

Il conflitto israelo-palestinese è un unicum : le parole che lo descrivono dovrebbero esserne il riflesso
Una prima avvertenza, di natura storica. Israele non è nato nel peccato; non è stato il rifugio dal razzismo antisemita fino all’aberrazione della Shoah. Né è uno stato “colonialista” nel senso classico dell’Europa e della sue conquiste coloniali in Africa o in Asia e dello schiavismo imposto alle genti indigene. Gli ebrei hanno vissuto storicamente un legame profondo, emotivo, culturale, identitario e anche fisico con quel lembo minuscolo di terra detto Israele. Lo stato di Israele nella contemporaneità è stato creato legalmente attraverso il piano di spartizione votato dalle Nazioni Unite nel 1947 e la guerra di indipendenza contro gli eserciti dei paesi arabi coalizzati che rigettarono tale decisione. Giustizia – se il termine ha un senso verace – dovrebbe consentire a un popolo disperso e per secoli perseguitato di vivere in pace e in sicurezza una sua esistenza nazionale legittima su quel piccolo pezzo di terra.
Una seconda particolarità: Israele è vissuto sin dalla nascita in uno stato permanente di guerra guerreggiata interrotto da periodi di tregua, in una ostilità atavica del mondo arabo circostante. La non esistenza di uno stato palestinese riflette certo una “colpa” di Israele, ma anche la responsabilità del mondo arabo, delle leadership palestinesi e della comunità internazionale.
Una terza cautela attiene al principio di realtà. Gli israeliani non vivono e non hanno mai vissuto in pace nel quotidiano. Soffrono di un’ostilità che ha assunto storicamente le forme della guerra e quelle infami del terrorismo. L’attuale, aspro dibattito sulla questione se Israele stia commettendo crimini contro l’umanità o persino genocidio trascura il fatto che se Hamas avesse liberato gli ostaggi nelle sue mani ciò avrebbe da tempo messo fine alla guerra distruttiva in atto e con essa alla devastazione di Gaza e dell’esistenza collettiva dei quel popolo. Israele è sì colpevole delle immani sofferenze imposte ai gazawi, ma su Hamas grava una responsabilità politica delle stesse. Il 7 ottobre 2023 Hamas sapeva che la risposta israeliana sarebbe stata durissima ed ha scientemente e cinicamente abbandonato ad essa la popolazione della striscia. Rifiuta tuttora di liberare gli ostaggi sopravvissuti, fornendo così ragioni all’azione bellica così devastante di Israele. 22 stati membri della Lega Araba hanno riconosciuto questa realtà chiedendo nel marzo scorso il disarmo di Hamas.
Un quarto motivo di preoccupazione concerne gli appelli in Occidente al boicottaggio degli israeliani in quanto israeliani, l’ostracismo talora vistoso e irritante anche in campo culturale e accademico di istituzioni israeliane. Ciò equivale a razzismo tout court. Sotto questo aspetto così come altri la critica a Israele è pericolosamente affine all’antisemitismo. Vi è spesso nella retorica corrente uno slittamento lessicale e filosofico nel vieto stereotipo di vittime e carnefici. Ciò traduce una concezione essenzialista della storia umana per cui gli israeliani di oggi, tutti indistintamente, un che di collettivo, un popolo malato nella sua interezza metafisica, siano i figli, i nipoti, gli eredi degli ebrei di 80 anni fa, vittime dello sterminio di massa e tramutati oggi in carnefici. È una falsità evidente, come dimostra il dibattito sofferto che divide la società israeliana tra correnti d’opinione democratica e altre ad esso opposte di natura integralista e autoritaria, nonché lo strumento facile di un meccanismo autoassolutorio per l’Europa colpevole per secoli dell’antigiudaismo cristiano e del razzismo antisemita. Un meccanismo che abbiamo visto operare distintamente soprattutto intorno alla Giornata della Memoria negli ultimi due anni, ma che ricorre vistosamente in articoli, sondaggi d’opinione, manifestazioni pubbliche.
Quale un atteggiamento costruttivo del resto del mondo? Le masse di israeliani che combattono per la loro democrazia e contro il governo bellicista dovrebbero essere sostenute, non boicottate. Allo stesso modo, i palestinesi che richiedono un’Autorità palestinese riformata al posto di Hamas dovrebbero essere sostenuti da Israele e dal resto del mondo. Gaza deve essere ricostruita per creare uno stato palestinese sostenibile che coabiti in buona convivenza con Israele. Se il governo Netanyahu insegue l’occupazione permanente di Gaza e l’annessione de facto di parti rilevanti del West Bank, le sanzioni potrebbero diventare una risposta adeguata.
Il trauma di questi eventi funesti rivelerà alla coscienza di Israele come sia illusoria l’opinione che il conflitto si possa risolvere senza porre fine all’occupazione e alla convinzione di potere reprimere le aspirazioni palestinesi ad uno stato degno di questo nome. O forse all’opposto indurirà ancor più gli israeliani convinti che i palestinesi tutti siano come Hamas e che uno stato lungo i 500 km del confine con Israele sia un pericolo esiziale. Il trauma ha messo in forse comunque due elementi chiave della coscienza di sé del paese: la fiducia nella forza delle armi e quella nelle sue ragioni ideali riconosciute dall’opinione pubblica mondiale. Ambedue ora fortemente compromesse.
La sicurezza di Israele non può fondarsi sulla mera forza delle armi. Uno stato ebraico non significa di per sé sicurezza fisica per i suoi abitanti né la rimozione della condizione ebraica di precarietà. Anzi, il trauma immane di questi giorni ha acuito il senso di insicurezza, l’angoscia di un paese forte ma anche debole, occupante ma anche assediato. La gravità del trauma, il panico che ne è seguito, le deficienze nel prevenire l’eccidio di Hamas hanno concorso a innescare forme di ritorsione massiccia. La sicurezza esige la sconfitta di Hamas, ma anche la convinzione della popolazione che dall’azione non-violenta e dalla trattativa può scaturire un futuro decente. È quindi interesse preminente di Israele agire per dissociare la società palestinese dalla violenza. Le azioni militari al più agiscono da deterrente nel breve periodo, ma mietono vittime civili, rafforzano la fascinazione per gli estremisti e isolano Israele dalla comunità delle nazioni per l’eccesso di violenza contro i civili pur nell’esercizio del diritto di autodifesa.
Come affermava anni fa Amos Oz, uno dei più noti scrittori israeliani, la guerra fra Israele e i palestinesi nasconde in realtà due guerre che si combattono simultaneamente: l’una, “ingiusta” è quella mossa dal terrorismo fondamentalista di Hamas contro Israele per dare vita ad uno stato islamico nella Palestina intera; l’altra “giusta” è quella del popolo palestinese che aspira ad uno stato degno di questo nome. Specularmente Israele combatte anche esso due guerre: una, “giusta” per la difesa del suo diritto ad esistere come popolo e come stato; l’altra “ingiusta”, per perpetuare l’occupazione dei territori e le colonie ebraiche ivi insediate.
Il principio cui dovremmo ispirarci in queste drammatiche circostanze è quello della “doppia lealtà”: invece di attribuire colpe, di infliggere punizioni, il compito che ci spetta è quello di offrire ponti, spingere le parti in lotta al dialogo, riprendere la logica degli accordi di Oslo del 1993 quando il riconoscimento reciproco dei diritti aveva dischiuso uno spiraglio di speranza: il conciliare il diritto alla pace a e alla sicurezza per Israele con quello ad uno stato indipendente per i palestinesi. Soprattutto, è essenziale, come impegno della società civile in sostegno “dal basso” all’attivismo della diplomazia “dall’alto”, affermare l’illiceità della violenza contro i civili, da una parte e dall’altra; rigettare la disumanizzazione del “nemico”; riconoscere pur con fatica le ragioni dell’altro.
Israele intende “assumere il controllo” della città di Gaza, scatenando un’ondata di critiche
L’esercito israeliano “prenderà il controllo” della città di Gaza secondo un nuovo piano approvato dal gabinetto di sicurezza del primo ministro Benjamin Netanyahu, scatenando una serie di critiche sia all’interno che all’esterno del Paese.
A quasi due anni dall’inizio della guerra a Gaza, Netanyahu deve affrontare crescenti pressioni al fine di raggiungere una tregua per salvare gli oltre due milioni di abitanti del territorio dalla fame e liberare gli ostaggi detenuti dai militanti palestinesi.
Hamas, nemico di Israele, il cui attacco del 7 ottobre 2023 ha scatenato la guerra, ha denunciato il piano di espandere i combattimenti come un “nuovo crimine di guerra”.
La Germania, fedele alleata di Israele, ha compiuto il passo straordinario di sospendere le esportazioni militari per timore che potessero essere utilizzate a Gaza, una mossa che Netanyahu ha criticato aspramente definendola una ricompensa per Hamas.
Secondo il piano appena approvato per “sconfiggere” Hamas, l’esercito israeliano “si preparerà a prendere il controllo della città di Gaza, distribuendo aiuti umanitari alla popolazione civile al di fuori delle zone di combattimento”, ha dichiarato venerdì l’ufficio del premier.
Netanyahu in un post su X ha affermato: “Non occuperemo Gaza, ma la libereremo da Hamas”.
Ha aggiunto che la smilitarizzazione del territorio e l’istituzione di “un’amministrazione civile pacifica… contribuiranno a liberare i nostri ostaggi” e a prevenire future minacce.
Israele ha occupato Gaza dal 1967, ma ha ritirato le sue truppe e i suoi coloni nel 2005.
L’ufficio di Netanyahu ha dichiarato che il gabinetto ha adottato “cinque principi”, tra cui la smilitarizzazione di Gaza e “l’istituzione di un’amministrazione civile alternativa che non sia né Hamas né l’Autorità Palestinese”.
Il piano ha suscitato immediate critiche da tutto il mondo, con Cina, Turchia, Gran Bretagna e numerosi governi arabi che hanno rilasciato dichiarazioni di preoccupazione.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha definito il piano israeliano una “pericolosa escalation” che rischia di “aggravare le conseguenze già catastrofiche per milioni di palestinesi”.
Fonti diplomatiche hanno riferito all’AFP che il Consiglio di sicurezza dell’ONU si riunirà domenica 10 agosto per discutere il piano.
L’opposizione della GermaniaAnnunciando la sospensione delle forniture militari a Israele, il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha affermato che era “sempre più difficile capire” in che modo il nuovo piano potesse contribuire al raggiungimento di obiettivi legittimi.
In Israele, la decisione del governo ha suscitato reazioni contrastanti, mentre il ministro della Difesa Israel Katz ha affermato che l’esercito aveva già iniziato a prepararsi per la sua attuazione.
Anche il principale gruppo di pressione delle famiglie degli ostaggi ha criticato aspramente il piano, affermando che equivaleva ad “abbandonare” i prigionieri.
“Ieri sera il governo ha deciso di intraprendere un’altra iniziativa sconsiderata, sulle spalle degli ostaggi, dei soldati e dell’intera società israeliana”, ha affermato il Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi.
Dei 251 ostaggi catturati durante l’attacco di Hamas del 2023, 49 sono ancora prigionieri a Gaza, di cui 27 che secondo l’esercito sono morti.
Secondo quanto riportato dai media locali, un’offensiva israeliana su più ampia scala potrebbe vedere le truppe di terra operare in aree densamente popolate dove si ritiene che siano tenuti prigionieri gli ostaggi.
Nel frattempo, alcuni israeliani hanno espresso il loro sostegno.
“Una volta preso il controllo di Gaza, elimineranno completamente Hamas, o forse non completamente, ma almeno una buona percentuale dei suoi membri”, ha affermato Chaim Klein, uno studente di yeshiva di 26 anni.
L’esercito israeliano ha dichiarato il mese scorso di controllare il 75% della Striscia di Gaza.
“Siamo esseri umani”Gli abitanti di Gaza hanno dichiarato di temere ulteriori sfollamenti e attacchi mentre si preparavano alla prossima offensiva.
“Ci dicono di andare a sud, poi di tornare a nord, e ora vogliono mandarci di nuovo a sud. Siamo esseri umani, ma nessuno ci ascolta né ci vede”, ha detto all’AFP Maysa al-Shanti, una donna di 52 anni madre di sei figli.
Venerdì 8 agosto Hamas ha affermato che “i piani per occupare la città di Gaza ed evacuare i suoi abitanti costituiscono un nuovo crimine di guerra”.
Ha avvertito Israele che l’operazione gli sarebbe “costata cara” e che “espandere l’aggressione significa sacrificare” gli ostaggi detenuti dai militanti.
Cresce la preoccupazione internazionale per le sofferenze dei palestinesi a Gaza, dove una valutazione dell’ONU ha avvertito che si sta verificando una carestia.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato che quest’anno almeno 99 persone sono morte di malnutrizione nel territorio, e che la cifra è probabilmente sottostimata.
L’agenzia di protezione civile di Gaza ha riferito che un ragazzo di 19 anni è rimasto gravemente ferito durante la consegna di aiuti tramite lancio aereo sulla città di Gaza.
“Ogni giorno si registrano feriti e vittime causati dalla caduta di pacchi pesanti sulle teste delle persone nelle zone densamente popolate”, ha affermato il portavoce della protezione civile Mahmud Bassal, aggiungendo che le risse e il sovraffollamento nei luoghi di consegna degli aiuti causano spesso vittime.
Bassal ha affermato che gli attacchi israeliani su Gaza venerdì hanno causato la morte di almeno 16 persone.
Negli ultimi mesi Israele ha allentato alcune restrizioni sugli aiuti che entrano a Gaza, ma secondo le Nazioni Unite la quantità di aiuti nel territorio rimane insufficiente.
L’offensiva israeliana ha causato la morte di oltre 61.000 palestinesi, secondo il ministero della salute di Gaza gestito da Hamas.
L’attacco del 2023 contro Israele ha causato la morte di 1.219 persone, secondo un conteggio dell’AFP basato su dati ufficiali.
© Agence France-Presse
L’America di Trump tra anomalie e abusi
L’America di Trump assomiglia sempre di più a quella dei ‘baroni ladri’ di fine Ottocento. Un’antologia di anomalie e abusi: ritorsioni sotto forma di licenziamenti e inchieste, riscritture della storia e una sala da ballo alla Casa Bianca.
La guerra e una nuova politica industriale
La priorità assegnata dai governi alla difesa e alla sicurezza è ormai un elemento irreversibile. Il mondo si va riorganizzando in sfere d’influenza e il vantaggio competitivo degli Stati non si misura più solo sulla capacità di attrazione economica. Raggiunto l’accordo di massima tra i membri della NATO per una crescita degli investimenti in difesa fino al 3,5% del PIL nei prossimi anni, con un successivo scatto fino al 5%, si tratta adesso di allocare queste risorse nella maniera più utile e sensata. Ed è in questa accezione che lo sforzo previsto non va letto solo in un’ottica militare.
Difesa come motore di innovazione tecnologica e ricadute civiliChe gli investimenti in difesa creino ricadute importanti su settori diversi è un dato noto da tempo. L’esempio più eclatante è lo sdoganamento a fini civili della rete internet, sviluppata originariamente per scopi di comunicazione militare. Il DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) negli Stati Uniti è da sempre il laboratorio più avanzato di ricerca in ambito militare, che ha generato benefici enormi a livello globale, ad esempio sulle nanotecnologie e sui microchip. Non si contano poi le applicazioni civili o cosiddette “duali” che derivano dalla ricerca spaziale. Insomma, ogni singolo euro investito in difesa genera tipicamente ricadute più che proporzionali sull’economia e sulle applicazioni civili, oltre a determinare il rafforzamento della tutela di un bene irrinunciabile, come la sicurezza e la protezione degli Stati.
Nuovi scenari economici: tra riconversione e sfide strutturaliIn questa fase storica, però, c’è molto di più. C’è la necessità di convertire e adattare interi pezzi di economia a un mondo che è radicalmente cambiato. Non si tratta di assecondare quella che in modo superficiale è stata definita “economia di guerra”, i cui esiti, peraltro, sono ampiamente incerti. Lo ha fatto di recente la Russia, che ha di fatto mobilitato una buona parte della base industriale e produttiva per la costruzione e la fornitura di mezzi e sistemi militari per la campagna in Ucraina. Oggi possiamo affermare che quella russa è un’economia di guerra a tutti gli effetti, e che la sua parziale o totale retrocessione a produzioni convenzionali non sarà né facile né scontata. Un dato che deve, da solo, allarmare rispetto ai pericoli futuri della minaccia russa all’Europa e all’ordine internazionale. Oggi, mediamente, un soldato di Mosca al fronte viene pagato tre volte di più di un manager di una grande impresa, dieci volte di più di un operaio specializzato. Con tutte le conseguenze immaginabili in termini di potere d’acquisto e di tenuta sociale nel lungo periodo.
Crisi del modello tedesco e nuove pressioni competitiveLa verità è che il ritorno della guerra ha fatto crollare i vecchi schemi economici e produttivi. Si pensi al successo del modello tedesco, che abbiamo ammirato e provato a imitare per molti anni. È un modello che è stato basato su tre fattori: alta produttività, alti salari, costi di produzione, in particolare dell’energia, molto bassi. Oggi, l’ipotesi di un ritorno a prezzi economici di gas e petrolio è remota se non irrealistica. I salari non possono crescere più di tanto, a causa dell’inflazione. E, di conseguenza, la produttività ne risente pesantemente. Il risultato è che il Prodotto Interno Lordo della Germania è ormai fermo da tempo.
La competizione internazionale, poi, si è fatta al contempo più accesa. Ormai gli stessi amministratori delegati delle storiche case automobilistiche tedesche riconoscono che le migliori soluzioni, le tecnologie più innovative a un costo accessibile arrivano dalla Cina. L’industria automobilistica tedesca e, più in generale, la manifattura, sono messe in forte discussione da nuovi protezionismi, dazi e tariffe commerciali, catene produttive diventate nei decenni troppo lunghe.
Difesa come leva di politica industriale e stimolo economicoQuando il Cancelliere tedesco Merz ha illustrato il suo piano da mille miliardi di euro di nuovi investimenti in difesa su un arco temporale di dieci anni, lo ha fatto pensando anche alla necessità di scongiurare il pericolo della desertificazione industriale, oltre a quello dei carri armati russi alle porte d’Europa. Interi pezzi della vecchia manifattura pesante verranno progressivamente riconvertiti per servire l’industria nazionale dell’aerospazio e della difesa. Si tratta di un’iniziativa che ha aspetti keynesiani, di stimolo pubblico alla crescita e agli investimenti. Inevitabilmente sarà così per tutti i Paesi che nei prossimi anni, in virtù dell’impegno assunto e dell’instabilità crescente, dovranno garantire maggiori spese militari. Settori industriali compatibili e oggi compromessi dal terremoto geoeconomico in corso dovranno orientarsi verso nuove produzioni.
Questo vuol dire fare politica industriale. C’è una profonda differenza, infatti, tra economie di guerra e politiche industriali in grado di rafforzare la base competitiva con investimenti pubblici e privati, in un settore diventato ormai irrinunciabile come la difesa. Questo tipo di politiche può servire diversi scopi e avere ricadute ampie, oltre a quella ormai esistenziale di garantire protezione e sicurezza per i territori degli Stati e dei loro cittadini.
“TACO: Trump alla fine si tira sempre indietro”
La politica commerciale di Donald Trump è stata soprannominata “Taco”, acronimo inglese per “Trump alla fine si tira sempre indietro”. Ma nella sua ultima guerra commerciale con l’Ue, è Bruxelles che ha fatto marcia indietro. L’accordo Usa-Ue in cui l’Unione ha accettato dazi statunitensi sui beni europei con un’aliquota del 15%, oltre a dazi separati e ancora più punitivi su acciaio, alluminio e auto, e promesse mirabolanti di 600 miliardi di euro in acquisti europei di gas liquefatto e armi a stelle e strisce, non solo rappresenta un pessimo accordo per l’economia europea, ma anche la più tangibile manifestazione che un’Europa in cui i nazionalismi e i sovranismi sono in ascesa è un’Europa incapace di difendere i propri interessi.
Bruxelles puntava inizialmente a un accordo tariffario “0% contro 0%”, considerando il bilancio commerciale transatlantico complessivo, includendo anche i servizi. Infatti, sebbene l’Ue goda di un significativo surplus commerciale di beni con gli Usa, presenta un costante disavanzo nei servizi, in particolare quelli tecnologici.
Il confronto con l’accordo britannico e le aspettative europeeL’accordo che il Regno Unito ha concluso con gli Usa, accettando un dazio del 10%, era considerato negativamente negli ambienti europei: dato il suo peso economico e la dipendenza da parte di alcune esportazioni statunitensi dai mercati europei, l’Ue riteneva di poter indurre Washington a un accordo più favorevole.
Le trattative non sono però andate bene. Quando l’amministrazione Trump ha ripreso a minacciare Messico, Canada e Brasile, la volatilità ha reso l’Ue desiderosa di chiudere un accordo a ogni costo. In primavera, durante il cosiddetto “giorno della liberazione” proclamato da Trump, l’Ue aveva minacciato forti ritorsioni, incluso il ricorso alla sua opzione “nucleare”: uno strumento commerciale anti-coercizione che avrebbe drasticamente limitato l’accesso statunitense al mercato interno europeo.
L’escalation delle minacce e la capitolazione dell’UETutto ciò è stato accantonato dopo che la Casa Bianca ha ridotto la minaccia di dazi dal 20% al 10%. La visione prevalente tra gli Stati membri, allora, era che anziché seguire Trump nella spirale della guerra commerciale si dovesse negoziare un grande accordo di libero scambio, temendo anche che il presidente Usa potesse sfruttare la dipendenza europea dalla difesa statunitense per colpire al vertice della Nato a L’Aja.
Nel frattempo i negoziati sono proseguiti, senza arrivare ad un accordo, sino a che Trump ha incluso nel pacchetto dazi anche agricoltura e farmaceutica, minacciato dazi generalizzati al 30% e l’Ue ha, ancora una volta, piegato la testa, rinviando il pacchetto di potenziali controdazi da 21 miliardi di euro l’anno. Anche l’ipotesi di attivare lo strumento anti-coercizione è stata accantonata.
Le alternative economiche e i nuovi accordi commercialiCertamente, i dazi di ritorsione avrebbero avuto effetti autolesionistici. Dal punto di vista economico, avrebbe più senso puntare sulla rimozione delle barriere commerciali con altri paesi: oltre agli accordi di libero scambio già conclusi con quattro paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) e con il Messico, l’Ue ha accelerato i negoziati con Australia, Nuova Zelanda e India, e ha avviato colloqui con gli Emirati Arabi Uniti. Ha inoltre raggiunto un accordo con l’Indonesia e proposto ai paesi del Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership – che include 11 paesi dell’area Asia-Pacifico più il Regno Unito – di valutare la possibilità di sviluppare una nuova Organizzazione Mondiale del Commercio.
Le conseguenze politiche: divisioni interne e indebolimento europeoMa cedere al bullismo commerciale di Trump potrebbe comunque trasformarsi in un boomerang politico per l’Europa. Sebbene il commercio estero sia gestito collettivamente dall’Ue, le decisioni politiche devono comunque essere approvate da una maggioranza qualificata degli Stati membri, spesso divisi tra “colombe” e “falchi”. Hanno prevalso i primi. Tra queste ci sono paesi di destra, nazionalisti e amici di Trump, come l’Italia; e paesi che temono la reazione di Trump nell’ambito della difesa militare, come quelli del Nord e dell’Est.
Insieme, costituiscono una maggioranza solida, che potrebbe indurre l’Ue a cedere fino ad arrivare forse persino ad allentare le proprie normative digitali, vero obiettivo di Trump. Una simile genuflessione a Washington equivarrebbe a un indebolimento significativo dell’integrazione europea. Con un accordo in cui l’Ue ha accettato un’aliquota base del 15% sui dazi statunitensi è difficile sostenere che l’unità europea sia stata una fonte di forza. L’inclinazione dell’Europa verso il nazionalismo e l’estrema destra sta indebolendo il continente, rafforzando proprio quelle forze che ne minano gli interessi.
Lo scatto francese e l’ignavia dell’Europa
I simboli possono essere anche più importanti delle azioni, ma è difficile che i soli gesti simbolici riescano a risolvere problemi storici o conflitti incancreniti. Alla vigilia della conferenza internazionale convocata nei giorni scorsi a New York, su iniziativa della Francia e dell’Arabia Saudita, per rilanciare la soluzione dei due Stati israeliano e palestinese, il presidente Emmanuel Macron ha preannunciato la decisione di Parigi di riconoscere a settembre lo Stato di Palestina. L’Autorità nazionale palestinese ha accolto l’annuncio con soddisfazione, Hamas ha brindato, il governo israeliano l’ha condannato senza mezzi termini. Hanno reagito duramente anche gli Stati Uniti, mentre altri, come Regno Unito e Canada, stanno seguendo di fatto la Francia.
La realtà del conflitto oltre il riconoscimento simbolicoIl riconoscimento non modifica la realtà del conflitto sanguinoso che da ventidue mesi il governo israeliano conduce a Gaza condannando a morte, con la feroce complicità di Hamas, migliaia di civili innocenti, anche per fame. Per Benjamin Netanyahu, il passo di Macron è un premio assurdo, inaccettabile, al terrorismo di Hamas. Ma per un numero crescente di Stati potrebbe essere una risposta, a questo punto inevitabile anche se solo emotiva, alla situazione disperata della Striscia. D’altra parte, il riconoscimento di uno Stato inesistente purtroppo non ha impatto sulla guerra.
Di questa guerra oggi non si vedono altre ragioni se non, da un lato, la sopravvivenza politica di Netanyahu e degli estremisti suoi alleati di governo; e, dall’altro, il terribile cinismo di Hamas, che dopo il massacro perpetrato il 7 ottobre ha tutto l’interesse a continuare a tenere prigionieri gli ostaggi israeliani (un’assicurazione sulla vita, per i terroristi) insieme alla stessa popolazione palestinese, anch’essa immobilizzata in una trappola mortale. Interessi opposti convergono quindi per la prosecuzione del conflitto, le vittime non contano e la tregua, già troppe volte annunciata, sembra un miraggio.
Dubbi sull’efficacia della strategia franceseSe bastasse il colpo di frusta di Macron per uscire dall’incubo, non si dovrebbe discutere. Eppure non mancano i dubbi. Di fronte a uno stallo ogni giorno più insopportabile, può apparire obbligata la scelta del riconoscimento come strumento di pressione politica e ben motivata l’insofferenza per i tanti distinguo. Tuttavia, resta da verificare se a questo stadio il passo francese sia il più efficace o se non rischi di avere addirittura effetti perversi quali, ad esempio, un maggior consenso interno a favore di Netanyahu e soci e della loro nefasta intransigenza.
Il vuoto di leadership internazionalePoi, certo, alla base dello scatto francese c’è stata l’ignavia dell’Europa paralizzata dalle sue divisioni. E la riluttanza, anzi l’incapacità, degli Stati Uniti a far valere la propria influenza in una regione cruciale anche per gli interessi Usa. Washington non prende neanche in considerazione l’opzione di premere su Israele, se mai possibile, attraverso una riduzione degli aiuti militari. L’Ue esita a usare la leva dell’accordo di cooperazione con Israele, la cui sospensione costituirebbe un concreto segnale di censura al governo di Netanyahu.
La conferenza di New York e le responsabilità mancateOra, nel disastro epocale di Gaza, si riparla di due Stati, nonostante l’opposizione dei due principali attori, Israele e Hamas, e lo scetticismo di molti, rassegnati al peggio. Da New York, con la condanna da parte di Lega araba e europei per il massacro del 7 ottobre è giunto un chiaro appello al disarmo di Hamas, alla liberazione degli ostaggi e all’avvio di un negoziato per i due Stati.
Sinora in questa tragedia ci sono stati troppi latitanti. È mancata una linea americana di contrasto dell’estremismo messianico del governo israeliano, che alimenta odiose ondate di antisemitismo. Né si è vista una decisa assunzione di responsabilità dei Paesi arabi, per debellare Hamas e programmare la gestione della Striscia, da ricostruire nell’interesse dei palestinesi e con l’obiettivo di una loro entità statale.
Le chiavi della soluzione: Washington e RiadSicché le chiavi per l’avvio di una soluzione realistica del dramma in atto stanno ancora soprattutto a Washington e Riad. Se la decisione di Macron e altri sul riconoscimento della Palestina potrà essere un pesante sasso nello stagno di americani e Paesi del Golfo e scuoterli dal loro immobilismo, sarà un passo positivo. Se invece, come al momento è anche lecito temere, resterà circoscritta alla simbologia e alla retorica – o se finisse persino per accreditare i nemici di qualsiasi idea di convivenza bi-nazionale – la mossa di Parigi mostrerà purtroppo tutti i suoi limiti.
Il chiaroscuro di Starmer: luci e ombre del primo anno laburista
Sebbene non abbia mai goduto del carisma leaderistico di alcuni suoi predecessori, e il suo successo elettorale sia stato frutto (anche) della stanchezza generale provocata dall’ottovolante che i Tories hanno rappresentato per 14 anni, forse Keir Starmer pensava che la sua luna di miele con il Paese sarebbe durata un po’ più a lungo. Dodici mesi dopo, invece, lo scenario per il governo laburista appare complesso, così tanto da far titolare all’Economist “la tragedia del Labour”. Il bilancio del primo anno di Starmer a Downing Street è un chiaroscuro da leggere principalmente attraverso tre lenti: economia, immigrazione e politica estera.
Economia: i conti non tornanoIl precario stato delle finanze pubbliche era noto ben prima del successo elettorale del 2024. Anni di austerity hanno lasciato il segno, tra liste d’attesa infinite per il Servizio Sanitario Nazionale e settori come i trasporti ormai ridotti all’osso (o privatizzati). A ciò si aggiunge una crescita economica anemica acuita dalla hard Brexit perseguita dai Tories che ha avuto conseguenze nefaste per l’economia britannica. Il Paese è ormai bloccato nel più lungo periodo di stagnazione economica dagli anni ’30 del secolo scorso, ha un debito pubblico sempre più alto e l’inflazione resta di oltre un punto percentuale al di sopra dell’obiettivo del 2%. L’economia britannica non cresce perché è afflitta da fattori di crisi strutturali che richiederebbero soluzioni altamente costose (per le quali, proprio per mancanza di crescita economica, non ci sono risorse). Questo circolo vizioso non è stato sin qui spezzato dal Labour, al quale viene rimproverato sia da destra che da sinistra la mancanza di coraggio nel proporre misure poco incisive ed efficaci, soprattutto sul welfare, se non addirittura nefaste, quali ulteriori tagli che finiscono per colpire le fasce più vulnerabili della popolazione. Proprio l’ultima misura in tal senso ha provocato una rivolta parlamentare che ha costretto Starmer a ritirare il provvedimento e a sottoporsi a un infuocato Question Time il 2 luglio, nel corso del quale non ha preso le difese di Rachel Reeves, Cancelliere dello Scacchiere. Le sue lacrime inquadrate dalle telecamere durante l’intervento di Starmer hanno fatto il giro del mondo e suscitato la reazione allarmata dei mercati, oltre a comunicare il senso di un governo in confusione e in affanno.
L’eterno dilemma migratorioTake back control: lo slogan attorno al quale, ossessivamente, si è svolto (e vinto) il referendum sulla Brexit. Lo stesso mantra ripetuto da Boris Johnson nella cavalcata elettorale del 2019. Lo stesso concetto ribadito anche da Starmer per intercettare in campagna elettorale i voti dei brexiteer delusi, ovvero l’idea che il Regno Unito debba limitare gli afflussi migratori nel Paese e fermare l’arrivo di imbarcazioni provenienti dalla Francia con a bordo i migranti. Anche su questo versante i dati non sono del tutto positivi per il governo: l’arrivo di 43.000 persone tramite imbarcazioni di fortuna attraverso la Manica nell’ultimo anno (+38% rispetto al periodo precedente) non rafforza l’immagine di un governo impegnato a contrastare le gang di trafficanti di esseri umani, come più volte annunciato. Le immagini delle proteste delle comunità locali attorno agli hotspot per migranti rappresentano un’occasione d’oro per le opposizioni. Eppure, è proprio l’immigrazione il tema di politica interna sul quale Starmer ha provato a fare maggiormente la voce grossa. Le immagini diffuse tramite canali ufficiali di migranti irregolari arrestati avevano suscitato aspre polemiche nel suo stesso partito e nel Paese. Il Labour è consapevole che il tema è quello più sentito dall’opinione pubblica e cerca di coprire il fianco destro dagli attacchi politici mostrando polso fermo. Come con i provvedimenti annunciati il 23 luglio che mirano a introdurre il primo regime sanzionatorio al mondo per colpire le bande responsabili della migrazione irregolare, congelandone i beni e bandendoli dal Paese.
La ribalta internazionaleSul piano internazionale, Starmer ha raggiunto i risultati migliori. È riuscito a contenere i danni con Trump, a mantenere una linea ferma sulla difesa dell’Ucraina ponendosi alla testa della ‘coalizione dei volenterosi’, ha espresso una voce critica su Gaza e soprattutto ha riaperto un dialogo serio e costruttivo con la Ue. Proprio l’evoluzione futura del reset appena iniziato con Bruxelles, di cui esistono però al momento più i contorni che i contenuti, risulterà decisiva sia per riallacciare legami solidi con un partner commerciale di cui Londra ha estremo bisogno, sia per ripensare l’architettura di sicurezza del continente europeo in una fase così critica.
Un futuro di nome Farage?Nonostante le incertezze, gli inciampi e le timidezze, la maggioranza di Starmer alla Camera dei Comuni è solida e in grado di garantirgli una navigazione abbastanza tranquilla per il resto della legislatura. Un fantasma si aggira però per Westminster, quello di Nigel Farage. A nove anni di distanza dal referendum sulla Brexit e con un partito nuovo di zecca, la scheggia impazzita della politica britannica continua a essere lui. Inaffidabile e provocatorio come sempre, Farage si è reso protagonista di annunci sempre più roboanti sui provvedimenti che prenderà se approderà a Downing Street, soprattutto in materia di immigrazione e sicurezza. Piani costosissimi per i quali non ha fornito alcuna copertura economica, ma tanto basta per solleticare la pancia del Paese. Intanto il suo Reform UK vola nei sondaggi, e ha per ora sorpassato il Labour al primo posto e i Tories come principale partito di opposizione, mentre nelle ultime elezioni locali e suppletive di maggio ha fatto registrare un’ottima performance.
A offrire un barlume di speranza ai laburisti sono però altre rilevazioni demoscopiche secondo le quali la maggioranza dei britannici preferirebbe comunque Starmer a Farage come Primo Ministro. Non è un bel segnale per Reform che evidentemente, anche nella sua fase più ascendente, non riesce ancora a spingersi oltre il perimetro di una (pur consistente) minoranza. Non è tanto, ma è qualcosa da cui ripartire per Starmer e il suo governo. Quattro anni sono lunghi ma possono anche volar via in un attimo. Starmer lo sa, e dovrà lavorare sodo per far sì che presto l’inverno dello scontento si faccia estate radiosa.
L’autorità e la forza di Friedrich Merz
Quello che è sicuramente riuscito a Friedrich Merz, in questa primissima esperienza di governo, è di aver dato un’impressione di forza e autorità che era mancata a chi lo aveva preceduto. Al contrario di Olaf Scholz, al quale veniva rinfacciata una certa opacità e una carenza di leadership sulla scena nazionale come su quella internazionale, Friedrich Merz ha mostrato meno tentennamenti. Il banco di prova è stato, come già per altri, l’incontro con il presidente americano: fin dall’incontro-agguato con Zelensky, i momenti pubblici con Trump sono diventati l’indicatore della leadership internazionale. Merz se l’è cavata indubbiamente bene, riuscendo a toccare anche temi molto delicati (la memoria della guerra, i rapporti transatlantici) senza cadere in trappole retoriche.
Molti però sono i nodi da sciogliere e i banchi di prova per il cancelliere cristiano-democratico, in un contesto internazionale che, con l’accelerazione diplomatica sul fronte di Gaza, mette la Germania particolarmente sotto pressione. Bisogna infatti tenere presente che l’attuale governo tedesco, pur essendo a trazione cristiano-democratica, è sempre un governo di coalizione, con una dialettica interna peraltro accentuata dalla infinita transizione interna che caratterizza i socialdemocratici.
Il Cambiamento della CDU: Dall’Era Merkel al Conservatorismo di MerzLa vittoria elettorale di Merz ha certamente voluto dire cambiamento, da intendersi non solo rispetto alla precedente coalizione semaforo, ma anche rispetto alla precedente linea cristiano-democratica di Angela Merkel. Lo si è visto su alcuni dossier strategici: ad esempio, quello migratorio, in cui Merz, anche per evitare di perdere consensi a favore di Alternative für Deutschland, ha operato una forte stretta. Da ciò si vede che la CDU di Merz è profondamente mutata rispetto a quella dell’era Merkel: il partito si configura e si presenta agli elettori come una forza più chiaramente definita in senso conservatore, facendo venire meno le tendenze ondivaghe del decennio precedente.
Politica Estera: Continuità e Cautela StrategicaMa è anche vero che, su altri dossier strategici, il governo tedesco ha dovuto agire con continuità e, soprattutto, con cautela. Lo si è visto, ad esempio, nel modo in cui Merz ha proseguito la politica di sostegno all’Ucraina, confermando gli impegni presi e facendo ulteriori aperture di credito nei confronti di Kiev. La cautela è stata il principio ispiratore nei rapporti con gli Stati Uniti. Nei negoziati commerciali Berlino ha sempre sostenuto la necessità di evitare strappi, nella convinzione che un cattivo accordo può essere sempre migliorato, mentre la ricostruzione di un rapporto interrotto rappresenta una sfida ben più difficile. Sul fronte dei rapporti commerciali con gli Stati Uniti, il governo tedesco mira peraltro a giocare un ruolo di primo piano, come mostrato dalla visita che il ministro delle Finanze, Lars Klingbeil, ha condotto negli Stati Uniti. La ragione di questo attivismo è duplice: da un lato vi è l’ambizione ad avere un ruolo di guida tra i governi europei, pur senza scavalcare la Commissione europea, dall’altro vi sono priorità di ordine nazionale. In particolare, la Germania vuole evitare danni troppo rilevanti per il settore automotive, la cui crisi sta avendo effetti dirompenti, sia reali che percepiti, sull’economia nazionale.
Sfide Interne ed Europee: Pragmatismo e ContraddizioniQuello che emerge, nel modus operandi del nuovo governo, è una tendenza a procedere con pragmatismo e moderazione sulla scena internazionale, accettando anche una serie di contraddizioni momentanee. A rendere problematica questa linea sono però sia fattori interni che internazionali. Sul fronte interno la ritrovata unità della CDU (soprattutto dopo la non brillante transizione del dopo-Merkel) va bilanciata con le fibrillazioni che caratterizzano l’SPD. Qui la guida di Klingbeil non appare al momento così salda e, soprattutto, il partito si va dividendo su alcuni temi fondamentali. È indicativo, ad esempio, il fatto che stiano emergendo una serie di orientamenti contrastanti circa l’atteggiamento da tenere nei confronti della Russia. Sul fronte internazionale la Germania deve poi confrontarsi con le priorità (e anche con gli stili) degli altri leader europei.
Guardando a questi primi passi del governo Merz, si ha l’impressione che il cancelliere tedesco abbia voluto rimarcare la centralità del dialogo con la Francia, sottolineando come l’asse Parigi-Berlino, che a molti appariva inceppato, girasse ancora alla perfezione. Non è però da escludersi che la strada immaginata a Berlino non corrisponda pienamente con quella pensata a Parigi. Lo si vede, in particolare, su due grandi questioni: quella palestinese e quella dei rapporti con gli Stati Uniti. Sul primo versante si vede come la Germania avesse impostato una linea molto cauta (per certi versi simile a quella italiana), che è però apparsa superata a causa dell’attivismo franco-britannico, che ha peraltro fornito all’SPD un argomento di pressione all’interno dell’esecutivo. Nei rapporti con gli Stati Uniti, si deve tenere presente che, come mostrato dalla storia di lungo periodo, l’approccio tedesco ai rapporti transatlantici è strutturalmente diverso da quello francese. Questo può tradursi in una serie di divergenze circa la linea da tenere nelle trattative tariffarie nonché, più in generale, nei confronti dell’amministrazione Trump.
Il terzo governo Sánchez al giro di boa
Il governo Sánchez III nacque già dalla scelta del premier di sciogliere il Parlamento, all’indomani della sconfitta nelle amministrative del 2023, senza attendere la scadenza naturale.
Tale scelta fu dettata dall’assunzione di un rischio politico di Pedro Sánchez: spingere la sinistra a ricompattarsi e a rivitalizzarsi di fronte alla sfida imposta dall’avanzare, ormai robusto, della destra (i popolari erano diventati il primo partito alle amministrative) e dalla situazione del paese che aveva attraversato la crisi catalana e non solo, anche quella del Covid-19.
Il leader socialista guidò quella che venne definita la remontada e si avvicinò agli avversari del partito popolare – risultato ancora il primo partito – quel tanto che bastava per poter permettergli di essere competitivo in termini di maggioranza in parlamento. Questa fu in qualche modo garantita dalla difficoltà di Vox, da una parte, e dalla, quasi imprevista, resistenza di Sumar di Yolanda Díaz e dal mantenimento degli accordi con i partiti nazionalisti.
Questi sono i prodromi di quello che poi è diventato il governo “en minoría” di Sánchez, solidificatosi su un rapporto complesso più che con la sinistra con le forze che gli garantirono la maggioranza, cioè i partiti baschi e catalani sopra tutti, compreso, con una certa dinamica, Junts per Catalunya di Carles Puigdemont.
La nascita quindi del terzo governo del premier Pedro Sánchez ha in sé questi elementi strutturali precari, soprattutto la maggioranza trova sostanza sul piano parlamentare su una sorta di “desistenza contrattata”, se si può dire, con il partito di Carles Puigdemont.
L’Opposizione Divisa e la Strategia del “Sanchismo”Questa situazione non può che essere irrimediabilmente ostile (e molto di più) all’opposizione che però spesso è divisa. I popolari non considerano Vox un alleato stabile, per ragioni culturali, pur essendo quest’ultimo nato da una costola del Ppe, e con il quale amministrano, e sono, inevitabilmente, separati anche in Europa.
Inoltre questo problema di coesione si intreccia con i limiti ideologici della visione centralista dei popolari e non ci si riferisce solo alla grave questione catalana, ma anche ad altre aree di crisi della democrazia spagnola.
Se si vuole, in forme diverse, ma sia Casado, sia ora Feijóo, uno più populista, l’altro più pragmatico ed ex presidente della Galizia, hanno abbandonato la tradizione politica di Aznar e del suo tentativo di avanzamento del disegno autonomico, che qualche risultato aveva espresso agli inizi del nuovo secolo, perseguendo invece azioni politiche conflittive a senso unico (salvo forse quando si parla di magistrati), senza trattenere insulti e violenza verbale, spesso contro la persona del premier.
La scarsa visione politica sulla questione catalana, sulla legge di amnistia (avallata dalla Corte Costituzionale), solo per citare gli argomenti più noti, è forse l’aspetto della loro azione politica più evidente.
Da un punto di vista politologico, quello che i popolari e Vox chiamano con sprezzo, anche morale, il “sanchismo” in realtà si fonda sulla consapevolezza dei limiti del consenso del PSOE e dei partiti alla sua sinistra e quindi sulla necessità politica di accordi e patti con le formazioni “regionaliste” (vedi il robusto rapporto tra PSOE e i baschi del PNV), patti che servono a estendere la coalizione di governo e la forza dei socialisti sul piano nazionale e a rafforzare implicitamente il tradizionale bipolarismo.
Forse è proprio questa condizione di instabilità del governo, così particolare nel panorama europeo, che lo rende più stabile e più coeso, anche se può apparire un ossimoro.
Comunque, il governo di Sánchez è riuscito, grazie anche all’andamento brillante dell’economia, per due anni a dare una certa stabilità alla società spagnola dopo le crisi.
Finora ha riscosso più successi che fallimenti, anche nella giungla parlamentare, ad iniziare dal superamento dello scoglio politico dell’amnistia (nei confronti dei politici catalani coinvolti nel fallito processo di secessione), ma anche grazie allo sviluppo economico, alle politiche dell’immigrazione e alla risoluta e dinamica attività in politica estera, compresa quella europea sotto gli occhi di tutti: su Gaza, sull’Ucraina, sull’America Latina. La leadership di Sánchez tra i partiti socialisti non solo europei è ben radicata.
Il Boom Economico SpagnoloLa Spagna è ormai il quarto paese al mondo per attrazione di investimenti, grazie alle politiche di flessibilità del mercato del lavoro, di opportunità di investimento e di incentivazione. Nell’ultimo anno ha aumentato il PIL del 3,2%, l’incremento più elevato tra i paesi dell’Ocse.
Inoltre la crescita dell’economia è avvenuta attraverso le esportazioni e la produzione di automobili (e non solo attraverso il turismo), e anche grazie alla forte collocazione del paese in Europa e nel mondo.
In tutti questi sette anni di conflitto politico all’opposizione, i popolari non sono riusciti a proporre un’alternativa possibile ai governi Sánchez II e Sánchez III, in termini soprattutto di visione e di interpretazione del paese; troppo è l’astio politico, ormai sconfinato in odio, che ha attraversato nell’ultimo decennio le crisi forse più devastanti della sua storia democratica.
Gli Scandali e le Sfide AttualiTuttavia, quasi come nell’ultimo governo di Felipe González negli anni Novanta, anche in quello di Sánchez, seppure in forma più ridotta al momento, sono affiorati degli scandali di corruzione legati a due politici vicini al premier, che sono ancora in corso e tutti ancora da dimostrare.
I casi dell’ex ministro José Luis Ábalos e del responsabile dell’organizzazione, Santos Cerdán, hanno fiaccato la proiezione del governo. Inoltre, anche altre due indagini – sebbene in una fase di stallo, e su denuncia di una formazione di estrema destra, Manos Limpias, verso la moglie e il fratello dello stesso premier – per “traffico di influenze” hanno peggiorato la situazione.
In soccorso del governo Sánchez è arrivato in luglio l’ennesimo scandalo nelle file del Ppe, quello dell’ex ministro delle Finanze, Cristóbal Montoro. Da una parte sta mitigando i problemi del governo Sánchez, dall’altra sta mettendo un freno, momentaneamente, l’azione politica dello stesso Ppe.
Tuttavia, di recente, per voce di un membro del suo vertice, il Ppe ha fatto sapere che in autunno ripartirà l’iniziativa politica contro la moglie e il fratello.
La linea di Feijóo non cambia: il logoramento del presidente del governo passa dall’assalto ai problemi della sua famiglia.
Come l’invasione su larga scala della Russia ha trasformato i mass media ucraini
L’escalation della guerra russo-ucraina, iniziata il 24 febbraio 2022, ha portato al più grande conflitto militare in Europa dalla Seconda guerra mondiale, trasformando profondamente lo Stato e la società ucraini. Tra le altre cose, il panorama mediatico ucraino è cambiato radicalmente. Ad esempio, le principali emittenti televisive sono state riunite in un unico canale di informazione politica finanziato dallo Stato e attivo 24 ore su 24, chiamato “Telemarathon United News”.
Kyiv non ha introdotto la censura diretta da parte del governo dopo l’imposizione della legge marziale nel 2022, ma ha imposto alcune restrizioni ai mass media ucraini. L’allora comandante in capo delle forze armate ucraine, Valeriy Zaluzhnyy, ha emanato un ordine che delineava questi limiti all’inizio dell’invasione su larga scala da parte della Russia. L’ordine specificava le modalità di accreditamento dei rappresentanti dei media durante lo stato di emergenza, definiva un elenco di informazioni sensibili dal punto di vista militare relative alle truppe e alle loro operazioni che non potevano essere divulgate e regolava il lavoro dei giornalisti nella zona del fronte e la trasmissione di materiale visivo.
Un nuovo panorama mediaticoDal 2022, il mercato dei giornali e delle riviste cartacee è in gran parte paralizzato. Attualmente non esiste alcun periodico nazionale cartaceo incentrato su questioni sociali e politiche, come in passato il quotidiano “Gazeta po-ukrainskyy” (Giornale in ucraino), né una rivista politica cartacea con edizioni regolari, come in passato il settimanale “Ukrainskyy tyzhden” (Settimana ucraina). Le testate che continuano a pubblicare oggi lo fanno regolarmente solo online. In particolare, i giornali e i canali televisivi regionali e locali, soprattutto nelle zone occupate dalla Russia o nelle immediate vicinanze del fronte, sono stati gravemente colpiti dalla guerra.
D’altro canto, il mercato dei media online ucraini si sta sviluppando rapidamente. Alcune ex riviste, come NV.ua, sono diventate prolifiche piattaforme multimediali che producono un flusso costante di testi, video e podcast. Queste imprese ampliate utilizzano una varietà di canali per distribuire i contenuti e non hanno solo un sito web, ma anche account popolari su Telegram, Instagram, Facebook, YouTube, TikTok e così via.
Inoltre, una serie di portali analitici e siti di informazione di alta qualità operano secondo standard professionali e principi etici. Questi media sono principalmente quelli che figurano nella cosiddetta “Lista Bianca” compilata dall’ONG ucraina Institute of Mass Information (IMI), sulla base di verifiche di conformità agli standard professionali. Nel 2024, ad esempio, figuravano in tale elenco i seguenti media: Suspilne, Ukrainska Pravda, NV.ua, Radio Svoboda, Dzerkalo tyzhnia, Babel, Hromadske, Teksty, Hromadske radio, Espreso TV, Slovo i dilo, Graty e Ukrainskyy tyzhden.
Per quanto riguarda il consumo dei mass media, i programmi radiofonici tradizionali e i periodici cartacei hanno continuato a perdere popolarità durante la guerra. I social media, invece, hanno registrato un aumento di popolarità. Secondo l’indagine annuale condotta dall’agenzia InMind per conto della filiale ucraina di Internews e dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (USAID) nel 2024, la stragrande maggioranza degli ucraini ha consumato notizie principalmente attraverso i social media (84%). Una percentuale significativamente inferiore ha utilizzato siti web di informazione o la televisione (30%), la radio (12%) o la carta stampata (5%). Per la prima volta dall’invasione del 2022, nell’autunno del 2024 la fiducia degli intervistati nei media è scesa sotto la metà degli intervistati (47%).
Problemi di finanziamentoI media ucraini continuano a generare alcuni introiti dalla pubblicità. Tuttavia, tali entrate sono fortemente diminuite dal 2022 e la raccolta fondi a livello nazionale, le sovvenzioni da parte di organizzazioni internazionali e il crowdfunding hanno rapidamente acquisito importanza, in particolare per i media indipendenti e regionali. Nella prima metà del 2022, ad esempio, le campagne di crowdfunding e le donazioni hanno raccolto oltre 2,2 milioni di euro per sei mesi di attività di 13 media nazionali, coprendo circa il 60% del loro fabbisogno per tale periodo. I beneficiari sono stati Ukrainska Pravda, NV.ua, Liga, Ukrainer, Hromadske, Detektor media, Bihus.info, Slidstvo.Info, Zaborona, Dzerkalo tyzhnia, The Village Ukraine, Forbes e Babel.
Gran parte degli aiuti concessi ai media ucraini è stata fornita, fino all’inizio del 2025, dal governo degli Stati Uniti attraverso l’USAID e altre organizzazioni. La decisione dell’amministrazione del neoeletto presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump, di porre fine alla maggior parte di tali programmi di sostegno in tutto il mondo, compresa l’Ucraina, ha avuto un impatto negativo sui media indipendenti ucraini. In primo luogo, ha colpito duramente le piccole redazioni regionali, in particolare quelle che sono state trasferite da regioni temporaneamente occupate o situate nelle zone di combattimento. La decisione di Washington per il 2025 ha anche conseguenze negative per il giornalismo d’inchiesta.
Secondo l’esperta di media Galyna Piskorska, “l’80% dei media ucraini riceveva finanziamenti attraverso l’USAID. Senza gli aiuti dei donatori o il sostegno del bilancio statale nel 2025, i giornali e le riviste potrebbero diminuire di un ulteriore 20% in Ucraina, mentre la diffusione in abbonamento potrebbe calare del 25-30%”. Secondo un’indagine condotta su 120 redazioni, il 7,5% ha iniziato a ridurre il personale dopo la sospensione dei finanziamenti statunitensi nel febbraio 2025. Un ulteriore 9,5% aveva problemi con l’affitto degli uffici, l’11% aveva ridotto la produzione di contenuti e il 10,5% stava tagliando gli stipendi e passando al lavoro part-time. Questa dipendenza dai finanziamenti esteri può sembrare malsana, ma l’economia di guerra dell’Ucraina offre poche alternative ai media non di intrattenimento per guadagnare denaro e svilupparsi.
Telegram al posto della televisioneLa sfida più grande per i media tradizionali oggi è la concorrenza dei social network. Il sondaggio Internews/USAID citato sopra ha rilevato che Telegram è ora il principale fornitore di notizie in Ucraina. Nel 2024, il 73% degli ucraini intervistati utilizzava questa piattaforma per informarsi sugli eventi. YouTube era al secondo posto con il 19%.
I canali politici di Telegram hanno raggiunto un pubblico sempre più vasto dopo l’invasione. Secondo un sondaggio condotto nel dicembre 2022 dall’Istituto internazionale di sociologia di Kyiv (KMIS) per l’Istituto ucraino per i media e la comunicazione (UMCI), il 63,3% degli ucraini ha iniziato a utilizzare i canali Telegram per ricevere notizie politiche dopo il 24 febbraio 2022, mentre solo il 35,9% lo faceva prima dell’invasione su larga scala. In un contesto di escalation della guerra, sono stati creati numerosi canali Telegram in parte anonimi, che in alcuni casi raggiungono milioni di iscritti.
L’enorme popolarità di Telegram può essere spiegata dall’adeguatezza del suo design a una situazione di guerra. Nel sondaggio UMCI/KMIS citato, il 41% degli intervistati ha affermato che i canali Telegram sono utili perché comodi da usare; il 39% li apprezza per le informazioni tempestive sui lanci di missili/droni e sui possibili tempi/aree di impatto; il 37,6% li apprezza per la loro rapidità. Un ulteriore 23,5% degli intervistati utilizza i canali Telegram perché pubblicano notizie non disponibili sui media tradizionali.
Nonostante le critiche rivolte a Telegram da esperti dei media, organizzazioni della società civile, parlamentari e governo, dopo il 24 febbraio 2022 sono iniziati ad apparire su Telegram canali ufficiali di istituzioni pubbliche, tra cui rappresentanti di organi statali e amministrazioni locali. Questi vari attori pubblici hanno seguito una tendenza sociale dominante. La proliferazione del social network ha anche costretto i media tradizionali a creare i propri canali Telegram. Persino l’esercito ora comunica con la popolazione tramite Telegram.
ConclusioniLe funzioni e il funzionamento dei mass media ucraini sono cambiati radicalmente dopo il 24 febbraio 2022. I canali televisivi precedentemente controllati dagli oligarchi sono scomparsi e sono stati in parte fusi nella maratona televisiva finanziata dallo Stato “United News”. Le emittenti indipendenti, le agenzie di stampa, i portali web e i periodici rimasti hanno dovuto reinventarsi e cercare nuovi pubblici, formati di pubblicazione, canali di comunicazione e fonti di finanziamento. L’importanza dei social media, in particolare di Telegram, è aumentata vertiginosamente. Il panorama mediatico è diventato meno aperto a causa della censura militare, della centralizzazione governativa e dell’autocensura politica.
Nonostante queste e altre sfide derivanti dalle condizioni di guerra e dalla legge marziale in vigore dal 2022, il dibattito pubblico ucraino rimane sostanzialmente pluralistico. La diversità di opinioni è stata garantita, tra l’altro, da:
- l’attività dell’emittente pubblica Suspilne movlennia (Social Broadcasting)
- la diversità dei media online e il loro finanziamento indipendente
- i numerosi canali Telegram non controllati
- la diffusione di informazioni politiche attraverso vari altri social media
- la presenza di team di ricerca investigativa in diversi media
- la presenza di organizzazioni non governative che monitorano gli organi statali
- il dibattito pubblico sostanzialmente libero su questioni controverse.
Ciononostante, lo stato del panorama mediatico ucraino non è né soddisfacente né stabile. Richiede ulteriore attenzione da parte degli attori nazionali e internazionali.
Diana Dutsyk è docente senior di giornalismo presso l’Accademia Kyiv-Mohyla, membro della Commissione non governativa ucraina per l’etica giornalistica e del Consiglio presidenziale per la libertà di parola e la protezione dei giornalisti.
Nathalie Tocci nominata Cavaliere dell’Ordine Nazionale della Legion d’Onore
Nathalie Tocci, Direttrice dell’Istituto Affari Internazionali, è stata nominata Cavaliere dell’Ordine Nazionale della Legion d’Onore dal Presidente della Repubblica francese. Si tratta della più alta onorificenza che la Francia possa conferire a personalità che si sono distinte per meriti straordinari in campo civile e militare.
L’annuncio ufficiale è giunto attraverso una lettera formale dell’Ambasciatore di Francia in Italia, Martin Briens. “Il mio governo ha voluto ricompensarla per l’amicizia e il sostegno che ha sempre dimostrato nei confronti della Francia nel corso della sua brillante carriera di ricercatrice in relazioni internazionali”, si legge nella comunicazione diplomatica, dove vengono evidenziate “la competenza ed efficienza riconosciute da tutti” che hanno caratterizzato il percorso professionale della Tocci.
L’Ambasciatore ha inoltre rimarcato il ruolo svolto da Tocci: “Francofona, europeista e interlocutrice privilegiata dell’Ambasciata di Francia in Italia da molti anni, lei ha contribuito, con la sua disponibilità a dialogare con i nostri ministri, segretari di Stato e alti funzionari francesi, al pieno successo dei loro viaggi di lavoro in Italia e, più in generale, alla costruzione di un dialogo fruttuoso tra i nostri due paesi”.
Istituita da Napoleone Bonaparte nel 1802, l’Ordine Nazionale della Legion d’Onore incarna oltre due secoli di storia francese ed è oggi riconosciuta a livello internazionale come simbolo di eccellenza e dedizione al servizio del bene pubblico. L’onorificenza viene conferita sia a cittadini francesi sia a personalità straniere che abbiano reso servizi eminenti alla Francia o ai valori che essa rappresenta.
La scelta di insignire Nathalie Tocci si inserisce in una tradizione consolidata di riconoscimenti francesi a personalità italiane di primo piano. Nel corso degli anni, infatti, questa prestigiosa decorazione è stata conferita a figure di spicco del panorama politico, culturale e scientifico italiano, articolata nei suoi cinque diversi gradi di merito. Tra i nomi più illustri che hanno ricevuto questo onore ai diversi livelli della gerarchia troviamo i Presidenti della Repubblica Sergio Mattarella e Giorgio Napolitano. Il mondo della politica è rappresentato da figure come Romano Prodi, Massimo D’Alema e Mario Draghi, mentre l’ambito culturale vanta personalità del calibro di Umberto Eco, Emma Bonino e Claudia Cardinale.
La cerimonia ufficiale di consegna dell’onorificenza si svolgerà presso il magnifico Palazzo Farnese, sede storica dell’Ambasciata di Francia a Roma.
Riflessioni sul riconoscimento dello Stato palestinese
L’Ambasciatore Michele Valensise, Presidente dello IAI, è intervenuto a Spazio Transnazionale, il programma di Radio Radicale condotto da Francesco De Leo.Valensise ha commentato la decisione annunciata dalla Francia di riconoscere lo Stato di Palestina a settembre, in occasione dell’Assemblea Generale dell’ONU, e la volontà del Regno Unito di dare il proprio assenso al riconoscimento in assenza di un cessate il fuoco entro settembre.
Gigante economico, nano politico: l’Europa di fronte a Trump
Ha vinto Donald Trump o Ursula von der Leyen? È l’interrogativo di gran parte della stampa europea all’indomani della bozza di accordo (ancor oggi non vincolante) fra Usa e Ue sulla questione dei dazi.
Forse non è la domanda più appropriata. Bisogna infatti partire dal fatto che la guerra dei dazi l’ha lanciata Trump, non l’Europa. Ci siamo quindi fin da subito trovati nella condizione di doverci difendere da un attacco, per di più da quello che in teoria doveva essere un nostro alleato. È poi abbastanza ironico che l’incontro si sia svolto in Scozia, parte di quel Regno Unito che ha abbandonato l’Ue alcuni anni fa. Umiliante, come minimo, anche in considerazione del fatto che l’Inghilterra ha strappato fin da subito una concessione più vantaggiosa della nostra: il 10% di dazi contro il 15% dell’Ue.
Per di più, è apparso assai penoso assistere a una pre-conferenza stampa, cosa mai avvenuta in altri contesti, ancora prima di discutere le linee generali dell’accordo. Alle domande dei cronisti, von der Leyen è intervenuta una sola volta, mentre Trump furoreggiava con gli argomenti più disparati, dall’odio per le pale eoliche ai suoi sforzi per bloccare il conflitto tra Thailandia e Cambogia. Il tutto per dimostrare che il padrone di casa era lui. E, in effetti, l’incontro si è tenuto nel lussuoso resort del golf di sua proprietà in Scozia. Una località per nulla istituzionale, a sottolineare il dispregio del tycoon per le normali regole diplomatiche. Si aggiunga che nella conferenza stampa, che ha invece seguito la discussione fra le due delegazioni, von der Leyen ha lodato Trump riconoscendo che l’Ue aveva sfruttato per anni l’economia americana e che finalmente si era raggiunto un equo bilanciamento fra Bruxelles e Washington. Un inchino al boss americano che poteva tranquillamente risparmiarsi. Con un Trump chiaramente soddisfatto, nel suo narcisismo, per i risultati vantaggiosi ottenuti nel breve periodo dalla sua guerra non contro i nemici (anzi, con loro è molto più prudente e rispettoso), ma contro gli alleati degli ultimi 80 anni. Un giornale europeo ha definito l’atteggiamento di Trump come “mafia style shakedown”, un’estorsione mafiosa.
A rimetterci alla fine è stata Ursula von der Leyen, arrivata con le mani legate al tavolo della trattativa finale con Trump. Malgrado il mandato ottenuto con grande difficoltà dai 27, la posizione europea non poteva essere altro che difensiva. Minacciare dazi di ritorsione da parte nostra o utilizzare il famoso bazooka, cioè gli strumenti per colpire le grandi aziende tech americane essenziali per far funzionare l’insieme informatico dell’Ue, sarebbe stato probabilmente controproducente, portandoci in un territorio in cui la supremazia americana (e la nostra dipendenza) non lascia spazi di mediazione.
Va anche precisato che von der Leyen ha dovuto barcamenarsi fra due posizioni contrastanti tra i 27. La Francia, da una parte, capeggiava il gruppo di Paesi deciso allo scontro frontale con Trump, mentre la Germania di Merz, assieme all’Italia e ad altri membri dell’Ue, spingeva per abbassare i toni dello scontro con l’amministrazione americana. Il risultato è che alla fine ha prevalso la posizione tedesca (e italiana), con il premio di vedere abbassati dal 25% al 15% i dazi sul settore automobilistico di enorme importanza soprattutto per Berlino. Il vero guaio è che ai dazi al 15% vanno aggiunti altri elementi che finiranno per aggravare l’intero costo dell’operazione von der Leyen-Trump.
Il primo elemento è, come noto, la progressiva perdita di valore del dollaro rispetto all’euro che dall’inizio dell’anno, secondo i calcoli di Confindustria, è calato di circa il 12%: cifra che va aggiunta a quella dei dazi.
Il secondo elemento di peggioramento della situazione è l’impegno europeo a spendere nei prossimi tre anni la bella cifra di 750 miliardi di dollari in acquisti di energia e di armamenti sul mercato statunitense. Ad esso è stata aggiunta un’ulteriore promessa di investire altri 600 miliardi negli Usa, chiedendo alle aziende e alle istituzioni finanziarie europee di spendere i propri soldi sul mercato americano. Un impegno in realtà molto aleatorio e poco realistico, poiché le previsioni di crescita dell’inflazione negli Usa rendono gli investimenti particolarmente rischiosi, anche alla luce dei tentativi di Trump di cacciare il capo della Fed, Jerome Powell, ultimo baluardo contro le prospettive inflazionistiche della politica economica di Trump.
Il terzo elemento di aggravio del contributo europeo al “ribilanciamento” fra le due economie voluto da Trump è l’impegno preso dai 27 poco più di un mese fa di portare in ambito Nato le spese per la difesa dal 2% al 5% nel giro di pochi anni.
C’è quindi nuovamente da chiedersi la ragione di questo cedimento europeo. Lo ha confessato il commissario europeo per il commercio, Maros Šefčovič, affermando che il negoziato con Trump non si è limitato ai dazi, ma che ha riguardato la sicurezza dell’Ue contro la Russia, il sostegno militare ed economico all’Ucraina, e l’obiettivo di assicurare un po’ di stabilità a un contesto geopolitico estremamente volatile.
Insomma, l’Ue ha dovuto riconoscere che non può fare ancora a meno del sostegno dell’alleato (si fa per dire) americano, non avendo gli strumenti istituzionali e politici per essere maggiormente autonoma. Non è solo Ursula ad aver perso, ma l’Ue come soggetto politico. L’Ue continua quindi ad essere un gigante economico, ma purtroppo sempre di più un nano politico in un mondo che cambia tumultuosamente.
The art of the deal: idee regalo per la Commissione Europea
Alla fine l’accordo è arrivato. Dopo mesi di negoziati e dichiarazioni altisonanti, Usa e Ue hanno definito un’intesa che introduce dazi del 15% su molte esportazioni europee verso gli Usa, effettivi dal 1° agosto. Una riduzione rispetto alla minaccia iniziale del 30%, certo, ma a un prezzo altissimo per l’Europa.
Per ottenere questo compromesso, Bruxelles ha infatti promesso di acqustare 750 miliardi di dollari in energia dagli Usa entro i prossimi tre anni e di investire altri 600 miliardi direttamente nell’economia statunitense. Trump ha ottenuto, a quanto sembra, anche la cancellazione di una possibile digital tax europea sulle multinazionali americane, il mantenimento di dazi al 50% su acciaio e alluminio, e la garanzia di ingenti acquisti militari dalle imprese americane, con buona pace delle aspirazioni europee di autonomia strategica e militare.
Sebbene i veri effetti economici di quest’accordo emergeranno nei prossimi mesi, quando aziende e consumatori inizieranno concretamente a percepirne l’impatto, è già evidente una profonda spaccatura tra la soddisfazione ostentata dai leader europei e le aspre critiche di molti analisti, che descrivono l’intesa come una delle più grandi umiliazioni subite dall’Europa negli ultimi decenni.
I numeri del commercio transatlantico e l’esposizione europeaUe e Usa vantano la relazione economica bilaterale più rilevante al mondo, con un interscambio annuale di circa 1.600 miliardi di euro. Se da un lato l’Ue, come ha più volte lamentato il Presidente Trump, registra un surplus commerciale nei beni (+156 miliardi di euro nel 2023, -2% rispetto al 2021), continua tuttavia a registrare, come sembra aver ignorato anche la Presidente von der Leyen nelle dichiarazioni recenti, un disavanzo nei servizi (–109 miliardi di euro nel 2023, +7,9% rispetto al 2021).
I Paesi Ue con il valore assoluto più elevato di esportazioni di beni verso gli Usa nel 2023 sono Germania, Italia, Irlanda, Francia, Paesi Bassi e Belgio. Tuttavia, non sono solo i grandi esportatori a essere esposti: diversi Paesi, tra cui Irlanda, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca e Lussemburgo, mostrano un’esposizione percentuale superiore al 20% del proprio export totale verso gli Usa, risultando così particolarmente vulnerabili all’imposizione di dazi. Quanto ai servizi, i dati confermano una fortissima dipendenza transatlantica. Gli Usa rappresentano il primo partner commerciale per i servizi in quasi metà dei Paesi Ue e rientrano sistematicamente tra i primi tre partner per quasi tutti gli Stati membri. In sintesi, sia nel commercio di beni che in quello di servizi, l’Ue si conferma fortemente esposta agli Usa, con implicazioni significative in caso di inasprimento delle politiche protezionistiche o rotture negoziali.
Un storia di conflitti commerciali a difesa degli interessi commercialiNonostante questa forte interdipendenza e la stretta alleanza militare, l’Ue e gli Usa sono sempre stati nel tempo strenui difensori dei reciproci interessi commerciali. Non hanno mai firmato un accordo di libero scambio e i negoziati per il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), avviati nel 2013, si sono arenati nel 2016 e sono stati ufficialmente chiusi nel 2019 a causa di disaccordi su lavoro, tutela dei consumatori, concorrenza e ambiente.
Anche in passato, attacco e difesa sono stati reciproci. Nel 1963 la “Chicken War” causò forti tensioni sui due lati dell’Atlantico, negli anni ’90 vi furono contenziosi sulle banane, nei primi anni 2000 sul divieto Ue alla carne bovina trattata con ormoni. Dal 2004 al 2021, entrambe le parti hanno imposto dazi reciproci a seguito della disputa sui sussidi ad Airbus e Boeing.
Alla luce di questa storia di reciproca determinazione nel difendere i propri interessi, risulta difficile comprendere perché Bruxelles abbia affrontato i negoziati con Trump non come la potenza economica e politica globale che è, ma piuttosto come un partner subordinato che teme la reazione dell’alleato americano.
Le armi commerciali che l’Europa aveva a disposizioneL’Ue non era impotente. Anzi, aveva moltissimi strumenti. Avrebbe potuto colpire le esportazioni agricole simboliche per la base elettorale di Trump – soia, distillati, frutta secca – tutte provenienti in gran parte da Stati repubblicani. Oppure introdurre un dazio europeo sull’uso dei marchi americani, colpendo giganti come Apple, McDonald’s o Starbucks, senza intaccare direttamente i consumatori. In ultima istanza, se pericolosamente minacciata, avrebbe potuto persino sospendere temporaneamente le protezioni brevettuali su aziende statunitensi, come accaduto nella disputa Airbus-Boeing.
Aveva inoltre a disposizione il nuovo Anti-Coercion Instrument, approvato nel 2023, che consente all’Unione Europea di adottare misure di ritorsione mirate contro atti coercitivi da parte di Paesi terzi. Tra queste, figurano la sospensione dell’accesso agli appalti pubblici per aziende straniere, restrizioni su investimenti e scambi, e la revoca temporanea della tutela della proprietà intellettuale.
La Cina, in circostanze analoghe, ha fatto proprio questo: ha usato il proprio peso economico e ha minacciato pesanti ritorsioni. L’Ue ha invece ceduto, nel timore di una guerra commerciale totale. Ma il risultato è un precedente pericoloso. L’Ue non era il Vietnam che non poteva reagire, né tantomeno il Giappone il cui volume di affari era enormemente più limitato.
Una nuova dipendenza: le lezioni non appreseL’Ue aveva la scala economica per mostrare “l’art of the deal” e chiedere quanto le spettava. Negli Usa oltre 1,2 milioni di posti di lavoro dipendono direttamente dalle esportazioni europee di beni, e quasi un milione dai servizi europei. Ha preferito invece un approccio difensivo, forse spaventata dal vedersi aggredita economicamente dagli Usa e militarmente dalla Russia senza lo scudo americano. Eppure, l’accordo raggiunto racconta qualcosa di più profondo: un’Europa che non sfrutta la sua forza, che rincorre l’America invece di trattare da pari a pari.
La lezione del gas russo doveva essere chiara: ogni dipendenza è un rischio. Sembra invece che l’Europa abbia detto no alla Russia ma sì a una nuova dipendenza. Sembra che l’Europa non riesca più a esistere come entità senza dipendere da qualcuno.
Ursula von der Leyen potrà sostenere che l’accordo ha evitato il peggio. Forse è vero, ma solo se non ci fossimo chiamati Europa e non fossimo la terza economia mondiale. Essere amici di tutti è fondamentale, essere subordinati agli interessi altrui è, oggi più che mai, estremamente rischioso. Bruxelles rifletta, perché la storia non concede molte occasioni per rimediare.
Carlo Giannone è Co-Chair of the European Conference at Harvard e Master’s Student of Public Policy at Harvard Kennedy School
L’incerto futuro del caffè
Il caffè affronta un caos inaspettato: un mix di prezzi mai visti prima, nuovi regolamenti, catene del valore fragili e una crisi climatica sempre più evidenti rischiano di trasformare in maniera irreversibile il mercato di una delle commodity più richieste e commerciate al mondo.
Nel febbraio 2025 i prezzi del caffè hanno infatti raggiunto un livello senza precedenti: 4,4 dollari a libbra per i futures arabica (la varietà più richiesta), un aumento di oltre il 300% rispetto a meno di due anni prima. Nonostante una decrescita importante negli ultimi mesi, i prezzi si mantengono ancora intorno ai 3 dollari – oltre il doppio rispetto alla media degli ultimi dieci anni. Alcuni produttori esultano e così gli speculatori che hanno scommesso dalla parte giusta, ma è un problema serio per le aziende di caffè, per le ONG che si occupano delle certificazioni di sostenibilità come Fairtrade e Rainforest Alliance, e per altri attori del settore. Soprattutto, è l’indice di una situazione complessa, che andrà affrontata quanto prima.
Il picco di prezzi di febbraio è sì dovuto a eventi circoscritti, ma arriva infatti dopo anni di crescita più o meno costante, a sua volta dovuta a una serie di fattori in alcuni casi globali, in altri locali. L’evento scatenante è stato il mix di siccità in Brasile (il primo produttore al mondo) e di siccità e piogge torrenziali in Vietnam e Indonesia (secondo e quarto produttore).
Costi Crescenti e Sfide della FilieraIl settore del caffè affronta però costi e difficoltà crescenti. L’aumento globale dei costi dell’energia ha toccato il trasporto della commodity (un fattore rilevante, perché il consumo è mondiale ma la produzione è concentrata nella fascia tropicale), con effetti locali dovuti, ad esempio, all’aumento dei costi dell’elettricità in Brasile a causa della minore produzione idroelettrica dovuta proprio alla siccità. Rilevante è stato anche l’aumento del costo di fertilizzanti e pesticidi, principalmente a causa dell’invasione russa dell’Ucraina – tra settembre 2022 e settembre 2023 il costo del carbonato di potassio, una delle componenti fondamentali per i fertilizzanti, è cresciuto del 149%. C’è poi il costo del lavoro, che per i produttori di caffè è tra il 40 e il 60% del totale, e che in molti paesi è in costante aumento: regioni che vantano una produzione storica di caffè come Veracruz e Chiapas in Messico stanno affrontando da anni una carenza di lavoratori a causa di uno scarso ricambio generazionale e dell’abbandono rurale, a loro volta causati dalla scarsa attrattività economica della coltivazione del caffè – per anni il prezzo è stato sotto il dollaro alla libbra, un valore che molti considerano di poco superiore al costo di produzione.
Impatto del Cambiamento Climatico e Nuove NormativeCi sono poi altri effetti della crisi climatica a rendere il lavoro del coltivatore di caffè sempre meno interessante. La pianta ha bisogno di condizioni particolari di temperatura e umidità per crescere, che stanno scomparendo: nel 2050 i terreni adatti alla coltivazione di caffè potrebbero ridursi del 50% a causa del cambiamento climatico, con un impatto particolarmente forte sull’arabica. E questo non conta l’aumentare di malattie e funghi (come la devastante ruggine del caffè) e altri impatti indiretti della crisi climatica.
La goccia che farà traboccare la tazzina potrebbe essere però il nuovo Regolamento europeo contro la Deforestazione, lo EUDR, che impone il tracciamento di sette commodity chiave (caffè incluso) affinché si dimostri che la loro produzione non ha causato deforestazione. È un regolamento rivoluzionario, che per la prima volta affronta la causa reale del problema del disboscamento (ossia l’agricoltura), ma solo il 30% del caffè è tracciato (e questo è anche il valore più alto tra tutti i prodotti agricoli escluso il cacao). Il costo della creazione di questi sistemi potrebbe essere rilevante, e soprattutto andare a cadere sui produttori, in particolare quelli piccoli e quindi con meno potere di negoziazione (e che in molti casi hanno beneficiato meno dell’attuale aumento dei prezzi).
Iniziative Globali e Prospettive FutureÈ una situazione complessa ma non irrisolvibile, e su cui qualcosa già si sta muovendo. Nel 2024 il G7 a presidenza italiana ha promosso un forte focus sul tema del caffè, molto presente anche nel comunicato di lancio dell’Apulia Food Systems Initiative di giugno di quell’anno, seguito poi a ottobre dalla creazione di un Global Coffee Sustainability and Resilience Fund. Se da un lato queste iniziative stanno ancora continuando nel 2025 (ad esempio con il lancio di un’altra partnership tra Italia a UNIDO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale), dall’altro hanno però tutte un focus africano, in maniera coerente con la visione italiana del Piano Mattei. Serviranno quindi misure più ampie e, soprattutto, globali per affrontare una questione così complessa, che prendano in considerazione gli hub di produzione del caffè globali (Sudest asiatico e America Latina). Strumenti che dovranno lavorare su tutta la catena del valore, ma soprattutto considerare l’importanza dei piccoli agricoltori, i più esposti a fattori come le fluttuazioni di prezzo e la crisi climatica. Giocano un ruolo centrale nel settore, perché rappresentano il 60% della produzione di caffè globale, ma la maggior parte di loro vive ancora sotto la soglia di povertà. Affrontare questa situazione è una questione etica, prima di tutto, ma è anche nell’interesse dei consumatori: coltivatori più fragili abbandoneranno più facilmente la produzione di caffè per altre commodity o per trasferirsi in città, aggravando una situazione già critica e portando a un’offerta nei nostri supermercati e nei nostri bar più scarsa e meno varia. In un caffè equo e sostenibile, in fondo, c’è la soluzione per questa burrasca pronta ad esplodere.
Quadro Finanziario Pluriennale 2028-2034: 2 trilioni per il bilancio europeo
Il 16 luglio la Commissione Europea ha presentato la proposta per il prossimo Quadro Finanziario Pluriennale (QFP), che determinerà il bilancio europeo per il periodo 2028-2034. Si aprono ora due anni di intensi negoziati fra le istituzioni dell’Ue e gli Stati membri, poiché, oltre a plasmare il bilancio comunitario e stabilire le fonti di finanziamento con cui sostenerlo, la struttura del budget Ue riflette anche i cambiamenti nelle priorità politiche dell’Unione. Non è casuale, dunque, che la proposta della Commissione riprenda le priorità europee emerse negli ultimi anni: la necessità di rilanciare le capacità europee nell’ambito della difesa, l’investimento nella competitività del continente e la volontà di semplificare la governance dell’Ue.
Un bilancio da quasi due trilioni di euroLa principale novità della proposta è costituita dall’aumento nel valore complessivo, che sfiora i due trilioni di euro. Una cifra significativa, ma che deve essere contestualizzata, considerando che copra sette anni di attività. Inoltre, se confermato, il nuovo bilancio equivarrebbe a ‘solo’ l’1,26% del reddito nazionale lordo europeo: se paragonato al peso della spesa pubblica negli Stati membri, si tratta di un onere ancora relativamente modesto. D’altro canto, Stati influenti come la Germania si sono già schierati contro l’aumento di bilancio ed è comunque prassi consolidata che la proposta ambiziosa della Commissione venga poi ridimensionata.
Flessibilità e semplificazione del bilancioGli aspetti che potrebbero sopravvivere ai negoziati sono invece incardinati in alcuni principi di policy trasversali al bilancio. La proposta della Commissione dichiara esplicitamente la necessità di orientare spese e investimenti verso le priorità strategiche dell’Unione. Per ottenere questo risultato, la Commissione ritiene necessario elevare il grado di flessibilità fra le diverse voci di spesa, prevedendo meccanismi che consentano di trasferire più facilmente i fondi da un capitolo a un altro, in modo da rispondere con efficacia ad eventuali nuove crisi. La lezione dell’ultimo bilancio, che ha costretto l’Ue a ricorrere a soluzioni innovative per il sostegno all’Ucraina o per rispondere alla pandemia, ha segnato profondamente la proposta.
Allo stesso obiettivo concorrono i principi di semplificazione e complementarietà. La Commissione promette infatti sia una struttura più snella per il bilancio, sia procedure semplificate per accedere ai fondi europei, anche tramite un rafforzamento del ruolo dei governi a scapito degli enti locali. Le categorie di spesa del bilancio sono quindi state ridotte a quattro, raggruppando i numerosi programmi precedenti. Le nuove categorie sono le Partnership Nazionali e Regionali da 895 miliardi di euro, che aggregano alcune voci storicamente pesanti del bilancio Ue: la Politica Agricola Comune e i fondi per la coesione, un nuovo Fondo Europeo per la Competitività da 409 miliardi – che elenca a sua volta cinque priorità tematiche (difesa e spazio, transizione digitale, transizione ecologica, sanità ed economia bio, Horizon Europe) –, un capitolo per un’Europa Globale, da circa 200 miliardi, che finanzia le attività dell’azione esterna, ed infine le spese per l’amministrazione dell’Unione.
Sulla base del principio di complementarietà, la divisione per capitoli di spesa non è rigida: ad esempio, il rafforzamento della difesa europea passerà dalla combinazione di risorse provenienti da diverse voci, come il Fondo per la Competitività, il potenziale re-indirizzamento dei fondi per la coesione e l’utilizzo di quelli previsti per i progetti di mobilità. Inoltre, sono previsti strumenti extra-budget, come lo European Peace Facility da 30 miliardi, e iniziative già approvate, come SAFE. Anche i fondi per il sostegno all’Ucraina non sono direttamente incorporati nel QFP, ma, nelle intenzioni della Commissione, saranno garantiti da uno strumento esterno al bilancio da 100 miliardi.
Le sfide della condizionalità e del finanziamentoSe questi aspetti potrebbero essere accettati da diversi paesi Ue, la condizionalità prevista dalla Commissione, che lega l’erogazione dei fondi al raggiungimento di risultati e riforme, ha già sollevato maggiori perplessità. Questo principio riprende ancora una volta le lezioni della pandemia e in particolare il modello di governance del Recovery and Resilience Facility (RFF), ma i governi potrebbero essere scettici ad ampliarne l’applicazione a porzioni più corpose del bilancio comune.
Un altro aspetto spinoso, a cui Germania e altri paesi ‘frugali’ si sono già opposti, riguarda l’espansione delle risorse proprie per finanziare una quota più elevata del bilancio e quantomeno stabilizzare i contributi nazionali, che costituiscono comunque di gran lunga la principale fonte di finanziamento dell’Ue. Le risorse proprie sono anche esplicitamente legate al rimborso dei fondi del RFF. La Commissione propone infatti di introdurre nuove forme di tassazione su tabacco, rifiuti elettronici e, soprattutto, sulle aziende con un fatturato nell’Ue superiore ai 100 milioni. Tuttavia, la proposta di tassare ulteriormente le imprese europee mal si sposa, agli occhi delle forze di centro destra (e non solo) che controllano numerosi governi e costituiscono il principale gruppo politico nel PE, con l’obiettivo di rilanciare la competitività europea. La proposta rischia quindi di rimanere lettera morta a poche settimane dalla sua pubblicazione.
È stata inoltre accolta con uguale scetticismo la promozione di un nuovo meccanismo di crisi “temporaneo” da quasi 400 miliardi, che fornirebbe prestiti a tassi agevolati agli Stati membri (e non sovvenzioni a fondo perduto) grazie a forme di indebitamento comune garantite dal bilancio Ue. Sostanzialmente si riprenderebbe l’esperienza del RFF, concedendo all’Unione di finanziarsi sui mercati. Ancora una volta, la Germania e altri paesi si sono però già dichiarati contrari a nuove forme di indebitamento comune.
In conclusione, la proposta della Commissione rischia di venire fortemente rimaneggiata, nonostante sia stata presentata in nome del realismo. Gli aspetti più ambiziosi, come l’aumento di bilancio e le nuove forme di finanziamento, costituiscono punti estremamente controversi, così come la definizione dei fondi che ogni paese potrà aspettarsi di ricevere alla luce della nuova struttura semplificata del budget.
La crisi degli aiuti allo sviluppo: quali vie d’uscita?
Secondo il Center for Global Development, il 2025 passerà alla storia come “l’anno in cui i donatori hanno mandato in fumo i loro impegni per lo sviluppo internazionale”.
La cooperazione internazionale si trova oggi a un punto di svolta: da un lato, i bisogni legati allo sviluppo sostenibile crescono in modo esponenziale; dall’altro, i principali donatori stanno tagliando drasticamente i fondi destinati agli Aiuti Pubblici allo Sviluppo (APS, noti internazionalmente come ODA, Official Development Assistance), che comprendono sia finanziamenti bilaterali destinati direttamente ai Paesi in via di sviluppo, sia contributi erogati attraverso organizzazioni multilaterali.
Nel 2024 questi aiuti ammontavano a 212,1 miliardi di dollari, pari appena allo 0,33% del PIL globale, ben lontani dal target ONU dello 0,7% del reddito nazionale lordo per ciascun paese donatore. Il rischio di non raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) entro il 2030 è ormai altissimo: a soli cinque anni dalla scadenza dell’Agenda 2030, appena il 17% dei target globali risulta in linea con gli obiettivi, mentre la maggior parte presenta ritardi o addirittura regressi. Il divario di finanziamento per i Paesi in via di sviluppo è stimato in oltre 4.000 miliardi di dollari e potrebbe salire fino a 6.400 miliardi entro il 2030 in assenza di un deciso cambio di rotta. Eppure, invece di colmare questo gap, molti Paesi ad alto reddito stanno continuando a tagliare i fondi per lo sviluppo, con un impatto potenzialmente disastroso sulle popolazioni più vulnerabili.
Dopo aver raggiunto un picco di 223,7 miliardi di dollari nel 2023, gli APS sono calati del 7% nel 2024, segnando il primo arretramento in cinque anni. Secondo alcune proiezioni dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), per il 2025 si prevede una flessione ancora più grave, tra il 10% e il 17%: una crisi storica per l’assistenza allo sviluppo.
Gli Stati Uniti, finora il principale Paese erogatore di aiuti internazionali, guidano la ritirata: l’amministrazione Trump ha avviato tagli drastici, prevedendo una riduzione del 56% degli aiuti Usa entro il 2026 rispetto ai livelli del 2023 e cancellando l’83% dei programmi della propria Agenzia per lo Sviluppo USAID. Il vuoto lasciato, pari a circa 60 miliardi di dollari annui, è difficilmente colmabile.
L’UE e i suoi Stati membri hanno fornito il 42% degli APS globali nel 2022-2023, ma in Europa si moltiplicano i tagli: Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia e Svizzera hanno annunciato riduzioni di almeno il 25%. Solo la Spagna ha invertito il trend, aumentando il proprio contributo. L’intera architettura del finanziamento allo sviluppo è sotto pressione, con un divario crescente tra impegni formali e risorse effettive.
L’ONU parla dei “tagli più gravi mai inflitti al settore umanitario internazionale”, con conseguenze devastanti per la salute globale e la lotta alla carestia. Uno studio pubblicato su The Lancet stima che lo smantellamento di USAID potrebbe causare oltre 14 milioni di morti evitabili entro il 2030, di cui 4,5 milioni tra i bambini. I tagli minacciano anche il 47% delle organizzazioni impegnate nei diritti delle donne e rischiano di compromettere gli impegni finanziari per il clima anche perché, sebbene i fondi per il clima dovrebbero essere aggiuntivi rispetto agli aiuti allo sviluppo, in molti casi vengono rietichettati, riducendone l’impatto effettivo.
I tagli sono ufficialmente motivati da vincoli di bilancio, crisi economiche e nuove priorità strategiche, come il ritorno dell’“America First” negli Stati Uniti e il crescente focus sulla sicurezza nazionale da parte di molti governi NATO, che stanno dirottando risorse verso la spesa militare in un clima di tensioni con la Russia e di sfiducia verso Washington. Anche in Australia, Giappone e Corea del Sud si registrano aumenti della spesa militare a scapito degli aiuti allo sviluppo. La retorica del “la carità inizia in patria” attraversa tutto lo spettro politico, alimentata da economie in contrazione e preoccupazioni per la sicurezza. Secondo alcuni osservatori, sta emergendo una dinamica di emulazione negativa tra gli Stati, che ha interrotto quella competizione virtuosa che per decenni, all’interno del Comitato per l’Assistenza allo Sviluppo dell’OCSE (Development Assistance Committee, DAC), aveva spinto i donatori a presentare i propri sforzi in modo positivo e a garantirne la massima efficacia sin dal 1961. Oggi, gli APS appaiono sempre più ostaggio di dinamiche politiche interne, con governi riluttanti ad assumere nuovi impegni e una tendenza crescente a erogare gli aiuti sotto forma di prestiti agevolati piuttosto che di sovvenzioni.
Se Trump liquida gli APS come inutili sprechi, la cooperazione allo sviluppo è in realtà da tempo oggetto di critiche ben più serie e articolate. Molti esperti ritengono il modello attuale obsoleto, inefficace se non addirittura controproducente: si denuncia la crescente esternalizzazione a consulenti privati e la tendenza a servire gli interessi strategici dei donatori, rafforzando la propria sfera di influenza. Si è anche perso il legame con la missione originaria dello sviluppo, come dimostra lo spostamento dell’attenzione verso emergenze a breve termine, che finisce per compromettere obiettivi di lungo periodo come la riduzione della povertà. Infatti, sempre più spesso spese interne come l’accoglienza dei rifugiati nei Paesi donatori vengono conteggiate come APS, gonfiando i numeri record del 2023. In effetti, il calo attuale è dovuto anche al ridimensionamento di queste voci, oltre alla riduzione degli aiuti all’Ucraina, del supporto umanitario e dei contributi alle organizzazioni internazionali.
Alcuni esperti considerano l’attuale crisi un’occasione storica per ripensare il sistema di assistenza allo sviluppo. Tra le priorità: rafforzare la localizzazione degli aiuti, riducendo la dipendenza da forniture esterne che possono compromettere interventi salvavita, come nel caso degli alimenti terapeutici pronti all’uso (RUTF) prodotti negli Stati Uniti. Al contempo, si sottolinea la necessità di diversificare le fonti di finanziamento, coinvolgendo nuovi donatori statali (come Cina, India e Paesi del Golfo) e fondazioni filantropiche, e promuovendo l’uso dei Diritti Speciali di Prelievo del Fondo Monetario Internazionale, ad esempio sotto forma di prestiti attraverso le banche multilaterali di sviluppo per finanziare investimenti di sviluppo. Alle Conferenze ONU sul finanziamento per lo sviluppo – dalla prima a Monterrey nel 2002 fino all’ultima di quest’anno a Siviglia – sono da tempo discusse diverse linee di azione per il reperimento di nuove risorse. Uno degli obiettivi centrali è la mobilitazione delle risorse interne nei paesi beneficiari attraverso un miglioramento della riscossione fiscale e un più efficace contrasto all’evasione. Temi ricorrenti sono anche nuove forme di tassazione globale a livello internazionale, come una carbon tax, una tassa sulle transazioni finanziarie o sui biglietti aerei di prima classe. Si punta inoltre a un maggiore contributo del capitale privato con nuovi strumenti di finanza mista.
Nessuna soluzione è definitiva e persistono ostacoli rilevanti: investimenti privati in calo a causa di alti tassi e rischi percepiti, filantropia che si trasforma in filantrocapitalismo, quando applica logiche di mercato allo sviluppo e impone priorità dettate dai donatori, banche multilaterali di sviluppo spesso inadatte nei mercati più vulnerabili perché lente e avverse al rischio. Al centro resta la fragilità strutturale del sistema ONU, dipendente da fondi volontari e vincolati a usi specifici (earmarked): emblematico il caso del Programma Alimentare Mondiale (World Food Programme, WFP), colpito dai tagli al contributo USA (che ammontava al 46% del budget del WFP nel 2024) e da altri donatori europei, oggi costretto a decidere chi lasciar morire di fame. Più in generale, il sistema multilaterale soffre la resistenza dei Paesi ad alto reddito a riformare l’architettura globale del finanziamento allo sviluppo: dalla riluttanza a trasferire la governance dell’APS dal DAC dell’OCSE all’ONU, fino all’indebolimento, a Siviglia, degli impegni sulla ristrutturazione del debito dei Paesi a medio e basso reddito.
Di fronte alla crisi esistenziale che investe il senso stesso dell’assistenza internazionale, può essere utile recuperare una definizione più chiara e operativa di “sviluppo”, capace di ristabilire priorità concrete. Gli APS potrebbero concentrarsi sui contesti più fragili e sulle vulnerabilità estreme (crisi umanitarie, salute, povertà), affidando lo sviluppo a lungo termine ad altri strumenti. Perché qualsiasi transizione del sistema di cooperazione risulti credibile ed efficace, è però indispensabile una narrazione collettiva che presenti l’assistenza allo sviluppo come mera beneficenza, ma come un investimento strategico. Sviluppo e sicurezza sono profondamente interconnessi: la cooperazione internazionale rappresenta, oggi più che mai, una delle forme più lungimiranti di promozione della stabilità e di prevenzione delle crisi.
Sara Vicinanza ha svolto un tirocinio presso il Programma Multilateralismo e Governance Globale dell’Istituto Affari Internazionali (IAI)
A 50 anni da Helsinki, tra speranze deluse e auspici possibili
Nella calda e limpida giornata del primo agosto del 1975, tra le rive placide del Baltico e la tensione ancora glaciale della Guerra Fredda, prendeva forma l’Atto Finale di Helsinki, espressione di una volontà condivisa – almeno in apparenza – di pace e cooperazione tra Est e Ovest. A cinquant’anni di distanza, il sogno di una sicurezza inclusiva e indivisibile resta incompiuto, ma non del tutto smarrito.
La Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa (CSCE), che diede vita all’Atto, fu frutto di anni di diplomazia silenziosa, di dialoghi ostinati e di visioni lungimiranti. “È necessario muoversi lungo strade nuove per costruire la pace”, disse Aldo Moro, nel 1973, prefigurando lo spirito della conferenza. E Luigi Vittorio Ferraris, diplomatico di grande levatura e tra gli artefici italiani di quel processo, parlava di una “coesistenza attiva, fondata sulla responsabilità e il rispetto reciproco”. Ma fu la Finlandia, con il suo ruolo di paese neutrale e ponte tra i blocchi, ad offrire il terreno diplomatico ideale. Il presidente Urho Kekkonen, consapevole della delicatezza geopolitica del suo paese, si fece promotore instancabile dell’iniziativa, proponendo Helsinki come sede del vertice già nel 1969. “La neutralità non è passività, ma impegno attivo per la pace”, affermava Kekkonen, che nel 1975 si trovò al centro della scena internazionale, ospitando, nel bianco Palazzo Finlandia opera di Alvaro Aalto, 35 capi di Stato e di governo e presiedendo con autorevolezza il vertice. Da quell’Atto nacque un processo che, nel tempo, si trasformò in istituzione: la CSCE divenne OSCE nel 1995, assumendo un ruolo permanente nel panorama della sicurezza europea. L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa oggi riunisce 57 Stati e opera su tre pilastri: politico-militare, economico-ambientale e umano. Il suo mandato spazia dal controllo degli armamenti alla promozione dei diritti umani, dalla prevenzione dei conflitti all’osservazione elettorale. Non è un organismo con poteri vincolanti, ma un foro di dialogo e mediazione, capace di intervenire nei momenti di crisi e di accompagnare i processi di pace.
Cinquant’anni dopo, la Carta del 1975 appare tanto ambiziosa quanto fragile, schiacciata da conflitti irrisolti, revisionismi territoriali e nuove forme di guerra. Eppure, in questo anniversario, tornano parole che sanno di rilancio. “Siamo chiamati a reinventare Helsinki,” ha dichiarato il Presidente Sergio Mattarella, “non come riproposizione del passato, ma come progetto per una nuova architettura della pace.” A fargli eco, il Segretario di Stato vaticano Pietro Parolin ha sottolineato che “una nuova Helsinki è possibile, se torniamo a credere nel diritto come ponte e non come barriera”.
Le celebrazioni di quest’estate 2025, che coincidono con il Giubileo della Chiesa cattolica – il cui motto è Peregrinantes in Spem, “Pellegrini di speranza” – offrono un’occasione unica per riflettere sul significato della pace e della speranza nel mondo contemporaneo. “Dobbiamo fare di tutto perché ognuno riacquisti la forza e la certezza di guardare al futuro con animo aperto,” aveva scritto Papa Francesco in vista dell’Anno Santo. L’attuale ambasciatore di Finlandia in Italia, Matti Lassila, sottolinea che “grazie alla sua posizione neutrale in quel periodo, la Finlandia ha sempre agito nel corso degli anni per promuovere la distensione tra i blocchi e il Presidente Kekkonen fu molto attivo su questo obiettivo… quindi l’Atto finale della CSCE è stato davvero un successo di quegli sforzi e la Finlandia venne riconosciuta a livello internazionale come Paese costruttore di pace”.
Le commemorazioni, riassunte in Helsinki +50, in programma nella capitale finlandese, includono tavole rotonde, mostre storiche e riflessioni condivise fra giovani di oggi e testimoni dell’epoca. Un’azione concreta è quella prevista dal lancio, nell’ambito della conferenza, del ‘Fondo Helsinki+50’ : fondo che mira a migliorare l’erogazione di finanziamenti volontari a sostegno delle attività in linea con i principi e gli impegni dell’OSCE e a rafforzare il legame tra donatori e l’OSCE. Il fondo integrerà il bilancio dell’OSCE, non lo sostituirà.
Si respira la consapevolezza di una memoria da riattivare, non da custodire in teche di vetro. Forse l’eredità più vera dell’Atto di Helsinki sta proprio nella sua incompiutezza: nel ricordarci che la pace non è un documento da firmare, ma una pratica da rinnovare. E che il dialogo, come disse Ferraris, “non è debolezza, ma intelligenza della complessità”.(gn)
Riconoscere la Palestina?
Emmanuel Macron ha annunciato che a settembre la Francia riconoscerà ufficialmente la Palestina. La Francia si trova così nella buona compagnia di altri 147 Paesi, fra cui diversi europei. L’annuncio ha tuttavia suscitato in Occidente diffusa perplessità e non poche critiche; in parte perché si tratta della prima decisione di questo genere da parte di un paese europeo membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Le critiche sono però state numerose anche sul piano interno e questo forse riflette l’elevato livello attuale di impopolarità del Presidente; riflette soprattutto la difficoltà che la questione palestinese incontra in un paese dove risiede allo stesso tempo la più grande comunità ebraica d’Europa e una delle più grandi comunità musulmane, i cui rapporti sono peraltro sempre più difficili. La questione merita però un esame più spassionato.
Prima di tutto sulla forma. Macron è stato infatti criticato aspramente, dal governo israeliano ma non solo, per non aver legato la sua decisione alla fine delle ostilità, alla resa di Hamas e alla liberazione di tutti gli ostaggi. Si tratterebbe in sostanza di un implicito riconoscimento della legittimità di Hamas. A ben vedere però questo è un processo ingiustificato. La sua posizione sui crimini di Hamas, sul diritto di Israele all’esistenza e all’autodifesa e anche sulla liberazione degli ostaggi è infatti sempre stata chiara e impeccabile. Forse avrebbe fatto bene a ripetere tutto nello stesso contesto, ma la critica sembra francamente forzata. Del resto, il ministro degli Esteri si è subito affrettato a precisare la posizione complessiva della Francia. Né vale molto la critica di aver rotto l’unità dell’Europa, dal momento che già diversi altri paesi europei avevano compiuto lo stesso passo senza provocare reazioni così accese. Questo per la forma. Ma la sostanza?
Se c’è una costante nella posizione europea e fino a poco tempo fa anche americana sulla questione palestinese, è sempre stata quella di indicare la soluzione dei “due popoli, due stati” come l’unico sbocco possibile. Non è questa la sede per ricordare le spesso tragiche vicissitudini della questione, le speranze deluse e soprattutto le responsabilità largamente condivise fra tutti i principali attori. Tuttavia, il riconoscimento formale della Palestina non si era mai posto in passato con la stessa drammaticità. Cosa è cambiato? Tre cose e non di poco conto. La prima è che l’attuale governo israeliano non solo nega apertamente il principio della prospettiva dei due stati, ma sembra sempre più evidente che l’obiettivo della sua azione a Gaza e in Cisgiordania è quello di renderla di fatto impossibile. Con quale prospettiva? Netanyahu non si pronuncia, limitandosi ad affermare la necessità di debellare completamente Hamas, ma non è illogico pensare che il vero obiettivo sia l’annessione con conseguente parziale o totale espulsione della popolazione palestinese. Altri membri del governo sono più espliciti. Netanyahu sembra del resto anche aver del tutto abbandonato la disponibilità di Israele che esisteva nelle crisi passate ad ascoltare i suoi alleati, a cominciare da quello più importante, gli Stati Uniti. Sembra quasi che egli sia convinto di poter manipolare Trump a suo piacimento; una convinzione che potrebbe rivelarsi pericolosamente illusoria. La seconda novità è che, sia pure con le imprevedibilità proprie di Trump, la prospettiva dei due stati sembra essere stata abbandonata dalla politica americana. La terza novità è la quasi scomparsa dell’Autorità Palestinese come interlocutore credibile, che lascia sul terreno Hamas come unico attore visibile. Ciò non giustifica l’affermazione che dunque “tutti i palestinesi” vogliono la scomparsa di Israele, ma toglie concretezza alla prospettiva di uno stato palestinese. In queste condizioni, non sorprende che gli europei, ancora fedeli all’ipotesi dei due stati, debbano confrontarsi in modo più serrato con il problema del riconoscimento formale. Tutti i governi sono infatti sottoposti a una crescente pressione dell’opinione pubblica, a causa dello stallo politico già descritto, ma soprattutto della drammatica situazione umanitaria a Gaza. Situazione di cui è impossibile negare la tragica realtà, anche scontando una dose di disinformazione da parte di Hamas.
Tuttavia, nella situazione attuale il riconoscimento può avere solo un senso simbolico a causa della già ricordata assenza di un interlocutore credibile che dovrebbe essere la necessaria incarnazione della sovranità di questo nuovo stato. Il riconoscimento formale della Palestina soddisfa quindi un comprensibile bisogno etico, ma qual è la sua giustificazione politica? Il principale argomento a favore è quello secondo cui così si aumenta la pressione internazionale su Israele. Ciò è sicuramente vero, ma non si può negare il pericolo che il riconoscimento della Palestina conduca a una qualche forma di riconoscimento implicito per entità palestinesi che non vorremmo legittimare.
È del resto improbabile che questa mossa possa avere un effetto reale sulla politica di Israele e in un tempo ragionevolmente breve. Resta quindi l’aspetto etico e simbolico, accompagnato dal desiderio degli europei di uscire dalla situazione di marginalità in cui si trovano. Moltiplicare le iniziative di aiuto umanitario, per quanto utile, non fa che accrescere il sentimento di impotenza. Questo desiderio di “esistere”, se è comprensibile, è anche pericoloso. Sul piano internazionale, rischia di farci solo apparire velleitari e di sembrare un cedimento all’accusa di doppiezza nello scarso sostegno alla causa palestinese rispetto all’appoggio incondizionato all’Ucraina. Accusa doppiamente inaccettabile e che dobbiamo invece respingere. Essa proviene da paesi che brandiscono l’etica come pretesto per nascondere una precisa posizione politica: il disinteresse per la sovranità dell’Ucraina e l’accettazione implicita della tesi aberrante di Israele come prodotto del colonialismo europeo. Sul piano interno, la mancanza di risultati concreti può invece avere l’effetto opposto a quello che probabilmente ricerca Macron; potrebbe infatti radicalizzare ulteriormente l’opinione pubblica e incentivare il già crescente antisemitismo. Ciò spiega probabilmente in parte la reticenza di governi come quello tedesco, britannico o italiano. L’Europa farebbe invece bene a spiegare con chiarezza alla sua opinione pubblica che i suoi mezzi reali per influire sulla situazione sono obiettivamente limitati. La brutalità con cui Trump ha affermato che Macron “è un bravo ragazzo, ma quello che fa non cambia nulla”, riflette la volgarità del personaggio, ma non manca di realismo.
Il futuro del conflitto israelo-palestinese, oltre che dall’evoluzione della situazione interna a Israele, dipende infatti da due fattori. Il primo è costituito dagli Stati Uniti, il paese che rappresenta il vero garante della sicurezza di Israele. Il secondo è invece costituito dai principali paesi arabi, i soli che possono rilanciare su basi nuove gli accordi di Abramo, garantire la neutralizzazione di Hamas, assumersi la responsabilità del governo di Gaza in condizioni accettabili per Israele e favorire l’emergere di un credibile interlocutore palestinese; tutte condizioni indispensabili per ridare credibilità alla prospettiva dei due stati. Netanyahu sembra al momento dare per scontata l’inerzia o persino l’incapacità degli arabi. Dal punto di vista europeo, invece, e di fronte al cambiamento della posizione americana, l’unica speranza di mantenere in vita l’ipotesi dei due stati è quella di appoggiarsi su un’iniziativa araba; una prospettiva che possiamo appoggiare, ma non suscitare. È forse proprio questa l’ottica che dà senso all’iniziativa di Macron, il quale ha proposto una conferenza internazionale sul futuro della Palestina, co-presieduta con l’Arabia Saudita. Quello in realtà sarebbe il contesto giusto per porre la questione del riconoscimento dello stato palestinese, ma a condizione che sia accompagnato da una credibile iniziativa araba.