione culturale ed intima del suo rapporto con Ursula Hirschmann”.
Tra le puntate c’è spazio anche alla fondazione dell’Istituto Affari Internazionali che per l’autore “rappresenta l’ennesimo investimento sul futuro del Paese e dell’Europa che Spinelli portò avanti, perché aveva compreso che la sfida europea sarebbe stata vinta nel corso del tempo da una generazione europeista nella formazione e nel modo di pensare la politica estera”.
Urgenze che rendono la lezione di Altiero Spinelli attuale come si evince anche ascoltando il podcast, dalle recenti polemiche intorno al Manifesto di Ventotene fino a questioni più di merito nella vita dell’Unione Europa come la difesa comune o il rapporto tra capacità di deterrenza e pace, rendono le sette puntate uno strumento anche per comprendere il presente.
Le elezioni albanesi: tra continuità politica e relazioni internazionali
L’Albania ha deciso di confermare la fiducia al Partito Socialista di Edi Rama domenica 11 maggio, nel giorno in cui il Giro d’Italia concludeva la terza tappa, l’ultima in territorio “shqipetaro”.
Un passaggio di borraccia simbolico tra i leader dei due Paesi? Certamente si è trattato di un’altra tappa del tandem Rama-Meloni che a Tirana, qualche giorno dopo, ha tagliato il traguardo suggellato dall’inchino con cui il premier albanese ha accolto la presidente del consiglio italiana.
Il sistema elettorale albaneseIl sistema elettorale albanese è basato su un meccanismo proporzionale plurinominale e i candidati sono distribuiti in collegi elettorali corrispondenti alle prefetture locali.
Il Parlamento albanese è composto da 140 deputati che, a seguito delle ultime elezioni, risultano così distribuiti:
- 83 seggi al Partito Socialista
- 50 seggi al Partito Democratico
- 3 seggi al Partito Socialista Democratico
- 2 seggi al Partito ‘Opportunità’ (Mundësia)
- 1 seggio al partito Iniziativa albanese (NISA SH)
- 1 seggio al partito Coalizione Insieme (Levizha Bashkë)
Il Partito Socialista, erede del PPSH (il Partito del Lavoro di Albania), negli anni ha avuto due leader che potremmo definire dei re laici: lo storico Fatos Nano e l’attuale (ma ormai storico pure lui) Edi Rama.
Il Partito Democratico, nato come primo movimento che nel 1991 sfidò nelle prime elezioni libere il partito unico del regime comunista, ha poi conteso in alternanza con i socialisti la guida del Paese, rappresentata sostanzialmente sempre da Sali Berisha.
Gli altri partiti presenti in parlamento sono numericamente irrilevanti e presentano sfumature per differenziarsi tanto a destra (Iniziativa albanese) quanto a sinistra (Coalizione Insieme; Partito Socialista Democratico albanese).
Negli ultimi trent’anni in Albania c’è chi sostiene che ci sia stata un’alternanza e chi ritiene che in realtà si sia trattata di una diarchia. I numeri dimostrano che gli altri partiti rimangono ai margini ed è molto difficile uscire dalla “coppia” PS-PD.
Tra acclamazioni e criticheNell’analizzare le elezioni, importanti analisti albanesi hanno concentrato l’attenzione su fattori esterni e interni.
Il fattore esterno riguarda la credibilità che Rama ha presso la comunità internazionale. Le congratulazioni ricevute “valgono più di un rapporto dell’OSCE perché il suo operato è perfettamente in linea con i loro standard”.
Tuttavia non bisogna dare esclusiva importanza ai fattori esterni, altrimenti si perde di vista la portata generale del problema: il Partito Democratico dai primi conteggi ha perso circa 180mila voti.
C’è chi non ne fa soltanto una questione di numeri, ma analizza come questi si traducano nel 52% dei voti che si è tramutato in 83 su 140 seggi. Ciò significa, secondo gli osservatori pro-PD, che “chi minaccia la democrazia, la rappresentanza e il normale funzionamento di un’opposizione è questo sistema elettorale”, che anche il PD ha accettato negli ultimi anni con l’incapacità politica di vedere il gioco che l’altra squadra stava facendo per assicurarsi una facile vittoria.
Dal 2005 a oggi, il Partito Democratico ha ottenuto all’incirca lo stesso numero di voti, ma nel 2005 i seggi erano più degli attuali 50. Questo sistema è stato ovviamente al centro della contestazione degli sconfitti.
Le elezioni albanesi viste dal KosovoIn Kosovo hanno fatto notare che questa volta il premier Albin Kurti non è intervenuto nelle elezioni in Albania, “perché ha ricevuto pressioni internazionali”.
Molti in Kosovo pensano che il Primo Ministro Kurti, ma in generale tutti i partiti, dovrebbe essere cauto sul ruolo del suo partito Vetëvendosje in Albania, e non solo da una prospettiva elettorale.
Se i partiti albanesi aprono sedi distaccate in Kosovo e viceversa, il risultato può essere l’unità o l’assorbimento di un partito nell’altro, ma entrambe le ipotesi non sono facilmente gestibili.
In ogni caso, sostengono da Pristina, c’è un ulteriore motivo per cui questa volta non è intervenuto: non c’è un forte sostegno per nessuno dei partiti politici albanesi.
L’atteggiamento effettivamente tenuto si è rivelato saggio, in un momento in cui il clima generale nei Balcani è teso, risultando prudente non rischiare “invasioni di campo”.
Le elezioni albanesi viste dalla GreciaIn Grecia c’è chi ha sottolineato come la vittoria sia soprattutto di Edi Rama (ormai un tutt’uno con il PS) che si avvia a diventare un po’ l’Orban dei Balcani. La sua vittoria rende l’Albania, almeno sulla carta, un paese politicamente stabile, ma a quale prezzo?
Su questa linea, e non proprio come complimento, si è espresso l’europarlamentare greco Fredi Beleri, cittadino albanese appartenente alla minoranza greca e già candidato sindaco al comune di Hymara. Beleri è stato in prigione con l’accusa di voto di scambio secondo gli albanesi, per motivi politici secondo le autorità greche. “In queste elezioni ci siamo resi conto che ci sono ancora molti passi da compiere, affinché la democrazia in Albania possa crescere”, ha affermato l’eurodeputato dopo i risultati.
Va detto però che, al di là di quanto accaduto due anni fa, i rapporti tra Tirana e Atene sono ispirati a un sano pragmatismo di buon vicinato.
L’Albania al Summit della Comunità Politica EuropeaIl Summit della Comunità Politica Europea del 16 maggio ospitato dall’Albania ha visto Rama protagonista come padrone di casa e trionfatore. Nel suo discorso ha sottolineato che l’Unione Europea gli ha insegnato che anche ex nemici possono unirsi “anche con ferite aperte dalla guerra e creare un legame”. I riferimenti interni (l’eterna rivalità con Sali Berisha) ed esterni (erano presenti BiH, Kosovo, Serbia) non mancavano.
Secondo Rama l’Europa è un luogo tanto spiritualmente condiviso quanto un mosaico di diverse lingue e religioni, per questo rappresenta il presupposto ideale per una pace duratura.
L’arte della politica consiste spesso nello spostare l’attenzione sulla scena internazionale per distrarla dai temi interni, e i Balcani non fanno eccezione. Da tempo non si parla delle proteste in Grecia, Serbia, Macedonia del Nord, nella stessa Albania o della crisi istituzionale che attraversa la Bosnia ed Erzegovina.
L’accordo bilaterale Italia-Albania sul riconoscimento delle pensioniIl 16 maggio stesso, a Tirana, il primo ministro italiano Giorgia Meloni ha consegnato il documento finale sull’attuazione dell’accordo bilaterale sul riconoscimento delle pensioni tra Italia e Albania, che entrerà in vigore il 1° giugno 2025.
Edi Rama, da politico navigato, ne ha fatto una bandiera da sventolare insieme alla sua “sorella”, come chiama da tempo la sua omologa italiana.
Da più di cento anni il contesto geopolitico avvicina i destini di Albania e Italia: nel 1915 con la campagna di Albania, dal 1939 al 1945 con la Corona di Albania offerta all’Italia, e poi negli anni Novanta quando l’Italia era diventata “Lamerica” raccontata nel film di Gianni Amelio. Chissà quali saranno i prossimi episodi che la sceneggiatura politica scriverà.
Soluzioni per la crisi del debito nei Paesi a medio e basso reddito
Il Presidente Paolo Gentiloni è intervenuto a Radio Radicale nella trasmissione Spazio Transnazionale, condotto da Francesco De Leo, per commentare le possibili soluzioni alla crisi del debito dei paesi a medio e basso reddito, analizzando le situazioni attuali di questi paesi e le prospettive per l’alleggerimento del debito.
60° anniversario IAI al Quirinale: le riflessioni dell’Amb. Michele Valensise
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto in udienza ieri, 22 maggio 2025, i dirigenti e i ricercatori dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), in occasione del 60° anniversario della fondazione dell’Istituto, avvenuta nel 1965 per iniziativa di Altiero Spinelli.
In seguito all’incontro al Quirinale, l’Ambasciatore Michele Valensise, Presidente dello IAI, è intervenuto a Spazio Transnazionale, la trasmissione condotta da Francesco De Leo su Radio Radicale, per raccontare i momenti salienti dell’udienza e per offrire una riflessione sulle sfide e sulle difficoltà che l’Unione europea si trova ad affrontare in questa fase storica.
Il complesso allargamento europeo verso i Balcani
L’invasione russa dell’Ucraina ha spinto l’Unione Europea ad agire in diversi ambiti: da una maggior diversificazione dell’approvvigionamento energetico alla definizione di un massiccio piano di investimenti in difesa. Nel contempo, le mire espansionistiche di Putin — unite ai tentativi della Cina di espandere la sua sfera di influenza — hanno riportato in primo piano il tema dell’allargamento dell’UE, in particolare verso i Paesi dei Balcani occidentali. L’apertura di Bruxelles verso queste nazioni, da tempo candidate a divenire parte dell’UE, continua però a palesare degli elementi critici che, allo stato attuale, rendono ardua un’accelerazione del loro processo di integrazione nell’Unione.
Queste problematiche, in larga parte, sono legate alla situazione politico-istituzionale dell’area, che si è fatta negli ultimi anni più complessa, con massicce proteste di piazza, aspri scontri tra poteri dello Stato e rinnovate tensioni tra diverse etnie. In questo contesto appare particolarmente problematica la situazione della Bosnia-Erzegovina, Paese che continua a vivere sulla base del precario equilibrio stabilito dagli Accordi di Dayton del 1995. Qui, da anni, i vertici della Repubblica Srpska contestano l’ordine costituzionale definito su base internazionale e portano avanti un’agenda indirizzata a separare la componente serbo-bosniaca dal resto del Paese. Gli atti di aperta sfida all’assetto costituzionale sono stati negli ultimi mesi di tale gravità da indurre la magistratura di Sarajevo a spiccare un (finora inefficace) mandato d’arresto nei confronti dei leader della Repubblica Srpska: il Presidente Dodik, il Primo Ministro Viskovic e il Presidente del Parlamento, Nenad Stevandic. Una secessione appare improbabile — vista anche la condanna delle azioni dell’esecutivo della Repubblica Srpska da parte dell’amministrazione Trump — ma una Bosnia ancora frammentata e dalla sovranità limitata non ha dinanzi a sé una prospettiva di accesso all’Unione Europea in tempi brevi. Particolare attenzione merita anche la situazione della Serbia. Sotto la presidenza di Aleksandar Vučić, Belgrado ha mantenuto solide relazioni con la Russia e non ha compiuto passi significativi verso un autentico sistema liberaldemocratico capace di garantire la tutela dei diritti fondamentali della persona e dello stato di diritto. Le ampie proteste degli ultimi mesi a seguito del crollo di una pensilina nella stazione ferroviaria di Novi Sad — incidente che ha causato la morte di 15 persone e che è stato visto come emblematico del malfunzionamento dell’amministrazione pubblica — hanno aperto una frattura senza precedenti nel rapporto tra il leader del Partito Progressista Serbo e la cittadinanza. Tuttavia, assumere che questo possa aprire la strada a un più stretto legame tra Belgrado e Bruxelles appare, al momento, eccessivamente ottimistico.
Anche dal lato dell’Unione Europea ci sono però elementi che non facilitano l’avvicinamento alla regione balcanica. In primo luogo, i 27 Paesi membri — che devono deliberare all’unanimità l’accesso di uno Stato nell’UE e poi ratificarlo a livello nazionale — attribuiscono diversi gradi di rilevanza all’integrazione dell’area: alcuni, come Germania e Paesi Bassi, spingono verso un rapido percorso di integrazione, altri, come Bulgaria e Grecia, frenano, anche per dispute storiche. In secondo luogo, sussistono legittime preoccupazioni in merito al funzionamento delle istituzioni e dei meccanismi decisionali euro-unitari. Un ingresso accelerato di questi Paesi nell’UE al fine di includerli rapidamente nella sfera di influenza comunitaria aumenterebbe infatti il rischio di portare all’interno della casa europea degli Stati istituzionalmente fragili (come avvenuto nel caso di altre nazioni dell’est) che, su dossier fondamentali, potrebbero ad esempio esercitare un deleterio potere di veto, vista la perdurante esistenza su molte materie del requisito dell’unanimità.
Alcuni Stati della regione, come Albania e Montenegro — già membri della NATO e politicamente più stabili rispetto a quelli sopra menzionati — potrebbero anche nel breve-medio periodo riuscire ad accedere all’UE ma, per altri, questa strada sembra, almeno per il momento, difficilmente percorribile. Ecco, dunque, che sui Balcani occidentali, come su altre aree, torna inevitabilmente in rilievo il dibattito su altri modi con cui l’Unione Europea potrebbe cercare di allargare la propria sfera di influenza. È l’ingresso nella (attuale) UE l’opzione più valida per perseguire questo obiettivo?
La proposta di dar vita a un’Europa a cerchi concentrici, caratterizzata da diversi livelli di integrazione, potrebbe rappresentare una valida soluzione alternativa: in quest’ottica, gli Stati più istituzionalmente (ed economicamente) “avanzati” potrebbero procedere con un’integrazione sempre più federale, mentre gli altri, almeno temporaneamente, sarebbero coinvolti in una cornice istituzionale più affine al modello confederale. Questa possibile riforma del progetto di integrazione europea — sostenuta, fra gli altri, dal presidente francese Emmanuel Macron — stenta però a decollare e, per ora, neppure l’invasione russa dell’Ucraina è riuscita a darle una particolare spinta propulsiva. Chissà se la nuova leadership tedesca, unita a un rinnovato asse Parigi-Berlino, riuscianno però a mettere (finalmente) la questione sul tavolo delle cancellerie europee.
L’articolo è stato elaborato nell’ambito di “Focus Geofinanza. Osservatorio IAI-Intesa Sanpaolo sulla geofinanza