Affari internazionali - Rivista online di politica, economia e strategia

Abbonamento a feed Affari internazionali - Rivista online di politica, economia e strategia Affari internazionali - Rivista online di politica, economia e strategia
Mondo Senza Confini: Esperti in Affari Internazionali, Geopolitica e Diplomazia Globale
Aggiornato: 5 min 38 sec fa

Il dilemma Starlink: le implicazioni dell’accordo per l’Italia

Gio, 04/24/2025 - 09:58

Dopo la rivelazione di Bloomberg di un potenziale accordo da €1,5 miliardi tra il governo Meloni e Starlink, servizio di connettività satellitare offerto da SpaceX, la compagnia aerospaziale di proprietà di Elon Musk, si è creata molta confusione nell’opinione pubblica italiana circa quale sarebbe l’utilizzo di Starlink in Italia e quali sarebbero i rischi e benefici connessi. Per quanto non abbia rivali da un punto di vista tecnologico, Starlink comporta dei rischi circa la sicurezza dei dati, il mantenimento del servizio e l’incolumità da attacchi informatici che rendono il suo utilizzo nell’ambito governativo-militare molto più problematico di un eventuale utilizzo civile.

Ma cos’è Starlink?

Starlink è un sistema satellitare privato che permette connessione internet a banda larga tramite una ‘costellazione’ di settemila satelliti in orbita terrestre bassa (500 km dalla terra). È slegato quindi dalla tradizionale infrastruttura a terra come ripetitori e cavi ottici e consente l’accesso a internet da qualsiasi luogo in qualsiasi momento. Queste caratteristiche, insieme alla riduzione dei costi di lancio, dovuta all’uso dei razzi riutilizzabili Falcon 9 di SpaceX, hanno permesso a Starlink di avere oggi una posizione quasi monopolistica nel mercato delle comunicazioni satellitari. Le alternative europee non forniscono prestazioni concorrenziali rispetto a quelle di Starlink: il progetto europeo Iris2 diventerà disponibile solo nel 2030, mentre la franco-britannica Oneweb attualmente dispone solo di 640 satelliti e risulta molto più costosa.

Per cosa verrebbe utilizzato in Italia?

Posto che in Italia Starlink è già disponibile per i privati, un eventuale accordo con il governo potrebbe coprire due ambiti.

Da un lato, l’indipendenza dall’infrastruttura a terra rende Starlink adatto per l’utilizzo in ambito civile, soprattutto per fornire connessione internet alle zone più remote del paese e in situazioni emergenziali. Starlink ha già provato la sua utilità durante l’alluvione in Emilia-Romagna (2023), riuscendo a garantire connessione non solo ai privati, ma anche alle amministrazioni locali e agli ospedali. La fornitura di internet a banda larga nelle zone meno connesse del paese è già un obiettivo del Piano Italia a 1 Giga, finanziato dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e affidato a Open Fiber e Fibercop in seguito a gara regolarmente svolta. Per quanto queste aziende stiano avendo difficoltà nel completare il progetto in tempo, affidare un incarico simile a Starlink, che non ha partecipato formalmente alla gara, comporterebbe per il governo problemi di legalità e di compatibilità con le condizioni per ricevere i fondi Ue (velocità di trasmissione di almeno 1 GB al secondo).

Dall’altro lato, l’accordo rivelato da Bloomberg riguardava un sistema di comunicazione crittografata per le comunicazioni governative e militari. Per ora le forze armate e le ambasciate italiane usano Sicral per le comunicazioni strategiche, un sistema composto da due satelliti geostazionari (35.000 km dalla terra) che offrono però una connessione più lenta e minor copertura geografica.

La guerra in Ucraina ha dimostrato l’alto livello di digitalizzazione dei conflitti, il che impone alle forze armate di dotarsi (almeno) di adeguate connessioni a banda larga. Inoltre, il sistema Sicral risulta inefficiente nelle zone lontane dal continente europeo, come l’Indo-Pacifico, verso cui l’Italia si sta rivolgendo per diversificare i mercati per l’export (Piano d’Azione per l’export) e creare catene di approvvigionamento alternative (Imec), oltre che per mantenere una comunanza di obiettivi di politica estera con l’amministrazione Trump (Dichiarazione congiunta Trump-Meloni).

La necessità di una dotazione Starlink per le comunicazioni governative e militari dipende quindi dall’agenda del governo per i prossimi anni. Un tale utilizzo però solleva questioni di sicurezza che non possono essere ignorate.

Quali sono i rischi di Starlink?

In primo luogo, le minacce di Musk di scollegare l’Ucraina da Starlink hanno aperto alla possibilità di un blocco arbitrario del servizio. Nonostante Musk stesso abbia poi aggiunto che “non faremo mai una cosa del genere” e non sia passato ai fatti, diversamente è successo nel 2023, quando l’azienda ha unilateralmente deciso di sospendere il servizio in Crimea e di bandirlo per il controllo di droni e veicoli senza equipaggio. Questi precedenti, senza contare l’imprevedibilità e la scarsa sensibilità istituzionale di Musk, sollevano dubbi legittimi sulla possibilità che il servizio venga limitato anche dopo la chiusura del contratto.

In secondo luogo, incertezze sorgono circa la sicurezza dei dati. Nonostante il referente di Musk in Italia, Andrea Stroppa, abbia dichiarato che Starlink utilizza i protocolli di crittografia più avanzata e che esistono “configurazioni che permettono di avere il pieno controllo dei dati e una completa sovranità sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista legale”, incognite rimangono circa la possibilità che i dati che transitano sui sistemi Starlink possano venire alterati, penetrati o duplicati da possibili intercettatori o dal produttore stesso. Roberto Cingolani, AD di Leonardo, sostiene che “la protezione e l’accesso al contenuto delle comunicazioni sarebbero del tutto sotto la sovranità nazionale”, ma allo stesso tempo la legge federale statunitense Cloud Act (2018) impone alle aziende statunitensi di consegnare alle autorità i dati che transitano sulle loro infrastrutture, se richieste. Questo dettaglio legale, unito alla specializzazione in decrittazione della NSA (National Security Agency, l’agenzia di intelligence Usa dei segnali elettronici) i precedenti degli Usa nella sorveglianza delle comunicazioni di altri paesi creano incertezza circa l’effettiva protezione dei dati italiani più sensibili, come quelli governativi e militari.

In terzo luogo, la competizione geopolitica tra Cina e Usa potrebbe minare la sicurezza della connessione per gli utenti finali. La Cina infatti vede la resilienza di Starlink come una minaccia per la sua sicurezza nazionale. Alcune pubblicazioni consigliano al governo cinese di adottare sistemi di sorveglianza per tracciare i movimenti dei satelliti e di sviluppare capacità anti-satellite per colpirne l’efficienza. Per quanto ad ora non esista tecnologia che possa distruggere fisicamente la costellazione di Starlink al punto da minarne l’operatività, articoli scientifici mostrano come la connessione Starlink non protegga sufficientemente da casi di spoofing (attacchi per rubare dati e informazioni) e distributed denial of service (attacchi che rendono difficile o impossibile l’utilizzo del servizio). Dato il recente aumento degli attacchi cinesi alle telecomunicazioni Usa e l’inasprirsi del contrasto tra i due Stati con l’amministrazione Trump, incognite sorgono circa la possibilità che Starlink diventi bersaglio di operazioni ibride o informatiche che comprometterebbero l’utilizzo del servizio per gli utenti finali.

Diventa quindi legittimo chiedersi fino a che punto l’indipendenza dall’infrastruttura fisica a terra e dalla posizione geografica dell’utente finale renda Starlink affidabile per le comunicazioni strategiche se i rischi implicano la possibilità che altri stati ottengano accesso a dati sensibili e che gli utenti finali non riescano ad utilizzare pienamente il servizio a causa di limitazioni imposte dall’azienda stessa o da attacchi informatici.

Qual è l’attuale posizione del governo?

Il governo continua a negare l’esistenza di un accordo con SpaceX, complice anche l’opinione pubblica: il 47% si oppone a un accordo tra Musk e il governo e il 51% trova le ingerenze di Musk negative per l’Italia.

In pratica il governo sembra intenzionato ad adottare Starlink in modo indiretto. Il Ministro per i Rapporti col Parlamento Luca Ciriani in Parlamento ha spiegato che il governo non stringerebbe accordi direttamente con SpaceX, ma con aziende italiane che garantiscono la fornitura. Una di queste potrebbe essere Telespazio (partecipata al 67% da Leonardo), che nel 2024 ha annunciato una partnership con SpaceX per la distribuzione dei servizi offerti da Starlink. Teodoro Valente, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), ricorda che “qualsiasi affidamento sarebbe comunque da intendersi come una soluzione ponte, non un’alternativa contrapposta a costellazioni come Iris2”, la quale è pensata appositamente per proteggere le comunicazioni governative e militari dei paesi europei. Resta quindi da vedere se il governo stringerà un accordo, eventualmente con quale azienda e per quale ambito di utilizzo.

Acqua, conflitti e migrazioni: il potere dell’oro blu in Asia centrale

Gio, 04/24/2025 - 09:45

L’Asia centrale è una regione incastonata tra la Russia, la Cina e l’Iran ed è composta da 5 Paesi (Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan). È una regione caratterizzata da forti dinamiche migratorie sia interne che internazionali, è estremamente vulnerabile al cambiamento climatico, è esposta a importanti sfide economiche, conflitti latenti e tensioni politiche. In particolare, è una delle regioni più scarse d’acqua al mondo. Attualmente, 82 milioni di persone in questa regione soffrono di insicurezza idrica. Per accaparrarsi la poca acqua che rimane, gli Stati dell’Asia Centrale stanno ricorrendo sempre più spesso alle armi. Scontri armati, instabilità politica e cambiamento climatico stanno già influenzando le migrazioni dentro e fuori l’Asia Centrale.

Papa Francesco, il leader radicale che ha rotto gli schemi papali

Lun, 04/21/2025 - 11:54

Papa Francesco, morto lunedì 21 aprile all’età di 88 anni, passerà alla storia come un pontefice radicale, un campione degli “sfavoriti” che ha forgiato una Chiesa cattolica più compassionevole, pur senza rivedere dogmi secolari.

Soprannominato “il Papa della gente”, il pontefice argentino amava stare in mezzo al suo gregge ed era popolare tra i fedeli, anche se ha dovuto affrontare un’aspra opposizione da parte dei tradizionalisti all’interno della Chiesa.

Primo Papa proveniente dalle Americhe e dall’emisfero meridionale, ha difeso strenuamente i più svantaggiati, dai migranti alle comunità colpite dal cambiamento climatico, che ha avvertito essere una crisi causata dall’uomo.

Tuttavia, mentre affrontava di petto lo scandalo globale degli abusi sessuali da parte dei sacerdoti, i gruppi di sopravvissuti sottolineavano l’inefficienza delle misure concrete messe in atto.

Fin dalla sua elezione nel marzo 2013, Jorge Mario Bergoglio ha manifestato l’intenzione di lasciare il segno come leader della Chiesa cattolica. È diventato il primo Papa a prendere il nome di Francesco, in onore di San Francesco d’Assisi, un mistico del XIII secolo che rinunciò alle sue ricchezze e si dedicò agli ultimi. “Come vorrei una chiesa povera per i poveri”, ha dichiarato tre giorni dopo la sua elezione a 266° papa.

Era una figura umile che indossava abiti semplici, evitava i sontuosi palazzi papali e telefonava da solo, per lo più a vedove, vittime di stupro o prigionieri. L’ex arcivescovo di Buenos Aires, amante del calcio, è stato anche più accessibile dei suoi predecessori, chiacchierando con i giovani su temi che vanno dai social media alla pornografia e parlando apertamente della sua salute.

Come il suo predecessore Benedetto XVI, che nel 2013 è diventato il primo pontefice dal Medioevo a dimettersi, anche Francesco ha sempre lasciato aperta la possibilità di ritirarsi. Dopo la morte di Benedetto nel dicembre 2022, Francesco è diventato il primo papa in carica nella storia moderna a presiedere un funerale papale.

Le sue condizioni di salute sono peggiorate progressivamente dall’intervento al colon nel 2021 all’ernia nel giugno 2023, fino a bronchiti e dolori al ginocchio che lo hanno costretto a usare la sedia a rotelle.

I migranti e la diplomazia vaticana

Prima della sua prima Pasqua in Vaticano, si è recato in un carcere di Roma per lavare e baciare i piedi dei detenuti. È stato il primo di una serie di potenti gesti simbolici che hanno aiutato il pontefice a ottenere l’entusiastica ammirazione globale che era sfuggita al suo predecessore.

Per il suo primo viaggio all’estero, Francesco ha scelto l’isola italiana di Lampedusa, luogo di ingresso per decine di migliaia di migranti che sperano di raggiungere l’Europa, e ha denunciato la “globalizzazione dell’indifferenza”.

Ha anche condannato i piani del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, durante il suo primo mandato, di costruire un muro di confine contro il Messico, definendoli “non cristiani”. Dopo la rielezione di Trump, papa Francesco ha denunciato le deportazioni di migranti previste come una “grande crisi” che “finirà male”.

Nel 2016, quando la crisi migratoria europea aveva raggiunto il suo apice, Papa Francesco ha fatto visita all’isola greca di Lesbo, portando con sé tre famiglie di musulmani siriani richiedenti asilo e tornando a Roma.

Si è anche impegnato per la riconciliazione interreligiosa, baciando il patriarca ortodosso Kirill di Mosca in uno storico incontro nel febbraio 2016 e lanciando, nel 2019, un appello congiunto per la libertà di credo con il principale chierico sunnita, Sheikh Ahmed al-Tayeb.

Francesco ha rivitalizzato la diplomazia vaticana anche in altri modi, contribuendo a facilitare il riavvicinamento storico tra Stati Uniti e Cuba e incoraggiando il processo di pace in Colombia. Ha inoltre cercato di migliorare i legami con la Cina, raggiungendo un accordo storico nel 2018 sulla nomina dei vescovi, accordo che però è stato criticato.

Appello per il clima

Gli esperti hanno attribuito a Francesco il merito di aver influenzato gli storici accordi sul clima di Parigi del 2015 con la sua enciclica “Laudato si'”, un appello all’azione sul cambiamento climatico basato sulla scienza. Egli ha sostenuto che le economie sviluppate sono responsabili di un’imminente catastrofe ambientale e, in un nuovo appello del 2023, ha affermato che alcuni dei danni sono ormai irreversibili.

Sostenitore della pace, il pontefice ha ripetutamente denunciato i produttori di armi e ha affermato che è in corso una Terza guerra mondiale, a causa della miriade di conflitti che si registrano in tutto il mondo. Tuttavia, i suoi interventi non hanno sempre riscosso consensi e ha scatenato l’indignazione di Kyiv dopo aver elogiato coloro che, nell’Ucraina devastata dalla guerra, hanno avuto il “coraggio di alzare bandiera bianca e negoziare”.

Nelle sue modeste stanze nella foresteria vaticana di Casa Santa Marta, Francesco affrontava lo stress scrivendo i suoi problemi in lettere a San Giuseppe. “Dal momento in cui sono stato eletto, ho provato una sensazione molto particolare di pace profonda. E questo non mi ha mai abbandonato”, ha dichiarato nel 2017.

Amava anche la musica classica e il tango, tanto che una volta si era fermato in un negozio di Roma per acquistare dei dischi.

Chi sono io per giudicare?

Gli ammiratori di Francesco gli attribuiscono il merito di aver trasformato la percezione di un’istituzione che, al momento del suo insediamento, era afflitta da scandali, riportando all’ovile i fedeli che si erano allontanati.

Sarà ricordato come il Papa che, in merito ai cattolici gay, ha affermato: “Chi sono io per giudicare?”.

Ha permesso ai divorziati e ai risposati di ricevere la comunione, ha approvato il battesimo dei transgender e la benedizione delle coppie omosessuali.

Tuttavia, ha abbandonato l’idea di permettere ai sacerdoti di sposarsi, dopo un’ondata di proteste, e, nonostante abbia nominato diverse donne a posizioni di rilievo all’interno del Vaticano, ha deluso le aspettative di chi auspicava l’ordinazione delle donne.

I critici lo hanno accusato di aver manomesso pericolosamente i principi dell’insegnamento cattolico e le sue riforme hanno sollevato una forte opposizione.

Nel 2017, quattro cardinali conservatori hanno lanciato una sfida pubblica senza precedenti alla sua autorità, affermando che le sue riforme avevano seminato confusione dottrinale tra i credenti.

Tuttavia, la sua Chiesa non ha mostrato alcuna intenzione di allentare il divieto di contraccezione artificiale o di modificare la propria posizione riguardo al matrimonio gay, ribadendo che l’aborto è “omicidio”.

Francesco ha anche spinto le riforme all’interno del Vaticano, come permettere ai cardinali di essere processati da tribunali civili o rivedere il sistema bancario della Santa Sede.

Ha anche cercato di affrontare il problema enormemente dannoso degli abusi sessuali da parte dei sacerdoti, incontrando le vittime e giurando di chiamare i responsabili a risponderne. Ha aperto gli archivi vaticani ai tribunali civili e ha reso obbligatorio segnalare alle autorità ecclesiastiche i sospetti di abusi o il loro insabbiamento. Tuttavia, i critici affermano che la sua eredità sarà una Chiesa che fatica a consegnare i preti pedofili alla polizia.

Prima di divenire Papa

Jorge Mario Bergoglio è nato in una famiglia di emigranti italiani a Flores, un quartiere borghese di Buenos Aires, il 17 dicembre 1936. Primogenito di cinque figli, come scrive il biografo Paul Vallely, è “nato argentino ma cresciuto a pasta”.

A partire dai 13 anni lavorò in una fabbrica di calze nel pomeriggio, mentre di mattina studiava per diventare tecnico chimico. In seguito, per un breve periodo, fece il buttafuori in un locale notturno.

Si dice che gli piacessero il ballo e le ragazze, al punto da chiederne una in sposa prima che, all’età di 17 anni, scoprisse la vocazione religiosa. In seguito, Francesco raccontò di un periodo di agitazione durante la sua formazione gesuita, quando si invaghì di una donna incontrata a un matrimonio di famiglia.

A quel punto era sopravvissuto a un’infezione quasi mortale che aveva comportato l’asportazione di parte di un polmone. L’insufficienza respiratoria aveva compromesso le sue speranze di diventare missionario in Giappone. Fu ordinato sacerdote nel 1969 e nominato provinciale dei Gesuiti in Argentina solo quattro anni dopo.

Il suo periodo alla guida dell’ordine, che ha coinciso con gli anni della dittatura militare in Argentina, è stato difficile. I critici lo accusarono di aver tradito due sacerdoti radicali che erano stati imprigionati e torturati dal regime. Non è mai emersa alcuna prova convincente di questa affermazione, ma la sua guida dell’ordine ha creato divisioni e, nel 1990, fu degradato ed esiliato a Córdoba, la seconda città più grande dell’Argentina.

Poi, a 50 anni, la maggior parte dei biografi lo descrive come un uomo che ha attraversato una crisi di mezza età. Ha deciso di intraprendere una nuova carriera nel mainstream della gerarchia cattolica, reinventandosi prima come il “vescovo dei bassifondi” di Buenos Aires e poi come il papa che avrebbe rotto gli schemi.

© Agence France-Presse

I colloqui USA-Iran e il ruolo dell’Italia

Sab, 04/19/2025 - 19:24

Maria Luisa Fantappiè, responsabile del Programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuta a Spazio Internazionale, la rubrica di Radio Radicale condotta da Francesco De Leo.

In collegamento in diretta da Erbil, in occasione del Forum di Sulemani, Fantappiè ha commentato i recenti colloqui tra Stati Uniti e Iran sul dossier nucleare, soffermandosi sull’importanza dell’iniziativa diplomatica italiana che ha ospitato le trattative. Fantappiè ha infine analizzato anche l’attuale situazione politica in Iraq.

Perché le elezioni in Ucraina non porranno fine alla guerra

Ven, 04/18/2025 - 08:20

Tra le tante stranezze del nuovo approccio statunitense alla guerra russo-ucraina c’è l’ipotesi che le elezioni anticipate in Ucraina possano essere utili o addirittura decisive per porre fine ai combattimenti. In particolare, l’affermazione che la pace può essere raggiunta con una rapida sostituzione della leadership ucraina, in particolare del presidente Volodymyr Zelensky, è ora sostenuta non solo a Mosca, ma anche a Washington. Questi attori presentano uno scenario del genere come plausibile, nonostante il fatto che un cambiamento politico in Ucraina sia improbabile nel prossimo futuro, date sia la politica del paese che la realtà sul campo.

Non è realistico aspettarsi che in Ucraina si tengano elezioni presidenziali e parlamentari significative in tempo di guerra o anche poco dopo un cessate il fuoco. Non solo la legislazione ucraina, come quella di molti altri paesi, vieta le elezioni durante i periodi di legge marziale, ma l’invasione russa su vasta scala in corso dal 2022 rende il voto a livello nazionale impossibile dal punto di vista logistico e della sicurezza.

Inoltre, le elezioni richiederebbero un periodo di preparazione più lungo dopo la fine dei combattimenti. La guerra ha avuto un impatto così devastante sulla società e sulle infrastrutture ucraine che ora nel paese c’è consenso sul fatto che una nuova legge per le elezioni del dopoguerra debba essere approvata e attuata per tenere conto delle nuove circostanze. La preparazione delle elezioni dopo la guerra richiederebbe almeno sei mesi e potrebbe richiedere fino a un anno. Niente di tutto questo è insolito in uno scenario post-conflitto.

Gli ultimi appelli per un rinnovamento politico in Ucraina sono quindi prematuri e ingenui nella migliore delle ipotesi, e manipolatori e sovversivi nella peggiore. Il controllo della Russia su gran parte dell’Ucraina orientale e meridionale, i continui combattimenti e gli attacchi aerei russi in tutto il paese hanno reso impossibile lo svolgimento di elezioni regolari. Un appello pubblico dei gruppi della società civile ucraina, organizzato da Opora, il principale gruppo di monitoraggio elettorale del paese, ha dichiarato il 20 febbraio: “L’instabilità della situazione della sicurezza, il rischio di bombardamenti, attacchi terroristici e sabotaggi, nonché lo sfruttamento minerario su larga scala delle aree, pongono ostacoli significativi in tutte le fasi del processo elettorale”.

La motivazione ufficiale di Mosca per la richiesta di elezioni in Ucraina è una presunta preoccupazione per la legittimità della leadership ucraina. È una strana affermazione, considerando che le elezioni ucraine sono ampiamente riconosciute dagli osservatori internazionali come libere, mentre quelle russe non lo sono. L’obiettivo della Russia non è quello di proteggere il governo popolare in Ucraina, ma piuttosto di utilizzare la maggiore vulnerabilità del Paese durante una campagna elettorale nazionale e la procedura di voto per sovvertire lo Stato.

Il motivo alla base della campagna russa per le elezioni nazionali anticipate in Ucraina non è una pace stabile tra i due paesi, ma la destabilizzazione interna e la conseguente vassallizzazione dell’Ucraina.

Alcuni commentatori potrebbero non essere a conoscenza, o considerare irrilevanti, i motivi nascosti dietro il presunto interesse di Mosca per la democrazia ucraina. Tuttavia, la sovversività della richiesta di elezioni da parte di Mosca non dovrebbe essere sottovalutata. Un’indicazione che la destabilizzazione dello Stato, e non un’ordinata transizione di potere, è l’obiettivo dietro la dichiarata preoccupazione della Russia per la legittimità democratica in Ucraina è che, come Mosca sa, anche lo svolgimento di elezioni con successo probabilmente farebbe poco per cambiare la politica estera dell’Ucraina. Un ipotetico cambio di leadership in Ucraina nel prossimo futuro, compreso un nuovo presidente, non porterà a un sostanziale riavvicinamento russo-ucraino, contrariamente all’opinione di alcuni osservatori esterni.

La maggior parte dei dati dei sondaggi, così come il più ampio panorama politico dall’inizio dell’invasione su vasta scala della Russia nel 2022, suggeriscono un’altra vittoria presidenziale per Zelensky. Di certo, è improbabile che ripeta la sua schiacciante vittoria del 2019, quando ha ottenuto quasi il 75% dei voti al secondo turno delle elezioni presidenziali. I dati dei sondaggi su Zelensky hanno subito fluttuazioni negli ultimi tre anni e l’esito di qualsiasi elezione è quindi difficile da prevedere. Nel 2024, la popolarità del generale Valery Zaluzhny, ex comandante in capo delle forze armate ucraine e ora ambasciatore ucraino nel Regno Unito, ha superato quella di Zelensky in diversi sondaggi.

Zaluzhny, che Zelensky ha promosso al comando delle forze armate nel 2021, sarebbe un potente concorrente politico alle elezioni presidenziali. Finora, tuttavia, Zaluzhny non ha né espresso ambizioni presidenziali né intrapreso alcuna attività di costruzione di partito o altri preparativi per entrare in politica e condurre una campagna. Dopo il suo trasferimento a Londra nel 2024, è diventato meno presente nella vita pubblica ucraina, anche se il sostegno popolare nei suoi confronti è ancora più alto rispetto a qualsiasi altro ipotetico rivale di Zelensky.

Zelensky continua a superare di gran lunga tutti i politici ucraini attivi nei vari partiti politici. Il suo rivale più vicino con ambizioni politiche ufficiali è l’ex presidente Petro Poroshenko, che ha subito una sconfitta clamorosa contro Zelensky nel 2019. Poroshenko attualmente riceve meno della metà del sostegno di Zelensky nei sondaggi di opinione. Finché Zaluzhny non entrerà nella politica di partito ed elettorale, Zelensky rimarrà il favorito assoluto alle prossime elezioni presidenziali.

Anche se dovesse emergere e vincere un serio rivale, ciò non cambierebbe il quadro di base della guerra. La principale opposizione politica e critica a Zelensky e al suo partito Servitore del Popolo proviene dal centro-destra nazionalista e dalla società civile di orientamento nazionale. In Ucraina rimangono solo pochi attori di rilievo che potrebbero spingere per un riavvicinamento alla Russia, e hanno un pubblico residuo. Dal 2022 hanno perso gran parte del loro appeal tra gli elettori, come nel caso di Yuriy Boyko e Dmytro Razumkov, oppure hanno lasciato il Paese o sono stati espulsi, come hanno fatto Viktor Medvedchuk, apertamente filo-Cremlino, e l’ex magnate dei media Yevhen Murayev. Oggi nessuno di loro può essere considerato un serio contendente alla presidenza ucraina.

Zelensky, nonostante le sue origini ebraiche, viene spesso etichettato come “nazista” da Mosca. Tra coloro che in Occidente spingono per un accordo con la Russia, molti lo vedono come un “falco”. La maggior parte degli ucraini, tuttavia, lo ha percepito come un politico relativamente moderato e pacifista sin dall’inizio della sua carriera politica. Da quando è salito al potere nel 2019, Zelensky e il suo team sono stati spesso criticati in Ucraina per essere eccessivamente ottimisti, morbidi e indecisi nei confronti della Russia. L’alta popolarità di Zelensky nei sondaggi si basa in parte sulla speranza che il generale sia più deciso ed efficace contro la Russia.

Gli osservatori politici ucraini si aspettano che i veterani giochino un ruolo importante nella politica del dopoguerra. Molti ucraini vedono ora il personale militare attuale ed ex con esperienza di prima linea o di comando non solo come adatto a proteggere il loro paese dalla minaccia russa, ma anche come meno corrotto, più patriottico e più qualificato per posizioni di leadership rispetto ai politici tradizionali.

Niente di tutto ciò fa presagire l’elezione di una leadership desiderosa di accontentare la Russia, per non parlare di piegarsi alla sua volontà. Nelle prossime elezioni, uomini e donne con un passato militare aumenteranno probabilmente la loro presenza nel governo, nel parlamento nazionale, nelle amministrazioni regionali e nei consigli locali; potrebbero candidarsi con i partiti esistenti, come candidati indipendenti o come parte di nuovi gruppi politici con un profilo militare. È molto probabile che assistiamo a un massiccio ingresso di ex soldati nella politica ucraina, il che indurirà piuttosto che ammorbidire la posizione di Kiev nei confronti di Mosca.

I recenti contatti non ufficiali degli Stati Uniti con Poroshenko e l’ex primo ministro Yulia Tymoshenko, chiaramente intesi come un tentativo di avvicinamento ai possibili successori di Zelensky, indicano un triplice errore di valutazione da parte di Washington.

In primo luogo, la maggior parte degli osservatori che hanno familiarità con la politica ucraina considererebbe irrealistica una futura presidenza di Tymoshenko o Poroshenko. Sebbene siano ancora presenti nella vita pubblica e detengano seggi in parlamento, per gli ucraini rappresentano un’epoca passata e simboleggiano il passato problematico dell’Ucraina post-sovietica. I loro partiti, Solidarietà Europea di Poroshenko e Patria di Tymoshenko, continueranno probabilmente ad avere seggi nel prossimo parlamento, ma i due politici veterani hanno poche possibilità di ottenere nuovamente il potere.

In secondo luogo, sia Poroshenko che Tymoshenko hanno chiarito ai loro omologhi statunitensi di essere contrari a elezioni anticipate. Condividono invece il diffuso rifiuto ucraino di condurre campagne ed elezioni in tempo di guerra. I due politici sarebbero probabilmente scettici anche sul fatto di tenere elezioni troppo presto dopo la revoca della legge marziale, senza un periodo più lungo di preparazione per un processo elettorale adeguato e sicuro.

In terzo luogo, a Washington si sopravvalutano le conseguenze politiche di un’ipotetica presidenza di Tymoshenko, Poroshenko o di qualsiasi altro candidato presidenziale concepibile. Il cambiamento non farebbe molto per modificare l’orientamento della politica estera dell’Ucraina in generale e il suo atteggiamento nei confronti della Russia in particolare. Semmai, i partiti di Tymoshenko e Poroshenko sono più nazionalisti di quello di Zelensky. Entrambi i politici si sono distinti in passato per le dichiarazioni bellicose contro la Russia e il presidente russo Vladimir Putin.

C’è un’evidente discrepanza tra le richieste di elezioni in Ucraina e il loro impatto trascurabile o, più probabilmente, negativo sulla disponibilità di Kiev a fare concessioni. Questa contraddizione è legata al fatto che la richiesta di elezioni in Ucraina, presumibilmente intesa a contribuire a porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina, ha avuto origine al Cremlino e serve a scopi distruttivi. Né la sospensione delle elezioni presidenziali e parlamentari ucraine in tempo di guerra, come previsto dalla legislazione prebellica del Paese, né lo stesso Zelensky sono responsabili della mancanza di progressi nei negoziati tra Stati Uniti, Ucraina e Russia.

Il doppio mito secondo cui l’attuale governo ucraino è illegittimo e che sono necessarie elezioni rapide per porre fine ai combattimenti è stato creato a Mosca. Dover improvvisare elezioni in un paese dilaniato dalla guerra consentirebbe al Cremlino di scatenare la sua intera macchina di guerra politica, compresi disinformazione, attacchi informatici, intimidazioni, sabotaggi e corruzione. Accogliere la richiesta russa di elezioni sarebbe un grave errore per gli altri attori internazionali coinvolti.

GCAP come punta dell’iceberg: la cooperazione italo-britannica nel combattimento aereo

Gio, 04/17/2025 - 12:07

L’Italia e il Regno Unito condividono una forte tradizione di cooperazione industriale nel campo della difesa. Questo rapporto è stato rafforzato da programmi congiunti, come il Panavia Tornado e l’Eurofighter, dall’esistenza di una joint venture leader nel settore missilistico come MBDA, e dalla presenza del Gruppo Leonardo nel Regno Unito tramite la sua controllata Leonardo UK. Il Global Combat Air Programme (GCAP) per lo sviluppo di un velivolo da combattimento di sesta generazione è dunque solo l’ultima dimostrazione di forte complementarità tra industrie e ministeri della difesa dei due Paesi. Di questo si è parlato il 18 marzo presso la residenza dell’Ambasciatore del Regno Unito in Italia grazie all’evento The Anglo-Italian Cooperation on Air Combat, organizzato dall’Istituto Affari Internazionali (IAI) in collaborazione con l’Ambasciata britannica e MBDA.

Una colonna portante della cooperazione europea

Tracciando una linea di continuità dal Tornado al GCAP, è subito evidente come l’Italia e il Regno Unito siano gli unici due Paesi ad aver lavorato fianco a fianco costantemente nell’ambito dei velivoli da combattimento dalla fine degli anni sessanta ad oggi. Anche l’F-35, pur rappresentando un programma americano, ha visto la partecipazione di aziende di Paesi partner, tra cui appunto Italia e Regno Unito. Mentre quest’ultimo è l’unico Paese partner ad aver ottenuto lo status di Tier 1, l’Italia è diventato il solo stato europeo ad ospitare una linea di assemblaggio finale (Final Assembly and Check Out, FACO).

Un’analisi di mezzo secolo di collaborazione mette a nudo un fatto sorprendente: anche con il susseguirsi di governi, minacce e interessi strategici, a partire dalla fondazione di Panavia nel 1969 (da parte di Germania, Regno Unito e Italia) per lo sviluppo del Tornado e fino ai giorni nostri sussiste una capacità non comune degli stakeholder della difesa di Roma e Londra di trovare la giusta quadra per portare a termine programmi di cooperazione estremamente complessi.

A livello europeo, questa continuità di rapporti è quasi unica. La Francia ha infatti per decenni optato per programmi puramente nazionali, anche quando inizialmente aveva tentato di intraprendere la via della cooperazione, come agli albori dell’Eurofighter. La Germania invece ha avuto un ruolo fondamentale sia nel programma Tornado che nell’Eurofighter, ma per motivi politici ha preferito unirsi a Francia e Spagna per sviluppare il Future Combat Air System (FCAS). L’F-35 fornisce nuovamente una chiave di lettura interessante per quel che riguarda una convergenza di interessi italo-britannica: tra le principali potenze militari europee, solo Italia e Regno Unito sono partner dai primissimi anni di vita del programma. Infatti la Germania ha temporeggiato fino all’attacco russo all’ucraina del 2022, per poi uscire da una fase di stallo politico durato decenni, mentre la Spagna continua a posticipare una decisione che almeno fino alla fine dell’Amministrazione Biden sembrava inevitabile militarmente ma delicata politicamente.

Allineamento nelle idee e nei mezzi

La cooperazione industriale nel campo della difesa è sempre sfidante per governi, industrie e forze armate. Innanzitutto perché richiede una chiara volontà di scendere a compromessi, confrontandosi con le controparti in modo costruttivo e pragmatico. Le fasi di negoziazioni sulla divisione del lavoro sono dunque sempre delicatissime, e cadono spesso in una dinamica di ‘sconfitti e vincitori’ che spesso rallenta i programmi o, nei casi peggiori, li stronca sul nascere. Aldilà delle questioni industriali, la definizione di requisiti comuni e condivisibili da tutti i partecipanti di un programma è un altro passo fondamentale e che spesso sfocia in rotture o divergenze nei prodotti finali. L’Italia e il Regno Unito hanno dimostrato più volte di avere idee chiare e soprattutto simili sul combattimento aereo, raggiungendo una comunanza di piattaforme senza eguali in Europa, che sarà ulteriormente accentuata dall’entrata in servizio della core platform di GCAP nei prossimi decenni.

Questa visione comune, insieme ad una maggiore predisposizione alla cooperazione pragmatica rispetto ad altri Paesi europei, è in parte il fattore abilitante per un rapporto di collaborazione sempre più stretto, ma ne è anche il risultato. Ad oggi, i due Paesi sono talmente abituati a lavorare insieme in questo campo da aver creato insieme una vera e propria ‘cultura di cooperazione’ anglo-italiana basata su una spiccata comprensione dei processi e approcci altrui. Oltre alla piattaforma, anche per quel che riguarda i sistemi d’arma c’è una forte cooperazione grazie a MBDA, joint venture leader nel settore missilistico e che ha sviluppato tra gli altri il missile aria-aria Meteor in dotazione anche agli Eurofighter dell’Aeronautica Italiana e della Royal Air Force.

Guardando al futuro, le opportunità per un ulteriore rafforzamento della già fruttuosa cooperazione tra Italia e Regno unito nel campo del combattimento aereo sembrano abbondare. Come sottolineato in un recente studio dello IAI sul GCAP, la cooperazione in questo ambito non si limita solo allo sviluppo di piattaforme e sistemi d’arma. Si estende infatti, in alcuni casi, anche alla definizione di dottrine simili e di percorsi di addestramento comuni o condivisi che, insieme al processo stesso, gettano le basi per nuovi programmi congiunti. Per l’Italia è evidente il raggiungimento dello status di partner alla pari nei confronti del Regno Unito in termini sia di design authority che di finanziamenti e workshare industriale, dopo decenni di ruolo più secondario rispetto anche alla Germania nei programmi Tornado ed Eurofighter. Sarà fondamentale che gli stakeholder italiani continuino a consolidare questa posizione, raggiunta grazie al solido allineamento tra Difesa, industria e politica, per sfruttare al meglio tutte le opportunità che ne scaturiranno.

Il viaggio a Washington e il dilemma di Meloni

Mer, 04/16/2025 - 17:07

Il compito che aspetta la premier Giorgia Meloni durante la sua visita lampo a Washington è il più classico degli esercizi di equilibrismo. Meloni dovrà allo stesso tempo difendere gli interessi commerciali italiani, ribadire la prossimità dell’Italia agli Stati Uniti ed evitare di creare una frattura interna all’Ue. Il compito è arduo, visto che si tratta di obiettivi difficili da raggiungere e ancor più difficili da conciliare.

Il costo delle tariffe per l’Italia

L’Italia è uno dei paesi più esposti ai dazi sulle importazioni dall’Ue adottati da Donald Trump il 2 aprile, poi parzialmente sospesi dopo preoccupanti scricchiolii del mercato obbligazionario. Gli Stati Uniti assorbono il 10% delle esportazioni italiane e dal 2023 sono diventati il secondo mercato di destinazione dei nostri beni, per un valore che l’anno scorso ha superato i 64,7 miliardi di euro.

Se l’amministrazione Trump dovesse confermare il dazio del 20% sull’Ue dopo lo scadere della pausa a luglio, le perdite per gli esportatori italiani sarebbero significative. I settori più colpiti includono macchinari e apparecchiature, prodotti farmaceutici, automotive e mezzi di trasporto, oltre che prodotti chimici, tessili e agroalimentare. Né il quadro sarebbe tanto più roseo se si dovesse restare alla soglia attuale del 10% (era di circa l’1% prima del 2 aprile), a cui vanno aggiunti i dazi del 25% su alluminio, acciaio e autovetture. Ancor più preoccupante è la prospettiva che le tariffe generino un rallentamento della crescita globale. Il governo Meloni ha già dimezzato le prospettive di crescita per quest’anno.

Approccio unilaterale o europeo

Il governo è notoriamente scettico sull’efficacia di adottare controtariffe, sostenendo che l’effetto sarebbe quello di aggiungere danno a danno. Si è sempre detto a favore di una via negoziale. Questa è una posizione al momento in linea con quella della Commissione europea, che ha deciso di mettere da parte una rappresaglia contro le tariffe del 2 aprile e sospendere l’attuazione delle contromisure in risposta ai dazi su acciaio, alluminio e auto che erano già state approvate, nel tentativo di approfittare della pausa annunciata da Trump per trovare un compromesso. Tuttavia, il commissario al commercio Maroš Šefčovič e il suo team per il momento non hanno ottenuto nulla dall’amministrazione Trump, se non la conferma che un certo livello di dazi resterà senz’altro. Questo rende il compito di Meloni ancora più ingrato.

La coalizione di governo ospita, come è noto, opinioni contrastanti. La Lega di Matteo Salvini spinge per un negoziato bilaterale, mentre Forza Italia insiste sulla necessità di una posizione coordinata con l’Ue. La prima strada è impraticabile perché la politica commerciale è competenza esclusiva dell’Unione. Inoltre, cercare esenzioni per i prodotti italiani creerebbe una frattura interna all’Ue, isolerebbe l’Italia e ne ridurrebbe l’influenza nei negoziati su dossier cruciali come l’eventuale rilassamento del Patto di stabilità e crescita o il ricorso a risorse comuni per sostenere gli investimenti in difesa. È plausibile pertanto che Meloni cerchi un’interlocuzione con Washington su questioni su cui ritiene possibile possa avere sostegno da almeno una parte dei suoi partner europei.

Può ben essere che Meloni ribadisca di essere a favore dell’idea di un’area commerciale industriale a zero tariffe già avanzata dalla Commissione, pur sapendo che non c’è alcuno spazio. Ma il suo messaggio centrale non può che essere l’insistenza sul rafforzamento della relazione transatlantica battendo su due tasti: la competizione con la Cina e un accordo per aumentare le importazioni di beni americani nell’Ue.

Un fronte su cui questi obiettivi possono essere conciliabili è quello delle tecnologie della comunicazione: dal 5G a Starlink, il sistema di comunicazione satellitare di Elon Musk, l’amministrazione Trump inquadra l’acquisto di beni americani come una scelta di campo fra Washington e Pechino per gli europei. Gli americani sono anche interessati ad aumentare le vendite agli europei di gas naturale liquefatto (gnl) e sistemi d’arma. Né è un segreto che l’amministrazione vede le regolamentazioni Ue in campo digitale, ambientale e alimentare come discriminatorie verso compagnie ed esportatori americani.

Margini di manovra limitati

A meno che non si decida per la linea unilaterale favorita dalla Lega, lo spazio di manovra di Meloni è limitato. L’accettazione delle richieste americane risulterebbe in un ulteriore aumento della dipendenza europea dagli Stati Uniti in un momento in cui la domanda di una maggiore autonomia è diventata più urgente.

Il governo italiano potrebbe superare le sue stesse reticenze ad adottare Starlink, ma altri governi europei sono riluttanti a dare un’influenza strutturale a un tecno-miliardario che non esita a interferire direttamente nella loro politica interna appoggiando partiti di estrema destra e promuovendo disinformazione anti-Ue. Il tema della sovranità digitale e tecnologica del resto è sempre più presente nel dibattito interno all’Ue e non è un caso che la Commissione abbia escluso la possibilità di rivedere le leggi europee che regolamentano la concorrenza sui mercati digitali (Digital Markets Act) e impongono ai giganti dell’high-tech di vigilare sui contenuti diffusi sulle piattaforme social (Digital Services Act). È anche impossibile o quasi un allentamento delle barriere all’importazione di prodotti agricoli americani trattati con ormoni o lavati col cloro o cresciuti con organismi geneticamente modificati.

Dove la premier italiana può avere più spazio di manovra in Europa è sul fronte dell’acquisto di GNL americano, in teoria utile a compensare la riduzione delle importazioni dalla Russia, sebbene decisamente più caro. Meloni potrebbe anche promettere di incoraggiare acquisti europei di armi americane, anche se le scarse spese per la difesa non fanno dell’Italia il candidato ideale per perorare la causa. Meloni potrebbe promettere a Washington di battersi per un’applicazione meno aggressiva delle regolamentazioni digitali (cosa che in parte la Commissione sta già facendo), contro la tassazione di Big Tech (una questione nazionale ma che ha peso nel dibattito europeo), e per la rimozione o quantomeno rilassamento delle regolamentazioni ambientali (invise anche a molti attori industriali europei).

Mission impossible?

In definitiva, per Meloni esiste uno spazio di convergenza fra interessi americani ed europei che riflette tanto la sua visione strategica, quanto le sue convinzioni ideologiche. Meloni è persuasa che i paesi europei non possano che far parte di un ordine euro-atlantico centrato su Washington, e che se Washington cambia rotta sia dovere degli europei adeguarsi invece di inseguire la chimera di una maggiore autonomia.

Questo ben si concilia con la sua idea di Occidente come una comunità di nazioni di origine europea, legate fra loro non tanto dai valori universalistici della liberaldemocrazia quanto da storia, tradizioni e radici religiose, una civiltà che deve serrare i ranghi per proteggersi internamente dai migranti e dalle élite globaliste ed esternamente dalla Cina.

Il problema per Meloni è che questa amministrazione americana, pur ospitando un’ideologia affine alla sua, sembra assai poco disposta a venire incontro alle sensibilità dei paesi europei, che vuole non solo allineati ma anche divisi e deboli.

Meloni finora si è dimostrata abile a navigare le acque di uno spazio atlantico in tempesta, e non si può escludere che torni da Washington con qualcosa in mano. Ma alla lunga conciliare le sue convinzioni ideologiche e strategiche con l’interesse italiano in un commercio più aperto e in un’Europa più coesa e resiliente può diventare una missione impossibile.

Trump 2, una presidenza nel segno della rivalsa e della vendetta

Mar, 04/15/2025 - 13:46

Il secondo mandato di Donald Trump si caratterizza come una presidenza nel segno della rivalsa e della vendetta: nel mirino, deep State, Università, studi legali, singoli individui.

 

Ecuador al ballottaggio: la sfida tra Noboa e Gonzalez per il futuro del Paese

Ven, 04/11/2025 - 16:18

di Miriam Viscusi

Il 13 aprile, i 13 milioni di cittadini ecuadoriani torneranno alle urne per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Nel primo turno del 9 febbraio infatti nessun candidato ha ottenuto la quantità di voti necessaria (il 50% più uno oppure il 40% con una differenza col secondo candidato di almeno il 10% dei voti).

A sfidarsi al ballottaggio saranno il presidente in carica, l’imprenditore 36enne Daniel Noboa – che a febbraio ha ottenuto il 44,17% dei voti – e Luisa Gonzalez, 47 anni, rappresentante di Revolución Ciudadana, partito di sinistra “neosocialista” fondato dall’ex presidente Rafael Correa. Gonzalez, al primo turno, ha ottenuto il 44% dei voti, a soli 16.000 voti di distanza da Noboa.

La situazione a pochi giorni dal voto

L’esito del voto sarà condizionato da una terza forza politica, quella delle popolazioni e confederazioni indigene, il cui candidato Leonidas Iza (del partito Pachakutik) ha ottenuto oltre il 5% dei voti a febbraio (più di 530.000 consensi). Molte posizioni del suo programma (come quelle relative alla giustizia sociale e alla questione ambientale) sono più vicine a Gonzalez che a Noboa.

Il che ha portato la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie), di cui Pachakutik è il braccio politico, ad annunciare la firma di un accordo programmatico con Revolución Ciudadana. Il patto mira a essere un accordo su singoli temi – in nome dell’“unità contro le destre antidemocratiche” – piuttosto che un vero e proprio endorsement alla figura di Gonzalez.

A pochi giorni dal voto, i sondaggi non offrono risposte chiare. Secondo Telcodata, in testa ci sarebbe Gonzalez con il 50,2% dei voti. A Noboa andrebbe il 49,8%. Secondo l’istituto Comunicaliza, invece, Noboa sarebbe in vantaggio con il 50,3%, mentre Gonzalez si fermerebbe al 49,7%.

L’importanza dell’elezione

Il risultato della sfida determinerà i prossimi quattro anni del Paese. Fino a pochi anni fa, l’Ecuador era escluso dalle dinamiche del narcotraffico. Ora invece si trova al centro delle rotte internazionali del traffico di cocaina, a causa della sua posizione geografica e dell’uso del dollaro come moneta ufficiale.

Tale nuova centralità dell’Ecuador è legata alla fine della collaborazione tra il governo e l’Agenzia statunitense antinarcotici (Dea), oltre che alla diminuzione degli investimenti nelle attività di contrasto al traffico di droga. Ciò ha favorito l’infiltrazione dei cartelli messicani e il coinvolgimento di bande criminali ecuadoriane nella distribuzione di droghe.

L’aumento del narcotraffico ha portato a un incremento degli episodi di violenza armata e dei reati. Nel 2023, ad esempio, durante la campagna elettorale per le elezioni anticipate (indette dall’allora presidente Guillermo Lasso per evitare l’impeachment), un candidato, Fernando Villavicencio, è stato ucciso. In risposta, il presidente Noboa ha implementato a inizio 2024 lo stato d’eccezione e diverse leggi speciali per neutralizzare i “terroristi” delle bande armate.

La politica estera dell’Ecuador: Noboa con gli Usa, Gonzalez con Caracas

Dal punto di vista della politica estera, queste elezioni avranno un impatto su alcuni equilibri regionali.

Noboa, con i suoi forti legami personali e politici con gli Stati Uniti, ha confermato di voler collaborare con Washington. Di cui si è già assicurato il sostegno militare, politico e finanziario, compreso un accordo da 4 miliardi di dollari per 48 mesi con il Fondo monetario internazionale, siglato a maggio 2024. In cambio, Noboa ha offerto agli Stati Uniti la possibilità di stabilire basi militari straniere in Ecuador, una mossa che l’attuale presidente ritiene essenziale nella strategia di contrasto alle organizzazioni criminali.

Gonzalez, da parte sua, vuole distanziarsi dagli Stati Uniti e ha dichiarato che, in caso di vittoria, riconoscerà Nicolas Maduro come legittimo presidente del Venezuela. Si tratterebbe di un’inversione di rotta importante visto che, tra i governi dell’America latina, l’Ecuador è stato uno dei più fermi nel definire illegittima la rielezione di Maduro nel  luglio 2024, definendo il suo governo “dittatoriale” e garantendo ampio appoggio all’opposizione. Un governo Gonzalez potrebbe poi riprendere e riaffermare i rapporti con la Cina, grande investitore nel Paese, soprattutto nel settore delle infrastrutture energetiche.

Le sfide attuali e future: narcotraffico e crisi energetica

A chiunque vincerà le elezioni, spetteranno diversi dossier urgenti e importanti. Il primo, ormai da diversi mesi sul tavolo, è quello sulla sicurezza interna e sul contrasto al narcotraffico.

Noboa ha insistito con una politica di fermezza e repressione. Ha promesso in più occasioni che proseguirà la sua politica del “Nuovo Ecuador” e insisterà con la militarizzazione finché le bande criminali non saranno smantellate. A Gonzalez invece è imputata una presunta collusione con le organizzazioni criminali e una sua vittoria potrebbe rappresentare un cambio di passo sul tema.

A ciò si aggiunge una recessione economica e una dura crisi energetica, in corso da mesi, che ha causato razionamenti delle forniture energetiche su scala nazionale. In parte a causa della poca manutenzione degli impianti, in parte a causa del cambiamento climatico, il Paese si trova da mesi a corto di carburante.

Il governo ha tentato – finora con poco successo – di risolvere la questione, noleggiando e acquistando navi cisterna e portando avanti un negoziato con la Colombia per assicurarsi l’acquisto di energia elettrica. Ma è evidente che il nuovo esecutivo dovrà agire per sanare le radici strutturali del problema.

Trump sospende alcuni dazi, ma non verso Pechino. La Cina risponde con aumenti al 125%

Ven, 04/11/2025 - 15:57

La Cina ha dichiarato che aumenterà i dazi sui beni statunitensi al 125%, in un’ulteriore escalation di una guerra commerciale che minaccia di bloccare le esportazioni tra le due maggiori economie mondiali.

La ritorsione di Pechino ha scatenato una nuova volatilità sui mercati, con le azioni europee che hanno oscillato dopo l’annuncio, mentre Tokyo e Seul hanno chiuso in rosso. A dimostrazione delle preoccupazioni degli investitori per la salute dell’economia statunitense sotto la gestione irregolare del presidente Trump, il dollaro è sceso ai minimi di tre anni contro l’euro e dell’1,3% contro lo yen.

A Pechino, la Commissione per le tariffe del Consiglio di Stato cinese ha dichiarato che sabato entreranno in vigore nuove tariffe del 125% sulle merci statunitensi, che quasi eguaglieranno lo sbalorditivo livello del 145% imposto alle merci cinesi in arrivo in America.

Un portavoce del Ministero del Commercio ha dichiarato che gli Stati Uniti hanno la “piena responsabilità di questo”, deridendo le tariffe di Trump come un “gioco di numeri” che “diventerà una barzelletta”. Il ministero delle Finanze cinese ha dichiarato che le tariffe non aumenteranno ulteriormente perché “non c’è alcuna possibilità di accettazione del mercato per i beni statunitensi esportati in Cina” – un riconoscimento del fatto che quasi nessuna importazione è possibile al nuovo livello.

Pechino ha inoltre dichiarato che presenterà un’azione legale presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio in merito all’ultima tornata di dazi annunciata da Trump. Il presidente cinese Xi Jinping ha condannato il “bullismo unilaterale”. Mentre le superpotenze si scontrano, l’UE ha dichiarato che il suo capo del commercio, Maros Sefcovic, terrà lunedì 14 aprile dei colloqui con le controparti statunitensi a Washington per risolvere la loro controversia sui dazi. Sefcovic sta viaggiando “in buona fede per cercare di trovare soluzioni che possano essere vantaggiose per tutti”, ha dichiarato il portavoce dell’UE per il commercio Olof Gill.

La sospensione di alcuni dazi americani e la guerra commerciale con la Cina

Il 2 aprile Trump ha mandato in tilt i mercati finanziari mondiali annunciando tariffe storiche sui partner commerciali dell’America, tra cui una base del 10% per tutti i beni che entrano negli Stati Uniti. Dopo giorni di crollo dei mercati, mercoledì 9 aprile ha congelato le tariffe più alte, pari o superiori al 20%, imposte ad alleati come l’Unione Europea o il Giappone, ma ha mantenuto una tariffa aggiuntiva del 34% sulla Cina. Da allora Pechino si è vendicata, provocando negli ultimi giorni aumenti a catena che sono culminati nell’ultima mossa di venerdì 11 aprile. Giovedì 10 aprile Trump ha riconosciuto “un costo di transizione e problemi di transizione”, pur insistendo che “alla fine sarà una cosa bellissima”.

Parlando con i giornalisti, ha detto di avere rispetto per Xi e di sperare in un accordo. “È un mio amico da molto tempo. Penso che alla fine riusciremo a trovare un accordo molto positivo per entrambi i Paesi”, ha dichiarato. Gli economisti avvertono che l’interruzione del commercio tra le economie statunitense e cinese, strettamente integrate, minaccia le imprese, aumenterà i prezzi per i consumatori e potrebbe causare una recessione globale. Trump ha definito “molto intelligente” l’Unione Europea che si è astenuta da imposizioni di ritorsione. Ma il capo del blocco dei 27 Paesi, Ursula von der Leyen, ha dichiarato al Financial Times che l’Unione Europea dispone di una “vasta gamma di contromisure” se i negoziati con Trump dovessero fallire. “Ad esempio, si potrebbe imporre una tassa sui ricavi pubblicitari dei servizi digitali”, applicabile a tutto il blocco, ha detto.

La risposta dell’Europa

Durante i colloqui con il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez, i media statali hanno citato Xi che ha affermato che la Cina e l’UE dovrebbero fare squadra sul commercio. “La Cina e l’Europa dovrebbero adempiere alle loro responsabilità internazionali… e resistere congiuntamente alle pratiche unilaterali di bullismo”, ha dichiarato Xi.

Questo, ha sottolineato, non solo “salvaguarderebbe i loro diritti e interessi legittimi, ma anche… l’equità e la giustizia internazionale”. Il prossimo vertice dei funzionari dell’UE si terrà a luglio. Dopo i nuovi cali di giovedì 10 aprile a Wall Street, venerdì 11 i mercati asiatici sono stati nuovamente sotto pressione. Tokyo è crollata del 3% – un giorno dopo essere salita di oltre il 9% – mentre Sydney, Seoul, Singapore e altri hanno subito un calo. I mercati europei hanno aperto in rialzo per poi crollare dopo le ritorsioni della Cina, ma in seguito hanno ridotto le perdite. L’oro, un bene rifugio in tempi di incertezza, ha toccato un nuovo record sopra i 3.200 dollari, mentre gli investitori spaventati dalle politiche di Trump hanno scaricato i Treasury statunitensi, normalmente solidi.

“L’euforia per la pausa tariffaria di Trump sta svanendo rapidamente”, ha dichiarato Stephen Innes di SPI Asset Management. “In conclusione, le due maggiori economie mondiali sono in piena guerra commerciale e non ci sono vincitori”. Ma il Segretario al Commercio statunitense Howard Lutnick si è vantato giovedì sui social media che “l’età dell’oro sta arrivando”. Siamo impegnati a proteggere i nostri interessi, a impegnarci in negoziati globali e a far esplodere la nostra economia”.

© Agence France-Presse

Crisi elettorale in Romania: Un campanello d’allarme per la NATO e l’Europa

Ven, 04/11/2025 - 11:16

Le elezioni presidenziali annullate in Romania rivelano la crescente posta in gioco internazionale della fragilità democratica sul fianco orientale della NATO. Vietare i candidati estremisti può contenere la minaccia, ma non eliminarla alla radice. Senza una resilienza strutturale, gli attori ibridi continueranno a erodere la legittimità, una crisi alla volta.

La posta in gioco globale della crisi elettorale rumena

Il 6 dicembre 2024, la Corte costituzionale della Romania ha annullato le elezioni presidenziali del Paese, citando un rapporto di intelligence declassificato che rivelava un’ampia interferenza straniera. Il principale beneficiario di questa operazione, il candidato di estrema destra Călin Georgescu, aveva inaspettatamente vinto il primo turno. Sebbene legalmente giustificata, la decisione ha messo in luce fragilità istituzionali più profonde e vulnerabilità internazionali che si estendono ben oltre i confini della Romania.

L’annullamento delle elezioni è stato inquadrato come una difesa dell’integrità democratica. Ma le giustificazioni poco trasparenti e la scarsa comunicazione hanno aumentato la sfiducia dell’opinione pubblica. Mentre la Romania si avvia verso la riprogrammazione delle elezioni nel maggio 2025, si trova ad affrontare non solo una crisi politica interna, ma anche una storia di cautela su come le minacce ibride possano distruggere la legittimità elettorale attraverso i confini ed essere amplificate da attori con portata transatlantica.

Guerra ibrida e insurrezione digitale

La campagna di Georgescu ha fatto leva su un sofisticato ecosistema di disinformazione. Distribuita attraverso piattaforme come TikTok, Telegram e YouTube, presentava contenuti emotivi e cospiratori con un’amplificazione riconducibile alle reti russe e iraniane. Il suo obiettivo non era solo la vittoria elettorale, ma l’erosione della fiducia istituzionale e la normalizzazione della retorica anti-sistema.

Secondo l’analisi digitale forense di una ricerca indipendente, questa operazione ibrida, amplificata da attori stranieri ma radicata nelle vulnerabilità interne, è stata progettata per destabilizzare uno dei principali Stati di prima linea della NATO. E ci è riuscita. Non perché Georgescu abbia vinto, ma perché il processo elettorale stesso è stato delegittimato. Le elezioni non sono state solo bloccate, sono state screditate.

Echi oltre Bucarest

La reazione internazionale all’annullamento ha rispecchiato la sua complessità. Funzionari del Cremlino, organi di stampa russi e statunitensi favorevoli a Trump hanno condannato la decisione. Questo allineamento tra Stati Uniti e Russia è sorprendente e inquietante. L’alleato di Trump Elon Musk ha denunciato l’annullamento, mentre il vicepresidente degli Stati Uniti J.D. Vance ha fatto eco alle affermazioni di manipolazione dell’élite. Questa convergenza suggerisce il crescente allineamento delle narrazioni autoritarie attraverso le divisioni geopolitiche.

Le conseguenze hanno già messo a dura prova le relazioni tra Stati Uniti e Romania. I leader rumeni pro-Trump hanno chiesto il ritiro delle truppe americane e l’arresto dell’espansione della NATO nella base aerea di Mihail Kogălniceanu. L’amministrazione Trump ha sospeso l’ingresso della Romania nel Visa Waiver Program, confermato solo di recente dall’amministrazione Biden. Se la Romania venisse abbandonata dal suo più stretto alleato, non si tratterebbe solo di una battuta d’arresto nazionale, ma di una rottura strategica per il fianco orientale della NATO.

Contenimento senza risoluzione

Călin Georgescu è stato formalmente squalificato dalle elezioni del maggio 2025 dall’Ufficio elettorale centrale (BEC), una decisione confermata dalla Corte costituzionale. Le posizioni pubbliche di Georgescu – come l’impegno a bandire i partiti politici e l’elogio del ruolo della Romania nell’Olocausto – sono illegali secondo la legge rumena e costituiscono un attacco all’ordine costituzionale. Ora rischia accuse penali e restrizioni digitali. Ma il suo movimento persiste, con nuovi candidati in lizza per ereditare la sua base.

Il principale è George Simion, leader del partito di estrema destra AUR, ora in testa ai sondaggi del primo turno. Simion fa eco al messaggio anti-sistema di Georgescu e accusa l’establishment rumeno di un “colpo di Stato” orchestrato dall’Occidente. Simion, anch’egli indagato per istigazione pubblica, fa parte di un movimento più ampio che comprende Diana Șoșoacă e Victor Ponta, figure che mescolano populismo, nazionalismo e allineamento filorusso.

Deriva strategica nel centro democratico

I candidati pro-europei come Nicuș o Dan potrebbero essere ben posizionati per vincere il ballottaggio, ma il centro democratico rimane frammentato e reattivo. Il candidato della coalizione di governo, Crin Antonescu, è visto come una scelta di compromesso con scarso entusiasmo da parte dell’opinione pubblica. La campagna dell’USR di Elena Lasconi divide ulteriormente il voto centrista. L’assenza di una narrazione convincente da parte del mainstream ha ceduto spazio agli attori anti-sistema.

Questa deriva riflette carenze strutturali più ampie. La Romania soffre di povertà endemica, analfabetismo digitale e deficit di governance. Un terzo della popolazione è vittima dell’esclusione sociale. La disoccupazione giovanile rurale supera il 30%. Queste condizioni creano un terreno fertile per la disinformazione e l’alienazione. Nonostante ospiti i migliori talenti europei nel campo delle tecnologie dell’informazione, la Romania è ai primi posti nella classifica delle infrastrutture civiche digitali, un paradosso che gli attori ibridi sfruttano.

La fragile linea del fronte

La crisi della Romania ha messo in luce le lacune strategiche delle risposte della NATO e dell’UE alle minacce ibride. Gli strumenti attuali – attribuzione limitata, condivisione frammentata dell’intelligence e protocolli di escalation vaghi – sono insufficienti per le tattiche asimmetriche ora messe in campo dai nemici della NATO. Il caso rumeno non è stato una sorpresa; è stato il culmine di una campagna di lungo termine che si è sviluppata nel dominio digitale.

Ciò che la Romania richiede – e che la NATO e l’UE devono sostenere – non è solo la vigilanza, ma la resilienza. Ciò include investimenti nell’infrastruttura civica digitale, lo sviluppo di istituzioni di vigilanza indipendenti, la regolamentazione dei contenuti distribuiti dai giganti dei social media e la creazione di squadre di risposta rapida multipiattaforma in grado di smascherare e interrompere le operazioni informative prima che si radichino. Le soluzioni esistono: sviluppare una strategia coerente per i futuri rapporti dell’UE con la Russia che includa risposte agli attacchi ibridi, evitare un’estensione dell’influenza russa in Ucraina e un più ampio isolamento della Russia, introdurre un monitoraggio più centralizzato delle informazioni sulle minacce all’interno della NATO e un protocollo di escalation proporzionale per gli attacchi ibridi. Ciò che manca non sono le soluzioni, ma l’urgenza.

Oltre la Romania

La crisi elettorale della Romania non è un episodio isolato. È un avvertimento di ciò che accade quando le istituzioni si occupano dei sintomi senza affrontare le cause alla radice. Rimuovere i candidati estremisti antidemocratici è necessario, ma insufficiente. Senza una strategia proattiva per costruire la resilienza democratica, le democrazie rischiano di diventare tecnicamente ben difese ma sempre più svuotate dalla sfiducia.

Il contenimento ritarda le crisi, non le risolve. La questione è se le democrazie transatlantiche impareranno dalla Romania o si troveranno ad affrontare rotture simili con ancora meno scuse per l’inazione.

Sarà l’Iran la grande occasione di pace per Trump?

Gio, 04/10/2025 - 16:46

In questi primi tre mesi di presidenza, Donald Trump ha fatto poco per mantenere la promessa di porre fine ai conflitti che insanguinano Europa e Medio Oriente. Il modo in cui l’amministrazione ha aperto il negoziato fra Russia e Ucraina, facendo concessioni alla prima e premendo sulla seconda, ha generato più preoccupazioni che speranze. E quando Israele ha rotto la tregua con Hamas che Trump stesso si era vantato (a ragione) di aver favorito, gli Stati Uniti non solo non hanno offerto resistenza ma hanno applaudito. Alla luce di ciò, l’annuncio di un incontro “di alto livello” fra Usa e Iran in Oman dev’essere accolto senz’altro con favore, ma anche con circospezione.

Scambi epistolari

La posta in gioco è altissima. Trump continua a evocare pubblicamente l’eventualità di un massiccio bombardamento del programma nucleare iraniano per evitare che Teheran si doti di un arsenale atomico. Allo stesso tempo, sostiene di preferire di gran lunga raggiungere un accordo, una posizione che ha espresso in una lettera personale ad Ali Khamenei, Guida Suprema della Repubblica islamica. L’Iran, che nega di volere la bomba (e secondo l’intelligence USA non ha preso una decisione in questo senso), ha duramente criticato il linguaggio bellicoso di Trump. Si è però detto disponibile a trattare su base di mutuo rispetto; almeno questa sarebbe la sostanza della risposta di Khamenei.

L’Iran ha buoni motivi di dubitare di Trump, responsabile di aver unilateralmente ritirato gli Stati Uniti da un accordo nucleare che l’Iran e sei potenze – USA, Russia, Cina e i cosiddetti ‘E3’ (Germania, Francia e Regno Unito) più l’UE – avevano faticosamente raggiunto nel 2015. In risposta al ritiro da quell’accordo, noto come Joint Comprehensive Plan of Action o JCPOA, l’Iran ha grandemente espanso il programma nucleare.

Le ragioni dell’incontro in Oman

L’incontro in Oman è, in questo senso, un primo passo per ricostruire un minimo di fiducia reciproca. La contemporanea presenza del ministro degli esteri iraniano Seyed Abbas Araghchi e di Steve Witkoff, inviato speciale per il Medio Oriente e uomo di fiducia di Trump, fa pensare che ai primi colloqui mediati dagli omaniti possa presto seguire un incontro bilaterale. Se così fosse, Trump avrebbe ottenuto un risultato cercato invano dall’amministrazione Biden.

La maggiore flessibilità iraniana si deve, in parte, al desiderio del presidente Masoud Pezeshkian di rilanciare l’economia, il cui potenziale di crescita è compromesso dal peso delle sanzioni extraterritoriali americane.

Un altro motivo è che la situazione attuale, in cui l’Iran continua ad accumulare materiale potenzialmente impiegabile in testate pur mantenendolo al di sotto della soglia militare (weapon-grade), non è sostenibile. Entro luglio gli E3, i membri europei del JCPOA, dovranno prendere una decisione se attivare o meno uno speciale meccanismo, detto snapback, che comporterebbe la riapplicazione automatica delle sanzioni ONU. Questo costringerebbe l’Iran a reagire, per esempio cacciando gli ispettori nucleari ONU dal paese. È plausibile che l’Iran voglia evitare di essere messo in una condizione che lo esporrebbe a un maggior rischio di attacchi, e per questo abbia acconsentito alla mediazione omanita (e non degli europei, ormai estromessi nonostante il ruolo fondamentale giocato al tempo del JCPOA).

Dopotutto, i falchi anti-Iran in Israele, a partire dal premier Binyamin Netanyahu, e negli Stati Uniti, dove abbondano in Congresso, ritengono che questo sia il momento ideale per sferrare il colpo decisivo contro il cosiddetto ‘asse della resistenza’ promosso dall’Iran, che negli ultimi mesi ha visto Hezbollah fortemente ridimensionato e il regime di Bashar al-Assad in Siria liquefarsi. Gli attacchi aerei contro gli Houthi, alleati dell’Iran in Yemen, e lo schieramento nella base americana di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, di bombardieri capaci di portare potenti bombeanti-bunker rafforzano la credibilità della minaccia.

Un ultimo motivo dietro la disponibilità a trattare dell’Iran è che, per quanto difficile e incerto il negoziato, un eventuale accordo con Trump avrebbe il vantaggio di recare con sé l’appoggio di almeno parte del Partito Repubblicano (oltre che di buona parte dei Democratici) e non sarebbe così soggetto al rischio di essere cancellato da una futura amministrazione. Inoltre, Trump potrebbe mettere sul piatto la riapertura del commercio diretto Iran-USA, mentre l’accordo del 2015 si concentrava soprattutto sulla ripresa del commercio Europa-Iran.

Le prospettive per un negoziato

L’incontro in Oman serve a esplorare le posizioni di partenza e saggiare la rispettiva disponibilità a fare concessioni, soprattutto da parte americana.

Nell’amministrazione convivono infatti due anime. La prima, favorita dal segretario di stato Marco Rubio e dal consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, nonché da una nutrita schiera di Repubblicani (e qualche Democratico) e soprattutto da Netanyahu, spinge per una posizione massimalista. L’Iran dovrebbe non solo smantellare il programma nucleare, ma ridimensionare l’arsenale balistico e tagliere i ponti con le milizie che, da Hezbollah agli Houthi alle Forze di mobilitazione popolare in Iraq, compongono l’asse della resistenza. Se dovesse passare questa linea, le chance di un accordo sono scarse se non nulle.

L’alternativa è che l’amministrazione punti esclusivamente a un “verificabile accordo di pace nucleare”, come ha avuto modo di dire lo stesso Trump. Questo obiettivo è compatibile con la posizione iraniana. La questione, complessa sul piano tecnico ma certamente non irrisolvibile, diventerebbe come stabilire nuovi limiti al programma nucleare e mettere a punto un efficiente sistema di verifica (così come del si era fatto per il JCPOA).

I costi di un fallito accordo

I benefici di un accordo sono evidenti, non solo in termini di non-proliferazione nucleare ma anche di sicurezza regionale, senza contare che la riapertura del commercio con gli USA darebbe all’Iran un incentivo a evitare di schiacciarsi su Russia e Cina, come ha fatto invece in questi ultimi anni anche in conseguenza della pressione americana.

Un bombardamentocome non se ne sono mai visti”, per usare il rozzo, truculento vocabolario di Trump, presenta invece costi potenzialmente immensi a fronte di benefici incerti. Potrebbe riportare il programma nucleare iraniano indietro di qualche anno, ma non distruggerlo del tutto. Dal momento che l’Iran non avrebbe più remore a cercare un deterrente nucleare, gli USA sarebbero inoltre costretti ad attacchi ripetuti, forse per anni. Né il conflitto resterebbe limitato all’Iran: le forze americane nell’area, Israele e il commercio marittimo nel Golfo diventerebbero bersagli di una guerra asimmetrica da parte degli iraniani e dei loro alleati. Le perdite di vite umane, in una regione che nel XXI secolo sconquassata da un eccezionale livello di violenze, sarebbero significative.

Non è quindi un caso che nell’area conservatrice che fa capo al vice-presidente JD Vance, l’ipotesi di una guerra con l’Iran sia vista come il fumo negli occhi. Disgraziatamente questo potrebbe non essere sufficiente a sventare questo scenario infausto. L’amministrazione Trump non sembra avere un orientamento strategico preciso ed è popolata da personale inesperto (quando non incompetente, come dimostrato dallo scandalo Signal). Potrebbe pertanto non avere la pazienza, la disciplina e la sofisticazione diplomatica non solo per gestire un negoziato tanto delicato, ma per resistere alle pressioni della lobby anti-Iran, che ha in Netanyahu e nei suoi alleati in Congresso campioni formidabili.

Detto questo, il fatto che l’incontro in Oman si svolga all’indomani della visita di Netanyahu alla Casa Bianca può essere un segnale che, sull’Iran, Trump sia dopotutto più autonomo di quanto i suoi critici temono. Non resta che augurarselo, unendo alla speranza grande, spassionata cautela.

Trump e il Medio Oriente, tra nucleare iraniano, Siria e nuovi spazi di dialogo

Mar, 04/08/2025 - 11:15

Maria Luisa Fantappiè, responsabile del programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dello IAI, è stata ospite di Francesco De Leo a “Spazio Transnazionale” su Radio Radicale, dove ha parlato della nuova amministrazione Trump e delle sue possibili scelte diplomatiche in Medio Oriente. Fantappiè ha analizzato la questione dell’accordo sul nucleare iraniano e il complesso rapporto tra Usa e la Siria.

Fantappiè ha inoltre fatto riferimento a un recente evento organizzato dallo IAI che ha visto la partecipazione di rappresentanti palestinesi e israeliani, creando uno spazio di dialogo costruttivo in un momento di particolare tensione nella regione.

Il disprezzo di Trump

Mar, 04/08/2025 - 00:00

Lo scandalo Signalgate e la guerra dei dazi, che vede l’Ue tra i target principali di Washington, hanno confermato ciò che gli europei già sapevano: il disprezzo dell’amministrazione Trump per l’Europa è profondo e la frattura transatlantica è strutturale

I leader europei sperano ancora di evitare gli scenari peggiori, come un’invasione della Groenlandia o il ritiro delle truppe Usa dalla Nato. Si concentrano soprattutto sul garantire che, se (o forse quando) gli Stati Uniti abbandoneranno Kyiv, sarà l’Europa collettivamente a riuscire a garantire un’Ucraina libera, indipendente e democratica. Ma non bisogna illudersi che ciò avvenga lavorando in sinergia con Washington o addirittura con la sua tacita approvazione.

Il Signalgate è stato prevedibile e scioccante, ma non sorprendente: l’astio verso l’Europa emerso nella chat riservata del team di sicurezza Usa rispecchia le dichiarazioni pubbliche dell’amministrazione. La coerenza è evidente: Washington vede l’Europa come obsoleta, arrogante e parassitaria. Ciò che è sconvolgente, tuttavia, è che gli Stati Uniti non si limitano a considerare l’Europa come moribonda: i funzionari di Trump sembrano voler contribuire alla sua morte. Per Washington, attaccare gli Houthi nel Mar Rosso sarebbe nell’interesse della sicurezza nazionale americana. Eppure, proprio il fatto che tale azione aiuterebbe anche l’Europa viene considerato un motivo valido per metterla in discussione. Il vantaggio di contrastare una minaccia diretta agli Usa viene messo in dubbio dal solo fatto che ne beneficerebbero anche gli europei.

Le componenti del disprezzo

Questo disprezzo ha tre importanti implicazioni politiche per l’Europa. In primo luogo, il commercio. Trump ha annunciato la sua guerra commerciale contro i Paesi che, secondo lui, “fregano” l’economia statunitense. Nessuna simpatia o amicizia storica potrà attenuare la dimensione Usa-Ue di questa guerra. L’imposizione del 20% di dazi su tutte le esportazioni europee agli Stati Uniti, oltre a quelle già imposte su acciaio, alluminio e automobili, ne è la testimonianza concreta. Tuttavia, la gestione della politica commerciale per i 27 Stati membri è una competenza esclusiva dell’Ue e il blocco ha un peso economico combinato che gli Stati Uniti non possono ignorare. In questo confronto, i danni saranno reciproci. Con un’Europa unita sul commercio, come sulla regolamentazione della tecnologia, gli Usa non potranno agire in modo predatorio nonostante il loro odio irrazionale. Alla fine, Washington dovrà adottare un approccio pragmatico e cercare un accordo con Bruxelles. 

In secondo luogo, Trump ha più volte ribadito le sue mire sulla Groenlandia. La controversa visita di Vance all’isola e le sue critiche alla Danimarca segnalano un’intensificazione delle pressioni americane. Tuttavia, la reazione inizia a farsi sentire efficace: dopo le critiche, il viaggio è stato frettolosamente modificato escludendo la capitale Nuuk e limitandosi a una remota base militare statunitense nell’estremo nord del territorio. La prima ministra danese, Mette Frederiksen, ha accusato gli Stati Uniti di “pressioni inaccettabili“, ma spetterà agli altri leader europei sostenerla. Quanto più gli europei si mostreranno deboli e pusillanimi, tanto più le pressioni degli Stati Uniti si aggraveranno.

Infine, e soprattutto, l’Ucraina. I Paesi volenterosi, guidati da Emmanuel Macron e Keir Starmer, insieme al presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy, stanno elaborando piani di sostegno all’Ucraina. Ma appare sempre più evidente che dovranno farlo non solo senza il sostegno militare degli Stati Uniti, ma forse anche contro di essi. Mentre l’Europa pianifica un maggiore sostegno economico-militare e una “forza di rassicurazione” per addestrare e assistere le forze ucraine nella protezione delle città e delle infrastrutture, dovrà accettare l’assenza di una garanzia statunitense. Naturalmente, è opportuno continuare a coinvolgere gli Usa nelle varie discussioni, in particolare sulla condivisione di informazioni e sul supporto logistico. Tuttavia, se Washington continuerà a mettersi di traverso, Europa e Ucraina dovranno farne a meno. 

Sulle sanzioni alla Russia, l’Europa dovrà probabilmente agire in contrapposizione agli Usa. La strategia di Vladimir Putin è ovvia: subordinare il cessate il fuoco alla fine del sostegno occidentale e alla revoca delle sanzioni. Molto probabilmente l’amministrazione americana asseconderà il Cremlino e farà pressione sugli europei affinché seguano il suo esempio, dipingendoli come ostacoli alla pace.

Finora i governi europei hanno tenuto duro, respingendo le richieste russe di sospendere le sanzioni finanziarie sul settore agroalimentare come precondizione per un cessate il fuoco nel Mar Nero. L’Europa deve essere pronta a resistere anche alle pressioni americane.

Opporsi alla prepotenza degli Stati Uniti non è solo una buona politica, ma anche politicamente vantaggioso. Con fermezza, coraggio e cortesia, l’Europa dovrebbe semplicemente andare per la sua strada.

Nuovi equilibri e squilibri istituzionali nell’Unione europea

Mar, 04/08/2025 - 00:00

La nuova legislatura europea che si è aperta lo scorso dicembre è caratterizzata da una serie di nuovi equilibri e squilibri istituzionali, che hanno determinato nuove dinamiche. Sarà vitale, per l’Unione europea, trovare il modo di funzionare e di mantenere l’unità interna anche in questa situazione e durante una fase di grandi mutamenti internazionali.

Se guardiamo all’interno delle istituzioni, le elezioni europee e quelle nazionali che si sono susseguite nel super anno elettorale del 2024 (con la coda di quelle tedesche del 2025) hanno fatto registrare un consenso crescente per forze radicali ed euroscettiche che influenzano le maggioranze al Parlamento europeo, ma anche l’agenda della Commissione e del Consiglio europeo. 

Al Parlamento europeo ha sostanzialmente tenuto una maggioranza centrista, moderata e pro-europea, formata dal Partito Popolare Europeo (PPE), dai Socialisti e Democratici, dai Liberali e dai Verdi. Questa stessa coalizione ha eletto Ursula von der Leyen per il suo secondo mandato come Presidente della Commissione europea con 401 voti, una quarantina in più del minimo necessario. Quasi tutti i partiti estremisti hanno votato contro di lei, segnando una chiara linea di demarcazione tra maggioranza e opposizione. L’opposizione resta divisa tra il gruppo dei “Conservatori e Riformisti Europei” (ECR) guidato fino allo scorso anno da Giorgia Meloni, il neonato gruppo “Patrioti per l’Europa”, al quale appartiene anche la Lega, e il gruppo “Europa delle nazioni sovrane” guidato da Alternative für Deutschland (AfD). Per tenere salda la maggioranza, è stato applicato il “cordone sanitario”, che impedisce ai rappresentanti dei “Patrioti per l’Europa” e dell’”Europa delle nazioni sovrane” – ma non a ECR – di assumere posizioni rilevanti nelle commissioni del Parlamento europeo. Allineamenti alternativi alla maggioranza, in particolare tra PPE e ECR, si sono già verificati, ad esempio per il rinvio e l’indebolimento della legge sulla deforestazione nel novembre 2024, e non è escluso che si ripetano nel corso di questa legislatura. 

Mutano le diverse composizioni degli organi politici

Anche al Consiglio europeo si registra uno spostamento a destra. Con le elezioni in Belgio e in Germania, il numero dei rappresentanti di ECR equivale a quello dei rappresentanti dei Socialisti e Democratici, mentre la maggioranza resta salda in capo al PPE. Trovare il consenso a 27 sta diventando sempre più complicato, tant’è vero che negli ultimi Vertici è stato necessario ricorrere ad espedienti di vario tipo per far passare decisioni necessarie ed urgenti: ad esempio quando il leader ungherese Orban è uscito dalla sala per permettere al Consiglio europeo di votare l’avvio dei negoziati di adesione di Kyiv, oppure allegando alle conclusioni formali dei Vertici le deliberazioni sul sostegno all’Ucraina concordate a 26, di nuovo senza l’Ungheria. E questa tendenza è destinata ad accentuarsi nella prospettiva di un ulteriore allargamento. 

L’attivismo estremo della Commissione

Anche la composizione della nuova Commissione voluta dalla Presidente von der Leyen presenta alcuni elementi nuovi, tra i quali il più evidente è un’estrema frammentazione delle competenze tra i Commissari sui principali dossier. Ne sono un esempio il Clean Industrial Deal, che ricade sotto ben tre Commissari: Teresa Ribera, Vicepresidente esecutiva per la transizione pulita, giusta e competitiva, Stéphane Séjourné, Vicepresidente esecutivo per la prosperità e la strategia industriale e Wopke Hoekstra, Commissario per il clima, l’azzeramento delle emissioni nette e la crescita pulita. Oppure il Libro Bianco sulla Difesa, che è nelle mani di Kaja Kallas, vicepresidente, Alta rappresentate per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Andrius Kubilius, Commissario per la difesa e lo spazio. Di recente, il gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo ha promosso un’interrogazione in cui si contesta che “non esiste un Commissario designato con un portafoglio chiaro per il mercato interno e la tutela dei consumatori”. Avere incarichi in parte sovrapponibili e con obiettivi comuni rende poco chiari i limiti entro i quali ciascun Commissario riesce ad operare, e finisce per accentrare il processo decisionale nelle mani della Presidente von der Leyen. Questa tendenza è stata confermata anche dalla decisione di von der Leyen di istituire 14 “Gruppi di progetto” composti dai diversi Commissari che si occupano di definire iniziative e coordinare il lavoro nelle diverse aree prioritarie d’azione della Commissione. 

Questo marcato rafforzamento delle prerogative della Presidente della Commissione sta influenzando anche le dinamiche inter-istituzionali, realizzando fughe in avanti potenzialmente anche a scapito dei centri di potere intergovernativi. Un ambito in cui questo è particolarmente marcato è quello della difesa, un settore che è ancora di competenza prevalentemente nazionale e in cui le principali decisioni sono soggette alla regola del consenso in sede in Consiglio europeo e Consiglio dell’Unione europea. La Commissione, sfruttando al massimo le sue prerogative in tema di politica industriale della difesa, ha prima istituito il nuovo ruolo di Commissario per la difesa e ha poi proposto due iniziative di primo piano per rispondere alle esigenze di un maggiore impegno europeo: il piano RearmEu, poi ridenominato Readiness 2030, e il Libro Bianco sulla Difesa. Gli Stati membri riuniti in Consiglio e Consiglio europeo hanno reagito sostenendo queste iniziative, ma avanzando anche diverse critiche e richieste di modifica. In generale, quello che emerge è un attivismo estremo della Commissione, senza però una chiara copertura politica dei 27 Stati membri. Invece di tradursi in un rafforzamento della dimensione sovranazionale delle politiche europee, l’attivismo della Commissione rischia di produrre un disequilibrio nell’architettura istituzionale e in un mancato impegno politico da parte delle capitali in iniziative comuni, aumentando le già significative spinte centrifughe che arrivano da dentro e da fuori l’Unione.

Per resistere all’impatto di queste trasformazioni, la nuova leadership europea dovrebbe imparare rapidamente a navigare nel nuovo ambiente politico e pensare seriamente di mettere in cantiere una serie di riforme istituzionali quanto mai necessarie per superare lo stallo nel processo decisionale intergovernativo, riformare la composizione della Commissione anche con un ridimensionamento del numero dei Commissari, bilanciare in modo più funzionale le prerogative delle diverse istituzioni. Insomma, in questa legislatura l’Unione europea si muove in bilico tra nuovi equilibri e rischi di frammentazione. Alla fine, come sempre, la funzionalità delle procedure decisionali e la chiara definizione delle rispettive responsabilità saranno essenziali per realizzare le politiche nei vari settori e sostenere la competitività europea. Jean Monnet diceva: “Niente è possibile senza gli uomini, niente dura senza le istituzioni”.

La guerra dei dazi di Trump e le risposte europee

Mar, 04/08/2025 - 00:00

A poco più di dieci settimane dall’inizio del suo mandato, il Presidente Donald Trump ha annunciato una guerra commerciale verso il mondo con una messe di dazi che non ha precedenti nel secondo dopoguerra. L’Europa è tra le maggiori vittime, accusata ripetutamente da Trump di aver biecamente sfruttato in passato il grande e ricco mercato americano. Le importazioni dall’Europa verranno gravate di dazi del 20%, dopo le tariffe del 25% introdotte dall’Amministrazione americana sulle importazioni di acciaio e alluminio e, più di recente, su quelle di automobili.

Le ragioni economiche avanzate dall’Amministrazione americana per giustificare tali nuove pesanti misure (deficit commerciale americano e protezionismo europeo) risultano del tutto inconsistenti, se analizzate con attenzione. È vero che l’Unione ha accumulato, negli anni, un surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti di entità rilevante. Ma considerando l’intera bilancia dei pagamenti correnti – come si deve fare – e includendo quindi il surplus statunitense nel settore dei servizi (109 miliardi di euro), il saldo complessivo tra Ue e Usa risulta pressoché in equilibrio. Anche sotto il profilo dei dazi reciproci, al centro delle accuse americane, le differenze sono minime: la tariffa media ponderata americana è del 2,2%, contro il 2,7% europeo.

Dietro l’apparente crociata economica, c’è dunque altro. È una visione di politica internazionale, una sorta di realpolitik, ben più aggressiva e mirata a rivoluzionare gli equilibri globali. Donald Trump è da sempre convinto che l’ordine economico liberale dei passati decenni con le sue regole e istituzioni e, in particolare, il sistema commerciale multilaterale, abbiano depredato e reso vulnerabile l’economia americana, soprattutto nei confronti di rivali strategici come la Cina. Vanno dunque abbattuti e sostituiti con un sistema di rapporti bilaterali, peraltro ancora abbozzato in modo vago dal Presidente americano, in cui Washington possa esercitare la propria supremazia economica e militare ricavandone vantaggi cospicui e di varia natura. Lo tsunami dei dazi del 2 aprile è dunque l’annuncio di un’offensiva su scala globale che apre una fase di inusitata incertezza economica e politica.

Verso un negoziato duro, lungo e difficile

Nel chiedersi come debba e possa rispondere l’Europa, va innanzi tutto ricordato che tra le grandi aree mondiali l’economia europea è quella più aperta agli scambi internazionali. Difendere e consolidare questa profonda integrazione con l’economia mondiale è un’assoluta priorità europea.

Tre appaiono le direttrici lungo cui l’Unione dovrebbe muoversi per cercare di mitigare i danni della guerra scatenata da Trump. La prima è affrontare con determinazione l’Amministrazione americana sul terreno dei dazi, mantenendo una linea negoziale dura e coesa. In qualsiasi buon manuale di politica commerciale si afferma che di fronte a misure protezionistiche ingiustificate e vessatorie è legittimo e doveroso reagire, anche per poi negoziare. La Commissione europea deve dunque approntare dei propri dazi e altre misure restrittive in risposta alle iniziative americane. D’altra parte, soltanto la minaccia di una ritorsione dura anche se appropriata può spingere l’Amministrazione americana ad aprire un negoziato, all’insegna del do ut des, che ha finora rifiutato. E se l’Unione resterà compatta – un dato peraltro non scontato – la sua forza commerciale sarà tale da essere in grado di contrastare l’aggressività di Washington.

La difesa del sistema aperto e il completamento del Mercato interno

La seconda strada da seguire è rafforzare e ampliare la rete di accordi commerciali dell’Unione diversificando ulteriormente i partner che ne fanno parte. Un accordo transattivo con l’amministrazione statunitense non può essere in effetti sufficiente, per quanto resti importante per cercare di evitare una guerra dei dazi che, oltre a punire chi la scatena (stagflazione) – come insegna la storia –, finisce per danneggiare tutti. Proprio perché così aperta, l’Europa deve continuare a espandere e consolidare la rete di accordi bilaterali, regionali e multilaterali costruita in questi anni. Va così rafforzata la cooperazione commerciale sia, ad esempio, con i grandi paesi dell’Asia del Pacifico, colpiti da dazi ancor più pesanti di quelli europei, sia con economie emergenti come India, Indonesia e Brasile, che hanno ormai assunto un ruolo chiave e condividono l’interesse a mantenere un sistema commerciale aperto e regolato. Al riguardo, l’accordo con i paesi del Mercosur in America Latina andrebbe ratificato al più presto dal Consiglio europeo, e il voto dell’Italia – va ricordato – sarà determinante.

Per quanto gli Stati Uniti restino un mercato fondamentale, essi rappresentano ormai solo il 13% delle importazioni mondiali: si apre così per l’Europa un ampio spazio per diversificare i suoi legami commerciali e sostenere un sistema internazionale aperto e regolato. È un percorso, quest’ultimo, già avviato nei mesi scorsi dalla Commissione von der Leyen e che va proseguito con forza.

Infine, un terzo fronte di risposta, spesso trascurato ma cruciale, riguarda il mercato interno europeo. Le barriere commerciali tra i paesi membri sono ancora troppo elevate: secondo il FMI, equivalgono in media a una tariffa del 44% per gli scambi di merci (agricoltura esclusa) e addirittura del 110% per quelli di servizi. Le cause sono molteplici, come la presenza di regimi nazionali frammentati in settori chiave quali, ad esempio, gli appalti pubblici. Una conseguenza è che il commercio intraeuropeo è oggi meno della metà di quello all’interno degli Stati Uniti.

Eliminare questi ostacoli e completare l’integrazione del Mercato interno non solo rafforzerebbe la coesione economica dell’Unione, ma rappresenterebbe anche un’occasione per rilanciare la domanda interna e la crescita europee, con più consumi e investimenti. Finora le forti resistenze di alcuni Paesi membri hanno impedito una maggiore integrazione. L’offensiva di Trump potrebbe forse convincerli ad agire diversamente.

I dilemmi dell’Italia di Giorgia Meloni tra Washington e Bruxelles

Mar, 04/08/2025 - 00:00

Infantile” e “superficiale”: così la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha recentemente bollato l’idea che l’Italia sia chiamata a compiere una scelta tra gli Stati Uniti di Donald Trump e l’Europa. Al contrario, secondo Meloni, mantenere un fronte euroatlantico unito e solido sarebbe “nell’interesse di tutti”. In quest’ottica, la presidente del consiglio ha rimarcato a più riprese la propria disponibilità a “evitare uno scontro” e a “costruire ponti” tra le due sponde dell’Atlantico. 

Alla base degli sforzi di Meloni per evitare un disallineamento tra Washington e Bruxelles c’è il desiderio di preservare l’architettura complessiva della politica estera italiana. Dal 1945 a oggi, il rapporto con gli Stati Uniti – a garanzia anzitutto della sicurezza del paese – e quello con gli alleati europei – volano dello sviluppo economico, sociale e civile – hanno rappresentato le due direttrici fondamentali della politica estera di Roma. Nei primi due anni del suo governo, Meloni aveva potuto beneficiare di una ritrovata convergenza tra Washington e Bruxelles sotto l’amministrazione di Joe Biden, non a caso da alcuni vista in prospettiva come “l’ultima presidenza atlantista”. Il ritorno di Donald Trump alla Casa bianca ha molto rapidamente portato a forti tensioni transatlantiche ad ampio spettro: dalle rimostranze Usa per il gap nelle spese per la difesa all’annuncio dell’introduzione di dazi doganali sulle importazioni dall’Europa, dalle dichiarazioni aggressive del neopresidente sulla Groenlandia sino alla gestione unilaterale da parte di Washington del cruciale dossier ucraino.

I nuovi scenari aperti dalla Presidenza Trump pongono un dilemma al governo di Giorgia Meloni. Da un lato, motivazioni di carattere strategico ed economico impongono di mantenere un ancoraggio saldo ai partner europei e a Bruxelles. Dall’altro, affinità ideologiche ma anche la concorrenza politica all’interno del governo italiano da parte di Matteo Salvini – lesto a schierarsi con Washington sui vari dossier – spingono a evitare una frattura con Washington. Di fronte all’impossibilità di prendere nettamente una posizione, quella di cercare di ergersi a pontiera tra le due sponde dell’atlantico è per Meloni in un certo senso un’aspirazione forzata – ma non per questo necessariamente realistica.

Il “radicalismo pragmatico” di Meloni…

Fino all’insediamento di Trump, l’investimento politico di Meloni su un ruolo da interlocutore privilegiato con Washington sembrava una scommessa potenzialmente vincente. A gennaio, la presidente del consiglio era stata l’unico capo di governo dell’UE a essere invitata alla cerimonia di insediamento a Capitol Hill – una visita presentata come un successo in Italia e in Europa.

La popolarità di Meloni a Washington non dovrebbe sorprendere. Nei suoi primi due anni di governo, la presidente del consiglio ha saputo dosare con maestria moderazione e prese di posizione più radicali, assurgendo in qualche modo a nuovo modello globale per la destra al potere.

In Italia, la premier si è destreggiata abilmente tra le critiche dei progressisti che l’avevano dipinta come fascista e come un pericolo per l’Europa. La comunicazione di Meloni ha valorizzato i suoi tratti distintivi: quelli di una madre che si è fatta da sé e che lavora sodo e di primo ministro donna che ha cura della propria immagine, marcando così una netta rottura con la schiera di leader italiani tutta al maschile (a prescindere dal colore politico) degli ultimi ottant’anni.

Giorgia Meloni ha adottato un approccio più assertivo o dialogante, a seconda delle circostanze. Nei rapporti con i leader internazionali, è rimasta fedele al tradizionale posizionamento euroatlantico dell’Italia, membro fondatore dell’Ue e della Nato. Rivolgendosi al suo elettorato, invece, la presidente del consiglio ha lasciato intendere di ispirarsi a una visione di fondo nazionalista e a un approccio transazionale al multilateralismo e alla politica mondiale. “L’Italia farà sentire con forza la sua voce [in Europa], come si conviene a una grande nazione fondatrice”, ha affermato Meloni nel suo primo discorso da Primo Ministro al Parlamento italiano.

La politica estera del governo Meloni prende le mosse da una precisa gerarchia di principi. Gli interessi vengono prima dei valori, l’interesse nazionale prima dell’integrazione europea e dei fora multilaterali, le relazioni personali prima dei canali istituzionali, la crescita economica prima degli obiettivi climatici. Gli accordi a breve termine, che possono essere fonte di consenso a livello interno, sono prioritari rispetto alle soluzioni a lungo termine. Questa dinamica è stata sintetizzata ricorrendo al concetto piuttosto fumoso di “pragmatismo”, che significa tutto e il contrario di tutto. È una ricetta che non offre risposte globali e di ampio respiro, ma che funziona benissimo per restare al potere. Non a caso, a differenza di Emmanuel Macron e Olaf Scholz, Giorgia Meloni è stata uno dei pochi leader dell’UE il cui partito ha aumentato i propri voti nelle elezioni europee del 2024. Nei mesi immediatamente successivi, lo standing internazionale di Meloni è sembrato essere cresciuto a tal punto da venire definita da Politico “la persona più influente in Europa “.

Il “radicalismo pragmatico” di Meloni sta avendo una certa risonanza anche all’estero, all’interno di quel network globale che sta rapidamente prendendo forma tra i leader di destra radicale al governo. I politici della destra al potere non sono solo ideologicamente vicini tra loro, ma stanno anche imparando l’uno dall’altra le migliori pratiche per rimanere in sella. Giorgia Meloni può senz’altro offrire alla destra globale ispirazione in termini di leadership e pratiche di governo. Ma in un mondo in cui il mero perseguimento degli interessi nazionali diventa la regola, il conto da pagare per l’Italia potrebbe essere salato.

… e i mali strutturali dell’Italia

In un certo senso, Meloni potrebbe essere tentata di fare il passo più lungo della gamba. Infatti, il paese di cui è presidente del consiglio deve fare i conti con una serie di problemi strutturali che, lungi dall’essere colpa solo di questo o quel governo, risalgono ad almeno tre decenni fa e saranno destinati ad aggravarsi nei prossimi anni. Il rapporto tra debito pubblico e PIL italiano era stimato a oltre il 136% a fine 2024, il secondo più elevato di tutta l’Ue, e si prevede che sia destinato ad aumentare ulteriormente nel prossimo futuro. La crescita economica del Paese è fiacca – stimata allo 0,8% nel 2025 – e, soprattutto, trainata dai massicci investimenti (per un totale di 194,4 miliardi di euro) previsti dal piano di ripresa e resilienza finanziato dall’Ue, che tuttavia si concluderà nel 2026. In una prospettiva a più lungo termine, le tendenze demografiche pongono vincoli sostanziali all’economia del Paese: l’invecchiamento della popolazione richiederà una spesa pubblica crescente sia per le pensioni che per la sanità per almeno in prossimi dieci-quindici anni. Di conseguenza, a causa degli scarsi margini di manovra a livello di bilancio, Roma dovrà necessariamente mantenere un dialogo costruttivo con Bruxelles e i partner europei, cercando forme di investimento e di sostegno finanziario a livello comunitario.

Il governo italiano deve fare gioco forza i conti con limiti strutturali alle proprie capacità d’azione non solo a livello macroeconomico, ma anche – in qualche modo conseguentemente – in ambito diplomatico e di sicurezza. Rispetto a Francia, Germania e Regno Unito, la rete diplomatica italiana dispone di meno sedi all’estero, meno personale e dotazioni finanziarie inferiori. La carenza di personale, in particolare, riduce il tempo e l’attenzione che è possibile dedicare ai singoli dossier di politica estera, rendendo difficile tradurre le grandi visioni delineate dai vertici politici in una strategia completa e concretamente perseguibile.

In maniera analoga, sulla base dei dati della Nato, la spesa per la difesa dell’Italia in percentuale sul PIL si attestava all’1,49 per cento nel 2024, un dato molto più basso del 2,33 per cento del Regno Unito, del 2,12 per cento della Germania e del 2,06 per cento della Francia. Le difficoltà italiane a raggiungere la soglia del 2% di spesa per la difesa stabilita a livello Nato oltre dieci anni fa mette il Paese in una posizione difficile nei confronti degli alleati transatlantici – tanto più che la nuova amministrazione statunitense ha già lanciato chiari segnali riguardo a una possibile revisione al rialzo degli impegni degli alleati in materia di sicurezza collettiva.

Trumpismo o multilateralismo: una scelta ineludibile

Se in un primo momento si era ipotizzato che il nostro paese potesse trarre qualche beneficio di breve termine dalle affinità ideologiche tra Meloni e Trump, l’annuncio da parte dell’amministrazione statunitense di pesanti dazi verso l’Unione europea a inizio aprile è stata una doccia fredda per Roma. Con ogni probabilità il governo italiano proseguirà nei suoi sforzi per mantenere aperto un dialogo con Washington; in questo senso, la probabile visita del vicepresidente JD Vance in Italia a fine aprile potrebbe rappresentare un’occasione per tentare di rimettere l’Italia al centro dei rapporti transatlantici. Data la complessità dello scenario globale e il massimalismo delle posizioni dell’amministrazione Trump, tuttavia, quella di fare da pontieri appare un’impresa assai ardua per Roma. Se le aperture verso Washington dovessero poi finire per tradursi in un allineamento di stampo ideologico alle prese di posizione radicali contro l’unità europea e il sistema multilaterale della nuova amministrazione Usa, ciò, anziché “far tornare grande l’Italia”, farebbe più male che bene al nostro paese.

Dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia è stata tra i più convinti sostenitori del multilateralismo nelle sue varie manifestazioni, e non per caso. Attraverso il proprio supporto all’azione delle Nazioni Unite e al processo di integrazione dell’Ue, i governi italiani hanno sostenuto – e fatto leva – sulle istituzioni multilaterali e sull’integrazione europea per rafforzare il prestigio del Paese e temperare i suoi problemi strutturali, giustificando attraverso questo attivismo un certo livello di freeriding su beni comuni globali come la sicurezza collettiva all’interno della Nato.

Nel momento in cui Washington sembra recedere dai suoi impegni globali a favore di una concezione smaccatamente transazionale e incentrata sulla forza delle relazioni internazionali, altri Paesi sono chiamati ad assumersi la loro parte di responsabilità. Per i Paesi europei, ciò significa per l’appunto difendere quei beni comuni – tra cui la sicurezza collettiva – che hanno garantito la loro prosperità postbellica e i loro valori.

In questo scenario, Meloni si sta destreggiando in complicati equilibrismi. Restia a schierarsi apertamente, la presidente del consiglio invoca l’unità dell’Occidente all’interno del quadro atlantico e auspica summit congiunti tra Washington e l’Europa. Ma di fronte a una crisi di sicurezza senza precedenti che incombe sul continente europeo, questi appelli suonano vuoti. La titubanza di Meloni è già stata sottolineata dal presidente francese Macron, che ha espresso il suo auspicio di vedere “un’Italia forte che agisca a fianco della Francia, della Germania, nel concerto delle grandi nazioni”, richiamando esplicitamente l’esempio dell’ex premier Mario Draghi.

L’unilateralismo e il disprezzo per l’Europa dell’amministrazione Trump stanno squarciando il velo del “radicalismo pragmatico” di Meloni, costringendo la premier a mostrare le sue vere intenzioni. Mentre il legame transatlantico è ai minimi storici e il destino dell’Ucraina appare incerto, la presidente del Consiglio è chiamata a una scelta: cercare un confronto con Washington a vantaggio dell’Europa, o scommettere sulla sua vicinanza ideologica alla destra radicale statunitense, minacciando la coesione dell’Ue; rafforzare il suo status di stella della destra radicale globale o riconoscere che l’Italia ha parecchio da perdere da un (dis)ordine globale basato solo sulla forza. Si tratta, in fondo, anche di una scelta tra la presidente del Consiglio e l’Italia: accreditarsi come leader di fiducia di Washington in Europa o privilegiare l’interesse strategico del suo Paese. Una scelta ardua per chi considera nazione e patria come valori fondamentali.

Ora una risposta comune

Mar, 04/08/2025 - 00:00

All’indomani dell’elezione di Donald Trump, alcuni osservatori europei si affrettarono a spiegare che le preoccupazioni per le dichiarazioni incendiarie del presidente eletto erano infondate, dato che esse rientravano in una logica strettamente elettorale e sarebbero state quindi ridimensionate dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Altri raccomandarono di non sottovalutare i progetti trumpiani, in particolare quelli relativi al commercio e alla sicurezza, e le loro conseguenze. Ora dovrebbe essere abbastanza chiaro chi aveva ragione.   

I dazi americani sono arrivati, come preannunciato, e assestano un colpo durissimo alle economie di avversari e alleati. Si salva solo la Russia, mentre gli stessi Stati Uniti pagano subito un prezzo molto elevato. Si valutano le risposte più adeguate, si arriva anche a mettere a fuoco una soluzione ideale, un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, anche se è di là da venire. Suona come una voce fuori dal coro dell’Europa, oggi in preda alle preoccupazioni e all’incredulità, dopo gli annunci con cui Trump ha festeggiato a suo modo “il giorno della liberazione”. Robert Habeck, vice cancelliere e ministro dell’Economia, assegna all’Europa un obiettivo di lungo periodo – un accordo ambizioso, di mutuo interesse per i due lati dell’Atlantico. Non importa che tra qualche settimana non sarà più membro del governo tedesco, quel che rileva è la volontà di reazione del Paese europeo più colpito dai dazi americani e l’impegno a definire un’agenda efficace a tutela dei propri interessi, molto consistenti. 

Occorre un’Unione europea coesa

Se si seguisse la logica, si dovrebbe andare verso una liberalizzazione degli scambi tra due aree economiche già così integrate e imponenti nel mondo. Ma Trump la vede in un altro modo: fissa dazi punitivi a destra e a manca, sconvolge i commerci senza distinguere tra avversari e alleati e senza battere ciglio davanti al costo salato imposto agli stessi Stati Uniti (aumento dei prezzi, inflazione etc.). Per una possibile risposta europea, è da considerare la necessità di una reazione coesa e unitaria dell’Ue, mentre sono da scongiurare ogni furbesca scorciatoia nazionale, foriera di complicazioni ulteriori del quadro, non soltanto economico. L’Europa deve essere capace di dare segnali di fermezza, di predisporre misure adeguate, non fini a sé stesse, non per rappresaglia, bensì come leva per riavviare il dialogo e negoziati indispensabili con gli Stati Uniti. Se possibile, occorrerà ricostituire la fiducia e l’equilibrio. In ogni caso, per sedersi al tavolo della trattativa occorre avere qualche buona carta in mano.

Lo sconcertante spettacolo offerto mercoledì scorso da Donald Trump dal Giardino delle Rose della Casa Bianca e le sue interpretazioni autentiche non sembrano preludere a immediate aperture negoziali né a proiezioni di lungo periodo, addirittura con una meta ideale di libero scambio. Comunque, gli europei cominciano a trarre qualche lezione dalla doccia fredda, attesa, di Washington. Nessuno vuole una guerra commerciale senza precedenti con gli Stati Uniti, il dialogo va ricercato ancor più quando l’orizzonte si rabbuia. L’Europa dovrà serrare i ranghi con misure ben calibrate per avviare su quella base un negoziato, per quanto teso, non per aumentare le tensioni e rischiare una spirale di ritorsioni fuori controllo. Saranno di aiuto anche un’opportuna diversificazione e l’aumento degli scambi europei con Mercosur, Messico e India. 

Vari leader europei e la presidente della Commissione hanno parlato con chiarezza. I dazi di Trump assestano “un colpo durissimo” all’economia mondiale e anche a quella americana, come confermato da tutti gli indicatori. L’Europa, il più grande mercato del mondo, è ancora disorientata di fronte all’abbandono da parte del suo più antico alleato. Oggi si patisce nel commercio, domani il prezzo sarà da pagare nel campo della difesa e sicurezza. Gli avvertimenti non sono mancati. 

Per i dazi, non ci si dovrebbe sorprendere che essi siano diretti senza distinzioni a tutti gli europei. Non sono solo i trattati a imporre una risposta comune dell’Ue, ma la necessità di essere ascoltati ed efficaci. Certo, sull’amministrazione americana potrebbe pesare anche la pressione dissuasiva di settori dell’economia Usa fortemente penalizzati. Tuttavia la difesa dei propri interessi non può essere delegata ad altri né si può sperare in ravvedimenti provvidenziali. Fermezza e dialogo sono gli strumenti necessari in una situazione grave e di estrema incertezza, sempre gravida di rischi pesanti nell’economia e nella politica internazionale. Per questo occorre scongiurarla con ogni mezzo, riconoscendo che chi si spinge fino a considerare l’emergenza come un’“opportunità” si illude e illude pericolosamente quanti cercano invece risposte razionali.

Difesa europea: tempi stretti?

Mar, 04/08/2025 - 00:00

Di difesa europea parliamo sin dagli anni ‘50 del secolo scorso, ma dal rinvio sine die della ratifica del Trattato della Comunità Europea di Difesa, deciso dal Parlamento francese nel 1954, ad oggi, pochissimo è stato fatto, mentre la difesa dell’Europa è divenuta responsabilità pressoché esclusiva della Nato, con un ruolo crescente degli Stati Uniti, sia economico che militare.

Oggi si è aperta una nuova fase, perché gli americani ci fanno sapere, con modi piuttosto bruschi, di non voler più assumersi tanta parte delle spese per assicurare la nostra difesa. Erano partiti dal chiedere che gli alleati europei spendessero almeno il 2% del loro PIL per la difesa, ma ora parlano anche di un mirabolante 5,5%. 

Comunque la si rigiri, il punto è che il determinante contributo americano alla difesa e sicurezza dell’Europa non è più garantito: dipenderà da come ci comporteremo alla corte del nuovo re. 

I primi a scoprire quanto scomoda sia questa situazione sono stati gli ucraini che hanno visto improvvisamente bloccarsi sia l’arrivo di nuovi armamenti che, soprattutto, il vitale flusso di Intelligence che permette loro di resistere efficacemente agli attacchi russi. L’aiuto americano è stato riattivato non appena gli ucraini si sono piegati al diktat di Donald Trump, che ha imposto loro di accettare l’avvio di negoziati indiretti, in cui gli americani parlano con i russi e con gli ucraini separatamente e decidono sui compromessi possibili. Il fatto che finora non si sia arrivati a nulla è il segnale della durezza di Mosca più che della solidarietà americana con Kyiv. I russi sembrano aspettarsi di raccogliere al tavolo negoziale quella vittoria totale che non hanno guadagnato sul campo di battaglia. Il tutto puntando sul desiderio di Washington di chiudere quanto prima questa partita.

Gli USA incrementano le insicurezze dell’Europa

Non sappiamo come andrà a finire, ma nel frattempo la diffidenza europea nei confronti dell’alleato americano cresce. Così si rafforza la percezione che bisogna rapidamente fare qualcosa di concreto. Ciò sta in parte avvenendo sul piano finanziario (dai piani di spesa tedeschi alle proposte di Rearm Europe della Commissione), ma è ancora embrionale sul piano operativo, che è invece quello essenziale se si vuole recuperare credibilità nei confronti sia della Russia che degli Usa.

Ma questa situazione di attesa non può durare troppo a lungo. Il passare dei giorni accresce il rischio di divaricazioni importanti tra le scelte dei singoli governi nazionali, sotto la spinta di evoluzioni specifiche dei vari elettorati, o per adattarsi ad altre sfide. È chiaro, ad esempio, che un aggravarsi della “guerra dei dazi” verrà vissuta in modo diverso dai singoli paesi e che questo potrà influire sulla loro solidarietà reciproca. Altre divisioni potrebbero insorgere se si dovesse porre mano alle politiche sanzionatorie nei confronti della Russia e di altri paesi. È insomma urgente cominciare a prendere decisioni significative.

Sul piano operativo l’iniziativa europea deve partire dall’ambito Nato, più che dall’Ue, perché è la Nato che assicura la difesa delle frontiere orientali e la deterrenza nei confronti della Russia. Dovrà quindi essere un gruppo di paesi membri della Nato a dare il via a una missione specifica comune europea per la difesa a Oriente, dal Circolo polare artico al Mar Nero. Il programma deve essere quello di assicurare una capacità difensiva credibile anche in assenza del contributo americano, senza naturalmente in alcun modo voler scusare gli americani per una loro eventuale mancanza.

Per far questo nel modo migliore sarebbe bene passare anche attraverso quella integrazione e razionalizzazione del mercato interno europeo della difesa di cui si parla nella Lettera di intenti firmata trent’anni or sono dai maggiori paesi europei. Ma in primo luogo sarà necessario individuare lo Stato Maggiore in grado di pianificare sia gli aspetti operativi che quelli tecnologici e industriali necessari a una difesa credibile.

Oggi il grosso di queste competenze è nel Comando Supremo alleato in Europa (Shape) guidato da un americano e con la presenza di numerosi funzionari a stelle e strisce. Il loro contributo sarà prezioso, se disponibile, altrimenti si dovrà procedere tra i volenterosi, magari anche coinvolgendo l’embrione di Stato Maggiore esistente nell’Ue. Ma deve essere chiaro che una difesa credibile europea della frontiera orientale è un’operazione militare di enorme impegno, che non può né deve fare a meno delle conoscenze e degli asset comuni dipendenti da Shape.

Non sono decisioni facili, né politicamente né tecnicamente, ma solo cominciando da subito ad esaminarle e discuterle potremo sperare di affrontare con successo l’immenso e gravoso compito che ci aspetta, se vogliamo mantenere l’Europa libera e unita.

L’Europa al confronto con Trump

Mar, 04/08/2025 - 00:00

La politica estera del nuovo Presidente americano è eversiva quanto quella che sta attuando sul fronte interno. È connotata da un approccio esplicitamente transazionale nei rapporti fra Stati, da scarsa considerazione per le regole che presiedevano ai rapporti fra Stati e per le alleanze tradizionali, e dal ricorso spregiudicato alla logica del più forte. In sintesi, Trump sta facendo saltare i tradizionali parametri di riferimento della politica estera americana. Con il risultato di provocare una pericolosa instabilità del contesto internazionale.

Ma Trump sta provocando anche una crisi nel rapporto transatlantico, particolarmente evidente almeno su quattro fronti: misure protezionistiche, guerra in Ucraina, sicurezza e difesa, e più in generale sul tema dei valori e dei principi fondanti.

Le cause dei dazi

La politica commerciale di Trump è caratterizzata da un’autentica ossessione per gli squilibri della bilancia commerciale americana e dalla decisione di utilizzare i dazi sulle importazioni negli Usa come strumento di politica economica. Dopo aver adottato dazi generalizzati sulle importazioni di acciaio, alluminio e, successivamente, auto, Trump ha annunciato il 2 aprile – con una cerimonia tanto spettacolare quanto surreale – nuovi dazi (differenziati e qualificati come “reciproci”) sulle importazioni da circa una sessantina di Paesi, motivati dalla necessità di rispondere a dazi e altre barriere non tariffarie praticate da partner commerciali degli Usa (peraltro calcolati con metodi opinabili). Nell’ottica del Presidente americano, i dazi americani avrebbero il triplice obiettivo di riequilibrare la bilancia commerciale degli Stati Uniti, recuperare risorse finanziarie per ridurre il deficit del bilancio federale, e incentivare investimenti esteri per attività produttive negli Usa.  

Le decisioni annunciate da Trump segnano una svolta di portata epocale e sono destinate a provocare reazioni pesanti sull’economia americana e globale, incertezze sulle scelte degli investitori, e rischi sui mercati finanziari e sulle quotazioni di borsa, con la prospettiva di avvio di una recessione globale. Anche l’Ue è stata colpita con dazi del 20% apparentemente su tutte le importazioni europee negli Usa, che si sommano ai dazi già in vigore su acciaio, alluminio e auto. Sono quindi misure che colpiscono direttamente anche rilevanti interessi europei, rendendo complessivamente più complicato per gli europei trattare con la nuova Amministrazione americana. 

Sulla guerra in Ucraina, Trump, confermando le promesse della campagna elettorale, ha avviato un’iniziativa diplomatica mirata alla ricerca di una cessazione del conflitto. I tentativi di mediazione stanno procedendo tra molte difficoltà. Non è chiaro se a un certo punto Trump dovrà concludere che le condizioni che Putin cercherà di imporre sono inaccettabili. Tuttavia, finora Trump ha spiazzato gli europei aprendo un canale di dialogo bilaterale con Putin, legittimandolo come interlocutore affidabile e dando l’impressione di condividere la narrazione russa sulle origini e responsabilità del conflitto. Ha inoltre deliberatamente escluso gli europei da questa iniziativa, con la prospettiva che questi ultimi – oggi all’oscuro delle vere intenzioni di Trump – possano essere chiamati a svolgere un ruolo dopo un eventuale accordo, sia per la definizione di credibili garanzie di sicurezza per l’Ucraina, che per la sua ricostruzione.

Sul fronte della sicurezza e della difesa, è per ora improbabile che si concretizzi il rischio di un esplicito disimpegno americano dalla Nato. Tuttavia, aumenteranno le pressioni americane sugli alleati europei per una maggiore spesa per la loro difesa. La richiesta non è nuova, ma potrebbe diventare più stringente, al punto da condizionare l’impegno americano per la sicurezza dell’Europa a concreti risultati nella direzione dell’assunzione di maggiori responsabilità da parte degli europei. Ne consegue che appaiono più che legittimi i dubbi sulla stessa credibilità di un’eventuale mobilitazione degli Usa in caso di minacce alla sicurezza degli alleati europei.

Infine l’involuzione autoritaria imposta da Trump sul fronte interno (con gli attacchi alle politiche di inclusione e diversità, ai media e alla magistratura, alle università, agli studi legali, a chiunque osi contestare le politiche dell’Amministrazione americana) rimette in discussione un sistema di valori una volta considerati patrimonio comune dell’Occidente. Tutto ciò rischia di provocare un effetto imitazione anche in Europa, rafforzando i consensi per le formazioni politiche dichiaratamente nazionaliste, sovraniste ed euro-scettiche. Potrebbe inoltre accentuare le divisioni fra Paesi dell’Ue con conseguenze sulla compattezza della posizione dell’Ue.

Il risveglio europeo

Nel frattempo la linea della nuova Amministrazione americana sta stimolando un risveglio di iniziative da parte europea, non tutte lineari, coerenti o istituzionalmente corrette, ma animate dall’intenzione di recuperare un protagonismo da tempo smarrito ma che si impone date le circostanze. Non necessariamente in contrapposizione agli Usa, sui quali, malgrado tutto, si spera di poter contare, ma come tentativo di dare faticosamente sostanza e contenuto all’obiettivo dell’autonomia strategica.

La prima sfida che chiama in causa l’Ue è quella della reazione ai dazi americani. Subito dopo l’annuncio di Trump, la Presidente della Commissione ha dichiarato che le misure minacciate erano sbagliate e dannose per l’economia mondiale. Pur mantenendo aperta l’opzione di una qualche forma di accordo per ridurre l’impatto dei dazi, ha confermato di essere pronta a rispondere con misure analoghe da adottare dopo una consultazione con i Paesi membri. Si apre ora una fase delicata in cui l’Ue dovrà decidere come reagire. Non è da escludere che, oltre ai più tradizionali (e poco efficaci) dazi sulle importazioni americane, possano essere prese in considerazione anche misure mirate a colpire gli interessi delle aziende tecnologiche sul mercato europeo, come limitazioni all’accesso e tassazione dei profitti.

Sulla difesa, gli europei si stanno movendo su due direttrici: un piano di medio-lungo termine di rafforzamento delle capacità militari degli Stati membri come premessa per una futura difesa europea e una serie di iniziative a sostegno dell’Ucraina. Sulla difesa europea, le proposte della Commissione hanno ricevuto un sostegno di principio, accompagnato da critiche, distinguo e condizioni, a conferma che resta molta strada da fare per avviare concretamente un percorso condiviso di rafforzamento delle capacità europee in materia di difesa. Sull’Ucraina, oltre alla conferma del sostegno politico e di nuovi aiuti anche militari (sia pure per un volume di spesa molto inferiore quanto proposto dalla Commissione), sono in discussione varie proposte per un contributo europeo ad un sistema credibile di garanzie di sicurezza all’Ucraina che dovrebbero costituire parte integrante di un auspicabile accordo sulla cessazione del conflitto.

Sono ancora piccoli passi nella direzione giusta di un recupero di protagonismo in un contesto particolarmente difficile per l’Europa. Sul piano degli annunci le intenzioni sono quindi buone. In concreto l’Ue dovrà fare i conti con le complessità dei suoi processi decisionali e con le difficoltà di far convergere scelte e sensibilità dei Governi nazionali.