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Updated: 5 hours 1 min ago

Nuovi equilibri e squilibri istituzionali nell’Unione europea

Tue, 04/08/2025 - 00:00

La nuova legislatura europea che si è aperta lo scorso dicembre è caratterizzata da una serie di nuovi equilibri e squilibri istituzionali, che hanno determinato nuove dinamiche. Sarà vitale, per l’Unione europea, trovare il modo di funzionare e di mantenere l’unità interna anche in questa situazione e durante una fase di grandi mutamenti internazionali.

Se guardiamo all’interno delle istituzioni, le elezioni europee e quelle nazionali che si sono susseguite nel super anno elettorale del 2024 (con la coda di quelle tedesche del 2025) hanno fatto registrare un consenso crescente per forze radicali ed euroscettiche che influenzano le maggioranze al Parlamento europeo, ma anche l’agenda della Commissione e del Consiglio europeo. 

Al Parlamento europeo ha sostanzialmente tenuto una maggioranza centrista, moderata e pro-europea, formata dal Partito Popolare Europeo (PPE), dai Socialisti e Democratici, dai Liberali e dai Verdi. Questa stessa coalizione ha eletto Ursula von der Leyen per il suo secondo mandato come Presidente della Commissione europea con 401 voti, una quarantina in più del minimo necessario. Quasi tutti i partiti estremisti hanno votato contro di lei, segnando una chiara linea di demarcazione tra maggioranza e opposizione. L’opposizione resta divisa tra il gruppo dei “Conservatori e Riformisti Europei” (ECR) guidato fino allo scorso anno da Giorgia Meloni, il neonato gruppo “Patrioti per l’Europa”, al quale appartiene anche la Lega, e il gruppo “Europa delle nazioni sovrane” guidato da Alternative für Deutschland (AfD). Per tenere salda la maggioranza, è stato applicato il “cordone sanitario”, che impedisce ai rappresentanti dei “Patrioti per l’Europa” e dell’”Europa delle nazioni sovrane” – ma non a ECR – di assumere posizioni rilevanti nelle commissioni del Parlamento europeo. Allineamenti alternativi alla maggioranza, in particolare tra PPE e ECR, si sono già verificati, ad esempio per il rinvio e l’indebolimento della legge sulla deforestazione nel novembre 2024, e non è escluso che si ripetano nel corso di questa legislatura. 

Mutano le diverse composizioni degli organi politici

Anche al Consiglio europeo si registra uno spostamento a destra. Con le elezioni in Belgio e in Germania, il numero dei rappresentanti di ECR equivale a quello dei rappresentanti dei Socialisti e Democratici, mentre la maggioranza resta salda in capo al PPE. Trovare il consenso a 27 sta diventando sempre più complicato, tant’è vero che negli ultimi Vertici è stato necessario ricorrere ad espedienti di vario tipo per far passare decisioni necessarie ed urgenti: ad esempio quando il leader ungherese Orban è uscito dalla sala per permettere al Consiglio europeo di votare l’avvio dei negoziati di adesione di Kyiv, oppure allegando alle conclusioni formali dei Vertici le deliberazioni sul sostegno all’Ucraina concordate a 26, di nuovo senza l’Ungheria. E questa tendenza è destinata ad accentuarsi nella prospettiva di un ulteriore allargamento. 

L’attivismo estremo della Commissione

Anche la composizione della nuova Commissione voluta dalla Presidente von der Leyen presenta alcuni elementi nuovi, tra i quali il più evidente è un’estrema frammentazione delle competenze tra i Commissari sui principali dossier. Ne sono un esempio il Clean Industrial Deal, che ricade sotto ben tre Commissari: Teresa Ribera, Vicepresidente esecutiva per la transizione pulita, giusta e competitiva, Stéphane Séjourné, Vicepresidente esecutivo per la prosperità e la strategia industriale e Wopke Hoekstra, Commissario per il clima, l’azzeramento delle emissioni nette e la crescita pulita. Oppure il Libro Bianco sulla Difesa, che è nelle mani di Kaja Kallas, vicepresidente, Alta rappresentate per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Andrius Kubilius, Commissario per la difesa e lo spazio. Di recente, il gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo ha promosso un’interrogazione in cui si contesta che “non esiste un Commissario designato con un portafoglio chiaro per il mercato interno e la tutela dei consumatori”. Avere incarichi in parte sovrapponibili e con obiettivi comuni rende poco chiari i limiti entro i quali ciascun Commissario riesce ad operare, e finisce per accentrare il processo decisionale nelle mani della Presidente von der Leyen. Questa tendenza è stata confermata anche dalla decisione di von der Leyen di istituire 14 “Gruppi di progetto” composti dai diversi Commissari che si occupano di definire iniziative e coordinare il lavoro nelle diverse aree prioritarie d’azione della Commissione. 

Questo marcato rafforzamento delle prerogative della Presidente della Commissione sta influenzando anche le dinamiche inter-istituzionali, realizzando fughe in avanti potenzialmente anche a scapito dei centri di potere intergovernativi. Un ambito in cui questo è particolarmente marcato è quello della difesa, un settore che è ancora di competenza prevalentemente nazionale e in cui le principali decisioni sono soggette alla regola del consenso in sede in Consiglio europeo e Consiglio dell’Unione europea. La Commissione, sfruttando al massimo le sue prerogative in tema di politica industriale della difesa, ha prima istituito il nuovo ruolo di Commissario per la difesa e ha poi proposto due iniziative di primo piano per rispondere alle esigenze di un maggiore impegno europeo: il piano RearmEu, poi ridenominato Readiness 2030, e il Libro Bianco sulla Difesa. Gli Stati membri riuniti in Consiglio e Consiglio europeo hanno reagito sostenendo queste iniziative, ma avanzando anche diverse critiche e richieste di modifica. In generale, quello che emerge è un attivismo estremo della Commissione, senza però una chiara copertura politica dei 27 Stati membri. Invece di tradursi in un rafforzamento della dimensione sovranazionale delle politiche europee, l’attivismo della Commissione rischia di produrre un disequilibrio nell’architettura istituzionale e in un mancato impegno politico da parte delle capitali in iniziative comuni, aumentando le già significative spinte centrifughe che arrivano da dentro e da fuori l’Unione.

Per resistere all’impatto di queste trasformazioni, la nuova leadership europea dovrebbe imparare rapidamente a navigare nel nuovo ambiente politico e pensare seriamente di mettere in cantiere una serie di riforme istituzionali quanto mai necessarie per superare lo stallo nel processo decisionale intergovernativo, riformare la composizione della Commissione anche con un ridimensionamento del numero dei Commissari, bilanciare in modo più funzionale le prerogative delle diverse istituzioni. Insomma, in questa legislatura l’Unione europea si muove in bilico tra nuovi equilibri e rischi di frammentazione. Alla fine, come sempre, la funzionalità delle procedure decisionali e la chiara definizione delle rispettive responsabilità saranno essenziali per realizzare le politiche nei vari settori e sostenere la competitività europea. Jean Monnet diceva: “Niente è possibile senza gli uomini, niente dura senza le istituzioni”.

La guerra dei dazi di Trump e le risposte europee

Tue, 04/08/2025 - 00:00

A poco più di dieci settimane dall’inizio del suo mandato, il Presidente Donald Trump ha annunciato una guerra commerciale verso il mondo con una messe di dazi che non ha precedenti nel secondo dopoguerra. L’Europa è tra le maggiori vittime, accusata ripetutamente da Trump di aver biecamente sfruttato in passato il grande e ricco mercato americano. Le importazioni dall’Europa verranno gravate di dazi del 20%, dopo le tariffe del 25% introdotte dall’Amministrazione americana sulle importazioni di acciaio e alluminio e, più di recente, su quelle di automobili.

Le ragioni economiche avanzate dall’Amministrazione americana per giustificare tali nuove pesanti misure (deficit commerciale americano e protezionismo europeo) risultano del tutto inconsistenti, se analizzate con attenzione. È vero che l’Unione ha accumulato, negli anni, un surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti di entità rilevante. Ma considerando l’intera bilancia dei pagamenti correnti – come si deve fare – e includendo quindi il surplus statunitense nel settore dei servizi (109 miliardi di euro), il saldo complessivo tra Ue e Usa risulta pressoché in equilibrio. Anche sotto il profilo dei dazi reciproci, al centro delle accuse americane, le differenze sono minime: la tariffa media ponderata americana è del 2,2%, contro il 2,7% europeo.

Dietro l’apparente crociata economica, c’è dunque altro. È una visione di politica internazionale, una sorta di realpolitik, ben più aggressiva e mirata a rivoluzionare gli equilibri globali. Donald Trump è da sempre convinto che l’ordine economico liberale dei passati decenni con le sue regole e istituzioni e, in particolare, il sistema commerciale multilaterale, abbiano depredato e reso vulnerabile l’economia americana, soprattutto nei confronti di rivali strategici come la Cina. Vanno dunque abbattuti e sostituiti con un sistema di rapporti bilaterali, peraltro ancora abbozzato in modo vago dal Presidente americano, in cui Washington possa esercitare la propria supremazia economica e militare ricavandone vantaggi cospicui e di varia natura. Lo tsunami dei dazi del 2 aprile è dunque l’annuncio di un’offensiva su scala globale che apre una fase di inusitata incertezza economica e politica.

Verso un negoziato duro, lungo e difficile

Nel chiedersi come debba e possa rispondere l’Europa, va innanzi tutto ricordato che tra le grandi aree mondiali l’economia europea è quella più aperta agli scambi internazionali. Difendere e consolidare questa profonda integrazione con l’economia mondiale è un’assoluta priorità europea.

Tre appaiono le direttrici lungo cui l’Unione dovrebbe muoversi per cercare di mitigare i danni della guerra scatenata da Trump. La prima è affrontare con determinazione l’Amministrazione americana sul terreno dei dazi, mantenendo una linea negoziale dura e coesa. In qualsiasi buon manuale di politica commerciale si afferma che di fronte a misure protezionistiche ingiustificate e vessatorie è legittimo e doveroso reagire, anche per poi negoziare. La Commissione europea deve dunque approntare dei propri dazi e altre misure restrittive in risposta alle iniziative americane. D’altra parte, soltanto la minaccia di una ritorsione dura anche se appropriata può spingere l’Amministrazione americana ad aprire un negoziato, all’insegna del do ut des, che ha finora rifiutato. E se l’Unione resterà compatta – un dato peraltro non scontato – la sua forza commerciale sarà tale da essere in grado di contrastare l’aggressività di Washington.

La difesa del sistema aperto e il completamento del Mercato interno

La seconda strada da seguire è rafforzare e ampliare la rete di accordi commerciali dell’Unione diversificando ulteriormente i partner che ne fanno parte. Un accordo transattivo con l’amministrazione statunitense non può essere in effetti sufficiente, per quanto resti importante per cercare di evitare una guerra dei dazi che, oltre a punire chi la scatena (stagflazione) – come insegna la storia –, finisce per danneggiare tutti. Proprio perché così aperta, l’Europa deve continuare a espandere e consolidare la rete di accordi bilaterali, regionali e multilaterali costruita in questi anni. Va così rafforzata la cooperazione commerciale sia, ad esempio, con i grandi paesi dell’Asia del Pacifico, colpiti da dazi ancor più pesanti di quelli europei, sia con economie emergenti come India, Indonesia e Brasile, che hanno ormai assunto un ruolo chiave e condividono l’interesse a mantenere un sistema commerciale aperto e regolato. Al riguardo, l’accordo con i paesi del Mercosur in America Latina andrebbe ratificato al più presto dal Consiglio europeo, e il voto dell’Italia – va ricordato – sarà determinante.

Per quanto gli Stati Uniti restino un mercato fondamentale, essi rappresentano ormai solo il 13% delle importazioni mondiali: si apre così per l’Europa un ampio spazio per diversificare i suoi legami commerciali e sostenere un sistema internazionale aperto e regolato. È un percorso, quest’ultimo, già avviato nei mesi scorsi dalla Commissione von der Leyen e che va proseguito con forza.

Infine, un terzo fronte di risposta, spesso trascurato ma cruciale, riguarda il mercato interno europeo. Le barriere commerciali tra i paesi membri sono ancora troppo elevate: secondo il FMI, equivalgono in media a una tariffa del 44% per gli scambi di merci (agricoltura esclusa) e addirittura del 110% per quelli di servizi. Le cause sono molteplici, come la presenza di regimi nazionali frammentati in settori chiave quali, ad esempio, gli appalti pubblici. Una conseguenza è che il commercio intraeuropeo è oggi meno della metà di quello all’interno degli Stati Uniti.

Eliminare questi ostacoli e completare l’integrazione del Mercato interno non solo rafforzerebbe la coesione economica dell’Unione, ma rappresenterebbe anche un’occasione per rilanciare la domanda interna e la crescita europee, con più consumi e investimenti. Finora le forti resistenze di alcuni Paesi membri hanno impedito una maggiore integrazione. L’offensiva di Trump potrebbe forse convincerli ad agire diversamente.

I dilemmi dell’Italia di Giorgia Meloni tra Washington e Bruxelles

Tue, 04/08/2025 - 00:00

Infantile” e “superficiale”: così la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha recentemente bollato l’idea che l’Italia sia chiamata a compiere una scelta tra gli Stati Uniti di Donald Trump e l’Europa. Al contrario, secondo Meloni, mantenere un fronte euroatlantico unito e solido sarebbe “nell’interesse di tutti”. In quest’ottica, la presidente del consiglio ha rimarcato a più riprese la propria disponibilità a “evitare uno scontro” e a “costruire ponti” tra le due sponde dell’Atlantico. 

Alla base degli sforzi di Meloni per evitare un disallineamento tra Washington e Bruxelles c’è il desiderio di preservare l’architettura complessiva della politica estera italiana. Dal 1945 a oggi, il rapporto con gli Stati Uniti – a garanzia anzitutto della sicurezza del paese – e quello con gli alleati europei – volano dello sviluppo economico, sociale e civile – hanno rappresentato le due direttrici fondamentali della politica estera di Roma. Nei primi due anni del suo governo, Meloni aveva potuto beneficiare di una ritrovata convergenza tra Washington e Bruxelles sotto l’amministrazione di Joe Biden, non a caso da alcuni vista in prospettiva come “l’ultima presidenza atlantista”. Il ritorno di Donald Trump alla Casa bianca ha molto rapidamente portato a forti tensioni transatlantiche ad ampio spettro: dalle rimostranze Usa per il gap nelle spese per la difesa all’annuncio dell’introduzione di dazi doganali sulle importazioni dall’Europa, dalle dichiarazioni aggressive del neopresidente sulla Groenlandia sino alla gestione unilaterale da parte di Washington del cruciale dossier ucraino.

I nuovi scenari aperti dalla Presidenza Trump pongono un dilemma al governo di Giorgia Meloni. Da un lato, motivazioni di carattere strategico ed economico impongono di mantenere un ancoraggio saldo ai partner europei e a Bruxelles. Dall’altro, affinità ideologiche ma anche la concorrenza politica all’interno del governo italiano da parte di Matteo Salvini – lesto a schierarsi con Washington sui vari dossier – spingono a evitare una frattura con Washington. Di fronte all’impossibilità di prendere nettamente una posizione, quella di cercare di ergersi a pontiera tra le due sponde dell’atlantico è per Meloni in un certo senso un’aspirazione forzata – ma non per questo necessariamente realistica.

Il “radicalismo pragmatico” di Meloni…

Fino all’insediamento di Trump, l’investimento politico di Meloni su un ruolo da interlocutore privilegiato con Washington sembrava una scommessa potenzialmente vincente. A gennaio, la presidente del consiglio era stata l’unico capo di governo dell’UE a essere invitata alla cerimonia di insediamento a Capitol Hill – una visita presentata come un successo in Italia e in Europa.

La popolarità di Meloni a Washington non dovrebbe sorprendere. Nei suoi primi due anni di governo, la presidente del consiglio ha saputo dosare con maestria moderazione e prese di posizione più radicali, assurgendo in qualche modo a nuovo modello globale per la destra al potere.

In Italia, la premier si è destreggiata abilmente tra le critiche dei progressisti che l’avevano dipinta come fascista e come un pericolo per l’Europa. La comunicazione di Meloni ha valorizzato i suoi tratti distintivi: quelli di una madre che si è fatta da sé e che lavora sodo e di primo ministro donna che ha cura della propria immagine, marcando così una netta rottura con la schiera di leader italiani tutta al maschile (a prescindere dal colore politico) degli ultimi ottant’anni.

Giorgia Meloni ha adottato un approccio più assertivo o dialogante, a seconda delle circostanze. Nei rapporti con i leader internazionali, è rimasta fedele al tradizionale posizionamento euroatlantico dell’Italia, membro fondatore dell’Ue e della Nato. Rivolgendosi al suo elettorato, invece, la presidente del consiglio ha lasciato intendere di ispirarsi a una visione di fondo nazionalista e a un approccio transazionale al multilateralismo e alla politica mondiale. “L’Italia farà sentire con forza la sua voce [in Europa], come si conviene a una grande nazione fondatrice”, ha affermato Meloni nel suo primo discorso da Primo Ministro al Parlamento italiano.

La politica estera del governo Meloni prende le mosse da una precisa gerarchia di principi. Gli interessi vengono prima dei valori, l’interesse nazionale prima dell’integrazione europea e dei fora multilaterali, le relazioni personali prima dei canali istituzionali, la crescita economica prima degli obiettivi climatici. Gli accordi a breve termine, che possono essere fonte di consenso a livello interno, sono prioritari rispetto alle soluzioni a lungo termine. Questa dinamica è stata sintetizzata ricorrendo al concetto piuttosto fumoso di “pragmatismo”, che significa tutto e il contrario di tutto. È una ricetta che non offre risposte globali e di ampio respiro, ma che funziona benissimo per restare al potere. Non a caso, a differenza di Emmanuel Macron e Olaf Scholz, Giorgia Meloni è stata uno dei pochi leader dell’UE il cui partito ha aumentato i propri voti nelle elezioni europee del 2024. Nei mesi immediatamente successivi, lo standing internazionale di Meloni è sembrato essere cresciuto a tal punto da venire definita da Politico “la persona più influente in Europa “.

Il “radicalismo pragmatico” di Meloni sta avendo una certa risonanza anche all’estero, all’interno di quel network globale che sta rapidamente prendendo forma tra i leader di destra radicale al governo. I politici della destra al potere non sono solo ideologicamente vicini tra loro, ma stanno anche imparando l’uno dall’altra le migliori pratiche per rimanere in sella. Giorgia Meloni può senz’altro offrire alla destra globale ispirazione in termini di leadership e pratiche di governo. Ma in un mondo in cui il mero perseguimento degli interessi nazionali diventa la regola, il conto da pagare per l’Italia potrebbe essere salato.

… e i mali strutturali dell’Italia

In un certo senso, Meloni potrebbe essere tentata di fare il passo più lungo della gamba. Infatti, il paese di cui è presidente del consiglio deve fare i conti con una serie di problemi strutturali che, lungi dall’essere colpa solo di questo o quel governo, risalgono ad almeno tre decenni fa e saranno destinati ad aggravarsi nei prossimi anni. Il rapporto tra debito pubblico e PIL italiano era stimato a oltre il 136% a fine 2024, il secondo più elevato di tutta l’Ue, e si prevede che sia destinato ad aumentare ulteriormente nel prossimo futuro. La crescita economica del Paese è fiacca – stimata allo 0,8% nel 2025 – e, soprattutto, trainata dai massicci investimenti (per un totale di 194,4 miliardi di euro) previsti dal piano di ripresa e resilienza finanziato dall’Ue, che tuttavia si concluderà nel 2026. In una prospettiva a più lungo termine, le tendenze demografiche pongono vincoli sostanziali all’economia del Paese: l’invecchiamento della popolazione richiederà una spesa pubblica crescente sia per le pensioni che per la sanità per almeno in prossimi dieci-quindici anni. Di conseguenza, a causa degli scarsi margini di manovra a livello di bilancio, Roma dovrà necessariamente mantenere un dialogo costruttivo con Bruxelles e i partner europei, cercando forme di investimento e di sostegno finanziario a livello comunitario.

Il governo italiano deve fare gioco forza i conti con limiti strutturali alle proprie capacità d’azione non solo a livello macroeconomico, ma anche – in qualche modo conseguentemente – in ambito diplomatico e di sicurezza. Rispetto a Francia, Germania e Regno Unito, la rete diplomatica italiana dispone di meno sedi all’estero, meno personale e dotazioni finanziarie inferiori. La carenza di personale, in particolare, riduce il tempo e l’attenzione che è possibile dedicare ai singoli dossier di politica estera, rendendo difficile tradurre le grandi visioni delineate dai vertici politici in una strategia completa e concretamente perseguibile.

In maniera analoga, sulla base dei dati della Nato, la spesa per la difesa dell’Italia in percentuale sul PIL si attestava all’1,49 per cento nel 2024, un dato molto più basso del 2,33 per cento del Regno Unito, del 2,12 per cento della Germania e del 2,06 per cento della Francia. Le difficoltà italiane a raggiungere la soglia del 2% di spesa per la difesa stabilita a livello Nato oltre dieci anni fa mette il Paese in una posizione difficile nei confronti degli alleati transatlantici – tanto più che la nuova amministrazione statunitense ha già lanciato chiari segnali riguardo a una possibile revisione al rialzo degli impegni degli alleati in materia di sicurezza collettiva.

Trumpismo o multilateralismo: una scelta ineludibile

Se in un primo momento si era ipotizzato che il nostro paese potesse trarre qualche beneficio di breve termine dalle affinità ideologiche tra Meloni e Trump, l’annuncio da parte dell’amministrazione statunitense di pesanti dazi verso l’Unione europea a inizio aprile è stata una doccia fredda per Roma. Con ogni probabilità il governo italiano proseguirà nei suoi sforzi per mantenere aperto un dialogo con Washington; in questo senso, la probabile visita del vicepresidente JD Vance in Italia a fine aprile potrebbe rappresentare un’occasione per tentare di rimettere l’Italia al centro dei rapporti transatlantici. Data la complessità dello scenario globale e il massimalismo delle posizioni dell’amministrazione Trump, tuttavia, quella di fare da pontieri appare un’impresa assai ardua per Roma. Se le aperture verso Washington dovessero poi finire per tradursi in un allineamento di stampo ideologico alle prese di posizione radicali contro l’unità europea e il sistema multilaterale della nuova amministrazione Usa, ciò, anziché “far tornare grande l’Italia”, farebbe più male che bene al nostro paese.

Dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia è stata tra i più convinti sostenitori del multilateralismo nelle sue varie manifestazioni, e non per caso. Attraverso il proprio supporto all’azione delle Nazioni Unite e al processo di integrazione dell’Ue, i governi italiani hanno sostenuto – e fatto leva – sulle istituzioni multilaterali e sull’integrazione europea per rafforzare il prestigio del Paese e temperare i suoi problemi strutturali, giustificando attraverso questo attivismo un certo livello di freeriding su beni comuni globali come la sicurezza collettiva all’interno della Nato.

Nel momento in cui Washington sembra recedere dai suoi impegni globali a favore di una concezione smaccatamente transazionale e incentrata sulla forza delle relazioni internazionali, altri Paesi sono chiamati ad assumersi la loro parte di responsabilità. Per i Paesi europei, ciò significa per l’appunto difendere quei beni comuni – tra cui la sicurezza collettiva – che hanno garantito la loro prosperità postbellica e i loro valori.

In questo scenario, Meloni si sta destreggiando in complicati equilibrismi. Restia a schierarsi apertamente, la presidente del consiglio invoca l’unità dell’Occidente all’interno del quadro atlantico e auspica summit congiunti tra Washington e l’Europa. Ma di fronte a una crisi di sicurezza senza precedenti che incombe sul continente europeo, questi appelli suonano vuoti. La titubanza di Meloni è già stata sottolineata dal presidente francese Macron, che ha espresso il suo auspicio di vedere “un’Italia forte che agisca a fianco della Francia, della Germania, nel concerto delle grandi nazioni”, richiamando esplicitamente l’esempio dell’ex premier Mario Draghi.

L’unilateralismo e il disprezzo per l’Europa dell’amministrazione Trump stanno squarciando il velo del “radicalismo pragmatico” di Meloni, costringendo la premier a mostrare le sue vere intenzioni. Mentre il legame transatlantico è ai minimi storici e il destino dell’Ucraina appare incerto, la presidente del Consiglio è chiamata a una scelta: cercare un confronto con Washington a vantaggio dell’Europa, o scommettere sulla sua vicinanza ideologica alla destra radicale statunitense, minacciando la coesione dell’Ue; rafforzare il suo status di stella della destra radicale globale o riconoscere che l’Italia ha parecchio da perdere da un (dis)ordine globale basato solo sulla forza. Si tratta, in fondo, anche di una scelta tra la presidente del Consiglio e l’Italia: accreditarsi come leader di fiducia di Washington in Europa o privilegiare l’interesse strategico del suo Paese. Una scelta ardua per chi considera nazione e patria come valori fondamentali.

Ora una risposta comune

Tue, 04/08/2025 - 00:00

All’indomani dell’elezione di Donald Trump, alcuni osservatori europei si affrettarono a spiegare che le preoccupazioni per le dichiarazioni incendiarie del presidente eletto erano infondate, dato che esse rientravano in una logica strettamente elettorale e sarebbero state quindi ridimensionate dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Altri raccomandarono di non sottovalutare i progetti trumpiani, in particolare quelli relativi al commercio e alla sicurezza, e le loro conseguenze. Ora dovrebbe essere abbastanza chiaro chi aveva ragione.   

I dazi americani sono arrivati, come preannunciato, e assestano un colpo durissimo alle economie di avversari e alleati. Si salva solo la Russia, mentre gli stessi Stati Uniti pagano subito un prezzo molto elevato. Si valutano le risposte più adeguate, si arriva anche a mettere a fuoco una soluzione ideale, un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, anche se è di là da venire. Suona come una voce fuori dal coro dell’Europa, oggi in preda alle preoccupazioni e all’incredulità, dopo gli annunci con cui Trump ha festeggiato a suo modo “il giorno della liberazione”. Robert Habeck, vice cancelliere e ministro dell’Economia, assegna all’Europa un obiettivo di lungo periodo – un accordo ambizioso, di mutuo interesse per i due lati dell’Atlantico. Non importa che tra qualche settimana non sarà più membro del governo tedesco, quel che rileva è la volontà di reazione del Paese europeo più colpito dai dazi americani e l’impegno a definire un’agenda efficace a tutela dei propri interessi, molto consistenti. 

Occorre un’Unione europea coesa

Se si seguisse la logica, si dovrebbe andare verso una liberalizzazione degli scambi tra due aree economiche già così integrate e imponenti nel mondo. Ma Trump la vede in un altro modo: fissa dazi punitivi a destra e a manca, sconvolge i commerci senza distinguere tra avversari e alleati e senza battere ciglio davanti al costo salato imposto agli stessi Stati Uniti (aumento dei prezzi, inflazione etc.). Per una possibile risposta europea, è da considerare la necessità di una reazione coesa e unitaria dell’Ue, mentre sono da scongiurare ogni furbesca scorciatoia nazionale, foriera di complicazioni ulteriori del quadro, non soltanto economico. L’Europa deve essere capace di dare segnali di fermezza, di predisporre misure adeguate, non fini a sé stesse, non per rappresaglia, bensì come leva per riavviare il dialogo e negoziati indispensabili con gli Stati Uniti. Se possibile, occorrerà ricostituire la fiducia e l’equilibrio. In ogni caso, per sedersi al tavolo della trattativa occorre avere qualche buona carta in mano.

Lo sconcertante spettacolo offerto mercoledì scorso da Donald Trump dal Giardino delle Rose della Casa Bianca e le sue interpretazioni autentiche non sembrano preludere a immediate aperture negoziali né a proiezioni di lungo periodo, addirittura con una meta ideale di libero scambio. Comunque, gli europei cominciano a trarre qualche lezione dalla doccia fredda, attesa, di Washington. Nessuno vuole una guerra commerciale senza precedenti con gli Stati Uniti, il dialogo va ricercato ancor più quando l’orizzonte si rabbuia. L’Europa dovrà serrare i ranghi con misure ben calibrate per avviare su quella base un negoziato, per quanto teso, non per aumentare le tensioni e rischiare una spirale di ritorsioni fuori controllo. Saranno di aiuto anche un’opportuna diversificazione e l’aumento degli scambi europei con Mercosur, Messico e India. 

Vari leader europei e la presidente della Commissione hanno parlato con chiarezza. I dazi di Trump assestano “un colpo durissimo” all’economia mondiale e anche a quella americana, come confermato da tutti gli indicatori. L’Europa, il più grande mercato del mondo, è ancora disorientata di fronte all’abbandono da parte del suo più antico alleato. Oggi si patisce nel commercio, domani il prezzo sarà da pagare nel campo della difesa e sicurezza. Gli avvertimenti non sono mancati. 

Per i dazi, non ci si dovrebbe sorprendere che essi siano diretti senza distinzioni a tutti gli europei. Non sono solo i trattati a imporre una risposta comune dell’Ue, ma la necessità di essere ascoltati ed efficaci. Certo, sull’amministrazione americana potrebbe pesare anche la pressione dissuasiva di settori dell’economia Usa fortemente penalizzati. Tuttavia la difesa dei propri interessi non può essere delegata ad altri né si può sperare in ravvedimenti provvidenziali. Fermezza e dialogo sono gli strumenti necessari in una situazione grave e di estrema incertezza, sempre gravida di rischi pesanti nell’economia e nella politica internazionale. Per questo occorre scongiurarla con ogni mezzo, riconoscendo che chi si spinge fino a considerare l’emergenza come un’“opportunità” si illude e illude pericolosamente quanti cercano invece risposte razionali.

Difesa europea: tempi stretti?

Tue, 04/08/2025 - 00:00

Di difesa europea parliamo sin dagli anni ‘50 del secolo scorso, ma dal rinvio sine die della ratifica del Trattato della Comunità Europea di Difesa, deciso dal Parlamento francese nel 1954, ad oggi, pochissimo è stato fatto, mentre la difesa dell’Europa è divenuta responsabilità pressoché esclusiva della Nato, con un ruolo crescente degli Stati Uniti, sia economico che militare.

Oggi si è aperta una nuova fase, perché gli americani ci fanno sapere, con modi piuttosto bruschi, di non voler più assumersi tanta parte delle spese per assicurare la nostra difesa. Erano partiti dal chiedere che gli alleati europei spendessero almeno il 2% del loro PIL per la difesa, ma ora parlano anche di un mirabolante 5,5%. 

Comunque la si rigiri, il punto è che il determinante contributo americano alla difesa e sicurezza dell’Europa non è più garantito: dipenderà da come ci comporteremo alla corte del nuovo re. 

I primi a scoprire quanto scomoda sia questa situazione sono stati gli ucraini che hanno visto improvvisamente bloccarsi sia l’arrivo di nuovi armamenti che, soprattutto, il vitale flusso di Intelligence che permette loro di resistere efficacemente agli attacchi russi. L’aiuto americano è stato riattivato non appena gli ucraini si sono piegati al diktat di Donald Trump, che ha imposto loro di accettare l’avvio di negoziati indiretti, in cui gli americani parlano con i russi e con gli ucraini separatamente e decidono sui compromessi possibili. Il fatto che finora non si sia arrivati a nulla è il segnale della durezza di Mosca più che della solidarietà americana con Kyiv. I russi sembrano aspettarsi di raccogliere al tavolo negoziale quella vittoria totale che non hanno guadagnato sul campo di battaglia. Il tutto puntando sul desiderio di Washington di chiudere quanto prima questa partita.

Gli USA incrementano le insicurezze dell’Europa

Non sappiamo come andrà a finire, ma nel frattempo la diffidenza europea nei confronti dell’alleato americano cresce. Così si rafforza la percezione che bisogna rapidamente fare qualcosa di concreto. Ciò sta in parte avvenendo sul piano finanziario (dai piani di spesa tedeschi alle proposte di Rearm Europe della Commissione), ma è ancora embrionale sul piano operativo, che è invece quello essenziale se si vuole recuperare credibilità nei confronti sia della Russia che degli Usa.

Ma questa situazione di attesa non può durare troppo a lungo. Il passare dei giorni accresce il rischio di divaricazioni importanti tra le scelte dei singoli governi nazionali, sotto la spinta di evoluzioni specifiche dei vari elettorati, o per adattarsi ad altre sfide. È chiaro, ad esempio, che un aggravarsi della “guerra dei dazi” verrà vissuta in modo diverso dai singoli paesi e che questo potrà influire sulla loro solidarietà reciproca. Altre divisioni potrebbero insorgere se si dovesse porre mano alle politiche sanzionatorie nei confronti della Russia e di altri paesi. È insomma urgente cominciare a prendere decisioni significative.

Sul piano operativo l’iniziativa europea deve partire dall’ambito Nato, più che dall’Ue, perché è la Nato che assicura la difesa delle frontiere orientali e la deterrenza nei confronti della Russia. Dovrà quindi essere un gruppo di paesi membri della Nato a dare il via a una missione specifica comune europea per la difesa a Oriente, dal Circolo polare artico al Mar Nero. Il programma deve essere quello di assicurare una capacità difensiva credibile anche in assenza del contributo americano, senza naturalmente in alcun modo voler scusare gli americani per una loro eventuale mancanza.

Per far questo nel modo migliore sarebbe bene passare anche attraverso quella integrazione e razionalizzazione del mercato interno europeo della difesa di cui si parla nella Lettera di intenti firmata trent’anni or sono dai maggiori paesi europei. Ma in primo luogo sarà necessario individuare lo Stato Maggiore in grado di pianificare sia gli aspetti operativi che quelli tecnologici e industriali necessari a una difesa credibile.

Oggi il grosso di queste competenze è nel Comando Supremo alleato in Europa (Shape) guidato da un americano e con la presenza di numerosi funzionari a stelle e strisce. Il loro contributo sarà prezioso, se disponibile, altrimenti si dovrà procedere tra i volenterosi, magari anche coinvolgendo l’embrione di Stato Maggiore esistente nell’Ue. Ma deve essere chiaro che una difesa credibile europea della frontiera orientale è un’operazione militare di enorme impegno, che non può né deve fare a meno delle conoscenze e degli asset comuni dipendenti da Shape.

Non sono decisioni facili, né politicamente né tecnicamente, ma solo cominciando da subito ad esaminarle e discuterle potremo sperare di affrontare con successo l’immenso e gravoso compito che ci aspetta, se vogliamo mantenere l’Europa libera e unita.

L’Europa al confronto con Trump

Tue, 04/08/2025 - 00:00

La politica estera del nuovo Presidente americano è eversiva quanto quella che sta attuando sul fronte interno. È connotata da un approccio esplicitamente transazionale nei rapporti fra Stati, da scarsa considerazione per le regole che presiedevano ai rapporti fra Stati e per le alleanze tradizionali, e dal ricorso spregiudicato alla logica del più forte. In sintesi, Trump sta facendo saltare i tradizionali parametri di riferimento della politica estera americana. Con il risultato di provocare una pericolosa instabilità del contesto internazionale.

Ma Trump sta provocando anche una crisi nel rapporto transatlantico, particolarmente evidente almeno su quattro fronti: misure protezionistiche, guerra in Ucraina, sicurezza e difesa, e più in generale sul tema dei valori e dei principi fondanti.

Le cause dei dazi

La politica commerciale di Trump è caratterizzata da un’autentica ossessione per gli squilibri della bilancia commerciale americana e dalla decisione di utilizzare i dazi sulle importazioni negli Usa come strumento di politica economica. Dopo aver adottato dazi generalizzati sulle importazioni di acciaio, alluminio e, successivamente, auto, Trump ha annunciato il 2 aprile – con una cerimonia tanto spettacolare quanto surreale – nuovi dazi (differenziati e qualificati come “reciproci”) sulle importazioni da circa una sessantina di Paesi, motivati dalla necessità di rispondere a dazi e altre barriere non tariffarie praticate da partner commerciali degli Usa (peraltro calcolati con metodi opinabili). Nell’ottica del Presidente americano, i dazi americani avrebbero il triplice obiettivo di riequilibrare la bilancia commerciale degli Stati Uniti, recuperare risorse finanziarie per ridurre il deficit del bilancio federale, e incentivare investimenti esteri per attività produttive negli Usa.  

Le decisioni annunciate da Trump segnano una svolta di portata epocale e sono destinate a provocare reazioni pesanti sull’economia americana e globale, incertezze sulle scelte degli investitori, e rischi sui mercati finanziari e sulle quotazioni di borsa, con la prospettiva di avvio di una recessione globale. Anche l’Ue è stata colpita con dazi del 20% apparentemente su tutte le importazioni europee negli Usa, che si sommano ai dazi già in vigore su acciaio, alluminio e auto. Sono quindi misure che colpiscono direttamente anche rilevanti interessi europei, rendendo complessivamente più complicato per gli europei trattare con la nuova Amministrazione americana. 

Sulla guerra in Ucraina, Trump, confermando le promesse della campagna elettorale, ha avviato un’iniziativa diplomatica mirata alla ricerca di una cessazione del conflitto. I tentativi di mediazione stanno procedendo tra molte difficoltà. Non è chiaro se a un certo punto Trump dovrà concludere che le condizioni che Putin cercherà di imporre sono inaccettabili. Tuttavia, finora Trump ha spiazzato gli europei aprendo un canale di dialogo bilaterale con Putin, legittimandolo come interlocutore affidabile e dando l’impressione di condividere la narrazione russa sulle origini e responsabilità del conflitto. Ha inoltre deliberatamente escluso gli europei da questa iniziativa, con la prospettiva che questi ultimi – oggi all’oscuro delle vere intenzioni di Trump – possano essere chiamati a svolgere un ruolo dopo un eventuale accordo, sia per la definizione di credibili garanzie di sicurezza per l’Ucraina, che per la sua ricostruzione.

Sul fronte della sicurezza e della difesa, è per ora improbabile che si concretizzi il rischio di un esplicito disimpegno americano dalla Nato. Tuttavia, aumenteranno le pressioni americane sugli alleati europei per una maggiore spesa per la loro difesa. La richiesta non è nuova, ma potrebbe diventare più stringente, al punto da condizionare l’impegno americano per la sicurezza dell’Europa a concreti risultati nella direzione dell’assunzione di maggiori responsabilità da parte degli europei. Ne consegue che appaiono più che legittimi i dubbi sulla stessa credibilità di un’eventuale mobilitazione degli Usa in caso di minacce alla sicurezza degli alleati europei.

Infine l’involuzione autoritaria imposta da Trump sul fronte interno (con gli attacchi alle politiche di inclusione e diversità, ai media e alla magistratura, alle università, agli studi legali, a chiunque osi contestare le politiche dell’Amministrazione americana) rimette in discussione un sistema di valori una volta considerati patrimonio comune dell’Occidente. Tutto ciò rischia di provocare un effetto imitazione anche in Europa, rafforzando i consensi per le formazioni politiche dichiaratamente nazionaliste, sovraniste ed euro-scettiche. Potrebbe inoltre accentuare le divisioni fra Paesi dell’Ue con conseguenze sulla compattezza della posizione dell’Ue.

Il risveglio europeo

Nel frattempo la linea della nuova Amministrazione americana sta stimolando un risveglio di iniziative da parte europea, non tutte lineari, coerenti o istituzionalmente corrette, ma animate dall’intenzione di recuperare un protagonismo da tempo smarrito ma che si impone date le circostanze. Non necessariamente in contrapposizione agli Usa, sui quali, malgrado tutto, si spera di poter contare, ma come tentativo di dare faticosamente sostanza e contenuto all’obiettivo dell’autonomia strategica.

La prima sfida che chiama in causa l’Ue è quella della reazione ai dazi americani. Subito dopo l’annuncio di Trump, la Presidente della Commissione ha dichiarato che le misure minacciate erano sbagliate e dannose per l’economia mondiale. Pur mantenendo aperta l’opzione di una qualche forma di accordo per ridurre l’impatto dei dazi, ha confermato di essere pronta a rispondere con misure analoghe da adottare dopo una consultazione con i Paesi membri. Si apre ora una fase delicata in cui l’Ue dovrà decidere come reagire. Non è da escludere che, oltre ai più tradizionali (e poco efficaci) dazi sulle importazioni americane, possano essere prese in considerazione anche misure mirate a colpire gli interessi delle aziende tecnologiche sul mercato europeo, come limitazioni all’accesso e tassazione dei profitti.

Sulla difesa, gli europei si stanno movendo su due direttrici: un piano di medio-lungo termine di rafforzamento delle capacità militari degli Stati membri come premessa per una futura difesa europea e una serie di iniziative a sostegno dell’Ucraina. Sulla difesa europea, le proposte della Commissione hanno ricevuto un sostegno di principio, accompagnato da critiche, distinguo e condizioni, a conferma che resta molta strada da fare per avviare concretamente un percorso condiviso di rafforzamento delle capacità europee in materia di difesa. Sull’Ucraina, oltre alla conferma del sostegno politico e di nuovi aiuti anche militari (sia pure per un volume di spesa molto inferiore quanto proposto dalla Commissione), sono in discussione varie proposte per un contributo europeo ad un sistema credibile di garanzie di sicurezza all’Ucraina che dovrebbero costituire parte integrante di un auspicabile accordo sulla cessazione del conflitto.

Sono ancora piccoli passi nella direzione giusta di un recupero di protagonismo in un contesto particolarmente difficile per l’Europa. Sul piano degli annunci le intenzioni sono quindi buone. In concreto l’Ue dovrà fare i conti con le complessità dei suoi processi decisionali e con le difficoltà di far convergere scelte e sensibilità dei Governi nazionali. 

Buone intenzioni, poca strategia

Tue, 04/08/2025 - 00:00

Mai nella sua ormai lunga storia l’Ue ha vissuto un così drammatico periodo di incertezza. Schiacciata fra Trump e Putin, Bruxelles e i suoi principali partner sembrano muoversi a sussulti in un mondo ormai radicalmente diverso dopo l’emergere prepotente del “fattore T”. Molte le buone intenzioni e le iniziative sul tappeto, ma senza una vera e propria strategia comune per imparare a navigare in questi procellosi scenari. 

Come al solito arrivare a una decisione comune è estremamente difficile, come dimostrano gli scontati rinvii dell’ultimo Consiglio europeo del 20 marzo e perfino le ripetute riunioni dei cosiddetti “volonterosi” indette a Londra o Parigi per definire i contorni di una “forza di garanzia o di rassicurazione” in caso di cessate il fuoco in Ucraina

Di fronte a questa profondissima crisi riemergono in tutta la loro evidenza i limiti politici e istituzionali dell’Ue. Si ripete spesso che il processo di integrazione è destinato ad approfondirsi sotto la pressione delle crisi esterne, ma fino ad oggi non si è visto nulla di simile, anche se nei fatti alcuni adattamenti cominciano ad emergere.

La prima grande novità riguarda il ruolo della Commissione europea che, come nella passata crisi del Covid o della successiva depressione economica, ha preso anche oggi un’iniziativa coraggiosa su materie apparentemente lontane dalle sue competenze: il piano originario di “ReArm Europe” ampliato poi in un più convincente “Joint White Paper for European Defence Readiness 2030”. In mancanza di altri attori istituzionali capaci di prendere con una certa rapidità decisioni cruciali per il futuro dell’Unione, ecco che ancora una volta è la Commissione europea ad assumersi la responsabilità di dare la linea agli altri organismi dell’Ue e soprattutto al Consiglio europeo e ai 27 suoi paesi membri. Che poi l’iniziativa di Ursula von der Leyen abbia sollevato le proteste e i dubbi dei paesi e delle forze politiche sovraniste (comprese quelle italiane) era da mettere nel conto delle tipiche reazioni anti-comunitarie presenti un po’ dovunque. L’importante tuttavia è che qualcuno si sia preso la responsabilità di lanciare l’allarme e di obbligare a dare risposte concrete in un campo, quello della difesa comune, che attende ancora dal 1954 (fallimento della CED) di essere affrontato. 

In fondo l’Ue in tutti questi decenni è stata ciò che si definisce una “potenza civile” in un mondo dove gli sviluppi dell’economia erano al primo posto negli interessi globali. Ma oggi la musica è radicalmente cambiata e in un mondo marcatamente multipolare e nel quale lo strumento della guerra sembra essere tornato utilizzabile nelle contese internazionali l’essere “potenza civile” non è più sufficiente. Altiero Spinelli già decenni fa parlava di Europa come “terza potenza” per significare la necessità di completare il processo di integrazione economica anche con la dimensione di difesa. Oggi tale esigenza rimane valida anche se essa si sostanzia essenzialmente nella necessità di interloquire da pari con gli altri attori multipolari a cominciare dalla Russia, ma anche e soprattutto dagli Stati Uniti vista la loro drammatica trasformazione da alleati indispensabili per quasi 80 anni a concorrenti feroci nei prossimi. 

Sfide e prospettive per l’Europa nella difesa e nei negoziati internazionali

Certo non basta Ursula von der Leyen né la sua determinazione ad incamminarsi sulla via, soprattutto industriale, di una difesa comune e di uno sviluppo tecnologico accelerato per aprire il confronto con le altre potenze globali. Lo può fare nel campo degli accordi commerciali e della difesa dai dazi di Trump ove la Commissione ha competenze esclusive. In effetti, gli accordi con il Mercosur o i negoziati con il Messico e forse in futuro con l’India possono costituire la giusta risposta alle follie tariffarie di Trump. Ma sul piano dei negoziati di sicurezza o di pace la voce della Commissione non può che essere debole. Nessun invito alla Presidente della Commissione a sedersi a qualsivoglia tavolo con Usa, Russia e Ucraina. Cosa che a maggior ragione vale per la nuova Alto Rappresentante, Kaya Kallas, che ha dovuto soffrire la cancellazione all’ultimo minuto dell’incontro con la controparte americana Carlo Rubio o che ha visto respinta dal Consiglio europeo la sua proposta di un aiuto di 40 miliardi di Euro all’Ucraina, poi ridotta a 5 miliardi (ma senza conseguente decisione). Né migliori sono le performance internazionali del nuovo presidente del Consiglio europeo Antònio Costa il cui organismo di riferimento è scarsamente adatto a prendere con rapidità e consenso decisioni vitali per l’Ue. 

Se questo è lo stato penoso del decision-making comunitario di fronte alle nuove responsabilità di sicurezza e difesa, la reazione di alcuni stati membri, ed è questo l’altro motivo di novità, è stata quella di fare rinascere il vecchio concetto di “willing and able”.

Sviluppato intorno alla seconda metà degli anni ’80 per attrezzare la Nato a operazioni fuori dalla sua area di competenza è stato poi largamente applicato dopo il 2001 con le iniziative di ritorsione americana all’attacco alle due Torri. Sia in Afghanistan che in Iraq sono infatti nate le cosiddette “coalition of the willing” che hanno permesso la partecipazione volontaria di paesi alleati degli Usa per combattere in Medioriente. Oggi sia Macron che Starmer hanno preso in mano le redini dei cosiddetti gruppi di volonterosi per attrezzare in questo caso l’Ue a mantenere le proprie responsabilità in sostegno dell’Ucraina, prevedendo anche la costituzione di una forza di garanzia in caso di pace fra Mosca e Kyiv

In realtà queste iniziative, soprattutto da parte francese e degli altri membri dell’Ue che hanno deciso di farne parte, indicano la possibile strada anche istituzionale per uscire dal deficit decisionale dell’Ue. La nascita cioè di un gruppo di avanguardia che decida di procedere autonomamente verso un’integrazione di livello superiore, magari con un nuovo accordo/trattato che lasci inalterato l’assetto del resto dell’Ue, ma che nel gruppo di testa ponga rimedio alla paralisi istituzionale e di rappresentanza di un’Europa “potenza”. Sarà questa l’evoluzione futura? Sarebbe certamente auspicabile, ma viste le resistenze passate rimane poco probabile. A meno che la crisi attuale non finisca per imporsi. 

Il fattore Trump nel reset tra UE e Regno Unito

Tue, 04/08/2025 - 00:00

I primi due mesi della seconda Amministrazione Trump sono già stati sufficienti a erodere ogni precedente certezza sulle fondamenta dell’ordine internazionale. Tra dazi, politiche commerciali sempre più aggressive, riavvicinamento con la Russia e abbandono della causa ucraina, la faglia atlantica tra Stati Uniti ed Europa non è mai parsa tanto ampia. Un contesto così caotico e volatile da impattare inevitabilmente anche sul tanto annunciato ‘reset’ tra Unione Europea (Ue) e Regno Unito, che sembra sempre più avviato a un processo di accelerazione il cui punto di caduta è però difficile da immaginare.

L’Europa prova a cambiare passo

Il crescendo con cui Donald Trump ha prima adulato Vladimir Putin, poi umiliato Volodymyr Zelensky e infine messo nel mirino Bruxelles sembra aver suscitato un primo cambio di passo nelle principali cancellerie europee. La consapevolezza di non poter più contare su un affidabile alleato a Washington e di doversi assumere la responsabilità della propria sicurezza ha portato l’Ue a fare importanti passi in tal senso. Sinora, a guidare questa nuova fase sono stati soprattutto Emmanuel Macron e i Paesi in prima linea dinanzi alla minaccia russa, senza dimenticare l’assertività sin qui mostrata dal nuovo Cancelliere tedesco Friedrich Merz. In questo mosaico in rapida ricomposizione, fuori dalla cornice Ue un ruolo di primo piano lo ha sin qui giocato il Primo Ministro britannico Keir Starmer. Prima ospitando un summit a Londra con alcuni dei principali leader europei, poi ponendosi alla guida assieme alla Francia della ‘coalizione dei volenterosi’ per offrire garanzie di sicurezza all’Ucraina per mezzo di un contingente da dispiegare sul territorio. Il Regno Unito sembra tornato al centro della scena europea per la prima volta dal 2016, sottolineando come Brexit non abbia in fondo separato gli obiettivi strategici che legano Bruxelles e Londra.

La dimensione economica del reset, e le implicazioni sulla sicurezza

La data cerchiata in rosso per il futuro del reset Ue-Regno Unito è stata a lungo quella del 19 maggio 2025, ovvero il summit ufficiale che dovrebbe fornire l’occasione per affrontare temi delicati quali il miglioramento delle relazioni economiche e commerciali, e il futuro del tanto discusso Security Pact. Gli avvenimenti delle ultime settimane, però, potrebbero aver impresso un’accelerazione imprevista, nonostante permangano importanti nodi da sciogliere.. La formula della ‘coalizione dei volenterosi’, emersa anche a causa delle resistenze interne di alcuni Stati membri, va nella direzione di modelli di cooperazione basati su gruppi di paesi che stringono accordi ad hoc. Questo scenario si discosta dalle discussioni degli ultimi mesi sul Security Pact, finora concepito come un accordo a tutto campo tra Londra e Bruxelles. In teoria, la situazione attuale suggerirebbe la necessità di superare intese informali e dichiarazioni di principio a favore di una cooperazione più strutturata. Tuttavia, resta da vedere se l’urgenza della crisi spingerà effettivamente in questa direzione o se prevarrà la preferenza per formati più agili e flessibili anche al di fuori del quadro istituzionale dell’Ue. Inoltre, c’è anche una dimensione economica del reset che intreccia i destini con quella di sicurezza. Il recente incremento delle spese per la difesa in ambito comunitario sembra destinato a riaprire il dibattito sulle regole Ue riguardanti la partecipazione di paesi terzi ai programmi di procurement militare,  tema particolarmente sensibile per Londra. Al tempo stesso, nel Regno Unito ci si aspetta che il nuovo quadro strategico possa portare Bruxelles ad attenuare le proprie posizioni su questioni commerciali, come gli accordi sanitari e fitosanitari o le barriere non tariffarie. Infine, il fattore Trump potrebbe incidere anche su questo scenario: un maggiore allineamento tra Londra e Bruxelles su questi temi potrebbe essere interpretato dalla Casa Bianca come una presa di posizione britannica a favore dell’Ue.

Momento Churchill?

Il forte attivismo di Starmer nell’assumere un ruolo di primo piano in politica estera e nell’architettura di sicurezza europea ha suscitato vivaci reazioni, in patria e all’estero, spingendo importanti osservatori politici a definire il suo come un ‘Momento Churchill’, con riferimento ai grandi successi di politica estera del Primo Ministro che guidò il Regno Unito durante la Seconda Guerra Mondiale. Sulla strada di Starmer restano però alcuni ostacoli non di poco conto. Innanzitutto, il futuro del rapporto transatlantico. Il Regno Unito non vuole rinunciare al proprio ruolo di ponte tra Washington e l’Europa per ragioni storiche, culturali e strategiche, pensando così di poter consolidare la propria centralità post Brexit come collante tra le due sponde dell’Atlantico. Ma se il divario tra le due parti sulla questione ucraina dovesse ampliarsi ancora, questo delicato equilibrismo potrebbe diventare insostenibile e Londra dovrà scegliere con chi schierarsi. In secondo luogo, c’è il fronte interno e l’impellente urgenza di reperire risorse. Per innalzare la spesa militare, Starmer ha recentemente tagliato i fondi allo sviluppo internazionale, scatenando proteste interne al partito e le dimissioni del Ministro Dodds. Per sostenere i suoi ambiziosi piani per la sicurezza europea, però, il governo dovrà ora e in futuro trovare molti più fondi in un contesto di crescita economica stagnante. Ridurre ulteriormente la spesa pubblica, a scapito soprattutto del sistema sanitario, vorrebbe dire contravvenire a ogni promessa elettorale e colpire un’opinione pubblica sin qui solidamente favorevole all’Ucraina. Confermarsi l’architrave della sicurezza europea senza smantellare quel poco che resta del welfare britannico sarà una sfida esiziale per Starmer. Per evitare un altro frammento del destino di Winston Churchill nel 1945, spesso dimenticato: mettere al riparo la sicurezza dell’Europa, per poi perdere le elezioni. 

La visione di politica globale del nuovo governo in Germania

Tue, 04/08/2025 - 00:00

I negoziati per la formazione della nuova coalizione di governo in Germania procedono spediti, anche a causa di un quadro internazionale che reclama con sempre maggiore urgenza una leadership chiara e forte. In particolare, il concretizzarsi della sfida trumpiana al sistema delle relazioni economiche internazionali aggiunge un ulteriore fattore di urgenza a quello legato al progetto di riarmo europeo

Coerentemente con il quadro emerso all’indomani delle elezioni, si configura una coalizione a due – CDU/CSU e SPD – che porrà all’opposizione un ventaglio di partiti che va dai Verdi ad AfD passando per la Linke. Si tratterà dunque di una coalizione che non potrà sicuramente essere definita come “grande” ma che certamente dovrebbe presentare minori problemi gestionali della defunta coalizione semaforo, che aveva posto un vero e proprio problema dei tre corpi, finendo per logorare soprattutto il maggiore, l’SPD, e il suo leader, Olaf Scholz. In questi giorni le trattative tra le due forze principali si stanno intensificando, anche se il raggiungimento di un accordo per la fine di aprile sembra davvero difficile, con una maggiore fiducia per i primi giorni di maggio. 

Ha avuto molta eco la convergenza espressa da socialdemocratici e cristiano-democratici per la riforma delle regole di finanza, che sono state fatte votare dal parlamento uscente e che permetteranno al governo tedesco un maggiore margine di manovra su tematiche strategiche. In questo senso, l’impegno per il riarmo e la continuazione del sostegno all’Ucraina rappresenta la premessa attraverso cui cementificare l’intesa. 

Restano però molti fattori divisivi legati soprattutto alle diverse visioni dell’economia e dello sviluppo del paese, al momento alle prese con una contrazione economica che va governata e trasformata in un volano di crescita. A dividere molto è il tema della detassazione: mentre la CDU preme per un taglio immediato delle tasse sulle aziende, per i socialdemocratici questo obiettivo va raggiunto in un orizzonte più ampio, quello del 2029. Si tratta di divisioni di sostanza ma anche di forma: su questi temi infatti i partiti mettono in gioco la loro identità e la loro visione della società. 

Diversi punti di frattura

In realtà, il tema del rilancio dell’economia è molto più complesso e va oltre le divisioni più classiche su tasse e occupazione. La futura Groko dovrà infatti mettere a punto un programma per modernizzare un’economia che, nell’ultimo decennio, non ha saputo effettivamente rinnovarsi. Vi è un ritardo infrastrutturale rilevante, basti guardare al comparto ferroviario. Vi è poi una questione energetica aperta: è diffusa l’idea che la svolta green che il paese ha compiuto sia stata mal pensata e mal gestita. Vi è poi un discorso più generale di innovazione e di adeguamento di una legislazione che con il tempo si è fatta più complessa e farraginosa. Questo processo di riforma si intreccia e si sovrappone con le politiche in materia portate avanti dall’Unione europea, dall’Omnibus Simplification Package ad altri macro-provvedimenti che andranno rapportati e integrati con le strategie nazionali.

Tutti questi temi, che dovranno necessariamente trovare una sintesi nella piattaforma politica del nuovo governo, andranno poi a sommarsi alla nuova visione strategica che il governo dovrà definire, innanzitutto nei confronti dei tre attori globali principali: Russia, Cina e Stati Uniti. Questi ultimi pongono un duplice problema: da un lato quello di ripensare (e, se necessario, integrare) il dialogo transatlantico, dall’altro quello di evitare che il vuoto di potere generato dalla ritrazione di Washington in diverse aree geografiche sia colmato dagli altri, in particolare da Pechino. In questo senso un aspetto molto importante da monitorare sarà la visione di politica globale del nuovo governo, con un’attenzione specifica alle politiche di aiuto allo sviluppo. Inizialmente si pensava che il nuovo governo tedesco avrebbe tagliato questa voce per dare priorità ad altro, ma oggi ci si chiede se questo sia possibile per evitare che la Cina subentri nel controllo di aree e ambiti economici strategici.

Giornata internazionale contro le mine antipersona: il dilemma dei paesi al confine con la Russia

Fri, 04/04/2025 - 13:46

La Giornata internazionale contro le mine antipersona indetta dalle Nazioni Unite si celebra ogni anno  il 4 aprile. Per l’Unione Europea l’adesione da parte di tutti i suoi membri  alla Convenzione di Ottawa del 1997 che proibisce il possesso ed uso di tali odiosi strumenti  bellici che dissimulati nel terreno fanno saltare in aria i civili e militari che li calpesta, costituisce una delle piu significative espressioni dell’impegno dell’Europa a favore del controllo degli armamenti. Quest’anno la celebrazione non può che avvenire in tono minore poiché desta preoccupazione il recente annuncio congiunto dei Ministri della Difesa di  Polonia, Estonia, Lituana e Lettonia dell’intenzione di ritirarsi dall’accordo di Ottawa  a causa ”dell’accresciuta minaccia militare che devono affrontare quei  paesi della  Nato che confinano con la Russia e la Bielorussia”. Successivamente anche la Finlandia, ha effettuato un annuncio analogo.

Tali annunci destano preoccupazione sul piano generale perchè  costituiscono un ulteriore passo indietro nel settore del controllo degli armamenti che si aggiunge a precedenti numerosi  ritiri da accordi effettuati soprattutto da parte degli Stati Uniti e dalla Russia. Con l’uscita dalla Convenzione di Ottawa, i cinque paesi in questione non farebbero estinguere l’accordo, cui hanno aderito ben 165 paesi,ma certamente indebolirebbero  il regime del disarmo “umanitario”, quello che mira non tanto a  mantenere un equilibrio strategico tra le maggiori potenze, bensì ad alleviare le soffrenze di combattenti e civili durante e dopo un conflitto armato.

Il motivo che induce questi stati ad adottare tale spiacevole decisione è però comprensibile. Non si tratta di un gesto volto a ristabilire la reciprocità con la Russia e la Bielorussia che non hanno mai aderito alla Convenzione sulle mine e che hanno sempre possieduto ed impiegato tali ordigni. Si tratta invece di uno strumento di dissuasione contro un possibile attacco militare russo, che visto il precedente dell’aggressione russa dell’Ucraina non è più del tutto escludibile.Particolarmente delicata è la situazione della Finlandia che ha con la Russia un confine  di migliaia di chilometri e che ha già subito un’invasione sovietica nel corso della seconda  guerra mondiale.

Occorre tener presente che l’art 20 della Convenzione Ottawa prevede che uno stato parte che sia coinvolto in un conflitto armato possa  ritirarsi dal trattato solo dopo la conclusione delle ostilità. E’ questo il caso dell’Ucraina che aveva aderito alla convenzione  di Ottawa e che non può oggi, come vorrebbe, ritirarsi  dal trattato. Lo potrà fare solo al termine del conflitto. Nel frattempo Kiev ha ottenuto dagli USA delle mine antipersona che non potrebbe legalmente possedere e tanto meno usarle. Per evitare di cadere nella stessa trappola dell’Ucraina e per potersi svincolare legalmente dalle ferree disposizioni della convenzione, i cinque paesi citati preferiscono  probabilmente anticipare il proprio ritiro dalla convenzione ed evitare  una loro possibile inadempienza.

L’uscita dei cinque  paesi dall’accordo  non è un fatto compiuto, la decisione  definitiva non è stata ancora presa  e dovranno comunque passare sei mesi tra la denuncia vera e propria (che deve essere motivata)e la sua effettiva entrata in vigore.Nel frattempo i membri della comunità internazionale potranno cercare di dissuadere i governi dei cinque paesi dal portare a termine il loro intendimento.Tuttavia viste le circostanze attuali non saranno molti i paesi che se la sentiranno di intervenire presso le capitali nordiche affinchè esse desistano dal ritiro.Semmai le si potrà incoraggiare a dichiarare la natura reversibile della loro decisione e la disponibiltà a rivederla in tempi meno turbolenti.

Il Cremlino appalta la disinformazione ad aziende private russe come SDA

Thu, 04/03/2025 - 09:43

Per la sua strategia di manipolazione e destabilizzazione, il regime russo non si serve solo dei canali di propaganda statali e dei servizi di intelligence, con unità speciali adibite ad operazioni psicologiche e informative, ma ha anche appaltato l’attività ad agenzie private di Mosca che assumono esperti di marketing e social media. Si tratta delle eredi di quella che fu la Internet Research Agency del fondatore di Wagner, Evgenij Prigozhin, la celebre fabbrica dei troll che per anni ha provocato e seminato discordia sulle piattaforme online. Tra quelle note c’è l’azienda informatica Struktura National Technologies fondata da Nikolai Aleksandrovich Tupikin, concentrata sull’America Latina, la no-profit ANO Dialog fondata nel 2019 e guidata fino al 2022 da Alexej Goreslavskij e poi da Vladimir Tabak, impegnata a diffamare i dissidenti russi e a disinformare in Ucraina, ma anche la ArgonLabs, gestita da Maria Aleksandrovna Shubochkina e dal marito Andrey Evgenievich Shubochkin. La più nota, tuttavia, è la Social Design Agency, SDA, (Агенство Социального Проектирования), fondata da Ilya Andreevich Gambashidze, che dal 2022 ha lavorato insieme a Struktura di Tupikin in base alle direttive del Cremlino. Infatti, le due aziende sono responsabili di alcune delle più vaste campagne di disinformazione ai danni dell’opinione pubblica occidentale e sono state dunque sanzionate.

L’inchiesta che ha svelato la macchina di propaganda

Un’inchiesta pubblicata a settembre 2024 da Radio Free Europe insieme ad altri media tedeschi ed estoni ha scoperchiato l’enorme macchina di propaganda gestita da SDA. I giornalisti investigativi hanno potuto farlo grazie a una consistente mole di documenti filtrati dall’azienda russa, che hanno permesso di scoprire i retroscena della strategia adoperata contro l’Ucraina e i paesi europei. Alcuni di quei documenti erano già stati pubblicati dalle autorità americane per giustificare una richiesta di sequestro dei domini internet collegati a SDA. Forse il file più clamoroso è un video promozionale del capo dell’agenzia, Gambashidze, che si vanta dei successi conseguiti e svela la paternità di operazioni come la “RRN” (Recent Reliable News, in cui era coinvolto anche il propagandista filorusso italiano Amedeo Avondet) e Doppelganger, con la clonazione di almeno 120 siti di media e istituzioni europee.

La strategia operativa in tre direzioni

Il video di tre minuti e mezzo era indirizzato ai “clienti” russi dell’agenzia e non andava divulgato all’esterno. Infatti, mostra Gambashidze in tuta mimetica con la mostrina “Truppe Ideologiche Russe — Forza della Verità” e descrive come lavora la sua organizzazione per inquinare l’informazione occidentale. L’attività di SDA si sviluppa in tre direzioni: la prima è il monitoraggio giornaliero da parte di 24 analisti di articoli sulla Russia e dei post di oltre mille opinion leaders in sei lingue diverse, con la compilazione di rapporti su potenziali contenuti di disinformazione. La seconda è quella analitica, con specialisti che studiano le priorità mediatiche e le vulnerabilità del pubblico da influenzare, mentre la terza è quella creativa e si concentra sull’elaborazione di articoli di disinformazione che copiano lo stile giornalistico di un determinato paese europeo, oltre alla produzione di caricature e meme per denigrare i suoi leader.

I protagonisti e i collegamenti con il Cremlino

Oltre a Gambashidze, sono noti anche Andrej Naumovich Perla, direttore dei progetti, e Sofia Avraamova Zakharova, il cui nome emerge in vari documenti ed è una funzionaria nell’amministrazione presidenziale russa, con l’incarico di supervisionare le attività di SDA. Infatti, dal 2023 al Cremlino è stato istituito il “Comitato presidenziale speciale di coordinamento e valutazione dell’efficacia delle operazioni informative e psicologiche”, guidato da Sergej Kirienko, primo vicecapo gabinetto di Putin, a cui probabilmente risponde Sofia Zakharova, capo dipartimento per lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione e informazione. Il suo nome riemerge nel verbale di una riunione tenutasi a settembre 2023, in cui esprime soddisfazione perché la falsa notizia di un traffico di organi di bambini ucraini prodotta da SDA è stata rilanciata dalla deputata americana Marjorie Taylor Greene, complottista trumpiana e contraria agli aiuti all’Ucraina. Anche un meme contro Zelensky e un video contro USAID prodotti da SDA sono stati ricondivisi da Elon Musk e Donald Trump Junior, raggiungendo milioni di utenti su X.

Operazioni di destabilizzazione in Europa

Tra le operazioni gestite da SDA figura la distribuzione di documenti falsi che imitano quelli del governo ucraino o delle autorità polacche e tedesche, con l’obiettivo di creare divisioni interne e fiaccare l’aiuto all’aggredito. Per questo, gli analisti di SDA monitorano sui media ucraini argomenti come la mobilitazione, le perdite al fronte, le limitazioni dovute alla legge marziale, i casi di corruzione, e cercano di sfruttare ogni possibile notizia per aumentare il disfattismo e la polarizzazione. Ad esempio, i commenti provocatori e le caricature sono prodotti per esasperare il dibattito politico e la competizione tra il presidente Zelensky e i suoi potenziali avversari, come Petro Poroshenko, il sindaco di Kyiv Klitchko e il generale Zaluzhny. Un esercito di account bot è addestrato da SDA a spammare commenti negativi sotto alle notizie sui social.

Un altro filone è mirato a diffondere contenuti di disinformazione nei paesi dell’Ue, come un video pubblicato da un canale Telegram in tedesco, che sostiene di mostrare un rifugiato ucraino mentre sfonda una vetrina a Napoli per rubare nel negozio. Uno dei documenti di SDA circolati descrive il lavoro dei “creativi”, che propongono di creare un’organizzazione ucraina fittizia che chieda risarcimenti di guerra alla Germania per l’invasione nazista, oppure diffondere la notizia che rifugiati ucraini in Europa si sono uniti all’ISIS, o, ancora, che una dodicenne tedesca è stata stuprata da adolescenti ucraini nella città di Rostock, nell’ex Germania est dove va forte Alternative für Deutschland, partito di estrema destra particolarmente votato dagli immigrati russo-tedeschi, che a sua volta li apprezza molto. SDA ha prodotto un video falso attribuito alla testata tedesca Bild, secondo cui rifugiati ucraini avrebbero dato fuoco alla casa dei tedeschi che li ospitavano nel tentativo di bruciare una bandiera russa.

L’impatto e i numeri della macchina della disinformazione

I documenti filtrati offrono anche dei numeri precisi sull’attività di SDA: solamente da gennaio ad aprile 2024 l’organizzazione di Gambashidze ha pubblicato almeno 34 milioni di commenti sui social network grazie alla fabbrica di bot. Nello stesso periodo, sono stati prodotti circa trentamila post, quasi cinquemila video, millecinquecento articoli, duemilacinquecento caricature e meme. Il lavoro prolifico di SDA non sembra essersi arrestato nonostante la fuga di notizie, le sanzioni che hanno colpito Gambashidze e i suoi collaboratori. Le istituzioni europee e nazionali possono trarre da questa esperienza molte lezioni su come affrontare la macchina di propaganda russa e implementare risposte più stringenti alla manipolazione informativa straniera.

Matteo Pugliese, PhD, analista di Debunk.org

I media al tempo di Trump 2.0

Thu, 04/03/2025 - 08:55

di Sofia Chiarelli

A circa due mesi dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il sistema politico statunitense sembra non poter fare troppo affidamento sui tradizionali “contrappesi” in grado di controbilanciare l’azione di un esecutivo che sta acquisendo sempre di più il carattere di un potere personale

Il Congresso sembra essere uno spettatore passivo di fronte al dispiegarsi della valanga di ordini esecutivi presidenziali. Il sistema giudiziario appare in difficoltà nel tentativo di contrastare i ripetuti attacchi provenienti da Trump e dal suo sodale Elon Musk, e non è scontato che possa godere del supporto di una Corte Suprema sensibile alle istanze conservatrici del presidente. Le agenzie federali hanno subìto in tempo record un ricambio del personale che assomiglia più ad una epurazione. Infine, la controparte democratica risulta essere ancora in crisi dopo la sconfitta alle elezioni, in mancanza di un leader capace di imprimere al partito una spinta di rinnovamento e di definire una chiara linea politica. 

In questo quadro, non troppo rassicurante, i media potrebbero rappresentare – come spesso si dice – un quarto potere, e fungere da contraltare in questo tsunami politico. Ma Trump 2.0 ne ha anche per loro.

“Ripristinare la libertà di parola”, ma non troppo

I rapporti di Trump con i media sono stati conflittuali già durante il suo primo mandato.

Il magnate ha infatti più volte sostenuto che la stampa avrebbe contribuito a sabotare la sua precedente presidenza, accusando in diverse occasioni i giornalisti di dargli una copertura sfavorevole, diffondere fake news, ed essere corrotti e asserviti ai Democratici. Tutti elementi che hanno valso alla categoria giornalistica l’appellativo di “nemica del popolo”. Questa visione è ulteriormente rafforzata dal fatto che – a suo dire – l’amministrazione di Joe Biden avrebbe contribuito a utilizzare i media per promuovere la narrazione preferita dai Democratici, costruendo un sistema censorio che “ha calpestato i diritti di libertà di parola”.

È in questo contesto, dunque, che Trump firma il giorno stesso del suo secondo insediamento un ordine esecutivo per “ripristinare la libertà di parola e porre fine alla censura federale”.

In realtà, con l’intento di ristabilire l’imparzialità dei media, questa misura ha spinto piattaforme come Meta ad abbandonare i servizi esterni di fact-checking e di moderazione dei contenuti, percepiti dal presidente come forme di censura nei suoi confronti. L’ordine esecutivo, inoltre, ha incaricato con portata retroattiva la Federal Communications Commission di accertare le basi per una revoca della licenza alle emittenti di cui la nuova amministrazione non condivide contenuti e copertura. In altre parole, i media che non si allineano alla visione di Trump sono nemici e vanno contrastati. Chi invece mostra lealtà verrà ricompensato.

Verso un ecosistema mediatico più allineato

L’amministrazione Trump ha allontanato alcune testate ed emittenti, ridefinendo il pool dei giornalisti che a rotazione partecipa ai press briefing dello Studio Ovale, del Pentagono e di altri Dipartimenti federali. Il tutto, scavalcando la White House Correspondents’ Association, l’organizzazione indipendente di giornalisti che si occupa della copertura mediatica della Casa Bianca e del relativo sistema di accreditamento degli organi di informazione. A Reuters e Associated Press, per esempio, è stato bandito l’accesso – tradizionalmente sempre garantito – alla prima riunione di gabinetto del presidente, mentre, al Pentagono, il New York Times, NBC News, e Politico hanno dovuto lasciare il posto a emittenti e testate pro-Trump, tra cui One America News, Breitbart News, e New York Post.

Questa mossa garantisce all’amministrazione di esercitare un controllo stringente su chi pone le domande e su ciò che viene domandato, riducendo la possibilità di ricevere domande scomode e assicurandosi un pubblico di giornalisti più allineati. Non è infatti un caso che Associated Press sia stata esclusa dalla Casa Bianca dopo aver scelto di non riferirsi al “Golfo del Messico” con il nome di “Golfo d’America”, così come ribattezzato da Trump.

Quale futuro per la libertà di stampa? 

Un numero crescente di media sta provando ad alzare la voce, esprimendo preoccupazione per la libertà di stampa o invocando l’intervento dei giudici per ripristinare l’accesso alla Casa Bianca in nome del primo emendamento. Ci sono anche media che, invece, hanno preferito adeguarsi alla volontà presidenziale, accettando di raggiungere accordi economici per chiudere cause pendenti intentate dallo stesso Trump prima di vincere le elezioni. È questo il caso delle emittenti CBS e ABC, accusate dal presidente di aver favorito la candidata democratica nella copertura mediatica dei dibattiti televisivi. Il fatto che un organo d’informazione accetti di patteggiare privatamente con un presidente, anziché affidarsi alla magistratura per risolvere la controversia, è un segnale alquanto preoccupante per l’indipendenza del giornalismo. Inoltre, la semplice minaccia di una citazione in giudizio per un organo di stampa – o tanto più per un singolo giornalista – da parte del governo federale riduce la capacità dei media di svolgere liberamente il proprio lavoro, in particolare per le testate che non hanno le risorse economiche per sostenere eventuali spese legali. Queste circostanze rischiano, tra l’altro, di preparare il terreno alla forma più invisibile di restrizione alla libertà di stampa: l’autocensura.

Ciò che emerge da questo quadro è che Trump sta cercando di alterare, in modo diretto e indiretto, l’ecosistema mediatico a suo favore, ricorrendo sia a mezzi ufficiali e pubblici che al proprio potere di pressione sui giornalisti. L’insieme di questi elementi suggerisce un venir meno dei presupposti per una stampa libera, per la quale – anche in contesti democratici in cui dovrebbe essere quasi scontata – c’è bisogno della collaborazione di tutte le componenti dello Stato, e di quel sistema di “pesi e contrappesi” che, attualmente, sembra essere in profonda difficoltà.

Il magro bilancio della lotta all’obesità

Wed, 04/02/2025 - 16:46

Il 4 marzo scorso, in concomitanza con il quinto anniversario dell’inizio della pandemia da Sars-CoV-2 e nel sostanziale silenzio dei media, si è celebrato il World Obesity Day. Fenomeno di dimensioni planetarie e in costante crescita, l’obesità è associata a circa il 70% delle malattie non trasmissibili (NCD) tra cui patologie cardiovascolari, respiratorie, muscolo-scheletriche e tumori. A livello globale, secondo i dati della World Health Organization (WHO) oltre un miliardo di persone sono obese, di cui circa quattrocento milioni nella fascia di età 5-19 anni. Inoltre, nonostante sia una condizione in larga parte prevenibile, l’obesità è causa diretta di circa cinque milioni di decessi all’anno. Dal punto di vista finanziario, poi, il costo di questa vera e propria pandemia dimenticata è oggi stimabile in 3.000 miliardi di dollari all’anno, cifra che potrebbe arrivare presto, secondo uno studio pubblicato dal British Medical Journal, a 4.300 miliardi di dollari.

Un fallimento sociale su scala planetaria dunque, come è stato definito da The Lancet. Non solo. Un fallimento che rischia di protrarsi per decenni, nonostante il Covid abbia dato inconfutabile evidenza numerica dell’importanza della prevenzione di malattie che influiscono sul sistema cardiovascolare e respiratorio. Come ha avuto modo di affermare il direttore generale del WHO Tedros Ghebreyesus, “la pandemia ha evidenziato il grave pericolo delle NCD e ha segnalato l’urgente necessità di politiche e investimenti di sanità pubblica più forti per prevenirle. Esortiamo i leader mondiali a livello pubblico e privato ad adottare misure aggressive per prevenire le malattie non trasmissibili. Meno malattie non trasmissibili avrebbero significato meno morti durante la pandemia”.

Nonostante l’enfasi che le autorità internazionali danno al tema, le risorse dedicate alla prevenzione delle NCD in generale e dell’obesità in particolare sono ancora limitate: raccolgono complessivamente il 2% degli investimenti internazionali nel settore sanitario. A questo proposito, una ricerca del 2023 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, WHO) evidenzia che circa due terzi dei paesi del mondo hanno applicato varie forme di tassazione su cibi e bevande non salutari. Tuttavia, queste entrate fiscali (che, secondo l’OECD, farebbero risparmiare sei dollari per ogni dollaro investito), non solo non sono state reinvestite in programmi per la prevenzione, ma non sono nemmeno risultate particolarmente efficaci nel garantire un duraturo cambiamento di abitudini. Così come non sembrano avere prodotto risultati apprezzabili i sussidi all’acquisto di cibo più nutriente, come ad esempio quelli del Supplemental Nutrition Assistance Program (SNAP), lanciato più di dieci anni fa dal Department of Agriculture degli Usa. Sostenuto da circa 100 miliardi di dollari all’anno di finanziamenti federali, lo SNAP ha sì ridotto la cosiddetta insicurezza alimentare(intesa come difficoltà di accesso al cibo sano e nutriente), ma non sembra abbia avuto particolari effetti sulle abitudini alimentari di lungo termine degli oltre sessanta milioni di partecipanti.

Considerato che la grande maggioranza delle NCD sono causate da comportamenti nocivi come sedentarietà, cattiva alimentazione e fumo, si può quindi dedurre che un risoluto cambio di abitudini a livello collettivo rimanga il fattore chiave per affrontare le patologie non trasmissibili e in particolare l’obesità. Uno sforzo che, da un lato, non può ovviamente prescindere dalla partecipazione del legislatore, che dovrebbe limitare la produzione di alimenti a scarso valore nutritivo o il repurposing dell’industria del tabacco. Ma che, dall’altro, non dovrebbe prevedere nemmeno il ricorso a ‘scorciatoie’ come quelle offerte da alcuni recenti prodotti farmaceutici per la riduzione dello stimolo dell’appetito. Come sostengono i ricercatori dell’università di Harvard, infatti, l’appetito è uno stimolo naturale e gestibile anche attraverso l’assunzione di cibo nutriente. Inoltre, secondo alcuni studi molti di questi ‘rimedi’ non rappresentano una soluzione duratura, devono essere assunti a vita e hanno un prezzo spesso superiore a 1.000 dollari al mese. Un quadro non ideale dunque, ulteriormente complicato dalle attività di lobbying del settore farmaceutico che, oltre alla tradizionale influenza sul settore medico e su quello della formazione, hanno fatto sì che il costo di tali medicine sia sostenuto in molti stati dalle casse pubbliche, drenando così ingenti risorse che invece potrebbero essere destinate ad altre priorità globali.

Tra queste, l’accesso al cibo. Soprattutto a quello sano, bene sempre più ‘a premio’ visto lo spazio globale per la coltivazione di vegetali, passato da 0,45 ettari pro capite nel 1961 all’attuale 0,21, e l’esigua quantità di terra coltivabile a livello globale dedicata a frutta (3,8%) e verdura (3,3%), alimenti fondamentali nella prevenzione di varie malattie. Inoltre, l’omogeneizzazione delle catene alimentari – con la produzione di cibi pronti per il consumo – è un fenomeno che ha colpito anche (se non soprattutto) i paesi a medio-basso reddito (LMIC), rendendo l’accesso ad una dieta equilibrata un problema sempre più grave per un’ampia fascia di popolazione. Ciò significa che le popolazioni dei LMCI – e soprattutto i loro bambini, sovrappeso e al tempo stesso malnutriti – sono sempre più a rischio di contrarre una patologia non trasmissibile, dal momento che assumono un quantitativo a volte sufficiente di calorie ma non abbastanza nutriente per una crescita sana. Secondo stime delle Nazioni Unite, circa due miliardi di persone non hanno accesso a cibo sano e nutriente. Come diceva Ippocrate, “fa che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo”.

L’articolo riflette unicamente le posizioni personali dell’autore

La Finlandia, felice ma prudente: aumenterà la spesa per la difesa

Wed, 04/02/2025 - 16:39

Per l’ottava volta di seguito la Finlandia è risultata al vertice dei paesi più felici al mondo. Ma, a quanto pare, la felicità non va a scapito della prudenza ed infatti il suo governo, presieduto da Petteri Orpo, ha deciso di aumentare la spesa per la difesa nazionale ad almeno il 3% del PIL entro il 2029. L’obiettivo è stato proposto dal ministro della Difesa Antti Häkkänen e approvato dal Comitato ministeriale per la politica economica.

Häkkänen ha dichiarato che “aumentando la spesa per la difesa nazionale ad almeno il 3% del PIL rafforzeremo ulteriormente la difesa della Finlandia. Inizieremo la modernizzazione dell’esercito e il rafforzamento di altre capacità di difesa basate su una base informata sulle minacce. Con questa decisione risponderemo all’attuale situazione di sicurezza in Europa e alla minaccia militare posta dalla Russia”.

Il governo ha anche deciso di procedere in modo anticipato alla realizzazione dei progetti relativi ai materiali per l’esercito. Per il ministro, “l’aumento della spesa per la difesa significherà che alle Forze di difesa finlandesi saranno concessi finanziamenti aggiuntivi nella decisione sui limiti di spesa della primavera 2025 per un totale di circa 3,7 miliardi di euro nei prossimi quattro anni. Alle Forze di difesa finlandesi saranno inoltre concesse ulteriori autorizzazioni di approvvigionamento per anticipare i progetti di materiali dell’esercito pianificati per il 2030″.

Secondo il ministro Häkkänen, saranno stanziati finanziamenti aggiuntivi, ad esempio, per garantire le funzioni critiche e la manutenzione dei materiali di difesa, che rafforzano la capacità del sistema di difesa di sostenere combattimenti a lungo termine. E ha aggiunto: “rafforzeremo le strutture che supportano la difesa, come il numero del personale, la logistica e le infrastrutture. Saranno inoltre aumentate le risorse disponibili per la difesa nazionale volontaria e per la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione nel settore della difesa. Per quanto riguarda la politica dei materiali, l’industria della difesa finlandese svolge un ruolo importante sia nel mantenimento dei sistemi d’arma chiave sia nello sviluppo di nuove capacità. Questa decisione del Comitato ministeriale sulla politica economica contribuisce all’attuazione delle politiche delineate nell’analisi del ‘Government Defence Report’. Le risorse e il processo di selezione delle priorità per un ulteriore rafforzamento delle competenze della Finlandia saranno accelerati. La decisione sui limiti di spesa per l’aumento degli stanziamenti e delle autorità in materia di appalti sarà presa nell’ambito del piano fiscale della Pubblica amministrazione per il 2026-2029.”

L’attuale livello base del bilancio della difesa finlandese è stato deciso prima che la Russia lanciasse la sua campagna in Ucraina nella primavera del 2022; nel 2000-2020, la Finlandia ha speso meno dell’1,5% del PIL per la difesa. L’aumento degli stanziamenti per la difesa è stato preparato in collaborazione con il Ministero delle Finanze.

Secondo il rapporto governativo sulla difesa, lo sviluppo delle capacità militari e le aspirazioni politiche della Russia rappresentano una minaccia alla sicurezza a lungo termine per l’Europa e la Finlandia e dunque quest’ultima reputa di dover sostenere la propria capacità di contrastare l’influenza russa ad ampio spettro, resistere alla pressione militare a lungo termine e sostenere conflitti su larga scala che si trascinino per anni, utilizzando risorse nazionali e come parte della NATO.

La posizione della Finlandia in merito all’entità dell’aumento della spesa per la difesa della NATO verrà decisa in seguito. Intanto, nel loro incontro di martedì 1° aprile, il Presidente della Repubblica Stubb e il Comitato ministeriale per la politica estera e di sicurezza hanno discusso degli sforzi per porre fine alla guerra di aggressione della Russia e far progredire il processo di pace in Ucraina. Il Presidente Stubb e il Comitato ministeriale hanno inoltre discusso le posizioni della Finlandia per la riunione dei ministri degli esteri della NATO a Bruxelles il 3 e 4 aprile, che predispone anche il vertice NATO che si terrà in estate.

Il Presidente e il Comitato hanno inoltre discusso questioni di attualità relative alla deterrenza e alla difesa della NATO, ed hanno concordato che la Finlandia avvierà i preparativi per il ritiro dalla Convenzione sul divieto di impiego, stoccaggio, produzione e trasferimento delle mine antiuomo e sulla loro distruzione (la Convenzione di Ottawa), pur precisando che la Finlandia rimane impegnata nei confronti dei suoi obblighi internazionali riguardanti l’uso responsabile delle mine e nel lavoro globale per ridurre al minimo gli impatti delle stesse.

“La Finlandia non sta attualmente affrontando una minaccia militare immediata. Il ritiro dalla Convenzione di Ottawa ci darà la possibilità di prepararci ai cambiamenti nell’ambiente di sicurezza in un modo più versatile. Gli obiettivi più importanti della politica estera e di sicurezza del Paese sono salvaguardare la nostra indipendenza e l’integrità territoriale, evitare di essere coinvolti in un conflitto militare e garantire la sicurezza, la protezione e il benessere del popolo finlandese”, ha dichiarato il Primo Ministro Orpo.

La Finlandia è parte della Convenzione di Ottawa dal 2012; da allora, l’ambiente di sicurezza si è deteriorato in modo sostanziale e a lungo termine; la Russia non è parte della Convenzione di Ottawa e ha utilizzato mine antiuomo nella sua guerra di aggressione contro l’Ucraina. Come alleato della NATO, la Finlandia sta anche difendendo il confine dell’Alleanza con la Russia.

La decisione del Governo si basa su una valutazione completata la scorsa settimana dalle Forze di difesa e sul lavoro preparatorio svolto dai funzionari del Ministero della difesa e del Ministero degli affari esteri. Secondo l’amministrazione della difesa, le mine antiuomo sono adatte alla difesa nazionale della Finlandia, consentono di rallentare l’avanzata dell’attaccante e di ridurre al minimo le vittime del difensore. Le mine antiuomo sono tecnicamente semplici e sono quindi adatte all’addestramento e all’uso in un sistema di coscrizione. Possono anche essere prodotte rapidamente e in grandi quantità in Finlandia.

Stubb ed il Comitato ministeriale hanno inoltre discusso sul lavoro svolto dalla Finlandia nel G20 e delle modalità per approfondire la cooperazione tra la Finlandia e il G20.

Cosa si cela dietro la discussione sulle elezioni anticipate in Ucraina?

Wed, 04/02/2025 - 15:32

I significativi sviluppi negli Stati Uniti negli ultimi due mesi indicano che la seconda inaugurazione di Donald J. Trump come presidente degli Stati Uniti nel gennaio 2025 sta inaugurando una nuova era nella storia della civiltà occidentale, se non della politica mondiale. Un aspetto della recente trasmutazione degli affari esteri e interni americani è l’adozione pubblica e la riproduzione da parte della nuova amministrazione statunitense di alcune narrazioni del Cremlino sulle attuali relazioni internazionali. Ciò vale in particolare per le spiegazioni eccentriche e le presunte soluzioni del conflitto russo-ucraino.

L’emergere di una strana narrativa

Già prima della vittoria elettorale di Trump nell’ottobre 2024, la tesi secondo cui un cambio di leadership in Ucraina fosse un prerequisito per porre fine alla guerra russo-ucraina era diventata oggetto di dibattito pubblico al di fuori dell’Ucraina. Tre anni fa, i mezzi di comunicazione influenzati o vicini al Cremlino hanno iniziato a spargere la voce che il potere legislativo ed esecutivo dell’Ucraina avrebbero dovuto essere regolarmente rieletti rispettivamente nell’ottobre 2023 e nel marzo 2024, altrimenti avrebbero perso la loro legittimità politica. Nel 2023, influenti commentatori occidentali, dall’allora opinionista di Fox News Tucker Carlson al presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa Tiny Kox, iniziarono anch’essi ad adottare questa posizione russa.

Senza la guerra della Russia contro l’Ucraina, le elezioni parlamentari e presidenziali regolari avrebbero dovuto essere indette nel 2023/24 in base alla legislazione ucraina in tempo di pace. Tuttavia, la legge ucraina “Sul regime giuridico in stato di guerra”, adottata nel 2010 e rinnovata nel 2015, ha vietato le elezioni presidenziali, parlamentari e locali durante lo stato di emergenza per un quarto di secolo. In conformità con questa legge e con la costituzione ucraina, le elezioni regolari previste per il 2023-24 sono state rinviate fino alla fine dei combattimenti e alla revoca della legge marziale introdotta nel 2022. Tale sospensione dei normali processi democratici in uno stato di emergenza militare era ed è una pratica comune in tutto il mondo. Ora è sancita dalla legislazione di molte democrazie, tra cui la Legge fondamentale tedesca.

Inoltre, in Ucraina non è possibile tenere elezioni significative subito dopo la fine della guerra. Dato il grave impatto della guerra sulla società ucraina in generale e sull’infrastruttura elettorale in particolare, un legittimo processo elettorale democratico avrebbe bisogno di un’adeguata preparazione. Secondo la “Roadmap per garantire l’organizzazione delle elezioni postbelliche in Ucraina”, pubblicata nel gennaio 2025 dal rinomato gruppo ucraino di monitoraggio elettorale Opora (Base), le elezioni non si terranno prima di almeno sei mesi dalla fine della legge marziale. In considerazione di alcuni aspetti impegnativi di un’adeguata preparazione delle elezioni, potrebbero non essere possibili fino a circa un anno dopo la fine dei combattimenti. Già nel 2023, i leader delle fazioni della Verkhovna Rada erano giunti alla conclusione che era necessaria una legge elettorale completamente nuova per tenere conto dei numerosi e profondi cambiamenti avvenuti in Ucraina dall’inizio dell’invasione su vasta scala della Russia nel 2022.

Tra questi figurano lo sfollamento di milioni di cittadini ucraini all’interno e all’esterno dell’Ucraina e la distruzione di edifici pubblici, comprese le scuole, precedentemente utilizzati come seggi elettorali. Queste e altre sfide richiederebbero nuove forme di voto, un aggiornamento delle liste elettorali ucraine, un gran numero di opportunità di voto all’estero e una serie di altri adeguamenti logistici, legali e organizzativi. Ciononostante, negli ultimi due anni, il Cremlino è riuscito a trasformare la presunta mancanza di rappresentanza democratica della leadership ucraina in un argomento di discussione sulle presunte ragioni della continuazione e sui presunti modi per porre fine alla guerra russo-ucraina.

Le elezioni come strumento di manipolazione

Dal 2023, i politici e i pubblicisti russi e filo-russi hanno chiesto all’Ucraina di tenere elezioni nazionali anche in condizioni di guerra totale. In questo modo, Mosca e i suoi alleati stanno ripetendo una strategia che avevano già utilizzato dopo l’inizio della guerra undici anni fa. Durante la prima fase della guerra russo-ucraina, dal 2014 all’inizio del 2022, il Cremlino e i suoi collaboratori hanno chiesto all’Ucraina di tenere elezioni regionali e locali nelle cosiddette “Repubbliche popolari” di Donetsk e Luhansk, che la Russia aveva creato artificialmente nella primavera del 2014 nell’Ucraina orientale attraverso un’operazione militare segreta.

Mosca ha chiesto le elezioni nell’Ucraina orientale nonostante il governo ucraino non avesse più accesso ai territori delle due entità sostenute da Mosca nel bacino del Donets (Donbas), dove Kyiv avrebbe dovuto organizzare campagne elettorali democratiche e votazioni. Invece, il Cremlino esercitava un controllo effettivo sui due regimi de facto nelle oblast di Luhansk e Donetsk. Fino alla loro annessione nel 2022, Mosca non ha mai mostrato alcuna volontà di ridurre la sua influenza sulle due autoproclamate “Repubbliche popolari”. Ciononostante, il Cremlino ha insistito affinché Kyiv tenesse le elezioni sul loro territorio. Mosca è persino riuscita a impressionare diplomatici e politici occidentali, come il francese Pierre Morel e il tedesco Frank-Walter Steinmeier, con la sua idea kafkiana, che li ha portati a proporre il cosiddetto “Piano Morel” e la “Formula Steinmeier“.

Tuttavia, nelle zone occupate del bacino del Donets non è mai stato possibile condurre una campagna elettorale significativa, né votazioni, conteggio dei voti e osservazione delle elezioni in conformità con la legge ucraina. Le autorità statali ucraine, i partiti politici (compresi quelli filo-russi), i mass media e le organizzazioni della società civile erano semplicemente assenti dal 2014. Pertanto, il governo ucraino non poteva e non voleva svolgere le elezioni nei territori occupati, prima della loro liberazione, secondo gli accordi di Minsk del 2014/15. Tuttavia, gli accordi di Minsk sono stati oggetto di intense discussioni a livello politico e diplomatico internazionale, nonché in ambienti accademici e di altro tipo, come un’opportunità di pace apparentemente mancata. Questi dibattiti, in definitiva assurdi, continuano in una certa misura ancora oggi, anche se l’attuazione degli accordi senza la smilitarizzazione del Donbass da parte della Russia è sempre rimasta un mistero.

Le richieste di Mosca affinché l’Ucraina tenesse le elezioni non erano motivate dalla preoccupazione russa per il governo popolare e la legittimità democratica né nel 2014-2021 né dal 2023. Dopotutto, il Cremlino sopprime i partiti di opposizione, le elezioni libere, lo stato di diritto, il pluralismo politico, l’attivismo civico e la libertà di espressione nella stessa Russia, a volte con forza mortale. Altri motivi guidano il comportamento estero di Mosca in generale e la sua insistenza sulle elezioni ucraine in particolare.

A seconda della situazione specifica, la Russia sta usando varie combinazioni di guerra cinetica e non cinetica per raggiungere il suo obiettivo generale: minare e soggiogare lo stato indipendente ucraino. Il Cremlino spera che una campagna elettorale e un processo di voto veramente liberi e aperti, a differenza di quelli in Russia, forniscano aperture per un intervento segreto da parte di attori, agenzie e agenti russi. Tali operazioni, durante un periodo di transizione politica in Ucraina, sarebbero progettate per polarizzare la società ucraina, intensificare i conflitti interni ucraini e confondere gli osservatori stranieri.

La richiesta di Mosca di elezioni in condizioni impossibili è uno dei numerosi strumenti nella cassetta degli attrezzi ibrida del Cremlino, che comprende anche la guerra informatica, campagne di disinformazione, pressioni economiche, teatro negoziale, atti di terrorismo, corruzione dei politici, ecc. In un appello congiunto, le ONG ucraine avvertono che “la sfida più grande per la democrazia elettorale dell’Ucraina sarà l’interferenza della Russia, che sarà pronta a usare qualsiasi mezzo per questo, dagli attacchi informatici alla corruzione diretta degli elettori, dalla diffusione della disinformazione e dal suo utilizzo per dividere la società al discredito dei candidati ‘inaccettabili’ per i leader russi e al finanziamento delle campagne di politici fedeli”.

La vera strategia dietro il velo democratico

Ispirandosi alla propaganda del Cremlino, ignari commentatori stranieri, tra cui politici occidentali e il loro staff, vengono deliberatamente fuorviati sulle cause e sulle possibili soluzioni della guerra russo-ucraina. Dietro la richiesta che Kyiv debba prima indire elezioni nazionali prima che sia possibile una pace stabile non c’è preoccupazione per la democrazia ucraina, ma l’impulso del Cremlino a destabilizzare l’Ucraina. Nello scenario ideale di Mosca, una campagna elettorale preparata in fretta e con misure di sicurezza inadeguate e un processo di voto in condizioni difficili offrirebbero ampi margini di disturbo. Tali circostanze renderanno più facile per il Cremlino sostenere candidati anti-occidentali, esacerbare le tensioni politiche, seminare sfiducia tra gli elettori e gli osservatori stranieri, infiltrarsi nell’infrastruttura elettorale e così via, come ha fatto nelle recenti elezioni in Georgia, Moldavia e Romania. Gli osservatori democratici della guerra di sterminio russa non dovrebbero lasciarsi impressionare dalla retorica pseudo-democratica del Cremlino e dei suoi apologeti internazionali.

La condanna di Marine Le Pen: cinque conseguenze politiche

Wed, 04/02/2025 - 10:20

La condanna della leader dell’estrema destra francese Marine Le Pen e l’immediata dichiarazione di ineleggibilità hanno sorpreso il suo movimento, scatenato reazioni appassionate all’estero e aggiunto ulteriore incertezza alla corsa presidenziale del 2027.

Ecco cinque considerazioni sul verdetto, che sembra destinato a segnare una svolta nella storia politica francese moderna:

L’estrema destra alla prova dell’ostacolo giudiziario

Il verdetto, nella sua forma attuale, impedirebbe alla Le Pen di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2027, nelle quali avrebbe avuto la sua quarta e probabilmente migliore possibilità di conquistare l’Eliseo.

Tuttavia, Le Pen presenterà appello e, in caso di insuccesso, ha già un chiaro “piano B” rappresentato dal leader del partito Rassemblement National (RN) Jordan Bardella, che prenderebbe il suo posto come candidato.

Denunciando quella che Le Pen ha definito una “decisione politica”, i dirigenti del RN hanno sostenuto che potrebbero addirittura uscire rafforzati da questa situazione.

“Non lasciatevi intimidire. Non demoralizzatevi… Vinceremo”, ha dichiarato Le Pen con il suo caratteristico atteggiamento combattivo davanti ai deputati del suo partito in Parlamento martedì.

In un’intervista radiofonica, Bardella ha previsto che “milioni di persone” che normalmente non votano per il RN si schiereranno con Le Pen.

Un percorso stretto ma possibile

L’unica via legale realistica per Le Pen è impugnare il verdetto, cosa che ha giurato di fare rapidamente, affermando: “Non mi lascerò eliminare”.

Ma con le elezioni previste per aprile 2027, i tempi sono stretti.

Martedì sera, la Corte d’Appello di Parigi ha dichiarato che esaminerà il caso Le Pen “entro un termine che dovrebbe consentire di raggiungere una decisione nell’estate del 2026”.

Questo implicherebbe una sentenza definitiva prima delle elezioni presidenziali del 2027, alle quali Le Pen intende candidarsi.

Non vi è però alcuna garanzia che la corte d’appello ribalti la sentenza di primo grado.

La campagna elettorale per il 2027 è già iniziata

Non c’è dubbio che il RN, il partito più grande nel parlamento francese, giocherà un ruolo fondamentale nelle elezioni del 2027, indipendentemente dal candidato che presenterà.

I contorni della competizione elettorale sono tuttavia ancora indefiniti, considerato che il presidente Emmanuel Macron non può candidarsi per un terzo mandato. Al momento non è chiaro quali candidati emergeranno per rappresentare il centro e la destra tradizionale.

Finora, l’ex primo ministro di Macron, Edouard Philippe, è la figura di maggior rilievo che si è proposta in questo campo.

I sondaggi indicavano che Le Pen sarebbe stata in grado di vincere agevolmente il primo turno elettorale.

“Era la persona in pole position in tutti i sondaggi pre-elettorali. Questo è solo il primo episodio di queste elezioni presidenziali”, ha affermato Frederic Dabi, direttore dell’istituto di sondaggi Ifop. “Quanto accaduto non potrà non avere effetti molto significativi sull’elettorato francese”.

Un caso che risuona a livello internazionale

Il Cremlino ha reagito ancor prima dell’annuncio completo del verdetto, con il portavoce di Vladimir Putin, Dmitry Peskov, che ha lamentato il fatto che “sempre più capitali europee stanno percorrendo la strada della violazione delle norme democratiche”.

Le sue dichiarazioni sono state riprese da esponenti dell’estrema destra europea, come l’olandese Geert Wilders, mentre Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo e consigliere del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, è intervenuto accusando la “sinistra radicale” di usare il suo “copione standard in tutto il mondo”.

“Le è stato vietato di candidarsi per cinque anni ed è la candidata principale. Sembra proprio un paese come questo”, ha commentato Trump, paragonando la condanna della Le Pen alla “guerra legale” che, a suo dire, è stata condotta contro di lui prima della sua elezione a presidente.

Per la presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, leader del partito Fratelli d’Italia, il verdetto “colpisce il leader di un grande partito e priva milioni di cittadini di rappresentanza”.

I riflettori puntati su Bardella

Anche se Le Pen insiste che il suo progetto per il 2027 non è tramontato, la situazione ha inevitabilmente accresciuto l’attenzione su Bardella, 29 anni, che, a differenza di molti altri dirigenti del RN, non è stato coinvolto nell’inchiesta.

La stessa Le Pen ha riconosciuto che Bardella ha la “capacità” di diventare presidente, anche se il suo protetto si rifiuta di discuterne pubblicamente.

Martedì ha dichiarato che Le Pen “mi ha dato tutto in politica e il minimo che le devo è continuare a lottare con lei, fino alla fine”.

“Il RN non è in una situazione disperata, hanno comunque qualcuno su cui contare”, ha osservato Dabi, riferendosi a Bardella.

Permangono tuttavia dubbi sulla sua esperienza e sulla sua capacità di sostenere un dibattito presidenziale sulle politiche contro figure del calibro di Philippe, anche se i critici riconoscono che le sue apparizioni mediatiche sono sempre impeccabili.

Secondo un sondaggio Toluna Harris Interactive per RTL, condotto dopo la sentenza, Bardella otterrebbe fino al 36% dei voti al primo turno delle elezioni presidenziali, un risultato simile a quello che avrebbe conseguito Le Pen.

© Agence France-Presse

Ue e Usa tra dazi, difesa europea e il nuovo governo tedesco

Sat, 03/29/2025 - 16:15

Michele Valensise, Presidente dello IAI, è stato ospite di Francesco De Leo a “Spazio Transnazionale” su Radio Radicale, dove ha analizzato il futuro delle relazioni tra Unione Europea e Stati Uniti, con particolare attenzione ai nuovi possibili dazi sulle importazioni europee. Inoltre, ha approfondito gli ultimi sviluppi in Germania, tra la formazione del nuovo governo, le prospettive di riarmo e il rafforzamento della difesa europea.

Un altro passo avanti verso un’Unione europea più resiliente

Thu, 03/27/2025 - 18:49

Il territorio europeo è colpito sempre più spesso da emergenze di diversa natura: inondazioni e terremoti, incidenti industriali e atti intenzionali, e più recentemente la pandemia da Covid-19. A questi si sono aggiunte azioni di guerra ibrida che mirano a colpire tutti i livelli della società, le sue istituzioni e infrastrutture, con l’obiettivo di causare l’interruzione dei servizi vitali. Inoltre, più recentemente, il conflitto in Ucraina ha riportato da un lato il rischio dell’arma atomica, e dall’altro la possibilità che materiali pericolosi di diversa natura possano diffondersi in aree popolate. Questi episodi dimostrano un’evoluzione delle minacce verso eventi spesso considerati improbabili. Si tratta, inoltre, di emergenze con gravi conseguenze che superano i confini nazionali e richiedono il coordinamento tra più attori. Ne emerge la necessità di un rinnovato dibattito sulla preparazione della società alle crisi e di un sistema adeguato a non farci cogliere impreparati di fronte alle minacce attuali e alle crisi future nelle loro molteplici dimensioni.

Le iniziative europee nella gestione delle emergenze

L’Ue ha adottato negli anni numerose iniziative volte ad aumentare il sostegno europeo, incoraggiare la collaborazione e coordinare l’assistenza tra gli Stati membri. Fra queste, va ricordato il Meccanismo di Protezione Civile dell’Ue (EU Civil Protection Mechanism – EUCPM), lanciato nel 2001 e basato sulla condivisione di risorse quali equipaggiamenti, mezzi e personale, messi volontariamente a disposizione dagli Stati partecipanti. Nel 2019, l’EUPCM è stato ulteriormente rafforzato da rescEU, una programma di scorte aggiuntive (fra cui articoli medici e dispositivi di protezione) finanziate al 100% dall’Ue.

A livello nazionale, alcuni Stati membri si contraddistinguono, inoltre, per il loro approccio onnicomprensivo alla sicurezza, che si riflette in misure locali indirizzate a tutta la società. Ne sono un esempio la Finlandia e la Svezia, le cui politiche di resilienza comprendono corsi erogati a livello nazionale e regionale per insegnare la preparazione e la difesa civile, rivolti al settore privato e alle organizzazioni della società civile, ai giornalisti e ai media. Particolare attenzione è data al mantenimento dell’autosufficienza dei cittadini in situazioni di emergenza, istruiti su come affrontare in modo autonomo una crisi, anche in assenza di assistenza statale.

La Preparedness Union Strategy

L’approccio onnicomprensivo e l’importanza di coinvolgere maggiormente i cittadini nella costruzione della sicurezza, sono alcuni dei punti chiave del rapporto elaboratolo scorso ottobre dall’ex Presidente finlandese, Sauli Niinistö, nel suo ruolo di Special Adviser alla Presidente della Commissione europea. Il rapporto ha fornito, a sua volta, la base della Strategia europea Preparedness Union Strategy presentata lo scorso 26 marzo 2025.

La Strategia comprende 30 azioni chiave che gli Stati membri dell’Ue devono intraprendere per aumentare il loro livello di preparazione (“preparedness”) contro potenziali crisi future, dalle catastrofi naturali agli incidenti industriali, agli attacchi informatici e militari. Il documento comprende un Piano d’Azione per promuovere gli obiettivi di resilienza dell’Unione, nonché per sviluppare una cultura della preparazione fin dalla pianificazione di tutte le politiche dell’UE.

La Strategia si basa su tre pilastri: un approccio integrato a tutti i rischi (multi-hazard approach), un approccio che coinvolge gli attori governativi di tutti i livelli di governo (whole-of-government) e un approccio che coinvolga l’intera società (whole-of-society), riunendo privati, società civile, imprese, oltre che la comunità scientifica e accademica.

Questo triplice approccio è necessario per raggiungere gli obiettivi chiave della Strategia. Tali obiettivi comprendono: la protezione e il mantenimento delle funzioni essenziali della società, anche tramite la fornitura di scorte aggiuntive a quelle del già citato programma rescEU, a livello nazionale, o nella forma accordi con il settore privato; il rafforzamento del coordinamento della risposta alle crisi; l’aumento delle capacità di valutazione e prevenzione della minaccia; l’aumento della cooperazione pubblico-privata e civile-militare; e l’adozione di misure di preparedness per tutta la popolazione, inclusa una formazione dedicata nelle scuole.

Come ricordato dalla Presidente Von der Leyen, i cittadini, che Stati membri e le imprese hanno bisogno degli strumenti giusti sia per prevenire le crisi che per reagire rapidamente. Chiunque si trovi un territorio a rischio, deve essere formato e preparato in quanto esso stesso attore di sicurezza. Da questa consapevolezza deriva una delle azioni che ci riguarda i cittadini più da vicino, ovvero la disponibilità di kit di emergenza che consentano ai singoli di essere autosufficienti per un minimo di 72 ore. È prevista, inoltre, l’elaborazione di una valutazione dei rischi e delle minacce entro il 2026 e l’istituzione di Centro di coordinamento delle crisi dell’Ue, che dovrebbe migliorare l’integrazione fra i centri di coordinamento europei già esistenti.

Con la Preparedness Union Strategy, l’Ue, che da anni svolge un ruolo cruciale nella protezione e nell’assistenza alle persone e ai paesi colpiti da gravi emergenze, si sta evolvendo di fronte alla crescente evidenza che le crisi richiedono azioni e di prevenzione e preparazione mirate, forti e coordinate. Un approccio a livello europeo svolge e continuerà a svolgere un ruolo chiave nell’armonizzare le capacità di gestione delle crisi, facilitando il coordinamento e sostenendo lo sviluppo coerente di programmi. Allo stesso modo, è fondamentale una gestione delle crisi flessibile, che unisca una componente sovranazionale al ruolo dello Stato e del singolo cittadino, come fornitori ed attori di sicurezza.

Attacco all’opposizione. La spirale autoritaria in Turchia

Thu, 03/27/2025 - 11:46

L’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, ha scosso la politica turca e riacceso i riflettori internazionali sulla progressiva erosione dello stato di diritto nel Paese. Una spirale ormai conosciuta da tempo, e per la quale il paese è stato etichettato di “autoritarismo competitivo”, formalmente democratico, ma privo delle condizioni minime per garantire pluralismo, concorrenza politica e indipendenza delle istituzioni.

Sebbene İmamoğlu sia stato assolto dalla maggior parte dei capi d’accusa — escluse le imputazioni legate al terrorismo, restano in piedi quelle per corruzione — l’azione giudiziaria contro di lui appare come l’ultimo tassello di una strategia perseguita da tempo dal presidente Recep Tayyip Erdoğan, volta a neutralizzare ogni forma di opposizione e concentrare sempre più potere nelle mani dell’esecutivo.

Le accuse e gli altri politici dietro le sbarre

Da Istanbul, a Trabzon sul Mar Nero, passando per Ankara e fino a Izmir, sulle coste del Mediterraneo, le proteste stanno infiammando le piazze turche, in una situazione così critica che ricorda le atmosfere di post golpe.

İmamoğlu non è l’unico personaggio di spicco ad essere oggi in carcere in Turchia: dalle purghe dopo le rivolte a Gezi Park nel 2013, si contano, tra gli altri, il giornalista Can Dundar (oggi in esilio in Germania), il filantropo Osman Kavala, Selahattin Demirtas, leader del partito filo-curdo nel Parlamento, e Ümit Özdağ, leader del Zafer Partisi (il partito della Vittoria). Ma İmamoğlu è certamente il rivale più importante di Erdoğan, che in questo momento prova a tenere saldo il suo potere (e quello del suo partito, l’AKP), anche grazie ad accordi con parti politiche lontane e nemiche. L’appello al PKK per il disarmo lanciato dal leader Ocalan al momento non sta ricevendo alcuna risposta positiva. Erdoğan, dunque, pensa probabilmente di andare ad elezioni anticipate, per evitare di terminare il suo mandato nel 2028 e non avere più la possibilità di ricandidarsi.

Domenica scorsa, İmamoğlu è comunque risultato vincitore delle primarie del CHP (Partito Repubblicano), a cui era stato candidato dal partito in maniera simbolica, poiché già in carcere, rafforzando così la propria legittimità politica.

L’accentramento del potere nelle mani di Erdoğan ha in questi anni scosso anche l’economia del paese, che, pur mostrando segnali di resilienza in alcuni settori, resta minacciata da scelte populiste e da una struttura produttiva squilibrata. La politica estera, inoltre, riflette un’ambizione di autonomia strategica, che ha spesso rasentato il rischio di isolare Ankara dai suoi partner tradizionali.

Per l’Unione Europea, quest’ultima evoluzione interna della Turchia pone una questione di fondo: è possibile costruire un partenariato di sicurezza con un governo che, nei fatti, si allontana sempre più dai principi democratici?

Gli equilibri internazionali: una lezione per l’Europa?

Dopo il disallineamento nei rapporti transatlantici, la Turchia ha rafforzato la sua posizione di partner strategico per la sicurezza europea e di attore chiave nei dossier migratori ed energetici. Importante snodo per l’export di petrolio e gas, Ankara intrattiene scambi commerciali con l’Unione Europea per un valore superiore ai 200 miliardi di euro annui. Dall’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022, ha assunto un ruolo chiave nel controllo degli accessi al Mar Nero e nell’attuazione delle sanzioni contro Mosca. Membro della “Coalizione dei volenterosi”, recentemente è stata anche indicata come potenziale contributore di rilievo a un’eventuale missione di peacekeeping in Ucraina.

Erdoğan sfrutta dunque questa posizione a proprio vantaggio: in particolare, punta al fatto che Trump non si preoccupi più di tanto della situazione interna e dei diritti umani in Turchia, e che sia invece più interessato che Erdoğan mantenga stabile la Siria e il governo provvisorio di Mohammad al-Bashir.

Tuttavia, la lezione dell’esperienza con la Russia di Vladimir Putin dovrebbe far riflettere: costruire cooperazione economica e strategica con regimi autoritari non garantisce stabilità, anzi, espone l’Europa a rischi imprevedibili. L’Unione Europea deve affermare con forza che la cooperazione con la Turchia resta auspicabile, ma condizionata al rispetto dello stato di diritto. Un partenariato strategico duraturo non può prescindere da un impegno condiviso verso la democrazia. Restare in silenzio di fronte a episodi come l’arresto di İmamoğlu significherebbe tradire non solo i cittadini turchi, ma anche i fondamenti stessi dell’integrazione europea. L’esperienza con la Russia di Vladimir Putin dimostra i rischi di scommettere sulla stabilità attraverso la cooperazione economica con regimi autoritari. Un’Europa che oggi cerca maggiore autonomia strategica non può fondare le proprie alleanze su regimi imprevedibili e privi di trasparenza.

Il Mar Rosso e il conflitto in Yemen: andare oltre la sicurezza marittima

Thu, 03/27/2025 - 09:57

Il 23 gennaio 2025 gli Houthi hanno liberato i venticinque membri della ciurma della nave mercantile MV Galaxy Leader, sequestrati nel novembre 2023 a seguito delle dichiarazioni di guerra da parte del gruppo non statale nei confronti di Israele e di tutte le navi in qualche modo legate ad esso. L’equipaggio della nave, sequestrata per la nazionalità israeliana del comproprietario della società madre associata ad essa, è stato rilasciato come diretta conseguenza dell’accordo per un cessate-il-fuoco a Gaza, raggiunto il 15 gennaio 2025 e reso operativo nei giorni seguenti. Gli Houthi hanno liberato la ciurma con il caveat di ritenersi garanti dell’accordo, e di limitare, ma non terminare completamente, gli attacchi, con un occhio fisso sul rispetto dei termini della tregua. Il rilascio è stato percepito con prudenza dal mondo mercantile europeo, che ancora non ha ripreso a pieno ritmo la rotta per il Mar Rosso, abbandonata dall’inizio degli attacchi in favore della più lunga ma sicura rotta intorno al Capo di Buona Speranza. Una nuova escalation tra Houthi, Stati Uniti ed Israele, a seguito della ripresa delle operazioni militari israeliane su Gaza a metà marzo 2025, ha reso ancora più lontana la prospettiva di un ritorno ad un utilizzo pre-crisi della rotta per il Mar Rosso.

Non confondere gli attacchi degli Houthi con attacchi di pirateria

Nell’ultimo anno, la parziale inagibilità del Mar Rosso ha creato forti reazioni nel mondo mercantile, diplomatico, e della difesa italiano, che ha serrato i ranghi per mostrarsi tra i più ferventi sostenitori dei principi di libertà di navigazione e sicurezza della navigazione, in linea con il diritto internazionale garantito dalla convenzione UNCLOS.

Dal punto di vista sia operativo che mediatico, l’approccio nei confronti degli attacchi Houthi nel Mar Rosso è stato affrontato in maniera simile a come sono stati affrontati gli attacchi di pirateria a largo del Corno d’Africa, attraverso l’Operazione EUNAVFOR Atalanta. Eppure, la situazione è molto diversa. Un atto di pirateria si caratterizza principalmente per il suo obiettivo, cioè il profitto privato ricavato dall’attacco. In questo caso, il fatto che gli attacchi siano stati lanciati da un attore non statale non deve distrarre dalla valenza prettamente politica e bellica di queste azioni. Pur trattandosi di un attore non-statale non riconosciuto dalla comunità internazionale, il gruppo Houthi controlla da oltre dieci anni la parte nord-occidentale del paese, inclusa la capitale Sanaa. Come attore politico con il potere de facto di governo su un territorio, gli Houthi hanno agito come uno stato dichiarando guerra contro Israele—includendo attacchi missilistici direttamente su territorio israeliano—ed hanno esplicitamente condizionato la fine dei loro attacchi nel Mar Rosso al raggiungimento di una tregua a Gaza. Il fatto che il gruppo sia sospettato di aver tratto comunque profitto da parte di quelle navi mercantili disposte a pagare per la propria sicurezza non riduce le operazioni a quelle di bande criminali, e il considerarle tali non lascia comprendere la natura della situazione così come la sua potenziale soluzione.

Andare oltre la sicurezza marittima

In questo contesto, è stato politicamente scivoloso da parte degli attori europei il far riferimento unicamente alla questione della sicurezza marittima e protezione della libertà di navigazione, trattandoli come principi oggettivi e ‘neutrali’ di diritto internazionale, senza soffermarsi abbastanza sul versante politico della questione. A poco è valso agli occhi dell’audience regionale cercare di distinguere l’operazione a guida europea Aspides dalla più offensiva Poseidon Archer a guida anglo-statunitense, sottolineando come nel caso europeo si tratti di una semplice operazione difensiva a garanzia della libertà di navigazione, non includendo attacchi su territorio yemenita contro le postazioni Houthi.

Infatti, le azioni a supporto della sicurezza marittima hanno generato frustrazione tra gli attori regionali verso quelli che sono spesso percepiti come doppi standard attuati dall’Occidente, ma anche tra quei partner, come le monarchie del Golfo, da tempo impegnati a gestire gli effetti della guerra in Yemen con poco supporto internazionale.

Il messaggio che è arrivato sulle sponde del Mar Rosso e fino al Golfo Persico è stato che l’Unione Europea ha cominciato a mostrare interesse per risolvere le cause che hanno portato agli attacchi Houthi solo nel momento in cui i propri interessi commerciali sono stati messi in pericolo, quando per anni—dal fallimento della conferenza per il dialogo nazionale in poi—il conflitto in Yemen è passato in secondo piano, senza un attivo impegno internazionale nei confronti di una soluzione di lungo periodo.

Risolvere i nodi del conflitto in Yemen

Ci sono alcuni nodi fondamentali che rendono la situazione nel Mar Rosso ancora precaria e che hanno contribuito ad esacerbare quella che per anni è stata definita la peggiore crisi umanitaria al mondo dovuta alla mancata risoluzione del conflitto in Yemen, soprattutto negli anni dell’intervento militare a guida saudita. Il principale nodo riguarda la riattivazione del processo di dialogo nazionale in Yemen, possibilmente sotto l’egida delle Nazioni Unite, che includa tutti gli attori e portatori di interessi coinvolti, dal governo internazionalmente riconosciuto, al movimento separatista del Sud, agli Houthi.

Di questo si è parlato a lungo tra gli addetti ai lavori dal 2011 in poi, e soprattutto dal 2014, quando gli Houthi hanno preso il controllo della capitale lasciando intendere di essere lì per restare, e di non poter continuare ad essere esclusi dai negoziati ufficiali. Solo attraverso un processo di riconciliazione inclusivo gli Houthi possono venire esautorati della loro portata rivoluzionaria, che facilmente può appigliarsi e sfruttare più ampi conflitti regionali per mostrarsi dal lato degli ‘oppressi’, ed evitare di doversi focalizzare sul rendere conto alla popolazione delle effettive capacità di governo del territorio.

Continuare il gioco ondivago della designazione/rimozione del gruppo dalla lista delle organizzazioni terroristiche, da parte degli Stati Uniti, rende ovviamente il nodo particolarmente difficile da sciogliere, ed è su questo punto che l’Italia potrebbe giocare una funzione attiva di facilitazione al dialogo, sfruttando il proprio auto-dichiarato interesse di svolgere un ruolo di ponte tra gli Stati Uniti dell’Amministrazione Trump, l’Europa, e il Mediterraneo Allargato. Per attuare questa strategia, è però necessario che l’Italia vada oltre la retorica della sicurezza marittima nell’area e prenda piena consapevolezza della dimensione politica della crisi e delle sue ramificazioni.

Questo articolo è stato scritto nell’ambito del progetto Rotte di distensione: sicurezza marittima e scenari di cooperazione attraverso il Mar Rosso, con il supporto del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e della Fondazione Compagnia di San Paolo.