

L’escalation tra Israele e Iran e il ruolo degli Stati Uniti
L’Ambasciatore Michele Valensise, Presidente dello IAI, è intervenuto a Spazio Transnazionale, il programma di Radio Radicale condotto da Francesco De Leo. Valensise ha commentato l’escalation del conflitto tra Israele e Iran, analizzando il ruolo degli Stati Uniti e la posizione del Presidente Trump, sottolineando anche le forti incertezze che gravano sul piano regionale, soprattutto in caso di un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti.
Il nucleare iraniano nel mirino degli attacchi
Ludovica Castelli, ricercatrice del programma Multilateralismo e governance globale dello IAI ed esperta di non proliferazione e disarmo, è intervenuta a Spazio Transnazionale su Radio Radicale, condotto da Francesco De Leo. Castelli ha commentato i recenti sviluppi del programma nucleare iraniano, soffermandosi in particolare sugli attacchi ai siti di arricchimento e sulle implicazioni per la sicurezza internazionale.
Il conflitto Israele-Iran, influenza USA e dinamiche regionali
Maria Luisa Fantappiè, responsabile del programma Mediterraneo, Medio Oriente e Africa dello IAI, è intervenuta a Spazio Transnazionale, programma di Radio Radicale condotto da Francesco De Leo. Fantappiè ha analizzato gli sviluppi del conflitto tra Israele e Iran, approfondendo la strategia militare israeliana e i suoi obiettivi, il ruolo svolto dall’Amministrazione Trump e quello dei Paesi del Golfo. Fantappiè ha inoltre dialogato con il viceministro degli Affari Esteri Edmondo Cirielli.
Il conflitto tra Iran e Israele e il ruolo dell’AIEA
Ettore Greco, vicepresidente vicario dello IAI, è intervenuto a Spazio Transnazionale su Radio Radicale, condotto da Francesco De Leo. Greco ha analizzato gli ultimi sviluppi del conflitto tra Iran e Israele in Medio Oriente, soffermandosi sugli obiettivi dell’azione militare israeliana e sul ruolo dell’AIEA.
I Kultaranta Talks 2025 iniziano con il tema “L’ordine mondiale in evoluzione”
Il Presidente della Repubblica di Finlandia, Alexander Stubb, ospita l’edizione 2025 dei Kultaranta Talks (Dialoghi di Kultaranta) il 16 e 17 giugno presso la residenza presidenziale estiva di Naantali. Il tema dei dibattiti di quest’anno sulla politica estera e di sicurezza è ” L’ordine mondiale in evoluzione: il vecchio incontra il nuovo” . Queste discussioni su argomenti di grande attualità cadono in un momento alquanto difficile nel panorama politico internazionale e contribuiscono ad approfondire tematiche molto impellenti e problematiche.
L’evento di due giorni, inaugurato nel 2013, inizia con una giornata internazionale dedicata agli attuali cambiamenti nell’ordine mondiale. Il primo giorno, i dibattiti sono moderati dai giornalisti Fareed Zakaria e Francine Lacqua; il secondo giorno si concentra sul ruolo della Finlandia in un mondo in continua evoluzione e sull’equilibrio tra un approccio basato sui valori e uno realistico nella politica estera finlandese; i dibattiti sono moderati dalla giornalista Seija Vaaherkumpu.
I dialoghi di Kultaranta sono inaugurati dal Presidente Stubb lunedì 16 giugno, che successivamente prende parte al primo dibattito della giornata, intitolato ” L’Europa tra le onde d’urto” , insieme al Presidente della Lettonia Edgars Rinkēvičs e al Presidente dell’Estonia Alar Karis.
La seconda discussione, pomeridiana, riguarda il tema “Accumulazione di shock a livello globale: cosa dovrebbe capire l’Occidente” . Il panel include Elina Valtonen, Ministro degli Affari Esteri della Finlandia; Musalia Mudavadi, Primo Segretario di Gabinetto del Kenya; Arnoldo André Tinoco, Ministro degli Affari Esteri del Costa Rica; Olushegun Adjadi Bakari, Ministro degli Affari Esteri del Benin e Russ Jalichandra, Vice Ministro degli Affari Esteri della Thailandia.
La seguente terza sessione, “Politica di sicurezza: transizioni transatlantiche”, ha come relatori Rachel Ellehuus, Direttore Generale del Royal United Services Institute; Camille Grand, Vice Direttore dell’European Council on Foreign Relations (ECFR); il Tenente Generale (in pensione) Ben Hodges, ex Comandante dell’Esercito degli Stati Uniti in Europa, e Claudia Major, Vicepresidente Senior del German Marshall Fund.
Il titolo del quarto e ultimo dibattito della giornata è ” Relazioni internazionali: gestire le interdipendenze”. Il tema viene affrontato da Carl Bildt, Co-Presidente dell’European Council on Foreign Relations; Mathias Döpfner, Presidente e CEO di Axel Springer SE; Børge Brende, Presidente e CEO del World Economic Forum, e Jeremy Shapiro, Direttore della Ricerca dell’European Council on Foreign Relations.
Martedì 17 giugno il programma prosegue con il Presidente Stubb e Jussi Halla-aho, Presidente del Parlamento finlandese, che discuteranno di valori o realismo e di come queste due prospettive possano essere bilanciate nella politica estera finlandese.
La seconda sessione della giornata tratta le questioni relative alla Finlandia nel mondo multipolare; l’argomento è discusso da Mikko Hautala, Responsabile delle Relazioni Geopolitiche e Governative di Nokia Corporation; Risto EJ Penttilä, Segretario Generale della European Business Leaders’ Convention, e Iida Tikka, giornalista.
L’ultimo dibattito prende in esame la Finlandia nel mondo multilaterale, con previsiti interventi di Li Andersson, deputata del Parlamento europeo; Elina Kalkku, ambasciatrice e rappresentante permanente della Finlandia presso le Nazioni Unite, e Taneli Lahti, direttore per le questioni globali del Servizio europeo per l’azione esterna. Il Presidente Stubb conclude l’evento.
I Kultaranta Talks riuniscono circa 140 esperti e professionisti invitati provenienti da diversi settori della società. Tra questi, politici nazionali e internazionali, accademici, amministratori pubblici, rappresentanti del commercio e dell’industria, attori della società civile e membri dei media. Dopo una pausa di due anni, i dibattiti si svolgono nuovamente presso la residenza estiva del Presidente, Kultaranta, dove nell’ottobre 2024 sono stati completati ampi lavori di ristrutturazione del parco e dell’edificio principale.
La società radiotelevisiva finlandese YLE trasmette i Kultaranta Talks in diretta su Yle TV1 e Yle Areena.
Rischi, costi e posta in palio dell’attacco israeliano all’Iran
È difficile sottostimare la rilevanza dell’attacco di Israele all’Iran della notte fra 12 e 13 giugno per la sicurezza regionale e internazionale.
L’esito dell’attaccoIsraele ha ucciso il capo delle forze armate Mohammad Baqeri e soprattutto Hossein Salami, il comandante delle Guardie della Rivoluzione Islamica, il corpo paramilitare che controlla la politica di sicurezza regionale dell’Iran. Ha anche ucciso due fra i maggiori scienziati nucleari iraniani e Ali Shamkhani, il principale consigliere diplomatico della guida suprema Ali Khamenei. Nel frattempo ha bombardato un centinaio di obiettivi, da centri nucleari alle difese antiaeree, centri di comando e controllo e fabbriche di produzione di armi.
I danni sono ancora da stimare, ma non c’è dubbio che l’operazione sia uno sfolgorante successo militare di Israele, che ha inferto un colpo durissimo al regime clericale contribuendo a paralizzarne la risposta immediata e a indebolirne la solidità. Tuttavia, l’attacco al programma nucleare è stato parziale e certamente non definitivo. Se Israele vuole distruggerlo o seriamente danneggiarlo, dovrà continuare una serie di massicci bombardamenti per giorni se non per settimane.
Il calcolo di IsraeleIsraele ha presentato l’attacco come un’azione preventiva contro la minaccia esistenziale rappresentata dal programma nucleare iraniano. La realtà è ben diversa.
L’Iran non ha un arsenale atomico. Dispone invece di un ampio programma nucleare civile, che però è fonte di legittima preoccupazione a causa del potenziale di diversione militare. Tuttavia, ancora quest’anno l’intelligence americana ha ripetuto la sua valutazione che la leadership iraniana avesse posto fine a un embrionico programma militare nel 2003 e che non abbia preso la decisione di dotarsi di un arsenale atomico.
In realtà, più che come base per un deterrente l’Iran ha usato il programma nucleare come leva negoziale nei rapporti coi suoi nemici, Stati Uniti in testa. Non è un caso che l’attacco sia giunto tre giorni prima di un sesto round negoziale fra Iran e Stati Uniti, in programma a Muscat, in Oman, il 15 giugno.
L’obiettivo del premier israeliano Benjamin Netanyahu è quello di uccidere ogni chance di diplomazia nucleare, come dimostra l’assassinio di Shamkhani, il principale sostenitore del negoziato. L’intenzione è privare gli iraniani di ogni incentivo a sedersi al tavolo. Non ci sono ancora conferme, ma sembra che il round di Muscat sia annullato.
Trump nell’angoloL’Amministrazione americana ha dichiarato che quella israeliana è un’azione unilaterale. Il presidente Donald Trump, che non più di qualche ora fa era tornato a esprimersi con cauto ottimismo sulle prospettive di un accordo (in una delle sue numerose oscillazioni a riguardo), ha esortato gli iraniani a sedersi al tavolo prima che sia troppo tardi.
La sua speranza è che l’attacco israeliano spaventi al punto la Repubblica islamica da renderla malleabile alla richiesta massimalista di smantellare il programma di arricchimento dell’uranio, la parte più complicata, costosa e sensibile di un programma nucleare che può essere dirottata ad usi militari (dipende dal livello di arricchimento).
Trump ritiene che gli americani possano credibilmente sostenere di essere estranei all’attacco, nonostante ne fossero informati e non abbiano fatto nulla per bloccarlo prima ancora che si tenesse il prossimo round negoziale.
È difficile individuare un senso strategico in questo approccio. Se Trump avesse imposto a Israele di aspettare l’eventuale fallimento del negoziato, avrebbe dato credito alla sua pretesa di essere un uomo di pace ma anche rafforzato la sua reputazione di essere pronto alla forza per portare gli avversari a più miti consigli. Soprattutto, avrebbe dato l’impressione di essere lui in controllo.
Invece, ora si trova a dover fare i conti con un regime umiliato e che ha perso quel poco di fiducia che aveva ancora in Washington. Concedendo a Israele di attaccare prima del fallimento del negoziato, Trump ha non solo dato una volta ancora un’immagine di un’America debole rispetto a Israele, ma anche ridotto la capacità d’azione degli Stati Uniti, che ora dipendono più di prima da quanto farà l’Iran.
La risposta dell’IranLa risposta dell’Iran, già annunciata e in piccola parte messa in atto, ha tre possibili dimensioni: una militare, una nucleare e una regionale.
La risposta militare passa in primo luogo per una rappresaglia diretta contro Israele con un attacco con droni e missili. Un’ipotesi è che l’Iran calibri l’attacco in modo da presentarlo come proporzionato a quello subito ed evitare così di dare giustificazione agli Stati Uniti per unirsi ai bombardamenti israeliani. Non si può però escludere che la leadership iraniana voglia portare un attacco più massiccio, ammesso che ne abbia le capacità (e le capacità militari iraniane si sono rivelate piuttosto inefficienti, vista l’estrema vulnerabilità dei vertici militari). È chiaro che in uno scenario di escalation militare, maggiore è la violenza degli scontri e più difficile sarà per gli Stati Uniti restare fuori dal conflitto.
L’Iran potrebbe anche decidere di colpire il personale americano nella regione, puntando sull’avversione di Trump a impegnare gli Stati Uniti in un altro conflitto in Medio Oriente. Ciò detto, per un presidente che vuole apparire duro e risoluto come Trump sarebbe estremamente difficile resistere alla pressione di punire eventuali attacchi iraniani. Anche in questo caso, quindi, l’eventuale coinvolgimento militare degli Stati Uniti non è interamente nelle mani di Washington.
Venendo alla dimensione nucleare, non desterebbe sorpresa se l’Iran nei prossimi giorni dovesse rinunciare ai negoziati con gli americani, negare l’accesso agli ispettori Onu e annunciare il prossimo ritiro dal Trattato di Non-Proliferazione, la base legale sulla quale il suo programma nucleare è diventato oggetto di disputa internazionale. Il programma nucleare iraniano entrerebbe così in una più fitta zona d’ombra nella quale la leadership avrebbe maggiori margini per prendere la decisione se costruirsi o meno la bomba.
In questa situazione di incertezza, le probabilità di un attacco da parte degli Stati Uniti, che da anni hanno fatto dell’atomica iraniana una linea rossa invalicabile, aumenterebbero. Se ciò sia sufficiente a bloccare i progressi nucleari iraniani è però incerto. L’assunto generale è che alla lunga un paese delle dimensioni, capacità industriali e conoscenze nucleari come l’Iran non possa essere fermato nella corsa nucleare.
L’ultima dimensione della risposta è quella regionale. Negli anni passati Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita hanno cercato una distensione con l’Iran dopo aver sofferto sabotaggi delle rotte commerciali nel Golfo di Oman e un attacco diretto contro le centrali petrolifere saudite. Non a caso Riyadh si è affrettata a denunciare l’aggressione israeliana.
Credibilmente l’Iran non intende compromettere le ritrovate buone relazioni coi vicini arabi. Tuttavia, se si dovesse trovare nel prossimo futuro in una situazione disperata, la leadership iraniana potrebbe concludere che la distensione con i paesi arabi non ha prodotto benefici di sicurezza e che pertanto non resta altra opzione che alzare i costi per tutti. Punterebbe a destabilizzare la regione attaccando il traffico commerciale nelle acque del Golfo e colpendo direttamente o attraverso gli Houthi le centrali petrolifere saudite o, nella peggiore delle ipotesi, Dubai. Il coinvolgimento americano non potrebbe che crescere di conseguenza.
Vittoria israeliana, sconfitta regionale?Con l’attacco di stanotte, Israele ha umiliato un nemico e vincolato gli Stati Uniti. La scommessa è che, intimidito o sconfitto, il regime iraniano sia soggiogato. La posta in palio è un sistema regionale fondato sulla supremazia di Israele garantita dal supporto americano.
È una scommessa ad alto rischio, anche perché fino ad ora l’indiscutibile supremazia israeliana non ha prodotto soluzioni politiche di lungo periodo, ma al contrario ha seminato incertezza e insicurezza. È anche una scommessa dagli alti costi, perché Israele ha infranto il più elementare principio di diritto internazionale aggredendo un altro stato senza che vi fosse una minaccia imminente, e ha dato un potenziale colpo fatale al regime di non-proliferazione se davvero l’Iran dovesse decidersi per un deterrente nucleare.
Avendo finalmente ottenuto quella guerra contro l’Iran che ha perorato per trent’anni, Netanyahu è determinato a portarla a compimento. Ma lo sfondo del suo trionfo potrebbero essere le macerie di un ordine regionale a pezzi.
La tragedia di un fallimento del negoziato sul nucleare iraniano
Il ritiro del personale non-essenziale da alcune sedi diplomatiche e basi militari americane nel Golfo Persico è l’ultimo dei segnali che i negoziati fra Stati Uniti e Iran sul programma nucleare di quest’ultimo siano sul punto di arrestarsi. Al fallimento diplomatico seguirebbe un’escalation che potrebbe precipitare in un conflitto che coinvolga gli Stati Uniti, Israele, l’Iran e altri stati della regione. Dopo aver ordinato l’uscita degli Stati Uniti dal precedente accordo nucleare, il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) del 2015, durante il suo primo mandato, il presidente USA Donald Trump presiederebbe così al collasso forse definitivo della diplomazia nucleare con l’Iran. La tragica ironia è che il fallimento avverrebbe in un contesto strategico che, rispetto a dieci anni fa, sembra in realtà più favorevole a un’intesa.
Le premesse strategiche del 2015 e del 2025L’accordo del 2015 si fondava sui seguenti assunti strategici: la dimensione normativa degli impegni di non-proliferazione per creare uno spazio di interazione paritario tra Stati Uniti e Iran; la centralità dell’UE e in particolare dei tra stati europei firmatari dell’accordo, ovvero Francia, Germania e Regno Unito (E3); la natura multipolare dell’accordo, concluso anche da Russia e Cina.
Ma il JCPOA aveva anche punti deboli significativi: l’esclusione dei rivali arabi dell’Iran come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, e soprattutto l’assenza di disposizioni concrete che potessero contribuire a trasformare le relazioni tra Iran e Stati Uniti da conflittuali a stabili, vista anche la forte opposizione all’accordo negli Stati Uniti e in Israele. È su queste basi che Trump decise di ritirarsi nel 2018, aprendo la strada a un periodo di deterioramento delle relazioni con l’Iran.
Nel contesto attuale, un eventuale accordo poggerebbe su presupposti diversi. In primo luogo, Trump e i suoi più stretti collaboratori sembrano vedere l’accordo non solo come uno strumento di non-proliferazione, ma come leva strategica per una distensione a lungo termine.
In secondo luogo, il formato dei negoziati è passato da un quadro multilaterale a uno bilaterale. L’Europa, che pure era stata architetto del JCPOA, ha visto il suo ruolo ridursi. Oggi l’influenza degli E3 è confinata al cosiddetto meccanismo di “snapback”. Quest’ultimo è un residuo del JCPOA che consente la riattivazione delle sanzioni ONU sull’Iran revocate in base all’accordo. Tuttavia, l’attivazione dello snapback sarebbe una mossa una tantum e ad alto rischio. Teheran ha minacciato misure di ritorsione come l’espulsione degli ispettori nucleari dell’ONU e l’intensificazione delle sue attività nucleari.
In terzo luogo, la dimensione regionale è tanto centrale ora quanto era stata trascurata nel 2015. Arabia Saudita e gli Emirati hanno in passato hanno sofferto in prima persona le tensioni tra Stati Uniti e Iran (dal sostegno di quest’ultimo ai ribelli Houthi in Yemen a un attacco contro le centrali petrolifere saudite nel 2019), sono or a favore di un accordo. Quest’ultimo sarebbe ancheuno strumento di stabilizzazione regionale.
Ostacoli politici, soluzioni tecnicheNonostante queste premesse, sussistono ostacoli politici forse insuperabili. Il maggiore rimane la determinazione dell’Iran di mantenere una capacità autonoma di arricchimento dell’uranio, una componente critica di un programma civile che può però essere dirottata verso un uso militare aumentando il livello di arricchimento. Altre questioni includono il regime di ispezioni e i tempi e modi dell’alleggerimento delle sanzioni sull’Iran.
Sebbene sia gli Stati Uniti che l’Iran abbiano mostrato preferenza per una soluzione diplomatica, cinque round di colloqui a Muscat e a Roma non hanno portato a nessun passo avanti significativo. Semmai, la distanza tra le parti sembra essersi ampliata. Dopo aver inizialmente lasciato intendere di essere pronta ad accettare una limitata capacità di arricchimento iraniana, l’amministrazione Usa è via via diventata più intransigente, tanto che per Trump sembra che l’opzione “zero arricchimento” sia un’invalicabile linea rossa.
È possibile che il presidente Usa stia ricorrendo a una tattica negoziale massimalista per strappare all’Iran maggiori concessioni. La decisione di Washington di sostenere una risoluzione di censura dell’Iran, presentata dagli E3, presso l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) sarebbe in linea con questa strategia. La risoluzione fa seguito alla pubblicazione di un rapporto molto critico dell’Aiea, che non solo ha confermato ancora che l’Iran ha sviluppato attività nucleari militari fino ai primi anni 2000, ma ha anche sollevato serie preoccupazioni sulla presenza di una quantità indefinita e non dichiarata di materiale fissile in Iran. Sebbene la risoluzione non preveda il deferimento automatico dell’Iran al Consiglio di Sicurezza Onu, rappresenta un passo preparatorio verso la attivazione dello snapback da parte degli E3.
La maggiore pressione potrebbe forse spingere l’Iran a cooperare di più con l’Aiea, ma il successo della diplomazia dipende dalla disponibilità degli Stati Uniti a scendere a compromessi.
L’amministrazione Trump ha avanzato la proposta di concedere all’Iran di arricchire l’uranio a bassi livelli fino a quando un consorzio regionale, gestito anche dai vicini arabi dell’Iran, non sia operativo. A quel punto l’Iran dovrebbe cessare ogni attività di arricchimento. La leadership iraniana non ha però mai dato segnali di essere disposta a rinunciare all’arricchimento, che considera una fondamentale conquista tecnologica e industriale, per cui ha pagato sopportato decenni di pressione diplomatica, sanzioni, sabotaggi e assassinii di scienziati nucleari.
Il JCPOA fu concluso solo dopo che l’amministrazione Obama accettò una capacità di arricchimento iraniana, sebbene sotto monitoraggio completo e per un decennio e più molto limitata. Il precedente dimostra che l’arricchimento zero non è necessario per creare fiducia nella natura pacifica del programma nucleare iraniano. Ciò che conta è la presenza di vincoli tecnici, di un rigoroso monitoraggio internazionale e di una piena trasparenza per prevenire la diversione militare del programma.
Basi solide, prospettive cupeSe l’Amministrazione Trump dovesse mantenere la sua richiesta di zero arricchimento, spinta dalla percezione che l’Iran è più debole dopo gli scontri con Israele dello scorso anno e su pressioni di Israele stesso e dei suoi sostenitori in Congresso, le prospettive di un accordo potrebbero svanire.
Sarebbe una grande tragedia se il negoziato naufragasse per l’inflessibilità degli Stati Uniti. Percependo, o sostenendo, di aver esaurito l’opzione diplomatica, l’Amministrazione Trump potrebbe decidersi a bombardare gli impianti nucleari iraniani. Il rischio di instabilità regionale aumenterebbe a dismisura, perché è difficile che l’Iran stia a guardare. In rappresaglia, potrebbe attaccare di nuovo Israele, dirigere i suoi alleati a colpire le forze americane nell’area e minacciare le linee di navigazione commerciale nel Golfo.
La tragedia sarebbe ancora più grande non solo perché è evitabile, dato che entrambe le parti vogliono evitare un conflitto, ma perché le basi per un accordo sostenibile sono in realtà più solide oggi di quanto non fossero dieci anni fa.
Tra Cina e USA, Ucraina e tensioni interne negli Stati Uniti
L’Ambasciatore Michele Valensise, Presidente dello IAI, è stato ospite della trasmissione Spazio Transnazionale su Radio Radicale, condotta da Francesco De Leo. Valensise ha commentato l’avvio dei negoziati tra Cina e Stati Uniti su commercio e dazi, le tensioni in California legate alle retate anti-immigrazione promosse dall’amministrazione Trump e gli ultimi sviluppi della guerra in Ucraina, con particolare attenzione allo stallo nei negoziati.
Il Mar Rosso tra azione militare, diplomazia e interessi italiani
In questo episodio, realizzato nell’ambito del progetto “Rotte di Distensione” con il supporto del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e della Fondazione Compagnia di San Paolo, esploriamo le complesse dinamiche che caratterizzano una delle aree più strategiche del panorama geopolitico contemporaneo: il Mar Rosso.
L’analisi si concentra sull’intreccio tra azione militare, diplomazia e interessi nazionali italiani in questa cruciale via di comunicazione marittima, che rappresenta un nodo fondamentale per i traffici commerciali globali e per gli equilibri di sicurezza internazionale.
La discussione è condotta da Alessandra Darchini, addetta stampa dello IAI, insieme a due esperti: Alessandro Marrone, responsabile del programma Difesa, sicurezza e spazio dell’Istituto, e Maria Luisa Fantappiè, responsabile del programma Mediterraneo, Medio Oriente e Africa.
Il nuovo regolamento sui rimpatri: come l’Ue sta ridisegnando la governance di migrazione e asilo
La presentazione della nuova proposta di regolamento dell’Unione Europea sui rimpatri lo scorso 10 marzo ha finalmente riportato al centro del dibattito sulla governance europea in tema di migrazione l’ultimo tassello mancante di un Patto sulla Migrazione e l’Asilo rimasto fino ad allora incompleto.
A questa data è anche corrisposto il ritiro ufficiale e definitivo della precedente proposta di recast della direttiva sui rimpatri (la 2008/115/EC), avanzata nel 2018 con l’obiettivo – mai raggiunto – di integrarla nel Patto. Bloccata dall’impasse tra Parlamento e Consiglio Europeo, quella proposta era rimasta impantanata per anni, testimonianza di quanto fosse difficile trovare una sintesi politica su un tema tanto delicato.
L’esternalizzazione al centro della strategia europeaNonostante l’assenza fino ad oggi di uno strumento normativo aggiornato in materia di rimpatri, era già evidente da tempo l’indirizzo politico assunto dalla Commissione: spostare la gestione dei flussi migratori sempre più verso l’esterno dei confini dell’Unione. Lo dimostrano non solo la creazione della figura dell’EU Return Coordinator — oggi Mari Juritsch — istituzionalizzata nel quadro del Patto, ma anche l’atteggiamento ambiguo dell’Esecutivo nei confronti di modelli controversi come quello italiano in Albania.
A dispetto delle critiche sollevate da organizzazioni per i diritti umani e della natura evidentemente extraterritoriale dell’accordo Roma-Tirana, né la precedente commissaria Johansson né il suo successore Brunner si sono espressi apertamente contro il cosiddetto “modello Albania”. Anzi, si è insistito su una formula ambigua: l’accordo non viola il diritto UE semplicemente perché “ne è al di fuori”. Una posizione che, sebbene formalmente neutra, ha finito per legittimare di fatto sperimentazioni di esternalizzazione tramite un modello ibrido prive di una cornice giuridica europea chiara.
Memorandum e soft law: l’ombra lunga dei rimpatri informaliÈ proprio su questo “modello” basato su strumenti di soft law come il Memorandum of Understanding (MoU) che i 27 stati membri faranno forse le loro fortune in materia di rimpatri. Uno strumento che rimane fuori dalla partecipazione democratica del Parlamento Europeo e parzialmente escluso dal controllo giuridico della Corte di Giustizia UE. Strumenti opachi che, nella pratica, rischiano di produrre effetti devastanti per i diritti umani di chi cerca protezione sul territorio europeo.
La nuova proposta di regolamento non solo non argina questa tendenza, ma la incentiva apertamente. Concede agli Stati membri ampi margini di manovra per concludere accordi bilaterali volti all’istituzione di “return hubs” situati al di fuori dei confini europei, anche in Paesi che non hanno alcun legame con le persone da rimpatriare. Questo significa che cittadini di Paesi terzi potrebbero essere deportati in luoghi con cui non condividono lingua, cultura, né un pregresso legame giuridico. Luoghi che rischiano di trasformarsi in veri e propri “buchi neri” di tutela legale.
Il definitivo sdoganamento dei rimpatri all’interno del PattoL’intento di rendere i rimpatri una priorità operativa è confermato dalla recente proposta della Commissione, datata 16 aprile, di anticipare l’applicazione di due importanti norme del Patto già prima che lo stesso entri in vigore nel giugno del 2026, al termine del suo periodo di implementazione. Si tratta di:
- la possibilità di applicare procedure di frontiera e accelerate ai richiedenti asilo provenienti da Paesi con un tasso medio di riconoscimento inferiore al 20%;
- la definizione flessibile di “Paese terzo sicuro” e “Paese di origine sicuro”, con la facoltà per gli Stati membri di escludere singole regioni o categorie di individui.
Nel contempo, la Commissione ha proposto una prima lista comune UE di Paesi di origine sicuri comprendente Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Marocco e Tunisia — tutti Paesi in cui il tasso di riconoscimento delle richieste d’asilo in Europa si attesta sotto il 5%. È una mossa che favorisce Paesi come l’Italia, che ha già incluso Egitto e Bangladesh nella propria lista nazionale per agevolare il trasferimento di migranti in Albania.
Qualora la proposta venisse approvata dal Consiglio e dal Parlamento europeo, la lista UE diventerebbe vincolante, ma allo stesso tempo non impedirebbe ai Paesi membri di stilare liste più numerose (quella italiana conta già 19 Paesi). Gli Stati membri sarebbero quindi tenuti ad effettuare procedure accelerate o di frontiera per tutti i cittadini provenienti dagli Stati indicati da Bruxelles. Le richieste d’asilo verrebbero valutate in un periodo massimo di tre mesi, anziché sei, e le persone migranti trattenute per tutto il periodo della procedura.
Infine, si stanno considerando i paesi candidati all’UE come idonei ad essere designati come paesi di origine sicuri poiché, in teoria**,** stanno lavorando per raggiungere la stabilità delle istituzioni che garantiscono la democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani e il rispetto e la protezione delle minoranze.
Non tutto è perdutoTutto questo avviene mentre l’UE prosegue nel solco di una governance che si allontana dal principio di armonizzazione, pur utilizzando formalmente strumenti come il regolamento (anziché la direttiva) per dare un’apparenza di uniformità. La verità è che gli Stati membri stanno ottenendo spazi di manovra sempre più ampi mentre alcuni di loro — come la Polonia — si rifiutano perfino di implementare il Patto: potranno siglare accordi bilaterali, ampliare le proprie liste di Paesi terzi sicuri, applicare norme differenziate in funzione di contesti e interessi nazionali.
Eppure, in questo quadro tutt’altro che rassicurante, un segnale positivo è arrivato dalla Corte di Giustizia UE. Lo scorso aprile, l’Avvocato generale Richard de la Tour ha affermato che la sola designazione legislativa di un Paese come “sicuro” non può bastare: deve essere accompagnata da un controllo giurisdizionale approfondito, che verifichi anche la solidità delle fonti su cui si fonda tale valutazione. Una posizione che potrebbe porre un argine alla diffusione indiscriminata di liste di Paesi sicuri, riportando il principio di legalità al centro della politica migratoria europea e ponendo un impedimento parziale alla diffusione di rimpatri spregiudicati che contribuirebbero a creare ulteriori discrepanze nei meccanismi dei singoli Stati europei.
Un Patto a rischio squilibrioSe l’obiettivo è mantenere in vita un sistema europeo comune d’asilo, il Patto non può essere sacrificato sull’altare dei rimpatri e dell’esternalizzazione. L’architettura europea del diritto d’asilo rischia di essere erosa proprio dall’interno, dalle deroghe e dalle eccezioni che gli Stati membri — con il tacito assenso della Commissione, o nonostante le minacce di provvedimenti poco convincenti — stanno moltiplicando.
A questo punto è lecito chiedersi: che senso ha impegnare risorse, personale e tempo per costruire un sistema comune, se l’orientamento dominante è quello della detenzione sistematica, della velocizzazione a scapito delle garanzie, e della delega a Paesi terzi?
La risposta a questa domanda definirà non solo il futuro del Patto, ma anche quello dei valori su cui si fonda l’Unione Europea e il suo sistema d’asilo.
Confini e connessioni: transizioni e geografie politiche in trasformazione
La politica internazionale di oggi è contraddistinta da un insieme eterogeneo, ma interconnesso, di transizioni – ecologiche, digitali, geopolitiche e culturali, per citarne alcune – che ridefiniscono in profondità le modalità attraverso cui si relazionano le società e in cui si esercitano e si contestano le forme di potere. Le transizioni in corso non si limitano a modificare gli assetti istituzionali, ma investono i codici culturali, le gerarchie economiche e le architetture normative che hanno finora sorretto l’ordine internazionale multipolare.
In un contesto instabile, le transizioni ridisegnano i confiniTali cambiamenti avvengono oggi in un quadro di già pressante instabilità, generata e alimentata da numerosi fattori: tra gli altri, possiamo citare l’aggressione russa all’Ucraina; la guerra a Gaza; le crisi climatiche e il loro nesso con le migrazioni e la scarsità di risorse; la diffusione della minaccia della disinformazione, tra i più giovani ma non solo, che alimenta divisioni e barriere.
Si tratta di fenomeni che contribuiscono a disegnare una realtà in cui i confini diventano sempre più porosi, mentre le connessioni assumono forme nuove, spesso ambivalenti, e impongono una riflessione critica sulla necessità di rafforzare meccanismi multilivello di cooperazione e integrazione. A loro volta, le geografie politiche non sono più statiche, ma in trasformazione, attraversate da attori statali e non statali, reti transnazionali, e dinamiche locali che assumono rilevanza globale.
Di questi e di altri temi si è parlato durante l’iniziativa del 17 maggio 2025 “ConfinSenzaConfini”, promossa dal Comune di Gemona del Friuli e dal suo Assessorato alla Cultura. L’evento (che segue il filone della prima edizione “Oltre i muri” tenutasi nel 2024), aperto anche alla partecipazione di giovani studenti degli istituti superiori della regione, ha rappresentato un’occasione preziosa per riflettere su quanto il concetto stesso di confine sia oggi in mutamento, e quanto sia urgente immaginare nuove connessioni, più fluide, più inclusive.
Tre spunti di riflessione danno forma ai concetti di confine e connessioneLa rilevanza analitica e politica dei concetti di confine e connessione oggi si sviluppa su almeno tre spunti di riflessione: l’importanza della rilettura del sistema internazionale e del concetto di governance globale; il destino delle reti di cooperazione politica, economica e culturale; e, in una prospettiva europea, il ruolo di attori come l’Ue e l’Italia nel panorama internazionale.
Facendo uno sforzo per tradurre nella pratica tali spunti, vale la pena sottolineare come lo spazio globale che oggi abitiamo è fortemente polarizzato, ancor più se si considera l’effetto diverso da paese a paese, e da regione a regione, delle transizioni sopra menzionate. All’interno di questo quadro, il legame tra Europa e Stati Uniti, che tradizionalmente si sono impegnati affinché la cooperazione internazionale e transnazionale producesse modelli di sviluppo pacifici, appare tutt’altro che lineare o coeso. Al contrario, si presenta come frammentato, selettivo e disomogeneo, riflesso di divergenze strategiche, tensioni normative e asimmetrie strutturali. Se da un lato esistono segnali di rilancio della cooperazione transatlantica su dossier specifici, dall’altro persistono ambiguità politiche, disallineamenti economici e sfiducia reciproca che ne limitano la portata sistemica.
Il ruolo dell’Italia e il nodo educativo come terreno di competizioneIn tale prospettiva, l’Italia rappresenta un caso emblematico. Tradizionalmente ponte tra est e ovest, oltre che centrale nella geopolitica del Mediterraneo, Roma ha svolto storicamente un ruolo di mediatore e continua a essere un interlocutore strategico, anche nella valorizzazione della sua proiezione culturale e di politica estera. Al di là dei tradizionali esempi che vedono la sicurezza, la difesa, l’energia, la diplomazia della salute o i mercati al centro del dibattito negli ultimi mesi, il nodo educativo assume una rilevanza crescente, soprattutto a fronte della decisione dell’amministrazione Trump – in linea con un orientamento generalmente protezionista – di restringere l’accesso a studenti e ricercatori stranieri ai principali atenei americani. Tale rilevanza si accentua ulteriormente se si pensa al trasferimento di conoscenze e competenze alla base del sistema di istruzione che ha reso possibile borse di studio, scambi universitari, e programmi congiunti, anche grazie alla diplomazia culturale e accademica. L’ambito educativo diventa dunque oggi terreno di competizione e non più opportunità di cooperazione. A fronte di questa ritirata selettiva, infatti, l’Europa sta tentando – con risultati ancora diseguali – di occupare lo spazio lasciato aperto: Francia e Italia provano a giocare un ruolo attivo, in particolare attraverso le collaborazioni accademiche con i paesi del Mediterraneo e dei Balcani, o provando ad attrarre o richiamare “cervelli” dall’estero. La stessa questione educativa è centrale anche per le transizioni che il mondo dovrà affrontare nel futuro, in particolare per il ruolo che l’accademia può avere nel decostruire e ricostruire una narrativa efficace e utile alla lettura di questi fenomeni.
È su questi piani intrecciati che si gioca oggi il ruolo e l’idea stessa di Occidente come comunità fondata su democrazia, diritti e libero mercato, seppur sottoposta a tensioni crescenti. Ed è inoltre a fronte di queste spinte che continuano a intrecciarsi i diversi piani internazionale, nazionale e locale, che i confini hanno contribuito a ridefinire.
Lee Jae-myung nuovo presidente della Corea del Sud
L’elezione presidenziale straordinaria del 3 giugno scorso nella Repubblica di Corea è stata vinta dal leader del partito democratico Lee Jae-myung. Essa si era resa necessaria dopo l’impeachment e l’arresto dell’ex presidente Yoon Suk-yeol che nel novembre scorso aveva deciso di promulgare illegalmente la legge marziale.
Le cause di tale improvvida iniziativa meritano di essere ricordate. La costituzione della Corea prevede la possibilità di invocare la legge marziale solo in caso di guerra o di incidenti ed altre emergenze nazionali mentre le ragioni addotte da Yoon si riferivano “alla politica anti-stato e pro-nordcoreana” del partito di opposizione, motivazioni ben lontane dal dettato costituzionale. Vigendo una democrazia presidenziale in cui il capo dello Stato è anche capo dell’esecutivo, l’ex presidente si era trovato inevitabilmente in grandi difficoltà dopo le elezioni parlamentari dell’aprile 2024 che lo costrinsero a governare con una maggioranza opposta a quella del suo partito. Una situazione di “coabitazione” assai simile a quella francese. Con questa nuova elezione si può ritenere conclusa la grave crisi istituzionale che aveva colpito il paese.
Sale ora alla massima carica un nuovo leader che potrà contare oltre che sul netto risultato del voto presidenziale anche su una solida preesistente maggioranza in parlamento.
Il nuovo presidente ha il merito di aver guidato, nel rispetto della costituzione, il burrascoso processo di transizione che ha condotto all’impeachment e alla cacciata e arresto del predecessore. Si tratta di titoli che gli dovrebbero consentire di prendere le redini del paese nel quadro di una maggiore coerenza tra il potere legislativo e quello esecutivo.
Ciò non vuol dire che egli avrà la vita facile. Oltre alla gestione interna di un paese che pur avendo realizzato un formidabile sviluppo economico ed industriale soffre anche dei mali delle democrazie mature tra cui la denatalità ed un’atavica ostilità tra progressisti e conservatori. Esso ha però anche dimostrato la sua vitalità democratica reagendo con determinazione a quello che si può considerare un maldestro tentativo di colpo di stato in una situazione politico-strategica molto complessa.
La minaccia rimane anzitutto quella della Corea del Nord sempre più agguerrita ed in possesso ormai non solo dell’arma atomica ma anche di vettori presuntamente capaci di colpire persino l’America. Sono ormai lontani i tempi in cui la Russia applicava rigorosamente contro la DPRK le sanzioni da essa stessa comminate nel quadro del Consiglio di Sicurezza. Oggi si può parlare di una vera e propria alleanza con Mosca come dimostrato dalla partecipazione attiva di militari nordcoreani al conflitto ucraino.
Negli ultimi decenni la politica di Seoul ha oscillato tra una linea di apertura nei confronti della Corea del Nord come promossa dai grandi presidenti progressisti quali Kim Dae-jung agli inizi del 2000 e più di recente da Moon Jae-in. A loro sono succeduti leader conservatori che hanno invece privilegiato il confronto con il Nord. Tra essi figura sicuramente il presidente recentemente silurato che non era ostile neppure all’ipotesi che Seoul si dotasse dell’arma atomica.
Rimane immutata in entrambe le forze politiche la coscienza della dipendenza dagli Stati Uniti e la ricerca di una forte alleanza con Washington senza l’appoggio della quale – la storia insegna – un riavvicinamento con la Corea del Nord non è configurabile. Sicuramente la linea del nuovo presidente Lee Jae-myung è aperturista verso il Nord ma è dubbio che tale orientamento converga con quello attuale di Donald Trump. Quest’ultimo, scottato dal vistoso “fiasco” della sua apertura verso il leader nordcoreano durante il suo primo mandato, difficilmente riprenderà in mano, di sua volontà, il dossier coreano. Il rapporto con Seoul viene oggi visto a Washington anzitutto nel quadro del confronto strategico con Pechino, potente vicino della Corea territorialmente e principale partner economico-commerciale. Il mantenimento di una rotta tra questi due fari sarà la grande sfida per la navigazione che il nuovo presidente coreano si appresta ad intraprendere.
Come le relazioni Ucraina-Ungheria influenzano le elezioni di Orbán
La difficile relazione tra Ucraina ed Ungheria sembra essere peggiorata ulteriormente dopo l’arresto avvenuto il 9 maggio di due presunte spie ungheresi da parte del servizio di sicurezza interno ucraino. Secondo quest’ultimo le due spie erano parte di una rete più ampia gestita dall’Ungheria. Questo avvenimento e la ritorsione di Budapest rappresentano l’ultima tappa del rapporto complicato tra Ucraina e Ungheria.
Perché le relazioni tra Ucraina e Ungheria sono così complesse?Le relazioni attuali tra i due Paesi sono rimaste relativamente positive fino al 2016. Nel 2017 l’allora presidente ucraino Poroshenko firma una legge per rendere l’ucraino lingua di studio ufficiale e obbligatoria di tutte le scuole del Paese dalle medie in poi. L’insegnamento in altre lingue rimane comunque permesso, ma come materia separata. Questa legge, che coinvolge tutte le minoranze del Paese, è stata pensata per scoraggiare l’uso del russo nell’educazione pubblica. Vari Paesi hanno accolto in maniera critica il passaggio di questa legge, tra cui Polonia, Bulgaria e Romania.
Il Paese che ha reagito più aspramente, però, è stato l’Ungheria per via della minoranza ungherese presente nella regione ucraina della Transcarpazia dove gli ungheresi rappresentano circa il 20% della popolazione. La regione è stata storicamente parte dell’Ungheria per poi venire ceduta prima alla Cecoslovacchia con il Trattato di Trianon fino a diventare parte dell’Ucraina indipendente dopo il 1991. Dopo la firma della legge del 2017 il ministro degli esteri ungherese, Péter Szijjàrto, ha annunciato che l’Ungheria avrebbe bloccato qualsiasi integrazione dell’Ucraina nella NATO e nell’Unione Europea.
Tale rottura è stata esacerbata da fatti quali la distribuzione di passaporti ungheresi in Transcarpazia, l’accordo tra Ungheria e Gazprom del 2021 e soprattutto con la postura ambigua di Budapest dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Se da una parte l’Ungheria ha condannato l’invasione, dall’altra Orbán è stato il leader di un paese UE e NATO più vicino a Putin.
Orbán è stato criticato per la sua opposizione alle sanzioni europee alla Russia, per il rifiuto di inviare armi all’Ucraina e per aver mantenuto rapporti economici e diplomatici con Mosca. L’economia ungherese è infatti costruita attorno all’ambivalenza geopolitica tanto che Orbán stesso l’ha definita un’economia di transito che può sopravvivere solo attraendo investimenti da ambo le parti.
Perché delle presunte spie ungheresi sono state arrestate in Ucraina?Venerdì 9 maggio l’SBU, il Servizio di sicurezza dell’Ucraina, ha affermato di aver arrestato un uomo e una donna, entrambi ex militari delle forze armate ucraine, accusati di passare informazioni ai loro contatti ungheresi in cambio di soldi. Queste due presunte spie secondo l’SBU sono parte di una rete più ampia gestita da Budapest con lo scopo di cercare informazioni e vulnerabilità delle difese della Transcarpazia.
Il Ministro degli esteri ungherese Szijjártó ha respinto le accuse mosse dagli ucraini definendole propaganda, oltre ad aver annunciato l’espulsione di due cittadini ucraini accusati a loro volta di essere spie. Inoltre un terzo individuo, identificato come agente dell’HUR, il servizio segreto militare ucraino, è stato arrestato dalle forze antiterrorismo ungheresi e deportato. L’Ucraina ha risposto con l’espulsione di due diplomatici ungheresi.
Fonti ungheresi affermano che i fatti recenti sono parte di un più ampio gioco di spie che continua da mesi. Una prima parte si era già giocata a febbraio quando il comitato di sicurezza nazionale del parlamento ungherese aveva affermato l’esistenza di un piano ucraino per screditare la figura di Viktor Orbán.
Inoltre, la settimana precedente l’arresto delle due presunte spie, un radar delle forze armate ungheresi aveva rilevato dei droni nella regione di Tokaj. Uno dei droni è stato abbattuto e gli ungheresi sospettano che provenisse dall’Ucraina.
Cosa significa ciò per le relazioni tra Ucraina e Ungheria?In risposta ai fatti del 9 maggio le relazioni tra i due Paesi hanno subito un duro colpo, testimoniato dal cancellamento dell’incontro bilaterale sui diritti della minoranza ungherese in Ucraina previsto per il 12 maggio.
Il viceministro degli esteri ungherese, Levente Magyar, ha affermato come gli eventi dei giorni precedenti non consentano di portare avanti i negoziati sulle minoranze in modo costruttivo.
Tutto ciò inoltre sta avvenendo sullo sfondo della campagna VOKS 2025, un referendum consultivo annunciato il 15 aprile dal governo ungherese circa l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea. I materiali elettorali distribuiti dal governo ungherese sottolineano le percepite conseguenze negative per l’agricoltura nazionale, le finanze pubbliche e la sicurezza pubblica nel caso in cui l’Ucraina entri a far parte dell’Unione.
I fatti del 9 maggio verranno usati per alimentare l’opposizione ungherese all’ingresso dell’Ucraina nell’UE. Tale opposizione, però, si è evoluta nel tempo. A marzo 2022 l’Ungheria si è unita ad altri Paesi per chiedere l’adesione dell’Ucraina all’UE, ma successivamente ha cambiato posizione opponendosi al percorso di adesione “velocizzato”, affermando di voler dare priorità all’allargamento dell’UE nei Balcani.
Ciononostante, le vere ragioni di questa campagna e in generale delle tensioni recenti col vicino orientale hanno relativamente poco a che fare con l’Ucraina e con il suo accesso all’Unione Europea, ma sono fortemente legate a questioni di politica interna.
Che collegamento c’è tra l’Ucraina e la politica interna ungherese?Nell’aprile 2026 sono previste nel Paese le elezioni parlamentari, considerate le prime che Orbán rischia di perdere. Dopo essere tornato al potere nel 2010 il blocco dell’attuale primo ministro è riuscito a rimanere saldamente la prima forza politica, creando un sistema dai tratti illiberali progettato per perpetuare il potere di Fidesz.
Il vero cambiamento nel panorama politico ungherese si è avuto con l’ascesa di Péter Magyar, ex membro di Fidesz. Nel febbraio 2024 Magyar ha annunciato di essersi dimesso da ogni incarico e ha criticato aspramente Orbán. A marzo dello stesso anno si è unito al già esistente Partito del Rispetto e della Libertà (TISZA), che è riuscito a far diventare la seconda forza del Paese ottenendo il 30% alle elezioni europee del 2024. I sondaggi attualmente danno TISZA in testa con circa il 41% dei voti, seguito da Fidesz con circa il 36%.
L’ascesa di TISZA sta preoccupando Orbán. L’intento di Orbán appare quello di usare le posizioni pro Ucraina per screditare Magyar e TISZA dipingendoli come attori al soldo degli ucraini che stanno tentando di sabotare l’Ungheria, mentre soltanto Fidesz può salvaguardarne la stabilità.
Stabilità che però sembra essere messa a repentaglio, tra le altre cose, dalla complicata situazione economica. A ciò sono da sommarsi le proteste che da mesi interessano il Paese in seguito ad un emendamento costituzionale che vieta gli eventi pubblici da parte della comunità LGBTQ+.
Alla luce di quanto successo nelle scorse settimane non si può ipotizzare una normalizzazione delle relazioni tra Ucraina e Ungheria almeno sul breve termine.
Con un’eventuale sconfitta di Orbán nel 2026 e con l’ascesa di Magyar si può pensare sicuramente a un miglioramento dei rapporti, ma la questione della minoranza ungherese in Transcarpazia rimarrebbe comunque aperta.
Inoltre, è da sottolineare come TISZA sia più pro-Ucraina di Fidesz, ma permangono degli attriti. Difatti anche TISZA sostiene è contro l’invio di armi o di truppe in Ucraina. Inoltre il partito ha messo in guardia circa l’adesione accelerata dell’Ucraina all’UE, citando soprattutto l’impatto negativo che ciò avrebbe sull’agricoltura ungherese. Tuttavia TISZA rimane favorevole all’accesso dell’Ucraina all’UE, come emerso da una consultazione in cui il 60% degli elettori di TISZA si sono detti favorevoli.
di Lorenzo Pellegrino
Opposizione decimata alle legislative in Burundi
«L’opposizione parteciperà alle prossime elezioni da votante, non da candidata». Con queste parole, Prosper Ntahorwamiye, presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) del Burundi, a gennaio 2025, ha aperto l’anno elettorale. Infatti, nel giro di tre mesi, tra giugno e agosto, i burundesi rinnoveranno la camera bassa del Parlamento nazionale, i Consigli comunali e i Capi delle colline. Il Senato invece sarà eletto in modo indiretto dai consiglieri comunali.
La tornata elettorale si preannuncia infuocata. E i dati del Paese in fatto di libertà di opinione ed espressione, arresti arbitrari, sparizioni e detenzioni extragiudiziali dipingono uno scenario pre-elettorale caratterizzato da violenza e repressione.
Nulla di nuovo in realtà in questo piccolo Paese dell’Africa centrale, la cui storia è stata segnata da un succedersi di colpi di Stato e ondate di violenza a sfondo etnico. Oltre a una guerra civile (1993-2005) che ha coinvolto e visto scontrarsi i due gruppi etnici principali, hutu e tutsi.
Speranze di cambiamentoNel 2005, con la conclusione della guerra civile e un accordo di condivisione del potere tra hutu e tutsi, Pierre Nkurunziza si è preso la scena politica burundese.
Presidente del Paese fino al 2020, Nkurunziza non ha mai esitato a usare la violenza per reprimere il popolo che chiedeva maggiori diritti e libertà. Un pugno di ferro dispiegato in tutta la sua crudeltà nel 2015 contro i manifestanti che protestavano contro la sua decisione di candidarsi per un terzo mandato (incostituzionale, dato il limite dei due sancito in Costituzione).
Nel 2020, però, Nkurunziza ha lasciato la massima carica dello Stato, designando come suo successore Evariste Ndayishimiye. All’epoca segretario generale del Consiglio nazionale per la difesa della democrazia-Forze per la difesa della democrazia (Cndd-Fdd) – partito che controlla la politica burundese dal 2005 – Ndayishimiye si è imposto con più del 70% dei voti. Ma, ancora una volta, il processo elettorale è stato macchiato da scarsa trasparenza. Il monitoraggio degli osservatori internazionali è stato impedito.
Tuttavia, agli occhi della comunità internazionale, il passaggio avvenuto ai vertici dello Stato ha portato con sé speranze di cambiamento. Effettivamente, nel corso del primo anno di presidenza, Ndayishimiye ha ordinato il rilascio di attivisti per i diritti umani e giornalisti che erano stati incarcerati sotto Nkurunziza. Le relazioni diplomatiche con Stati Uniti e Unione europea – crollate nel 2015 dopo la dura repressione dei manifestanti – hanno invece iniziato a risollevarsi.
Niente di nuovoMa, in realtà, nulla è cambiato. Per qualche attivista e giornalista che è stato rilasciato, ce ne sono tanti altri che sono stati incarcerati, nuovamente in modo arbitrario. Soprattutto se si occupavano di diritti umani, come l’avvocato Tony Germain Nkina e l’ex parlamentare Fabien Banciryanino, entrambi fermati a ottobre 2020.
Per arrestare la giornalista Floriane Irangagiye ad agosto 2022, invece, le forze di sicurezza hanno atteso che rientrasse nel Paese per visitare la famiglia. Avendo criticato l’operato del governo durante una diretta di Radio Igicaniro (una piattaforma in esilio), è stata accusata di aver “minato l’integrità territoriale nazionale”. E perciò condannata a dieci anni di carcere.
Anche le Ong sono duramente attaccate con arresti e intimidazioni. In particolare le organizzazioni il cui lavoro verte su temi “sensibili” per il governo. Tra questi la corruzione – estremamente diffusa tra la classe dirigente – e l’omosessualità – definita un “peccato”, vietata dal Codice penale e punita con la reclusione.
Per silenziare qualsiasi voce di dissenso, accuse come “ribellione” e “minaccia alla sicurezza interna dello Stato” sono ormai diventate lo strumento privilegiato dell’esecutivo. Il cui controllo su polizia ed esercito è pressoché totale. Mentre la milizia giovanile del Cndd-Fdd, l’Imbonerakure – famosa per le continue violazioni dei diritti umani – attacca i dissidenti, soprattutto durante i raduni pubblici.
La scure contro le voci critiche si è accompagnata a un processo di chiusura del Paese nei confronti dell’esterno. I rappresentanti dell’Unhcr sono stati espulsi nel 2016 e tre anni dopo l’agenzia è stata costretta a chiudere i suoi uffici a Gitega. Nel frattempo, il Burundi ha abbandonato il Consiglio sui diritti umani delle Nazioni Unite. E si è rifiutato di accettare qualsiasi visita di esperti volta a stilare report sulla situazione umanitaria interna.
Opposizione sotto attaccoA peggiorare ulteriormente il clima pre-elettorale ha contribuito anche il tentativo della Ceni di mettere fuori gioco mezza opposizione. A gennaio, infatti, l’organo – incaricato di organizzare e supervisionare il voto – ha rifiutato le liste di diversi partiti, sostenendo che non rispettassero alcuni articoli del Codice elettorale. In particolare, riteneva che non venissero garantiti gli equilibri etnici – 60% di candidati hutu e 40% di tutsi – e di genere – 30% di donne.
In realtà, l’obiettivo dell’esecutivo era estromettere i suoi principali rivali. Cioè il Congresso nazionale per la libertà – maggiore partito di opposizione – e la coalizione Burundi bwa bose – nata nel 2024 e composta da diverse figure di spicco del panorama politico burundese. Alla fine, dopo alcune modifiche, le liste di entrambi i movimenti sono state ammesse al voto per le legislative, ma rifiutate per le comunali.
Dall’inizio della campagna elettorale (13 maggio), qualsiasi rivale del Cndd-Fdd è costantemente sotto attacco. I raduni sono interrotti con la violenza dalla polizia e dall’Imbonerakure. Diversi attivisti sono stati arrestati e torturati. Violenze e intimidazioni sono continue e sistematiche, nell’intento di spaventare e indurre al ritiro il maggior numero possibile di candidati.
Come si votaCento deputati sono eletti in modo diretto, in 18 circoscrizioni plurinominali con liste bloccate e sistema proporzionale.
Una volta conteggiati i voti e distribuiti i seggi, la Ceni poi aggiunge un numero variabile di deputati. Li sceglie tra i candidati non eletti dei partiti (a patto che il movimento abbia ottenuto almeno un seggio) affinché la nuova Assemblea nazionale rispetti perfettamente i requisiti etnici (60% di hutu e 40% di tutsi) e di genere (30% di donne). Infine, vengono cooptati anche tre membri della comunità twa, individuati negli elenchi presentati dalle loro organizzazioni di rappresentanza comunitaria.
È la prima volta dal 2005 che le elezioni legislative e quelle presidenziali non coincidono. Nel 2015, infatti, un referendum ha allungato (a partire dal 2020) la durata del mandato del capo dello Stato da cinque a sette anni. Eppure questa campagna elettorale ha sempre più il sapore delle presidenziali. Un po’ per la mobilitazione imponente di risorse e per la discesa in campo dei pesi massimi del partito di governo e dell’opposizione. E un po’ per i toni infuocati, la violenza e la repressione delle voci di dissenso.
In un clima sempre più teso, dunque, il voto del 5 giugno non sta facendo altro che scavare il solco per il prossimo voto. La macchina della repressione si rafforza, preparando la strada al secondo mandato di Ndayishimiye come capo dello Stato.
di Aurora Guainazzi
Italia e Kazakhstan: i due Stati-ponte
Giorgia Meloni il 30 maggio si è recata ad Astana per incontrare il Presidente kazako, Qasym-Jomart Tokayev. L’incontro ha confermato ancora una volta il rapporto privilegiato tra le due economie che, ormai da trent’anni, hanno sviluppato una stretta collaborazione soprattutto nel settore energetico. L’Italia è il primo partner economico del Kazakhstan in Europa, importando soprattutto petrolio, gas e prodotti minerari, mentre il Kazakhstan guarda all’Italia per macchinari industriali e tecnologie (con una crescente attenzione anche per l’agricoltura).
L’incontro di Astana arriva circa cinque anni dopo l’entrata in vigore dell’EU-Kazakhstan Enhanced Partnership Agreement, un accordo quadro che copre 29 aree di cooperazione prioritaria con l’Unione Europea. Tra le diverse materie previste nel trattato bilaterale, in cui anche la cultura e lo spazio meritano menzione, una speciale enfasi è dedicata al nesso tra estrazione mineraria e tutela ambientale.
Nel suo discorso alla presenza di Tokayev, Meloni ha sottolineato il valore geopolitico del rapporto tra Roma ed Astana. L’Italia, con la sua ambizione di proiezione nel cosiddetto Mediterraneo Allargato, si vuole presentare come porta commerciale e culturale dell’Africa e del Medio Oriente verso l’Europa. Sul fronte opposto, il Kazakhstan, da sempre crocevia politico e commerciale tra Europa, Cina e Russia, svolge un fondamentale ruolo di ponte nel quadro dell’Asia Centrale.
Il ruolo del Paese diventa strategico soprattutto nel contesto delle attuali tensioni internazionali a cui Meloni ha fatto più volte riferimento nel corso del suo discorso. La speranza di Roma ed Astana è che la collaborazione tra UE e Kazakhstan – con l’Italia come Stato UE maggiormente interessato a questa partnership – porti ad un’accelerazione degli investimenti nel Middle Corridor (o Trans-Caspian International Transport Route) e quindi alla realizzazione delle imponenti opere infrastrutturali volte a rendere il Kazakhstan un reale snodo euro-asiatico di merci e persone.
Attraverso questo snodo terrestre si potrebbe creare un’alternativa reale all’attuale dipendenza dal canale di Suez e dal commercio marittimo. Ad oggi, i segnali incoraggianti non mancano, provenienti soprattutto dal Caucaso (come nel caso del nodo ferroviario Baku-Tbilisi-Kars), ma le tensioni regionali rimangono l’ostacolo più grande per la concretizzazione di questo progetto strategico.
Il Kazakhstan, che ha avviato anche un percorso riformatore nel 2022, può rappresentare un attore determinato a portare stabilità politica, come dimostrato dai suoi sforzi di collaborazione strutturale con tutti gli attori dell’Asia Centrale. Per questo motivo il governo di Astana, salvo imprevisti traumatici, rimarrà nei prossimi anni un interlocutore privilegiato per Roma e Bruxelles.
Da Vilnius a L’Aia, movimento dei Paesi del fianco orientale d’Europa
Il 2 giugno si è svolto il vertice congiunto dei cosiddetti Nove di Bucarest, B9, e dei Paesi nordici a Vilnius, in Lituania. L’incontro di Vilnius si è concentrato sulla preparazione per il Vertice NATO dell’Aia di giugno (24-25 giugno) e sul sostegno all’Ucraina.
Oltre ai Nove di Bucarest, al vertice di Vilnius hanno partecipato il Segretario generale della NATO Mark Rutte , il Presidente ucraino Volodymyr Zelenskyi e governanti di tutti i Paesi nordici, Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca e Islanda.
La Finlandia è particolarmente coinvolta in questo consesso, dato che è il paese UE col confine più lungo con la Russia: il suo rimo ministro Petteri Orpo ha dichiarato che”La NATO sta tornando alle sue radici e stiamo procedendo nella giusta direzione. Tuttavia, c’è ancora molto lavoro da fare, e questo lavoro deve essere fatto ora. In questa occasione, ci siamo preparati insieme per rendere il Vertice NATO dell’Aia il più possibile un successo”.
L’agenda includeva, tra le altre cose, l’aumento della spesa per la difesa e dell’industria della difesa dei paesi della NATO, il sostegno all’Ucraina nel suo percorso verso una pace duratura e giusta e l’approfondimento della cooperazione euro-atlantica in materia di sicurezza.
I dibattiti svoltisi nel corso dell’incontro hanno sottolineato con forza l’importanza dell’impegno a lungo termine degli Alleati nei confronti dell’Ucraina, nella sua difesa contro l’illegale guerra di aggressione della Russia, nonché la minaccia a lungo termine che la Russia rappresenta per l’intera sicurezza euro-atlantica.
“Il vertice dell’Aia dovrebbe inviare un messaggio forte: il nostro sostegno all’Ucraina è incrollabile. Quando verrà raggiunto un cessate il fuoco e la pace in Ucraina, il Paese avrà ancora bisogno di una forte difesa deterrente contro la Russia. Gli alleati dell’Ucraina devono impegnarsi in questo supporto strategico a lungo termine. Allo stesso tempo, dobbiamo rafforzare la nostra difesa e potenziale di deterrenza”, ha aggiunto Orpo.
Nel corso dell’incontro, il Primo Ministro finlandese ha avuto anche incontri bilaterali con il Presidente ucraino Zelensky e con il Presidente romeno Nicușor Dan, appena entrato in carica .
Il gruppo dei Nove di Bucarest comprende gli stati membri orientali della NATO: Bulgaria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria ed Estonia. Il gruppo è stato fondato dal presidente romeno Klaus Iohannis e dal presidente polacco Andrzej Duda nel 2015. Bisognerà capire se la Polonia resterà in questa compagine, dopo la recente elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
Anche il Segretario Generale della Nato, Mark Rutte, ha partecipato al vertice, affermando che. “Stiamo affrontando il contesto di sicurezza più pericoloso degli ultimi decenni; non siamo in guerra, ma non siamo nemmeno in pace”. Ha sottolineato la necessità di puntare sulla prontezza operativa, includendo un numero significativamente maggiore di forze ben addestrate, ben equipaggiate, pienamente supportate e sostenibili. Rutte ha detto di aspettarsi che il Vertice dell’Aia dimostri il duraturo impegno degli Alleati per la difesa collettiva, attraverso maggiori investimenti nella difesa e una maggiore produzione industriale in tale ambito, e un accordo su nuovi ambiziosi obiettivi di capacità, concludendo di continuare “a contare sul B9 e sui nostri alleati nordici affinché svolgano un ruolo chiave in questi importanti sforzi”.
Il sostegno all’Ucraina sarà una priorità del Vertice dell’Aia. Il Segretario Generale ha elogiato gli sforzi dell’Ucraina e il ruolo dei Paesi baltici e nordici nel fornire un’assistenza militare e finanziaria costante. “Un’Ucraina forte e sovrana è essenziale per la sicurezza euro-atlantica”, ha affermato Rutte. Il documento intitolato “Vilnius Summit Chair’s Statement”, pubblicato a fine vertice, riassume i suoi esiti in preparazione al prossimo vertice NATO all’Aia; in sintesi, il vertice di Vilnius ha rappresentato un momento cruciale per rafforzare la coesione tra i paesi del fianco orientale della NATO, riaffermare il sostegno all’Ucraina e preparare una posizione condivisa in vista delle future decisioni dell’Alleanza.
Le buone notizie da Kyiv
La primavera scorsa l’atmosfera in Ucraina era cupa. La gente temeva un’escalation delle conquiste territoriali da parte della Russia e forse anche il crollo del fronte ucraino. Oggi, il contesto internazionale è ancora più difficile ma, nonostante i tradimenti dell’amministrazione Trump, a Kyiv ho trovato un clima più fiducioso.
Questa fiducia deriva dalla crescente autosufficienza militare del Paese. L’industria ucraina dei droni è impressionante, in termini di avanguardia tecnologica, adattabilità e capacità produttiva, e si rafforza di giorno in giorno.
E anche se la manodopera è un problema, l’esercito ucraino capisce la guerra meglio di altre forze in Europa. Certo, a Kyiv nessuno pensa che questa comprensione della guerra sia sufficiente per riconquistare il territorio perduto. Non ci si aspetta più di ottenere la pace attraverso la vittoria militare sulla Russia, né si teme la sconfitta come in passato: il paese si sta silenziosamente ricalibrando, cercando un cessate il fuoco sostenibile attraverso la deterrenza.
Il ruolo degli USAQuesto non significa che gli ucraini pensino di potere, o tanto meno di volere, andare avanti da soli. Il senso di delusione verso gli Stati Uniti è acuto, ma c’è una consapevolezza che l’Ucraina ha ancora bisogno di Washington, soprattutto per l’intelligence, la sorveglianza, la ricognizione e la difesa aerea.
È vero che l’evidente dimostrazione di sintonia tra la Casa Bianca e il Cremlino è inquietante. Ma gli ucraini sono convinti che Putin continuerà a eccedere nelle sue richieste, e prima o poi, Trump sarà costretto a riconoscere che una tregua è ancora lontana perché Putin la rifiuta.
La guerra in Ucraina non potrà mai terminare in 24 ore come millantato da Trump, perché non è mai stata una guerra per procura tra l’Occidente e la Russia. La guerra non sta finendo perché l’unico uomo che può porvi fine – Putin – continua a pensare di poter vincere. Questa consapevolezza potrebbe non indurre Trump a fare un’inversione di rotta che lo porti a sostenere pienamente l’Ucraina, ma potrebbe portare Washington da una posizione di ostilità attiva nei confronti di Kyiv a una di benevola indifferenza. In questo scenario, gli Stati Uniti si disimpegnerebbero gradualmente dalla guerra, pur continuando a fornire o consentire all’Ucraina di acquistare capacità militari. Non è l’ideale, ma Kyiv può gestire una Casa Bianca benignamente defilata molto meglio di quanto non potrebbe fare se Washington si mettesse di traverso.
L’integrazione dell’Ucraina nel contesto di sicurezza europeaL’altra faccia della medaglia è che l’Ucraina viene progressivamente integrata nella nuova architettura di sicurezza europea. Il 9 maggio, i leader di Francia, Germania, Polonia e Regno Unito sono arrivati a Kyiv, per la prima volta in visita congiunta. Si è trattato di un evento di grande importanza: questi Stati, insieme ai Paesi nordici e baltici, costituiscono il nucleo della “coalizione dei volenterosi” che sostiene l’Ucraina e della nuova architettura di sicurezza europea. Il loro sostegno all’Ucraina è fondamentale per dimostrare al mondo, e a Washington, che è Putin e solo Putin a volere che la guerra continui.
Qualunque cosa accada, è essenziale che i leader europei non si limitino a discutere di una “forza di rassicurazione” post-conflitto. Gli alleati dell’Ucraina devono essere pronti a sostenerla durante la guerra, aumentando il sostegno militare europeo, ma anche contribuendo a rafforzare l’industria della difesa ucraina attraverso progetti congiunti con aziende europee. Altrettanto importante è la più ampia integrazione dell’Ucraina nei piani e nelle azioni di sicurezza e di difesa dell’Europa. L’esperienza bellica dell’Ucraina è preziosa nel momento in cui l’Europa rafforza le sue difese collettive.
La sicurezza europea passa attraverso Kyiv. Capire questo significa che i leader della coalizione dei volenterosi continueranno a sostenere l’Ucraina, consapevoli che la Russia rappresenta la più grande minaccia per l’Europa.
Ma non è una strada a senso unico: mentre gli europei rafforzano le proprie difese contro la Russia, non possono che guadagnare dall’inclusione dell’Ucraina in questo sforzo. Il morale dell’Ucraina è alto grazie alla crescente fiducia in sé stessa. Mentre le principali potenze europee continuano a sostenere Kyiv, anch’esse dovrebbero diventare più fiduciose nel fatto che l’ingresso dell’Ucraina nelle loro istituzioni, industrie e società comuni non potrà che rafforzare l’Europa nel suo complesso.
A Gaza il governo israeliano naviga a vista
Non potrà durare a lungo così. Le operazioni militari israeliane a Gaza, riprese dopo la rottura della tregua, hanno superato ogni limite. Da ultimo, sconvolge le coscienze di tutti la notizia della strage dei nove figli della pediatra palestinese, uccisi a casa loro da una bomba israeliana. L’assedio alla Striscia e le enormi perdite di vite umane tra i civili palestinesi generano disorientamento e rabbia anche in Israele, non solo tra le file dell’opposizione. Cresce la frustrazione dell’amministrazione americana, si raffreddano i rapporti personali tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu. L’Europa cerca una via e si divide sull’ipotesi di revisione/sospensione dell’accordo Ue-Israele. A rendere il quadro ancora più cupo, si è aggiunto l’omicidio a Washington dei due giovani addetti dell’ambasciata d’Israele, vittime dell’odio anti-semita. Il terrorista assassino inneggiava alla Palestina libera, ma non è con il terrorismo che si favorisce la causa palestinese. La storia, non solo recente, dovrebbe averlo insegnato.
Una presa di posizione a nome dei diritti umaniIl governo israeliano, sempre più condizionato dall’estrema destra messianica, naviga a vista a Gaza. Poche ore prima dell’attentato di Washington, aveva rilanciato una proposta di tregua temporanea in cambio della liberazione degli ostaggi, della smilitarizzazione della Striscia e dell’esilio della dirigenza di Hamas. Ma chi da quasi venti mesi tiene ancora prigionieri i pochi ostaggi ancora vivi, o i loro cadaveri, non considera la loro liberazione, né di alleviare le tremende condizioni dei civili palestinesi, condannati a fare da scudo impotente ai terroristi. Le forze israeliane martellano Gaza in maniera spaventosa, il conto delle vittime innocenti aumenta tragicamente. Dove non arrivano le bombe, a decimare un popolo allo stremo arriva la fame.
Non c’è antisemitismo nel reclamare una tregua e la ripresa immediata nella distribuzione degli aiuti, essenziali per la sopravvivenza. La solidarietà con le vittime è d’obbligo anche qui e per molti, anche amici di Israele, non è possibile voltarsi dall’altra parte davanti a una tragedia di queste dimensioni. Questo è il piano umanitario, dove è facile indicare come le cose dovrebbero muoversi.
Il versante politico: pressioni da WashingtonÈ il versante politico a essere imperscrutabile. Nei giorni scorsi chi aveva messo insieme la visita di Trump in Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi con l’esclusione clamorosa di una tappa in Israele; l’apertura alla Siria, graziata con la cancellazione delle sanzioni e con l’incontro del presidente degli Stati Uniti con l’ex jihadista al-Shaara, nuovo uomo forte di Damasco; la ripresa dei colloqui con l’Iran sul nucleare, aveva notato come queste mosse americane fossero come dita negli occhi di Netanyahu. Pur nella imprevedibilità e nella scarsa linearità delle scelte di Trump, si poteva pensare all’avvio di una possibile pressione da Washington sul governo israeliano per fermare la guerra a Gaza e riaprire la via al negoziato, per quanto ancora molto difficile, anche con i Paesi arabi sunniti.
Non è andata così. I fatti hanno ridotto l’ipotesi a illazione. Gli Stati Uniti, i soli a poter esercitare una influenza moderatrice – sempre più necessaria – sul primo ministro israeliano, non danno segni di voler prendere l’iniziativa con Gerusalemme. Eppure, gli argomenti non mancherebbero, nell’interesse stesso di Israele. Le convulsioni in seno al governo di Netanyahu, lo scontro senza precedenti con le forze armate, il disorientamento crescente dell’opinione pubblica per la guerra infinita e non risolutiva – la più lunga della storia di Israele – in teoria potrebbero indurre a valutare nuove opzioni. Una spinta decisa dal maggiore alleato, se necessario azionando la leva degli aiuti militari, potrebbe favorire una svolta. Ma oltre oceano non si intravedono movimenti.
Ora, dopo il crudele assassinio di mercoledì a due passi dalla Casa Bianca e la commozione per i due ragazzi uccisi alla vigilia del loro matrimonio, sarà ancora più difficile immaginare che Trump alzi il telefono e convinca Netanyahu a cambiare registro. Oltre a stroncare la vita di due innocenti, l’odioso crimine di Washington fa stringere i ranghi intorno al governo israeliano e frena ogni eventuale impulso di Trump di premere sull’alleato.
Intanto, il terrorismo antisemita, pur se condannato con forza, non riduce la compassione e la solidarietà per le migliaia di vittime civili palestinesi a Gaza, il che non deve sorprenderci: il prezzo della guerra è sempre più insopportabile, al pari dell’assoluta, perdurante incertezza sul futuro della Striscia e su chi dovrà avere la responsabilità di ricostruirla e governarla.