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Mondo Senza Confini: Esperti in Affari Internazionali, Geopolitica e Diplomazia Globale
Updated: 3 hours 26 min ago

AeroSpace Power Conference: intervista al Gen. Luca Goretti, Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare

Tue, 06/03/2025 - 00:00

L’aeronautica non è cambiata, ha lo stesso spirito di 100 anni fa, ovvero quello di osare, saper osare e guardare avanti. È una prerogativa di una forza armata che fa della tecnologia l’essenza stessa della propria vita, e quindi noi non possiamo non guardare avanti proprio perché la tecnologia ce lo impone. Per cui possono cambiare le persone, possono cambiare i capi, ma quello che conta è che l’aeronautica non cambia e sono convinto che anche nel futuro l’aeronautica guarderà sempre avanti con una visione da qui a 10/15 anni per poter essere sempre pronta in relazione a quelle che sono le esigenze del nostro Paese ma soprattutto per difendere il nostro popolo. Quindi le persone cambiano, ma lo spirito dell’aeronautica è lo stesso di 100 anni fa.

AeroSpace Power Conference: intervista a Lorenzo Mariani, Executive Group Director Sales & Business Development di MBDA e Managing Director di MBDA Italia

Tue, 06/03/2025 - 00:00

Come vede la cooperazione europea nel campo aeronautico?

La cooperazione nel campo aeronautico è un obbligo, lo è sempre stato, e a mio giudizio l’esistenza oggi di grandi prodotti e progetti, come possono essere in campo strettamente aeronautico l’Eurofighter, nel nostro campo missilistico di MBDA, il Meteor, dimostrano che grandi imprese che non sarebbero possibili senza cooperazione per motivi o di capacità o di soldi, semplicemente di fondi, diventano possibili quando si realizza la cooperazione. E questo è ancora più importante oggi perché i requisiti sono diventati ancora più complessi e perché i tempi si sono ridotti, i tempi in cui noi dobbiamo realizzare nuovi armamenti, nuovi sistemi, introduzione di nuove tecnologie, si pensi soltanto all’intelligenza artificiale, magari anche in sistemi esistenti, la capacità di risposta deve essere più rapida e questo si può ottenere in maniera molto più efficace mettendo a fattor comune delle capacità di diverse aziende e diversi Paesi.

Che ruolo gioca l’Italia quanto a programmi internazionali e innovazione tecnologica?

Secondo me sono due cose strettamente collegate che però poi si possono declinare in maniera leggermente diversa anche a seconda dei settori specifici che andiamo a esaminare. Parlo del settore navale, del settore aereo, o del settore specifico degli armamenti. Io mi attengo soprattutto al settore dell’armamento, quindi quello rappresentato da MBDA, e eventualmente con un occhio anche a quello che il nostro campione nazionale Leonardo fa, che è anche nostro azionista. Secondo me il ruolo dei programmi di cooperazione è elevatissimo perché l’Italia è sempre stata favorevole a una cooperazione. L’Italia è quella che ha avuto sicuramente la visione, insieme a Francia e Inghilterra, di creare MBDA nel 2001. L’Italia ha creato una joint venture che è l’unica oggi esistente nello spazio, la principale nello spazio con Thales, espandibile sicuramente, migliorabile sicuramente, come anche MBDA, però esistente. Ed è quella che ha sempre favorito la cooperazione anche a livello dei programmi. Ricordiamo l’NH90, gli elicotteri, ricordiamo gli Eurofighter, ricordiamo le FREMM, ricordiamo a livello missilistico il Meteor, lo Storm Shadow, l’Aster. Quindi effettivamente è nel DNA italiano una capacità di collaborare, forse anche influenzata dal realismo, quindi dal sapere che da soli non saremmo stati in grado – o per tempi o per costi – di realizzare queste grandi imprese da soli. Quindi sicuramente nei programmi di cooperazione secondo me oggi ancora più di prima siamo attori primari. Sulle tecnologie, secondo me, l’Italia ha una forza particolare che è legata alla coesistenza di grandi campioni – basti pensare a Leonardo, a Fincantieri, a Elettronica, la stessa MBDA nella sua componente italiana – e un patrimonio di piccole e medie imprese che rappresentano una sorgente di idee, di tecnologia particolarmente importante. E proprio per questo una delle sfide principali per il futuro è proprio far sì che si migliori, si renda più rapido, si renda più fluido, l’anello di congiunzione tra le grandi imprese e le piccole e medie imprese.

La guerra in Ucraina ha ridato centralità in Europa alla difesa area e missilistica integrata. Quali sono i piani di MBDA al riguardo?

MBDA ha la fortuna di essere un grande gruppo. Lo dico perché la vastità delle minacce che si sono manifestate effettivamente nei recenti conflitti sono andate da minacce convenzionali a minacce molto evolute, basti pensare all’ipersonico, da minacce singole a minacce di gruppo, basti pensare agli sciami di droni. Questo può essere affrontato veramente solo da un gruppo complesso che abbia al suo interno diverse esperienze. Diverse esperienze che, messe insieme, possono consentire di affrontare una panoplia di minacce così complessa. MBDA ha di conseguenza un duplice fronte. Uno è quello di rinforzarsi nei prodotti convenzionali. Questo significa essenzialmente due cose: incrementare il rate di produzione, riducendo il lead time e introdurre nuove tecnologie all’interno di prodotti esistenti. Numero due: creazione di nuovi prodotti, particolarmente evoluti, che hanno come target minacce specifiche. Basti pensare all’ipersonico con il programma IRIS, che è una cosa condivisa sotto la leadership di MBDA, o basti pensare al futuro missile da crociera che hanno iniziato a sviluppare l’Inghilterra e Francia, poi anche Italia si è associata, che è il successore dello SCALP Storm Shadow per delle minacce che si trovano a centinaia di chilometri. Quindi è una situazione estremamente complessa, dove MBDA può dare di più grazie al fatto che sono 24 anni che siamo un gruppo multinazionale e anche multiforme come esperienze.

Dal confine al cuore dell’Europa: il ruolo strategico del Friuli-Venezia Giulia nell’integrazione europea

Tue, 06/03/2025 - 00:00

Il recente impeto dell’Unione Europea nella politica di allargamento, guidato dall’apertura dei negoziati di adesione con Ucraina e Moldavia e dallo status di candidato della Georgia, riflette la nuova preoccupazione dell’Ue in materia di sicurezza. Negli ultimi tre anni, soprattutto a causa della guerra in Ucraina, l’Europa ha rimesso al centro dell’agenda politica il tema dell’allargamento.

Dopo un lungo periodo di “fatica da allargamento”, le tendenze sfavorevoli verso l’ammissione di nuovi membri si sono invertite: i più recenti Eurobarometers mostrano come l’opinione pubblica europea, spinta dalle rinnovate tensioni geopolitiche, sostiene un’Unione più ampia e integrata.

L’impegno strategico dell’Italia per un’Europa più ampia

L’Italia si è sempre distinta per un atteggiamento positivo verso l’allargamento dell’Ue, sia verso l’Europa settentrionale che orientale. I sondaggi hanno mostrato come gli italiani si siano sempre collocati tra i più entusiasti, tanto che l’Italia è stata tra i primi membri dell’Ue ad insistere affinché fossero avviati negoziati con la Slovenia e l’Estonia.

 

Grafico. Differenza tra l’attitudine dell’opinione pubblica italiana ed europea a favore dell’allargamento nel periodo 2018-2024.

Fonte: Elaborazione dagli Standard Eurobarometer 90–102 (Autumn 2018-Autumn 2024).

 

L’interesse strategico italiano è principalmente politico ed economico. Da un lato, l’ampliamento dell’Ue garantisce maggiore stabilità politica ed economica in aree oltre i confini, riducendo rischi e tensioni. Dall’altro, la prossimità geografica dell’Italia ai Balcani e all’Europa centro-orientale la rende un partner economico privilegiato di questi Paesi, favorendone l’integrazione economica. Le opportunità di integrazione derivanti da un’Europa allargata sono particolarmente rilevanti nei settori commerciali e industriali, come lo sviluppo della connettività infrastrutturale e dell’energia, della transizione digitale e della manifattura, ma non è da trascurare un ulteriore rafforzamento del coordinamento politico, dagli affari interni e della giustizia.

In questo scenario, il Friuli-Venezia Giulia assume una funzione di ponte naturale tra l’Italia e i nuovi potenziali membri dell’Unione, permettendole di rafforzare la propria presenza nei processi decisionali e nei mercati emergenti dell’Europa centro-orientale attraverso forme di coordinamento delle politiche nazionali e di cooperazione intergovernativa alla base di una futura integrazione.

Da regione ‘periferica’ a cuore dell’Europa: il caso del Friuli-Venezia Giulia

Questo rinnovato slancio rappresenta una risposta alla situazione internazionale e una riscoperta del valore strategico delle aree di confine europee, tradizionalmente considerate marginali. Il Friuli-Venezia Giulia emerge come simbolo del nuovo paradigma europeo, passando da periferia a nodo centrale della futura architettura continentale. Infatti, non è solo una regione ai margini orientali dell’Italia, ma un ponte naturale che si apre geograficamente, economicamente e culturalmente verso i Balcani e l’Europa centrale. Il suo posizionamento geografico, il suo patrimonio culturale mitteleuropeo e la sua vocazione transfrontaliera lo rendono un attore essenziale nel processo di ampliamento dell’Unione proprio verso quei Paesi che necessitano di una rapida integrazione. La regione rappresenta quindi un laboratorio vivo di integrazione europea, declinandosi su tre livelli: politico, economico e culturale.

Il piano politico, economico ed identitario: una regione mitteleuropea modello

Politicamente, la regione ha saputo trasformare antiche rivalità con i Paesi dell’ex-Jugoslavia in forme concrete di dialogo. Nel post-Guerra Fredda, dopo aver vissuto sulla propria pelle i confini – geografici (durante la Guerra Fredda), linguistici (tra italiano, sloveno e tedesco) e istituzionali, (tra modelli politici diversi) – Trieste è riuscita a superarli attraverso una concreta progettualità transfrontaliera.

Sul piano economico, il Friuli-Venezia Giulia è protagonista di esempi tangibili di integrazione europea. È infatti uno snodo cruciale per i trasporti e la logistica continentale, grazie ai porti di Trieste e Monfalcone e ai corridoi europei TEN-T, che hanno aperto connessioni con il Corridoio Baltico-Adriatico e il Corridoio Mediterraneo. È anche al centro di progetti infrastrutturali strategici, come la possibile riattivazione della tratta ferroviaria Trieste–Lubiana–Zagabria–Belgrado. Inoltre, i programmi europei come Interreg Central Europe e IPA ADRION ne fanno un hub di cooperazione transnazionale che investe nei sistemi di innovazione regionale, nella protezione del patrimonio culturale e ambientale, nei trasporti sostenibili e nello sviluppo dell’integrazione. Grazie a queste iniziative bottom-up, l’Italia può ritagliarsi uno spazio significativo dal punto di vista economico e imprenditoriale nell’Europa Centrale e nei Balcani occidentali, facendo sempre più fare rete e incrementandone di conseguenza la competitività.

Sebbene non si possa ignorare il peso delle considerazioni economiche e geopolitiche sulle azioni di questi attori, sarebbe un errore sottovalutare l’influenza delle questioni legate all’identità e alla memoria. L’integrazione non deve quindi escludere attività di natura specificamente culturale al fine di accrescere la consapevolezza di un patrimonio comune sviluppando un senso di cordiale e propositivo vicinato. Culturalmente, il Friuli-Venezia Giulia incarna l’essenza di una regione mitteleuropea, dove lingue, religioni e tradizioni diverse convivono da secoli. Dopo il crollo della cortina di ferro, la regione ha saputo riscoprire e promuovere la propria identità europea, fatta di radici comuni e memorie condivise con l’Europa centro-orientale. In tal senso, la cultura Mitteleuropea rappresenta una koinè culturale tra quei territori, ma è anche sinonimo di cosmopolitismo e pluralismo. La riscoperta di tale cultura ha dimostrato come la regione ha in sé il seme per promuovere una vera cooperazione. La scoperta di valori comuni e la cooperazione transnazionale sono state le principali motivazioni alla base di tutto il progetto comunitario sin dal principio. 

Il Friuli-Venezia Giulia può quindi essere considerato un “modello” per l’Europa policentrica del futuro: dove territori fortemente interconnessi contribuiscono incisivamente alla costruzione del progetto europeo attraverso comunità che, pur attraversate da lingue e storie diverse, hanno imparato a integrarsi senza perdere la propria identità. Questo, se ci pensiamo, è già Europa. Ecco perché il Friuli-Venezia Giulia non è una periferia, ma una cerniera viva: una frontiera che, da zona di frizione, può diventare motore di trasformazione.

AeroSpace Power Conference: intervista a Walter Villadei, astronauta e pilota colonnello dell’Aeronautica Militare

Tue, 06/03/2025 - 00:00

Cosa ti ha colpito di più della tua esperienza sulla Stazione Spaziale Internazionale e nel volo suborbitale?

Sono due voli differenti tra di loro. Un volo suborbitale è un volo più breve dal punto di vista temporale: dura complessivamente due ore dal momento in cui si decolla al momento in cui si atterra. Il periodo di microgravità è meno di cinque minuti, ma non per questo è un volo più semplice. È estremamente complesso, in cui ogni secondo ha la sua importanza per valorizzare al massimo il periodo di microgravità che abbiamo durante quel tipo di volo. Quindi deve essere tutto studiato alla perfezione dal punto di vista delle procedure, incluso per operare alcuni esperimenti, soprattutto in quelle situazioni in cui l’esperimento potrebbe non andare come era previsto. Abbiamo volato nel 2023, abbiamo portato insieme al Consiglio Nazionale delle Ricerche e Virgin Galactic 13 esperimenti. Quindi abbiamo utilizzato una piattaforma suborbitale, e questo è un punto importante, come ulteriore piattaforma che riesce ad aprire e offrire opportunità di sperimentazione in microgravità a costi più accessibili. Il volo a bordo della Stazione Spaziale Internazionale seppur più tradizionale, perché voliamo a bordo della stazione ormai da quasi 30 anni, per chi vola la prima volta è un’esperienza straordinaria: dal momento in cui arriva il countdown a zero, il razzo comincia a vibrare tutto quanto, progressivamente si accelera fino a 4-5 giri, la separazione in 8 minuti a 200 km di quota, 30.000 km/h di velocità e da lì si vede la Terra nella sua bellezza e si iniziano una serie di procedure di inseguimento fino a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. A sorpresa la stazione è un posto straordinario: un laboratorio che è allo stesso tempo una casa, un laboratorio, un’infrastruttura critica e strategica che vola in uno spazio sempre più affollato e congestionato. Colpisce come questa infrastruttura cominci a diventare vecchia anche nel suo concepimento: sono sistemi progettati e realizzati negli anni ‘90. E quindi colpisce molto l’attenzione sulle opportunità che ci sono grazie alle tecnologie moderne, immaginando le stazioni del futuro. La bellezza poi di affacciarsi dalla cupola, prodotta e realizzata dall’Italia, unica nel suo genere, è un po’ come affacciarsi nella Cappella Sistina ed è un evento veramente straordinario, soprattutto quando accade per la prima volta. Quindi devo dire sono voli molto differenti, entrambi però offrono delle capacità importanti anche per l’aeronautica, per la difesa e per l’Italia, per spingere sull’innovazione, la ricerca scientifica e tecnologica. Dobbiamo imparare ad usarli in maniera complementare, quindi credo che nei prossimi anni sarà interessante espandere i ragionamenti su entrambi.

Come vedi il futuro dell’esplorazione spaziale?

In questo momento il futuro dell’esplorazione spaziale è quanto mai “incerto”, ovvero tutto è un po’ in trasformazione ed è il tema che abbiamo trattato anche durante l’Aerospace Power Conference 2025, parlando di “evolving space” e di aerospace power. Sta cambiando anche perché cambia il contesto geopolitico circostante. Ci sono due trend fondamentali. Il primo: la Stazione Spaziale Internazionale è stata un laboratorio di ricerca e collaborazione negli ultimi 30 anni. Una volta che questa sarà deorbitata, sarà sostituita da altre infrastrutture molto probabilmente commerciali, quindi rimarrà comunque un’esplorazione nelle orbite basse tendenzialmente orientata a creare una space economy. Poi ci stiamo espandendo con l’idea di tornare verso la Luna. Come? Questo diventa un po’ più incerto, quindi quelli che sono i programmi finora avviati potrebbero avere delle rivisitazioni anche in ragione dei costi associati a questi. Certamente, la Luna – indipendentemente dall’anno in più o in meno: 2028, 2030 o 2032 – sarà un obiettivo dove torneremo, torneremo per rimanere sulla Luna. Quanto peserà la parte competizione a livello geopolitico con altri soggetti che vogliono arrivare sulla Luna, quanto invece sarà una, come dire, permanenza più pacifica volta a un utilizzo delle risorse anche lunari in ottica di collaborazione internazionale diventa ancora più complicato. Recentemente l’amministrazione americana ha dichiarato anche un forte interesse a riavviare, ravvivare le esplorazioni verso Marte, che chiaramente è un obiettivo ancora molto lontano, soprattutto se vogliamo portare gli astronauti su Marte, non solo le sonde, e quindi anche lì è una “long way to come”. Ma sicuramente anche le esplorazioni lunari aiuteranno a creare quelle tecnologie che poi sono fondamentali per raggiungere anche Marte.

Quali sono i principali punti di forza dell’ecosistema spaziale statunitense?

I principali punti di forza del sistema industriale americano sono due. Uno è la predisposizione al rischio, e non è solo legata alle dimensioni dei volumi di investimento o alle dimensioni economiche dell’industria, ma è anche una questione di mentalità. La seconda è una pragmaticità nei progetti che stanno mettendo in piedi, accompagnata da una capacità di investimento che non abbiamo né in Italia né in Europa. Questi due aspetti sono da una parte culturali, dall’altra parte economici: due elementi di debolezza del sistema europeo. Quindi dal punto di vista della capacità del rischio, SpaceX è un esempio evidente di quando hanno investito su una tecnologia come la riutilizzabilità dei lanciatori a cui nessuno credeva, rendendola possibile e oggi con questa tecnologia hanno trasformato quello che era un oggetto single use – lanciato e buttato – in una flotta. Come abbiamo le flotte degli aeroplani, ora iniziamo ad avere le flotte dei lanciatori. Questo è completamente distruptive. La capacità di thinking out-of-the-box è qualcosa che riescono a fare non solo dal punto di vista teorico, ma anche dal punto di vista pratico. Chiaramente sono accompagnati da un contesto complessivo – di norme, economico, finanziario, politico – che crea le premesse perché questo possa accadere. Forse questa è la cosa su cui l’Italia e l’Europa devono riflettere. E chiaramente, poi, la capacità di investire in maniera rapida, creando delle start-up che nel giro di 2/3 anni diventano delle unicorns, con il supporto istituzionale che dà loro degli obiettivi challenging da raggiungere, è un’altra cosa estremamente importante. Quindi per noi diventa, in questo momento molto instabile, fondamentale certamente mantenere delle radici forti in Europa, ma anche guardare alla tradizionale collaborazione con gli americani che per l’Italia è sempre stata un punto forte.

Il Quirinale celebra i 60 anni dello IAI: discorso del Direttore dello IAI Nathalie Tocci

Tue, 06/03/2025 - 00:00

Signor Presidente,

Per noi dello IAI è un grande onore e una vera gioia festeggiare con Lei questo 60° anniversario.

Sessant’anni sono un tempo lungo, e lo IAI è cambiato profondamente, un cambiamento di cui sono stata testimone negli ultimi vent’anni. Eppure ho avuto anche modo di constatare come, in un certo modo, lo IAI non sia cambiato affatto.

Un tempo, riflettendo i pilastri tradizionali della politica estera dell’Italia, ci occupavamo di Europa, di relazioni transatlantiche e di Mediterraneo, oltre a seguire i temi della difesa e del commercio internazionale. Queste rimangono aree prioritarie, ma abbiamo approfondito e allargato lo sguardo.

Quando ci occupiamo di Europa, guardiamo anche ai Balcani occidentali e l’Europa orientale. Quando studiamo la difesa, allarghiamo l’orizzonte alle questioni di sicurezza e allo spazio. Quando pensiamo al Mediterraneo, lo facciamo consapevoli che non esistono confini netti tra la riva sud ed il Medio Oriente e l’Africa subsahariana. La nostra ricerca sugli attori globali inizia ma non finisce certo con gli Stati Uniti, estendendosi anche alla Russia, alla Cina e altri Paesi dell’Asia. E quando ci occupiamo di economia, approfondiamo i nessi della geoeconomia e della governance globale. Ci sono poi temi che un tempo non rientravano nell’agenda dell’Istituto, come l’energia, il clima, le migrazioni, il digitale e lo sviluppo sostenibile, che oggi invece sono al cuore del nostro lavoro. Lo IAI, 60 anni dopo, è più grande, più diversificato, più giovane e più femminile.

Ma lo IAI non è solo cresciuto. Si è anche adattato a un contesto politico interno e internazionale profondamente diverso anche solo rispetto a 20 anni fa. In passato i valori fondanti dello IAI erano condivisi dalla politica, dalle istituzioni e dall’opinione pubblica. Potevamo permetterci di fare “solo” ricerca con e per gli addetti ai lavori. Oggi quei valori sono contestati internazionalmente quanto anche internamente. Questo ci ha portati a riflettere su come la nostra missione dovesse adattarsi. Non si trattava più solo di interagire coi nostri omologhi in altri Paesi e con le istituzioni italiane e europee. Ci siamo sentiti chiamati in causa a rispondere alla crescente esigenza di conoscenza di questioni internazionali che viene da un’opinione pubblica, e in particolar modo dai più giovani, spesso spaesata da un dibattito in cui la disinformazione abbonda. Tocchiamo con mano questo problema, soprattutto dopo la crisi pandemica, l’invasione russa dell’Ucraina, la guerra in Medio Oriente e ora anche con la minaccia di un abbandono dell’Europa da parte degli Stati Uniti.

A 60 anni dalla sua fondazione, lo IAI si sente parte in causa delle sorti dell’Italia e dell’Europa. È uno IAI consapevole che non può dare per scontati i suoi valori, ma deve promuoverli attivamente.

Ed è in questo senso che si può dire che lo IAI non sia cambiato affatto. I nostri valori, iscritti nello Statuto, sono gli stessi voluti da Altiero Spinelli 60 anni fa. La liberal democrazia, i diritti umani, il diritto internazionale, l’integrazione europea e il multilateralismo erano e restano il nostro faro, la nostra guida.

E sono valori che Lei, Signor Presidente, incarna e difende ogni giorno. Ed è per questo che non poteva farci regalo più grande che festeggiare con noi il 60° compleanno dello IAI.

Grazie.

AeroSpace Power Conference: intervista a Teodoro Valente, Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana

Tue, 06/03/2025 - 00:00

A livello internazionale, come è cambiato negli ultimi anni l’approccio allo spazio da parte delle agenzie spaziali occidentali e degli attori privati in Europa e Nord America?

C’è stato in questi ultimi anni un sensibile cambio di paradigma per quanto riguarda le attività spaziali, con il progressivo ingresso di soggetti privati che ha cambiato un po’ l’approccio e le modalità anche di carattere operativo. Faccio un esempio – non è l’unico – ma se guardiamo al settore dell’accesso allo spazio, negli ultimi decenni i due lanciatori europei che sono Ariane e Vega hanno grosso modo realizzato circa 300 lanci, che è un traguardo molto importante e ragguardevole. Ma negli ultimi due anni i lanci dei privati sono arrivati a circa 340, quindi sono opportunità in più di ampliamento del mercato che viene offerto dalla possibilità di diretto intervento di soggetti privati. Questo porta con sé una serie di conseguenze. La prima è quella che è necessario un contesto regolatorio assolutamente chiaro, trattandosi non solo di soggetti istituzionali che intervengono nelle attività. E su questa linea si muove perfettamente la legge sullo spazio che, per quanto riguarda l’Italia, in questo momento è in discussione al Senato della Repubblica dopo essere stata licenziata dalla Camera dei Deputati e che rappresenta un po’ il precursore di quello che sarà auspicabilmente a breve non più la legge sullo spazio europea, ma il cosiddetto Space Act europeo. Il secondo aspetto importante da prendere in considerazione è legato al fatto che il progressivo ingresso dei privati – e quindi da qui anche tutte le stime che leggiamo quotidianamente sulle evoluzioni della space economy – necessariamente richiede o porta con sé un approccio di carattere commerciale. Il tema della commercializzazione di prodotti o servizi non può essere trascurato e rappresenta anche la nuova motivazione di fondo per cui ci sono stime così elevate per lo sviluppo del settore spazio, nei sui vari domini da qui al 2030-2040 – dipende dagli istituti che elaborano le previsioni. Questo aspetto porta con sé un’ulteriore conseguenza: la necessità, più che l’opportunità, di ampliare la numerosità dei soggetti che intervengono in questo settore, coinvolgendo le cosiddette aziende non-space, per lo sviluppo di prodotti e servizi che possono essere di beneficio per tutti i cittadini. In ultimo c’è l’aspetto geopolitico che in questi ultimi periodi, soprattutto in questi ultimi anni, ha un po’, come dire, posto delle ulteriori aggiuntive condizioni per le attività anche delle agenzie. Attualmente – è così oggi, sarà così domani, sarà così nel futuro – l’impossibilità sostanzialmente di pensare che ci possano essere applicazioni non dual-use, quindi che abbiano sia una componente di carattere civile sia una componente invece a servizio delle attività della difesa.

Come vede l’Europa nello spazio tra 10 anni?

Siamo attualmente in un momento cruciale per quanto riguarda il futuro dell’Europa nelle attività spaziali. Nei prossimi mesi saranno prese delle decisioni molto importanti, sia a livello di Unione Europea, ma anche a livello di Agenzia Spaziale Europea, che in qualche modo condizioneranno quello che avverrà nel futuro. Certo è che l’Europa necessita da un lato di incrementare la propria autonomia e la propria resilienza. Nessun Paese europeo da solo può portare avanti in maniera compiuta le attività in questo dominio, per varie motivazioni – ad iniziare da quella economica, ma non sono le uniche – e quindi di conseguenza è assolutamente necessario uno sforzo che sia in qualche modo orientato a recuperare alcuni ritardi che sono innegabili. Molto dipenderà da quanto accadrà nei prossimi mesi. Noi siamo abbastanza confidenti, tutti noi stiamo cercando di fare la nostra parte, soprattutto anche ricordando che ci sono alcune aree in cui i programmi nazionali sono programmi di valenza, di importanza strategica, e che devono essere in qualche modo poi coniugati e inseriti nell’ambito di un quadro europeo.

Quali obiettivi prioritari per l’Italia nello spazio?

Gli obiettivi prioritari nello spazio per l’Italia sono molti, perché l’Italia è un’eccellenza con il suo ecosistema, fatto di imprese grandi, piccole, medie, start-up, istituti di ricerca, accademia, università, in tutti i domini dello spazio: dall’osservazione della Terra, all’accesso allo spazio, alle telecomunicazioni, alla navigazione, all’esplorazione umana e robotica, al settore della scienza. Per quanto riguarda le attività, anche quelle che sono ideate, progettate o implementate dall’Agenzia, abbiamo oggi un documento molto chiaro di riferimento che sono gli indirizzi di politica del Governo in campo spazio e aerospazio, che sono stati licenziati pochi mesi fa, in cui c’è un insieme di misure su cui concentreremo, di concerto con gli altri attori che operano nel settore spaziale, i nostri sforzi. Da un lato le attività di ricerca e innovazione, l’incremento della conoscenza, il supporto alle discipline STEM di cui abbiamo assolutamente necessità per cogliere le opportunità della space economy. Dall’altro, il sostegno all’ecosistema completo con una particolare attenzione, non esclusiva, al settore industriale, quindi al settore delle piccole imprese, delle PMI. Anche questo è uno degli argomenti che è inserito all’interno del disegno di legge spazio, attualmente in discussione, per favorirne la propria internazionalizzazione e quindi il grado di competitività. E dall’altro anche la opportunità e necessità di mantenere, così come nella tradizione italiana, rapporti bilaterali e multilaterali, con un forte ancoraggio a quelli che sono i nostri partner strategici in questo settore, a cominciare dagli Stati Uniti, ma con una grande attenzione anche ai Paesi dell’Africa – si pensi al Piano Mattei – o dell’America Latina. Tutto questo sarà articolato ed è già in par – te articolato attraverso una serie di azioni specifiche. Basti ricordare, per esempio, l’insieme dei programmi che sono sotto l’egida dell’Agenzia Spaziale Italiana che sono stati supportati dalle misure del PNRR Spazio. Mi riferisco alla nuova costellazione satellitare di osservazione della Terra che si chiama IRIDE, un segmento di eccellenza del settore italiano nei domini spaziali. Mi riferisco anche al tema delle space factory, quindi della digitalizzazione dei processi di fabbricazione, alle tematiche dell’in-orbit servicing, al tema rilevante della sorveglianza e difesa planetaria, quella che in gergo si chiama con l’acronimo SSA. Quindi tutta una serie di misure su cui noi abbiamo concentrato for – temente la nostra attenzione. Poi ci sono nuove misure che sono in fase di valutazione e studio, tra cui, ad esempio, il tema delle telecomunicazioni satellitari sicure. Tutto con l’obiettivo di far in modo che ci siano attività di programma che contemplino contestualmente anche il mantenimento di un’alta attenzione verso le attività di sviluppo, sia di carattere scientifico, che di carattere tecnologico che sono necessari al nostro Paese, al nostro ecosistema, per incrementare e mantenere la propria competitività a livello mondiale.

Il Quirinale celebra i 60 anni dello IAI: discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella

Tue, 06/03/2025 - 00:00

Benvenute e benvenuti.

Rivolgo un saluto e ringrazio per la loro considerazioni il Presidente, l’Ambasciatore Valensise, e la direttrice Tocci.

Rivolgo un saluto al Presidente del Consiglio Scientifico, l’Ambasciatore Nelli Feroci. ai membri del Comitato scientifico e a ricercatori presenti. Naturalmente all’Ambasciatore Guariglia, Segretario generale della Farnesina, per tutti quanti.

Per me è un grande piacere accogliervi al Quirinale quest’oggi, in occasione di questo sessantesimo anno di una storia di prestigio.

Lo IAI ha contribuito in modo significativo al dibattito pubblico italiano sulle relazioni internazionali. Un’attività preziosa, divenuta ancor più necessaria in un mondo interconnesso e sempre più complesso, con le sue opportunità, ma anche con le sue sfide.

Conflitti, minacce transnazionali, condizionamenti da parte dei soggetti non statuali che sfuggono alle leggi e alle regole degli Stati, la sfida dell’intelligenza artificiale: sono soltanto alcuni dei temi che richiedono una rigorosa analisi scientifica, un dibattito approfondito e libero. Appunto quel che fa lo IAI con perseveranza da sessant’anni.

È stato osservato – poc’anzi ricordato – come l’Istituto nasca con una forte vocazione europeista, un’impostazione che, negli anni, non ha perso vigore e che si rivela oggi quanto mai attuale. L’Europa rimane il nostro primo orizzonte di riferimento e rappresenta per tutto il mondo esperimento di integrazione più imitato, anche. Non perfetto, ma di maggiore successo.

Eppure, viviamo una congiuntura internazionale – come è stato poc’anzi sottolineato – in cui i valori e il ruolo dell’Unione sembrano bersaglio di ostilità e di tentativi di arretramento.

Peraltro, sappiamo bene che, in ogni fase di transizione, tra le difficoltà vi sono opportunità che vanno colte. La riapparsa minaccia russa e una nuova e imprevista dialettica con gli Stati Uniti hanno conferito centralità al tema dell’autonomia strategica, intesa non soltanto come aumento delle risorse per la difesa, ma particolarmente come visione del ruolo che l’Europa è chiamata a svolgere. Per garantire la sicurezza dei suoi cittadini e per orientare, come sua tradizione da tanti decenni, verso pace e collaborazione la vita internazionale.

Vi rientra naturalmente anche il pieno rilancio del rapporto transatlantico, pilastro della nostra politica estera e tradizionalmente al centro delle analisi dello IAI.

Anche in questo caso il rapporto fra alleati non deve tradursi in arretramento, ma piuttosto in un dialogo riaffermato, caratterizzato dal rispetto reciproco e da consapevolezza degli ampi interessi e valori comuni.

L’Italia ha costruito la sua prosperità sull’integrazione europea, sull’Alleanza atlantica, sul convinto sostegno alle Nazioni Unite.

Lungo queste direttrici, cui si aggiunge la naturale proiezione verso il Mediterraneo e il continente africano, occorre continuare, con determinazione, a costruire il nostro futuro.

Nel tempo, l’Istituto – come abbiamo poc’anzi ascoltato – ha ampliato i suoi interessi anche alle sfide così attuali dello sviluppo sostenibile, della transizione energetica, delle nuove tecnologie. Tematiche, queste, affrontate in una dialettica proficua con le istituzioni – in particolare il Ministero degli esteri -, con il mondo accademico, con altri qualificati centri di ricerca e di propulsione della nostra vita nazionale. Dialettica che ha fatto dello IAI un punto di riferimento a livello nazionale e internazionale.

Da ultimo, desidero esprimere apprezzamento per l’attenzione che lo IAI riserva tradizionalmente ai più giovani. La formazione delle nuove generazioni su questi temi è fondamentale per trasmettere consapevolezza su realtà che non si prestano a letture superficiali.

Sono certo che il passato così importante e il ruolo attuale dell’Istituto garantiscano un futuro pieno di risultati di alto valore.

Auguri.

La parabola. Introduzione al libro di Cesare Merlini

Tue, 06/03/2025 - 00:00

Per i tipi dell’editore Luca Sossella è appena uscito il libro La parabola di Cesare Merlini, che fu presidente dello IAI dal 1970 al 2002. Sottotitolo: Eventi, persone e mutazioni fra due secoli.

Traiamo dalla descrizione della quarta di copertina: “Cesare Merlini intreccia in queste pagine la sua doppia esperienza: quella di studioso delle tecnologie nucleari civili e quella di guida dell’Istituto Affari Internazionali, impegnato da sessant’anni a indagare i temi della deterrenza nucleare e del – le strategie geopolitiche. Le due facce dell’atomo tornano oggi con forza a interrogare il mondo. Attraverso la storia dello IAI, dei suoi rapporti con le istituzioni italiane e internazionali, e con incursioni nella vita personale dell’autore, il libro offre una riflessione sul lungo arco della nostra storia recente. Una parabola che dal secondo dopoguerra conduce alle soglie di un futuro incerto”.

Ci spiega Merlini: “La sagoma parabolica descrive con sufficiente approssimazione il percorso della storia, a cui mi è toccato in sorte di partecipare e di cui ho cercato di trovare un senso. Un corso degli eventi in crescita in termini di multilateralismo, istituzioni internazionali, interdipendenza economica e trattati per il controllo degli armamenti, durante la seconda metà del secolo scorso, e un or – dine internazionale sempre più multipolare, sovranista e conflittuale, quindi decrescente, nel primo quarto di questo secolo”.

E oggi, siamo al piede di arrivo della parabola? gli chiediamo. Ci risponde con le parole che chiudono il suo scritto: “Gli eventi che ci circondano sembrano confermare la fluidità di un presente che è carico di incertezze forse più di quanto il presente è normalmente carico di incertezze, così da aprire anche all’alternativa fra il cadere ulteriore della parabola e lo sperimentare nuovi inizi. Ma questa è materia per chi viene dopo”. Quasi a materializzare il chi viene dopo sembra provvedere Enrico Letta, che fu Presidente del Consiglio de ministri italiano nel 2013-14 e che di recente ha redatto il famoso rapporto sul futuro del Mercato Unico europeo. Sua la postfazione che completa il volume e che qui riportiamo.

Ulisse. Altiero Spinelli, vita e battaglie

Wed, 05/28/2025 - 11:15

Linkiesta e Fandango Podcast lo scorso 19 maggio hanno lanciato “Ulisse. Altiero Spinelli, vita e battaglie”, un podcast che racconta l’esistenza di Altiero Spinelli, figura cardine dell’antifascismo, padre del federalismo europeo e dell’Unione Europea.

Scritto e narrato da Massimiliano Coccia, con la partecipazione dello storico Piero Graglia, biografo di Spinelli, il podcast è un viaggio sonoro che ripercorre la vita e le intuizioni di un uomo che ha segnato il Novecento. Sette puntate che attraversano la vita di Spinelli e tracciano un ritratto di una generazione che ha fatto dell’Europa non sono una ragione ideale ma un vero e proprio motivo di vita. Dall’antifascismo che lo portò al confino a Ventotene, alla redazione del celebre Manifesto – il documento che immaginò un’Europa unita e federale – la vita di Spinelli è stata un’odissea di lotte, solitudine e visioni politiche lungimiranti. Attraverso un intreccio di narrazioni, interviste d’archivio e ricostruzioni storiche, il podcast restituisce l’umanità complessa di Spinelli.

“L’idea – spiega Coccia – è stata quella di creare uno spazio sonoro dove collocare le parole di Altiero Spinelli, inquadrarle da un punto di vista storico per rilanciarlo nel dibattito quotidiano”. Il podcast infatti si avvale di numerosi documenti di archivio provenienti da Radio Radicale che si uniscono alla ricostruzione storica di Piero Graglia e alle testimonianze di chi nel corso del tempo è stato accanto ad Altiero Spinelli come Pier Virgilio Dastoli, suo storico collaboratore.

“Questo è un podcast che somma vari generi al suo interno perché abbiamo voluto restituire in qualche modo agli ascoltatori “il multiforme ingegno” di Spinelli, i patimenti dovuti ad anni di carcerazione e confino, fino alla dimensione culturale ed intima del suo rapporto con Ursula Hirschmann”.

Tra le puntate c’è spazio anche alla fondazione dell’Istituto Affari Internazionali che per l’autore “rappresenta l’ennesimo investimento sul futuro del Paese e dell’Europa che Spinelli portò avanti, perché aveva compreso che la sfida europea sarebbe stata vinta nel corso del tempo da una generazione europeista nella formazione e nel modo di pensare la politica estera”.

Urgenze che rendono la lezione di Altiero Spinelli attuale come si evince anche ascoltando il podcast, dalle recenti polemiche intorno al Manifesto di Ventotene fino a questioni più di merito nella vita dell’Unione Europa come la difesa comune o il rapporto tra capacità di deterrenza e pace, rendono le sette puntate uno strumento anche per comprendere il presente.

Le elezioni albanesi: tra continuità politica e relazioni internazionali

Mon, 05/26/2025 - 09:45

L’Albania ha deciso di confermare la fiducia al Partito Socialista di Edi Rama domenica 11 maggio, nel giorno in cui il Giro d’Italia concludeva la terza tappa, l’ultima in territorio “shqipetaro”.

Un passaggio di borraccia simbolico tra i leader dei due Paesi? Certamente si è trattato di un’altra tappa del tandem Rama-Meloni che a Tirana, qualche giorno dopo, ha tagliato il traguardo suggellato dall’inchino con cui il premier albanese ha accolto la presidente del consiglio italiana.

Il sistema elettorale albanese

Il sistema elettorale albanese è basato su un meccanismo proporzionale plurinominale e i candidati sono distribuiti in collegi elettorali corrispondenti alle prefetture locali.

Il Parlamento albanese è composto da 140 deputati che, a seguito delle ultime elezioni, risultano così distribuiti:

  • 83 seggi al Partito Socialista
  • 50 seggi al Partito Democratico
  • 3 seggi al Partito Socialista Democratico
  • 2 seggi al Partito ‘Opportunità’ (Mundësia)
  • 1 seggio al partito Iniziativa albanese (NISA SH)
  • 1 seggio al partito Coalizione Insieme (Levizha Bashkë)

Il Partito Socialista, erede del PPSH (il Partito del Lavoro di Albania), negli anni ha avuto due leader che potremmo definire dei re laici: lo storico Fatos Nano e l’attuale (ma ormai storico pure lui) Edi Rama.

Il Partito Democratico, nato come primo movimento che nel 1991 sfidò nelle prime elezioni libere il partito unico del regime comunista, ha poi conteso in alternanza con i socialisti la guida del Paese, rappresentata sostanzialmente sempre da Sali Berisha.

Gli altri partiti presenti in parlamento sono numericamente irrilevanti e presentano sfumature per differenziarsi tanto a destra (Iniziativa albanese) quanto a sinistra (Coalizione Insieme; Partito Socialista Democratico albanese).

Negli ultimi trent’anni in Albania c’è chi sostiene che ci sia stata un’alternanza e chi ritiene che in realtà si sia trattata di una diarchia. I numeri dimostrano che gli altri partiti rimangono ai margini ed è molto difficile uscire dalla “coppia” PS-PD.

Tra acclamazioni e critiche

Nell’analizzare le elezioni, importanti analisti albanesi hanno concentrato l’attenzione su fattori esterni e interni.

Il fattore esterno riguarda la credibilità che Rama ha presso la comunità internazionale. Le congratulazioni ricevute “valgono più di un rapporto dell’OSCE perché il suo operato è perfettamente in linea con i loro standard”.

Tuttavia non bisogna dare esclusiva importanza ai fattori esterni, altrimenti si perde di vista la portata generale del problema: il Partito Democratico dai primi conteggi ha perso circa 180mila voti.

C’è chi non ne fa soltanto una questione di numeri, ma analizza come questi si traducano nel 52% dei voti che si è tramutato in 83 su 140 seggi. Ciò significa, secondo gli osservatori pro-PD, che “chi minaccia la democrazia, la rappresentanza e il normale funzionamento di un’opposizione è questo sistema elettorale”, che anche il PD ha accettato negli ultimi anni con l’incapacità politica di vedere il gioco che l’altra squadra stava facendo per assicurarsi una facile vittoria.

Dal 2005 a oggi, il Partito Democratico ha ottenuto all’incirca lo stesso numero di voti, ma nel 2005 i seggi erano più degli attuali 50. Questo sistema è stato ovviamente al centro della contestazione degli sconfitti.

Le elezioni albanesi viste dal Kosovo

In Kosovo hanno fatto notare che questa volta il premier Albin Kurti non è intervenuto nelle elezioni in Albania, “perché ha ricevuto pressioni internazionali”.

Molti in Kosovo pensano che il Primo Ministro Kurti, ma in generale tutti i partiti, dovrebbe essere cauto sul ruolo del suo partito Vetëvendosje in Albania, e non solo da una prospettiva elettorale.

Se i partiti albanesi aprono sedi distaccate in Kosovo e viceversa, il risultato può essere l’unità o l’assorbimento di un partito nell’altro, ma entrambe le ipotesi non sono facilmente gestibili.

In ogni caso, sostengono da Pristina, c’è un ulteriore motivo per cui questa volta non è intervenuto: non c’è un forte sostegno per nessuno dei partiti politici albanesi.

L’atteggiamento effettivamente tenuto si è rivelato saggio, in un momento in cui il clima generale nei Balcani è teso, risultando prudente non rischiare “invasioni di campo”.

Le elezioni albanesi viste dalla Grecia

In Grecia c’è chi ha sottolineato come la vittoria sia soprattutto di Edi Rama (ormai un tutt’uno con il PS) che si avvia a diventare un po’ l’Orban dei Balcani. La sua vittoria rende l’Albania, almeno sulla carta, un paese politicamente stabile, ma a quale prezzo?

Su questa linea, e non proprio come complimento, si è espresso l’europarlamentare greco Fredi Beleri, cittadino albanese appartenente alla minoranza greca e già candidato sindaco al comune di Hymara. Beleri è stato in prigione con l’accusa di voto di scambio secondo gli albanesi, per motivi politici secondo le autorità greche. “In queste elezioni ci siamo resi conto che ci sono ancora molti passi da compiere, affinché la democrazia in Albania possa crescere”, ha affermato l’eurodeputato dopo i risultati.

Va detto però che, al di là di quanto accaduto due anni fa, i rapporti tra Tirana e Atene sono ispirati a un sano pragmatismo di buon vicinato.

L’Albania al Summit della Comunità Politica Europea

Il Summit della Comunità Politica Europea del 16 maggio ospitato dall’Albania ha visto Rama protagonista come padrone di casa e trionfatore. Nel suo discorso ha sottolineato che l’Unione Europea gli ha insegnato che anche ex nemici possono unirsi “anche con ferite aperte dalla guerra e creare un legame”. I riferimenti interni (l’eterna rivalità con Sali Berisha) ed esterni (erano presenti BiH, Kosovo, Serbia) non mancavano.

Secondo Rama l’Europa è un luogo tanto spiritualmente condiviso quanto un mosaico di diverse lingue e religioni, per questo rappresenta il presupposto ideale per una pace duratura.

L’arte della politica consiste spesso nello spostare l’attenzione sulla scena internazionale per distrarla dai temi interni, e i Balcani non fanno eccezione. Da tempo non si parla delle proteste in Grecia, Serbia, Macedonia del Nord, nella stessa Albania o della crisi istituzionale che attraversa la Bosnia ed Erzegovina.

L’accordo bilaterale Italia-Albania sul riconoscimento delle pensioni

Il 16 maggio stesso, a Tirana, il primo ministro italiano Giorgia Meloni ha consegnato il documento finale sull’attuazione dell’accordo bilaterale sul riconoscimento delle pensioni tra Italia e Albania, che entrerà in vigore il 1° giugno 2025.

Edi Rama, da politico navigato, ne ha fatto una bandiera da sventolare insieme alla sua “sorella”, come chiama da tempo la sua omologa italiana.

Da più di cento anni il contesto geopolitico avvicina i destini di Albania e Italia: nel 1915 con la campagna di Albania, dal 1939 al 1945 con la Corona di Albania offerta all’Italia, e poi negli anni Novanta quando l’Italia era diventata “Lamerica” raccontata nel film di Gianni Amelio. Chissà quali saranno i prossimi episodi che la sceneggiatura politica scriverà.

Soluzioni per la crisi del debito nei Paesi a medio e basso reddito

Sat, 05/24/2025 - 12:21

Il Presidente Paolo Gentiloni è intervenuto a Radio Radicale nella trasmissione Spazio Transnazionale, condotto da Francesco De Leo, per commentare le possibili soluzioni alla crisi del debito dei paesi a medio e basso reddito, analizzando le situazioni attuali di questi paesi e le prospettive per l’alleggerimento del debito.

60° anniversario IAI al Quirinale: le riflessioni dell’Amb. Michele Valensise

Fri, 05/23/2025 - 12:14

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto in udienza ieri, 22 maggio 2025, i dirigenti e i ricercatori dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), in occasione del 60° anniversario della fondazione dell’Istituto, avvenuta nel 1965 per iniziativa di Altiero Spinelli.

In seguito all’incontro al Quirinale, l’Ambasciatore Michele Valensise, Presidente dello IAI, è intervenuto a Spazio Transnazionale, la trasmissione condotta da Francesco De Leo su Radio Radicale, per raccontare i momenti salienti dell’udienza e per offrire una riflessione sulle sfide e sulle difficoltà che l’Unione europea si trova ad affrontare in questa fase storica.

Il complesso allargamento europeo verso i Balcani

Thu, 05/22/2025 - 15:02

L’invasione russa dell’Ucraina ha spinto l’Unione Europea ad agire in diversi ambiti: da una maggior diversificazione dell’approvvigionamento energetico alla definizione di un massiccio piano di investimenti in difesa. Nel contempo, le mire espansionistiche di Putin — unite ai tentativi della Cina di espandere la sua sfera di influenza — hanno riportato in primo piano il tema dell’allargamento dell’UE, in particolare verso i Paesi dei Balcani occidentali. L’apertura di Bruxelles verso queste nazioni, da tempo candidate a divenire parte dell’UE, continua però a palesare degli elementi critici che, allo stato attuale, rendono ardua un’accelerazione del loro processo di integrazione nell’Unione.

Queste problematiche, in larga parte, sono legate alla situazione politico-istituzionale dell’area, che si è fatta negli ultimi anni più complessa, con massicce proteste di piazza, aspri scontri tra poteri dello Stato e rinnovate tensioni tra diverse etnie. In questo contesto appare particolarmente problematica la situazione della Bosnia-Erzegovina, Paese che continua a vivere sulla base del precario equilibrio stabilito dagli Accordi di Dayton del 1995. Qui, da anni, i vertici della Repubblica Srpska contestano l’ordine costituzionale definito su base internazionale e portano avanti un’agenda indirizzata a separare la componente serbo-bosniaca dal resto del Paese. Gli atti di aperta sfida all’assetto costituzionale sono stati negli ultimi mesi di tale gravità  da indurre la magistratura di Sarajevo a spiccare un (finora inefficace) mandato d’arresto nei confronti dei leader della Repubblica Srpska: il Presidente Dodik, il Primo Ministro Viskovic e il Presidente del Parlamento, Nenad Stevandic. Una secessione appare improbabile — vista anche la condanna delle azioni dell’esecutivo della Repubblica Srpska da parte dell’amministrazione Trump — ma una Bosnia ancora frammentata e dalla sovranità limitata  non ha dinanzi a sé una prospettiva di accesso all’Unione Europea in tempi brevi. Particolare attenzione merita anche la situazione della Serbia. Sotto la presidenza di Aleksandar Vučić, Belgrado ha mantenuto solide relazioni con la Russia e non ha compiuto passi significativi verso un autentico sistema liberaldemocratico capace di garantire la tutela dei diritti fondamentali della persona e dello stato di diritto. Le ampie proteste degli ultimi mesi a seguito del crollo di una pensilina nella stazione ferroviaria di Novi Sad — incidente che ha causato la morte di 15 persone e che è stato visto come emblematico del malfunzionamento dell’amministrazione pubblica — hanno aperto una frattura senza precedenti nel rapporto tra il leader del Partito Progressista Serbo e la cittadinanza. Tuttavia, assumere che questo possa aprire la strada a un più stretto legame tra Belgrado e Bruxelles appare, al momento, eccessivamente ottimistico.

Anche dal lato dell’Unione Europea ci sono però elementi che non facilitano l’avvicinamento alla regione balcanica. In primo luogo, i 27 Paesi membri — che devono deliberare all’unanimità  l’accesso di uno Stato nell’UE e poi ratificarlo a livello nazionale — attribuiscono diversi gradi di rilevanza all’integrazione dell’area: alcuni, come Germania e Paesi Bassi,  spingono verso un rapido percorso di integrazione, altri, come Bulgaria e Grecia, frenano, anche per dispute storiche. In secondo luogo, sussistono legittime preoccupazioni in merito al funzionamento delle istituzioni e dei meccanismi decisionali euro-unitari. Un ingresso accelerato di questi Paesi nell’UE al fine di includerli rapidamente nella sfera di influenza comunitaria aumenterebbe infatti il rischio di portare all’interno della casa europea degli Stati istituzionalmente fragili (come avvenuto nel caso di altre nazioni dell’est) che, su dossier fondamentali, potrebbero ad esempio esercitare un deleterio potere di veto, vista la perdurante esistenza su molte materie del requisito dell’unanimità.

Alcuni Stati della regione, come Albania e Montenegro — già membri della NATO e politicamente più stabili rispetto a quelli sopra menzionati — potrebbero anche nel breve-medio periodo riuscire ad accedere all’UE ma, per altri, questa strada sembra, almeno per il momento, difficilmente percorribile. Ecco, dunque, che sui Balcani occidentali, come su altre aree, torna inevitabilmente in rilievo il dibattito su altri modi con cui l’Unione Europea potrebbe cercare di allargare la propria sfera di influenza. È l’ingresso nella (attuale) UE l’opzione più valida per perseguire questo obiettivo?

La proposta di dar vita a un’Europa a cerchi concentrici, caratterizzata da diversi livelli di integrazione, potrebbe rappresentare una valida soluzione alternativa: in quest’ottica, gli Stati più istituzionalmente (ed economicamente) “avanzati” potrebbero procedere con un’integrazione sempre più federale, mentre gli altri, almeno temporaneamente, sarebbero coinvolti in una cornice istituzionale più affine al modello confederale. Questa possibile riforma del progetto di integrazione europea  — sostenuta, fra gli altri, dal presidente francese Emmanuel Macron — stenta però a decollare e, per ora, neppure l’invasione russa dell’Ucraina è riuscita a darle una particolare spinta propulsiva. Chissà se la nuova leadership tedesca, unita a un rinnovato asse Parigi-Berlino, riuscianno però a mettere (finalmente) la questione sul tavolo delle cancellerie europee.

L’articolo è stato elaborato nell’ambito di “Focus Geofinanza. Osservatorio IAI-Intesa Sanpaolo sulla geofinanza

Oltre il bluff: dentro la macchina tariffaria trumpiana

Thu, 05/22/2025 - 12:34

Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump ha inaugurato una nuova fase basata sul protezionismo. Fedele alla dottrina dell’America First, la Casa Bianca ha rilanciato l’uso delle tariffe doganali come strumento di politica estera ed economica. In pochi mesi, gli Stati Uniti hanno imposto dazi su centinaia di miliardi di dollari di beni importati, colpendo tanto i rivali sistemici come la Cina quanto gli alleati storici come l’Unione Europea e il Regno Unito. Un ritorno alle politiche di un secolo fa che, la Storia insegna, rischiano di creare più danni che altro.

La nuova dottrina tariffaria statunitense

Il 2 aprile 2025, il presidente Trump ha annunciato l’imposizione di dazi generalizzati su tutte le importazioni, con un’aliquota base del 10 per cento e incrementi fino al 50 per cento per alcuni partner. La misura, battezzata Liberation Day Tariffs, ha interessato 180 Paesi ed è stata giustificata sulla base del principio dei reciprocal tariffs: gli Stati Uniti imporranno dazi proporzionati a quelli “applicati” dagli altri Paesi sui beni americani, secondo una fantasiosa formula che considera il disavanzo commerciale con il Paese interessato come un dazio applicato alle importazioni da quest’ultimo. Occorre qui fare una prima precisazione: a differenza di quanto sostenuto da Trump, quindi, non sono dazi reciproci, ma dazi punitivi.

Tra le entità più colpite: la Cina (34 per cento), l’Unione Europea (20 per cento), il Giappone (24 per cento). Solo la Russia è stata esentata. Gli effetti sono stati immediati: i mercati finanziari hanno reagito in maniera molto negativa, con un crollo che nemmeno Trump ha potuto ignorare.

La risposta della Cina: escalation e tregua temporanea

La Repubblica Popolare Cinese ha reagito in modo deciso. A partire dal 10 aprile, Pechino ha aumentato i dazi su un ampio paniere di prodotti statunitensi, portando l’aliquota media dal 34 per cento fino all’84 per cento. Tra i settori più colpiti: agroalimentare, tecnologia, automotive.

Oltre ai dazi, la Cina ha attivato misure non tariffarie, limitando l’esportazione di terre rare e inserendo oltre quaranta aziende americane nella lista delle “entità inaffidabili”. La tensione ha portato a un’escalation che ha rischiato di sfociare in una vera guerra commerciale. Il 12 maggio, però, grazie a una mediazione dell’Organizzazione mondiale del commercio a Ginevra, le due potenze hanno raggiunto un accordo temporaneo: sospensione dei dazi per novanta giorni e istituzione di un tavolo bilaterale per la rinegoziazione delle relazioni economiche.

Tuttavia, l’accordo sembra poco più che un cessate il fuoco simbolico. Le tariffe su settori strategici restano, e il campo di gioco è tutt’altro che stabilizzato. Pechino ha concesso molto meno rispetto al precedente accordo firmato nel 2020 e non ha dato alcun segnale di voler allinearsi alle richieste americane in materia di sovvenzioni industriali, tutela della proprietà intellettuale o accesso al mercato.

A conferma della distanza tra retorica diplomatica e realtà, il 18 maggio la Cina ha introdotto nuovi dazi antidumping fino al 74,9 per cento su alcune materie plastiche importate da Stati Uniti, Unione Europea, Giappone e Taiwan. Si tratta di copolimeri di poliossimetilene, materiali utilizzati nell’automotive e nell’elettronica in sostituzione dei metalli, considerati strategici in numerose filiere. Secondo Pechino, un’indagine avviata nel 2024 ha confermato pratiche di dumping da parte di Washington e Bruxelles, giustificando così l’introduzione delle tariffe. La notizia è stata confermata da Reuters, che ha riportato anche le differenze tra i Paesi colpiti: massimo impatto per gli Stati Uniti, aliquote più contenute per Taiwan e alcune imprese giapponesi.

Le contromisure dell’Unione Europea

Anche Bruxelles ha reagito all’offensiva statunitense. In aprile, la Commissione Europea ha varato un pacchetto di dazi compensativi tra il 10%e il 25%su prodotti iconici americani: jeans, motociclette, bourbon, carne bovina. In parallelo, sono state rafforzate le misure a tutela degli standard ambientali e sanitari europei contro l’ingresso di merci statunitensi non conformi.

Il 10 maggio, tuttavia, l’UE ha bloccato temporaneamente le sue contromisure, in seguito alla decisione americana di sospendere i dazi nei confronti di alcuni partner strategici. Questa tregua potrebbe essere solo temporanea, in attesa di sviluppi più strutturali, ma la sensazione a Bruxelles è che si tratti di una mossa tattica americana per dividere il fronte multilaterale e aumentare la pressione su singoli Stati membri.

L’accordo selettivo con il Regno Unito

In un contesto di tensione diffusa, l’amministrazione Trump ha portato a termine un’intesa commerciale con il Regno Unito. L’8 maggio 2025 è stato annunciato lo US-UK Economic Prosperity Deal, che prevede l’accesso preferenziale per le esportazioni britanniche di auto, acciaio e prodotti farmaceutici, le concessioni britanniche su carne bovina ed etanolo americani e la creazione di un meccanismo di consultazione permanente sulle barriere non tariffarie.

Nonostante il tono celebrativo, l’accordo è stato accolto con scetticismo sia a Londra che a Bruxelles, mentre la Cina ha criticato apertamente l’intesa, accusando Washington di voler sabotare le relazioni economiche sino-britanniche. Sebbene presentato come risolutivo, l’accordo non scioglie i nodi relativi ai servizi finanziari, alla regolamentazione digitale e alla gestione delle certificazioni, che restano le vere partite economiche tra USA e UK.

Implicazioni globali e scenari futuri

L’escalation tariffaria americana ha accelerato la frammentazione del commercio globale, incentivando la regionalizzazione delle catene del valore. Le imprese multinazionali, colpite dall’incertezza, stanno riconsiderando le proprie strategie di approvvigionamento e investimento, con serie ricadute per le supply chain in tutto il mondo.

Un aspetto spesso trascurato riguarda il ritardo fisiologico con cui le tariffe producono effetti concreti sull’economia reale. Fino a quando le scorte preesistenti a magazzino non si esauriscono, le imprese possono tamponare l’impatto dei rincari. Solo nei mesi successivi, quando le importazioni soggette ai nuovi dazi iniziano a sostituire i vecchi stock, le conseguenze diventano tangibili: prezzi più alti, margini più stretti, inflazione in risalita. Chi si aspettava conseguenze immediate deve aspettare ancora un po’, mentre chi ha visto nella – per ora – mancata esplosione dell’inflazione una supposta dimostrazione che i dazi funzionano, si dovrà presto ricredere: prima si dà fondo alle scorte, poi arriva l’inflazione e, infine, le conseguenze sulle vite di milioni di americani che a tutt’oggi vivono paycheck to paycheck, da stipendio a stipendio, senza nessun tipo di cuscinetto economico per far fronte all’aumento dei prezzi. Una lettura confermata anche da un’analisi di Bloomberg, che ha sottolineato come gli effetti delle tariffe imposte nel 2018 abbiano impiegato mesi prima di trasmettersi ai prezzi al consumo.

Quello che rimane sul piatto è un teatro retorico. L’obiettivo finale di Trump non è tanto l’applicazione letterale dei dazi più alti, quanto la costruzione di uno scenario negoziale deformato in cui diventa plausibile accettare condizioni altrimenti irricevibili. Il resto è rumore di fondo, pensato per stordire e negoziare dalla posizione più aggressiva. Un metodo che Trump ha mutuato dalla sua attività da immobiliarista.

Allo stesso tempo, il sistema multilaterale del commercio, incarnato dall’OMC, appare sempre più marginalizzato. Le politiche unilaterali di Washington spingono le altre potenze a privilegiare accordi bilaterali o regionali, riducendo la capacità del diritto internazionale di governare i flussi commerciali.

L’endgame di Trump

La strategia tariffaria dell’amministrazione Trump rappresenta una sfida sistemica all’ordine economico liberale costruito nel secondo dopoguerra. Se da un lato essa risponde a pressioni interne legate alla deindustrializzazione e alla concorrenza cinese, dall’altro rischia di alimentare una spirale protezionistica che potrebbe danneggiare più di chiunque altro l’economia statunitense.

Nonostante l’enfasi mediatica sulle tariffe iperboliche – il 145 per cento sulle auto cinesi, ad esempio – l’obiettivo reale di Trump non è tanto la loro applicazione quanto la costruzione di una cornice negoziale. Escalate to de-escalate, come direbbero i diplomatici strategici: sparare alto per far accettare una condizione che, di per sé, causerebbe una levata di scudi. L’architettura finale lascia quindi intravedere il vero obiettivo: un dazio del 10 per cento universale su tutte le importazioni, indistinto, strutturale, che rappresenta già di per sé un colpo durissimo all’ordine commerciale globale e sarebbe stato impensabile fino a pochi mesi fa, mentre ora sembra il male minore.

La vera domanda, a questo punto, è come Trump intenda gestire il consenso interno quando l’inflazione causata dalle sue politiche comincerà a erodere il potere d’acquisto di milioni di americani. A quel punto finirà la strategia, e comincerà la realtà.

Da Brexit al riavvicinamento: il vertice UE–Regno Unito riaccende il dialogo

Wed, 05/21/2025 - 15:48

Il vertice fra Unione Europea e Regno Unito del 19 maggio ha sancito il reset delle relazioni bilaterali. Il riavvicinamento fra Bruxelles e Londra, fortemente voluto dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il premier laburista Keir Starmer, si svolge alla luce dei cambiamenti internazionali forzati dalla nuova amministrazione americana di Donald Trump, che hanno evidenziato le sfide comuni alle quali i due partner europei devono far fronte. Tuttavia, UE e Regno Unito hanno rischiato di incagliarsi su annose questioni, come l’accesso alle risorse ittiche e l’immigrazione, superate con un compromesso dell’ultimo minuto. Si tratta però di una svolta chiave che inverte la rotta delle relazioni dopo la Brexit.

I contenuti dell’accordo

Dopo un’intensa fase negoziale, il summit si è concluso con l’adozione di tre documenti. Il primo, un Geopolitical Preamble, individua le principali sfide comuni che Londra e Bruxelles si trovano ad affrontare, a partire dalla minaccia rappresentata dalla Russia per la sicurezza europea. Tuttavia, i documenti di maggiore rilevanza politica sono gli altri due: il Security and Defence Partnership (SDP), un accordo in materia di sicurezza e difesa, e il Common Understanding, che apre la strada a negoziati approfonditi sui principali dossier economici.

Il primo documento rappresenta l’architrave dell’accordo, segnando il superamento della dimensione strettamente bilaterale tra Stati membri e aprendo la strada a una prima forma di cooperazione strutturata tra UE e Regno Unito. L’intesa prevede l’istituzione di dialoghi semestrali a livello ministeriale, oltre alla partecipazione reciproca a vertici di alto livello inclusi i Consigli Europei. È inoltre previsto un dialogo annuale sulla difesa, oltre alla possibilità per il Regno Unito di prendere parte a esercitazioni di crisis management nell’ambito della Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC). Sul fronte della cooperazione nell’industria della difesa, viene delineata la possibilità di un coinvolgimento del Regno Unito — e delle sue imprese — nell’iniziativa SAFE, subordinato a un contributo finanziario da parte di Londra e alla firma di un ulteriore accordo che sancisca i dettagli della partecipazione britannica. Resta inoltre aperta l’opzione di un accordo amministrativo con l’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), che consentirebbe la partecipazione a progetti militari congiunti anche nel quadro della PESCO.

Il Common Understanding apre la strada a piccoli, ma significativi progressi nella relazione economica e commerciale, delineando un ampio quadro di cooperazione futura su temi quali pesca, mobilità, agroalimentare ed energia. Tra i punti principali figura l’estensione fino al 2038 dell’attuale accordo che consente l’accesso delle imbarcazioni europee alle acque britanniche. In cambio, Londra potrà esportare prodotti agroalimentari senza ulteriori controlli veterinari e fitosanitari, una misura che, secondo le stime britanniche, potrebbe recuperare circa 9 miliardi di interscambio entro il 2040. Questo comporta però un allineamento dinamico alle normative UE e, in ultima istanza, la possibilità di ricorso alla Corte di Giustizia dell’UE. Sul piano energetico, Bruxelles si impegna a valutare l’adesione del Regno Unito al mercato elettrico interno, mentre entrambe le parti esploreranno il possibile allineamento dei rispettivi sistemi di scambio delle emissioni (ETS), una soluzione che esenterebbe Londra dalla carbon tax europea in vigore dal 1° gennaio 2026.

Più limitati i progressi sul fronte della mobilità, che riguarda studenti, giovani, artisti e turisti. L’intesa si limita infatti a prevedere l’avvio di un dialogo verso un possibile accordo, senza però assumere impegni vincolanti. Il tema resta particolarmente delicato per il governo britannico, preoccupato che un aumento degli ingressi possa tradursi in un rialzo dei dati sull’immigrazione, con possibili contraccolpi sull’opinione pubblica interna.

Le ragioni dell’accordo

Non è casuale che un simile accordo sia stato siglato ora e che, dopo anni di tensioni post-Brexit, Regno Unito e UE siano tornati a parlarsi con profitto. L’intesa si inserisce infatti in un momento di profondo cambiamento per l’Europa, nell’ambito del quale Bruxelles e Londra riconoscono di essere partner naturali. In particolare, la presidenza Trump ha messo in dubbio i capisaldi della cooperazione transatlantica e del sostegno occidentale all’Ucraina. Proprio il fermo sostegno mostrato da UE e Regno Unito a Kyiv a fronte delle pressioni americane e la stretta cooperazione fra Londra e alcuni partner europei per il lancio di una “coalizione dei volenterosi” che garantisca un possibile accordo di pace hanno probabilmente favorito un riallineamento più generale fra le due sponde della Manica. Il capitale politico generato in questo modo è stato poi utilizzato per superare, almeno parzialmente, le divergenze più settoriali.

Inoltre, sullo sfondo rimane il tema del possibile disimpegno americano dalla difesa dell’Europa, che rende indispensabile un approfondimento della cooperazione in materia di sicurezza e difesa. Il Regno Unito rimane infatti una delle principali potenze militari europee, è membro chiave della NATO e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e dispone di un’industria della difesa comunque già integrata con quella di paesi europei come Germania e Italia. Non è casuale che proprio questi due paesi abbiano spinto per l’apertura del fondo SAFE anche a paesi terzi, in modo da salvaguardare le cooperazioni in corso e potenzialmente rilanciarle. È stata invece la Francia a premere per l’introduzione di clausole che leghino l’utilizzo di queste risorse all’acquisto di prodotti dell’UE. Il compromesso raggiunto prevede quindi che il 65% dei fondi venga utilizzato nell’UE, ma che le risorse possano anche essere utilizzate per acquisti da compagnie di paesi terzi che abbiano firmato patti di sicurezza con l’UE. Per questo, l’accordo con Londra è di vitale importanza, sia per la difesa europea, sia per gli interessi economici britannici.

Un primo passo nella giusta direzione

La cooperazione fra Regno Unito e UE è più che mai necessaria alla luce del contesto internazionale, che vede in questi giorni i leader britannici ed europei lavorare a stretto contatto per mantenere un ruolo nei negoziati sull’Ucraina. Il reset certamente garantisce più credibilità a questa collaborazione e riporta le due parti sulla strada del dialogo. Rimangono tuttavia delle sfide aperte. Da un lato, per l’UE si tratta di cooperare con efficacia con Londra su temi chiave, pur mantenendo il punto sulla supremazia del diritto UE, una delle principali ragioni che aveva spinto il Regno Unito fuori dall’Unione. L’intesa sull’allineamento dinamico alle norme UE costituisce un primo assaggio dei compromessi politicamente sensibili che le due parti sono chiamate ad accettare.

Dall’altro, il governo Starmer dovrà affrontare profonde pressioni politiche domestiche. L’ascesa del movimento politico Reform di Nigel Farage indica come le istanze isolazioniste siano ancora molto forti. Il premier laburista è stato quindi costretto a non cedere eccessivamente su temi caldi come quello migratorio, rischiando di compromettere l’accordo. Allo stesso tempo, Starmer deve anche salvaguardare la relazione speciale con Washington, uno dei capisaldi della politica estera britannica, nel momento in cui l’amministrazione USA si dimostra profondamente ostile alle istituzioni UE.

L’accordo del 19 maggio costituisce, al momento, un’intesa quadro destinata a essere precisata attraverso negoziati lunghi e complessi, in particolare sui dossier più sensibili, e l’esito di queste trattative sarà determinante nel definire i contorni futuri della relazione tra UE e Regno Unito. Nonostante queste sfide, tuttavia, questo accordo costituisce il primo passo di un’inversione di rotta necessaria che riavvicina due partner inevitabili.

L’UE e le tensioni con Israele: revisione diplomatica

Wed, 05/21/2025 - 09:39

L’UE ha ordinato una revisione dell’accordo di cooperazione con Israele e la Gran Bretagna ha interrotto i colloqui commerciali con il paese, mentre le nazioni europee hanno adottato una linea più dura sulla guerra di Gaza.

La Francia ha rinnovato il suo impegno a riconoscere uno Stato palestinese, un giorno dopo che il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha reagito con rabbia alle dichiarazioni di Gran Bretagna, Francia e Canada che minacciavano di intervenire a causa dell’offensiva militare e del blocco di Gaza da parte del suo Paese.

L’Alta Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri, Kaja Kallas, ha dichiarato che “una forte maggioranza” dei 27 Stati membri, durante una riunione dei ministri degli Esteri, ha appoggiato questa iniziativa nel tentativo di fare pressione su Israele.

“I Paesi ritengono che la situazione a Gaza sia insostenibile e ciò che vogliamo è aiutare concretamente la popolazione e… sbloccare gli aiuti umanitari affinché raggiungano la gente”, ha detto Kallas ai giornalisti.

La spinta a riesaminare l’Accordo di associazione UE-Israele, che costituisce la base dei rapporti commerciali, è cresciuta da quando Israele ha ripreso l’offensiva militare a Gaza dopo la scadenza del cessate il fuoco.

I diplomatici hanno riferito che 17 Stati dell’UE hanno fatto pressione per la revisione in base a un articolo dell’accordo che richiede il rispetto dei diritti umani, con i Paesi Bassi in prima linea nell’ultima iniziativa.

L’Unione europea divisa agisce

L’UE è da tempo divisa tra i Paesi che sostengono Israele e quelli considerati più filo-palestinesi. A dimostrazione di questa spaccatura, in un’azione separata, l’Ungheria ha bloccato l’imposizione di ulteriori sanzioni ai coloni israeliani nella Cisgiordania occupata.

Il ministro degli Esteri belga Maxime Prevot ha dichiarato di non avere “alcun dubbio” sulla violazione dei diritti a Gaza e che la revisione potrebbe portare alla sospensione dell’intero accordo.

Nel frattempo la Gran Bretagna ha sospeso i negoziati di libero scambio e ha convocato l’ambasciatore di Israele. Il ministro degli Esteri David Lammy ha accusato il governo di Netanyahu di “azioni ed espressioni vergognose” per l’espansione delle operazioni militari nel territorio palestinese.

Lammy ha dichiarato al Parlamento britannico che il governo sta imponendo nuove sanzioni a individui e organizzazioni coinvolti negli insediamenti in Cisgiordania.

“Il mondo li sta giudicando, la storia li giudicherà. Bloccare gli aiuti, espandere la guerra, ignorare le preoccupazioni dei vostri amici e partner. Tutto questo è indifendibile e deve finire”, ha affermato.

Ha aggiunto che la Gran Bretagna “rivedrà la cooperazione” con Israele nell’ambito della cosiddetta tabella di marcia 2030 per le relazioni tra Regno Unito e Israele. “Le azioni del governo Netanyahu hanno reso necessario questo passo”, ha dichiarato Lammy.

La risposta di Israele

Israele ha risposto affermando che le “pressioni esterne” non impediranno al Paese di “difendere la propria esistenza e sicurezza contro i nemici che cercano la sua distruzione”.

“Se, a causa dell’ossessione anti-israeliana e di considerazioni di politica interna, il governo britannico è disposto a danneggiare l’economia britannica, questa è una sua prerogativa”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Oren Marmorstein.

Anche la Francia ha rinnovato le sue critiche diplomatiche a Israele, con il ministro degli Esteri Jean-Noel Barrot che ha ribadito l’impegno a riconoscere uno Stato palestinese.

“Non possiamo lasciare ai bambini di Gaza un’eredità di violenza e odio. Tutto questo deve finire ed è per questo che siamo determinati a riconoscere uno Stato palestinese”, ha dichiarato Barrot alla radio France Inter.

Il presidente francese Emmanuel Macron si è unito al primo ministro britannico Keir Starmer e al primo ministro canadese Mark Carney in una rara dichiarazione congiunta su Gaza lunedì, che ha irritato Israele.

I tre hanno minacciato “azioni concrete” se Israele avesse continuato a bloccare gli aiuti. Netanyahu ha dichiarato che la dichiarazione rappresenta un “enorme premio” per Hamas, che ha scatenato la guerra di Gaza con gli attacchi del 7 ottobre 2023 contro Israele.

© Agence France-Presse

Perché Washington non è riuscita a porre fine alla guerra russo-ucraina

Wed, 05/21/2025 - 09:00

All’inizio del XIX secolo, uno dei padri fondatori degli studi moderni sulla guerra, il generale e storico militare tedesco Carl von Clausewitz, commentò le guerre napoleoniche con queste parole: “Il conquistatore è sempre amante della pace; preferirebbe di gran lunga entrare tranquillamente nel nostro Stato”. Questa osservazione rimane valida per la maggior parte delle aggressioni militari. Tuttavia, l’idea di base di Clausewitz è stata ignorata dalla maggior parte degli europei nella loro interpretazione del comportamento di Mosca dopo l’inizio della guerra russo-ucraina nel 2014.

Gran parte della diplomazia e dei commenti europei fino al 2022 si sono invece basati sul presupposto che l’insistenza pubblica del Cremlino sulla pacificità delle proprie intenzioni nei confronti di Kyiv implicasse che si potessero e si dovessero negoziare e moderare gli obiettivi e il comportamento della Russia in Ucraina. Questo presupposto inappropriato ignorava che Putin preferiva semplicemente una rapida e facile resa dell’Ucraina alla Russia piuttosto che una campagna militare dall’esito incerto contro Kyiv. Quando, undici anni fa, la Russia ha annesso la Crimea e invaso segretamente l’Ucraina orientale continentale, la guerra in quanto tale non comportava alcun vantaggio per Putin e il suo entourage. Il metodo preferito era invece una sovversione ibrida dell’Ucraina tramite agenti russi e forze minori piuttosto che un’occupazione violenta della maggior parte del territorio ucraino da parte di decine di migliaia di soldati russi regolari.

Negli ultimi tre anni, tuttavia, sia il ruolo dell’invasione militare russa dell’Ucraina, ora su vasta scala, per il regime di Putin, sia la comprensione europea delle motivazioni e del comportamento di Mosca, sono cambiati. Da un lato, la guerra stessa ha acquisito una funzione stabilizzante per il sistema politico russo, che si basa su un’ideologia sempre più estremista, un’economia militarizzata e una società mobilitata. Dall’altro lato, la maggior parte dei politici, diplomatici ed esperti europei, in questo contesto così cupo, nutrono oggi molte meno illusioni rispetto a dieci anni fa sul presunto amore di Putin per la pace.

Al contrario, la percezione finora largamente adeguata della strategia di Mosca a Washington è stata sostituita, dal gennaio 2025, da un approccio escapista alla guerra russo-ucraina. Il grado di ingenuità politica, indifferenza morale e dilettantismo diplomatico della nuova amministrazione statunitense nei suoi primi quattro mesi di mandato è stato sorprendente. Anche alla luce delle aberrazioni della prima presidenza Trump del 2017-2021, l’inadeguatezza delle dichiarazioni e delle azioni della Casa Bianca negli ultimi mesi riguardo alla guerra russo-ucraina ha provocato onde d’urto in Europa e altrove. Si sospetta che non solo l’infantilismo strategico, ma anche il rispetto politico e persino la simpatia personale dell’amministrazione Trump per Putin abbiano guidato i recenti zigzag degli Stati Uniti.

Quattro mesi di diplomazia itinerante e tentativi di mediazione da parte degli Stati Uniti hanno ottenuto ben poco. Anche i risultati della conversazione di due ore di questa settimana tra Trump e Putin sono stati scarsi. Certo, dopo la loro telefonata, entrambi i presidenti hanno parlato di successo.

Tuttavia, non ci sono risultati tangibili delle intense trattative trilaterali tra Washington, Mosca e Kyiv, né delle interazioni dirette tra i presidenti degli Stati Uniti e della Russia. Putin ha chiarito che non c’è e non ci sarà presto alcun cessate il fuoco. Trump ha annunciato che dovrebbero esserci negoziati diretti tra Russia e Ucraina, come se i due paesi non stessero già negoziando tra loro, in diversi formati, da più di undici anni.

Nel suo commento orale alla telefonata di lunedì, Putin ha di fatto provocato l’Ucraina, gli Stati Uniti e l’intero Occidente in due modi. In primo luogo, il termine che la Russia ha recentemente introdotto e che Putin ha utilizzato per definire l’obiettivo primario da raggiungere nei prossimi negoziati è “memorandum”. Chiunque conosca la storia delle relazioni russo-ucraine nel periodo post-sovietico sa che esiste già un “memorandum” storico in materia di sicurezza firmato da Mosca e Kyiv(nonché da Washington e Londra) nella capitale ungherese più di 30 anni fa. Si tratta del famigerato “Memorandum sulle garanzie di sicurezza in relazione all’adesione dell’Ucraina al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari”, fornito nel dicembre 1994 dai tre Stati depositari di questo trattato all’Ucraina.

Nel Memorandum di Budapest, Mosca aveva garantito che non avrebbe attaccato l’Ucraina in cambio dell’accordo di Kyiv di consegnare tutte le sue testate atomiche alla Russia. Washington e Londra, a loro volta, avevano assicurato a Kyiv il rispetto dei confini e della sovranità ucraini. Dopo aver palesemente calpestato la lettera e lo spirito del Memorandum di Budapest per undici anni, il Cremlino offre ora di firmare un altro “memorandum” russo-ucraino.

In secondo luogo, Putin non ha escluso, nel suo commento dopo aver parlato con Trump, che i futuri negoziati con Kyiv possano portare a una tregua. Tuttavia, il presidente russo ha aggiunto che, anche “se saranno raggiunti accordi adeguati”, un “possibile cessate il fuoco” sarebbe solo “per un certo periodo di tempo”. Anche se i negoziati avranno successo, l’armistizio sarà quindi solo temporaneo.

Questa avvertenza di Putin è un’ammissione appropriata: l’economia di guerra russa e la mobilitazione militare della popolazione sono ormai così avanzate che non possono essere facilmente fermate. Mosca non è più in grado di interrompere bruscamente e in modo permanente le operazioni belliche. Cosa accadrebbe alle centinaia di migliaia di soldati arruolati, alla produzione di armi su larga scala, al bellicismo sistematico e alle intense campagne ucrainofobiche in molti ambiti della vita sociale russa (istruzione, media, cultura, ecc.) se improvvisamente si instaurasse una pace permanente?

Questi e altri segnali simili provenienti da Mosca consentono di trarre un’unica conclusione: per porre fine alla guerra russo-ucraina, la Russia deve subire una sconfitta umiliante sul campo di battaglia. La lezione del passato è inoltre che i fallimenti militari russi hanno innescato una liberalizzazione interna, come le Grandi Riforme dopo la guerra di Crimea del 1854-1856 o l’introduzione del semicostituzionalismo dopo la guerra russo-giapponese del 1904-1905. Uno dei fattori determinanti della Glasnost e della Perestrojka fu il disastroso fallimento dell’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979-1989.

L’imperialismo russo non sarà neutralizzato da negoziati, compromessi o concessioni. Al contrario, tali approcci non fanno che promuovere un ulteriore avventurismo estero da parte di Mosca e un’escalation militare lungo i confini della Russia. Un giorno il Cremlino porrà fine alle guerre espansionistiche della Russia e al terrore genocida contro i civili in Ucraina e altrove. Ma affinché ciò avvenga, il popolo russo deve prima iniziare a credere che tale comportamento non può portare alla vittoria, può innescare il collasso interno e sarà punito con determinazione.

Consiglio d’Europa: adottata la Convenzione sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale e la Strategia a lungo termine sull’ambiente

Fri, 05/16/2025 - 17:49

Il Consiglio d’Europa rafforza la sua azione nel campo della protezione dell’ambiente. E lo fa con un duplice intervento: l’adozione della Convenzione sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale (CM(2025)52-final) e la Strategia a lungo termine in materia ambientale (Strategia ambiente) che si propone di indirizzare gli Stati verso il riconoscimento esplicito di un diritto umano all’ambiente negli ordinamenti interni. I due testi sono stati adottati nella riunione del Comitato dei ministri del 14 maggio 2025. L’obiettivo è comune: arrivare a costruire un quadro regolatorio condiviso dagli Stati del Consiglio d’Europa per garantire la protezione ambientale.

Convenzione sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale

Per quanto riguarda la Convenzione, accompagnata dal rapporto esplicativo (CM(2025)52-addfinal), la scelta del Comitato è quella di portare gli Stati a prevedere reati nel proprio ordinamento e assicurare che coloro che commettono reati ambientali siano puniti. Un primo tentativo era stato fatto con la Convenzione n. 172 del 1998 del Consiglio d’Europa sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale che, però, è da annoverare tra i fallimenti del Consiglio visto che è stata ratificata solo dall’Estonia.  

Il nuovo testo della Convenzione: diritto sostanziale e giurisdizione

Il nuovo testo è costituito da 58 articoli: una parte è dedicata al diritto penale sostanziale con l’individuazione dei reati e delle sanzioni, nonché delle misure preventive che gli Stati dovranno adottare, un’altra agli aspetti legati alla giurisdizione con i criteri per l’individuazione del giudice competente e per risolvere talune questioni di carattere procedurale, con un apposito focus sulla cooperazione tra Stati. Il testo prevede anche la responsabilità delle persone giuridiche (articolo 34). Inoltre, per quanto attiene ai reati, sono individuati talune particolari categorie di reati particolarmente gravi, condotti con intenzionalità e in presenza di danni di ampia portata e di lunga durata (sezione 7, Articolo 31), finalizzati a causare un grave inquinamento che potrebbero rientrare nella nozione di ecocidio. Per l’entrata in vigore è richiesta la ratifica di 10 Stati di cui almeno 8 del Consiglio d’Europa.

Strategia a lungo termine sull’ambiente

Il secondo atto adottato nella riunione di Lussemburgo del 14 maggio, è la Strategia a lungo termine in materia ambientale. Se certo il Consiglio d’Europa non è la prima organizzazione ad occuparsene, possiamo rilevare che è però la prima volta che si utilizzano i diritti umani come strumento per accelerare la protezione dell’ambiente e la lotta all’inquinamento. Sono proprio i diritti umani, lo Stato di diritto e la governance democratica a costituire il filo conduttore dei principi fissati nella Strategia, che è accompagnata da un articolato piano operativo e che fa tesoro della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il Comitato dei Ministri ha individuato cinque obiettivi strategici finalizzati a fronteggiare i cambiamenti climatici, l’inquinamento e la perdita della biodiversità, oltre a puntare a migliorare l’effettiva attuazione delle convenzioni già adottate al fine di proteggere gli ecosistemi, la fauna selvatica e il paesaggio. In particolare, nella Strategia sono elencati, come elementi essenziali per interventi funzionali ad arrivare a un’effettiva tutela dell’ambiente: 1) l’integrazione dei diritti umani nelle politiche ambientali (e viceversa); 2) il rafforzamento della governance democratica in campo ambientale; 3) il supporto e la tutela degli attivisti che hanno come fine la tutela ambientale e quella dei diritti umani, nonché dei whistleblowers; 4) la prevenzione e la punizione nel caso di crimini ambientali; 5) la protezione della fauna, degli ecosistemi, degli habitat e del paesaggio.

Come l’Europa dissuade azioni coercitive contro i suoi interessi con uno strumento da non utilizzare. Il caso dell’Anti Coercion Instrument

Fri, 05/16/2025 - 17:47

Stiamo assistendo ad una escalation di tensioni e rischi destabilizzanti la sicurezza e l’economia europea. Sono a rischio non solo il regolare andamento dei commerci, ma anche l’autonomia decisionale dell’UE a fronte di azioni coercitive di Paesi terzi nei riguardi delle politiche europee. Se il capitolo più recente è quello dei dazi unilaterali americani, è dal 2021 che si riscontrano una crescente assertività cinese nel minacciare o applicare restrizioni economiche, misure coercitive (blocco all’import) contro la Lituania dopo l’apertura a Vilnius di un ufficio commerciale di Taiwan, divieto russo di acquisti di prodotti agricoli, minacce USA di rappresaglia sulla digital tax.

Ne consegue l‘esigenza di un’”Europa geopolitica” che abbia la forza e la volontà di tutelare e far valere i propri interessi e valori, che supporti i negoziati con misure ad hoc. Avvertita l’impellenza di colmare un vuoto regolamentare, l’UE si è dotata di uno strumento di dissuasione nei confronti di comportamenti distorsivi, da utilizzare (si prese come esempio il deterrente nucleare nella difesa) come opzione di ultima istanza in aggiunta a contromisure europee in risposta a minacce unilaterali di dazi.

La Commissione Europea propose l’ACI (Anti Coercion Instrument), approvato il 22 novembre 2023 dal Consiglio UE. ACI si inserisce nel recente pacchetto europeo di strumenti di tutela come il monitoraggio degli investimenti esteri diretti, il controllo dei sussidi esteri e degli investimenti outbound.

Oggi L’ACI è chiamata a svolgere un ruolo chiave per proteggersi dalla “weaponization of economic dependencies or economic coercion.” Il focus dell’ACI risiede nella difesa dalla coercizione, definita come pratica e comportamento distorsivo che influenza e ostacola l’autonomia decisionale della UE e dei Paesi Membri nelle aree del commercio e degli investimenti. Le eventuali contromisure previste, proporzionali e temporanee, tutelano le industrie a monte e a valle e dei consumatori e l’economia della conoscenza europea. Di rilievo la possibilità di escludere dagli appalti pubblici in Europa le offerte il cui valore globale è costituito per oltre il 50% da beni e servizi originari dal paese terzo.

La gestazione di un framework legale come l’ACI, le cui implicazioni vanno oltre il Trade, non è stata semplice, incontrando divergenze tra le istituzioni europee durante i negoziati. La controversia riguardava gli equilibri e la ripartizione dei poteri tra le istituzioni. La CE propose di estendere le proprie competenze per determinare i casi di coercizione economica e agire in modo unilaterale con contromisure di emergenza. Tuttavia, è stata fortemente limitata per eccesso di discrezionalità, e il potere decisionale è rimasto in capo ai Paesi Membri con la regola della maggioranza qualificata.

Durante i lavori preparatori dell’ACI, pensato per tutelarsi dalla Cina, venne condivisa l’esigenza di tutelare aree quali i dati, il cloud e la proprietà intellettuale. La Francia sollevò la questione dei potenziali effetti extraterritoriali dei controlli non europei per l’export, tentando di far rientrare tra le misure anti-coercizione anche la difesa. Il timore era che gli USA facessero dell’ITAR un utilizzo sistematico andando oltre la misura stessa, prefigurando un’ingerenza politica a discapito dell’autonomia europea. Ma la CE e gli stakeholders considerarono l’ACI uno strumento di politica commerciale UE, quindi perimetrato al comparto economico civile al pari degli Accordi WTO, rimarcando che l’export control è competenza dei Paesi Membri. Perciò l’area di competenza dell’ACI si limita ad accennare alle politiche generali UE inclusa la politica estera e di sicurezza europea.

Nel “corpus legis” UE di misure di tutela commerciale, l’ACI assumerà un ruolo chiave, ponendo le prime basi legali per l’autonomia strategica europea, rimasta per lo più a livello declaratorio e di principi. Le caratteristiche dell’ACI, flessibilità, certezza di disporre di differenziate azioni difensive, velocità di attuazione, ne fanno uno strumento efficace, la cui mera esistenza anche senza attivazione è già di per sé un valido deterrente e un test di credibilità per attuare la “EU open strategic autonomy” e affermare l’Europa come attore geopolitico internazionale.

L’annuncio (si spera prematuro) del tramonto del diritto internazionale

Fri, 05/16/2025 - 16:06

Il diritto internazionale è in crisi? Le offese al diritto internazionale non sono certo mancate in passato, eppure mai prima d’ora si era avvertita una minaccia così seria.

Occorre tuttavia porsi prima un’altra domanda, solo apparentemente provocatoria: il diritto internazionale è utile? Si trascura spesso, infatti, che il diritto internazionale non si occupa, nella quotidianità, solo di guerra (vera o commerciale). In realtà, ogni giorno il diritto internazionale opera tramite numerose norme e trattati che consentono lo svolgersi di attività essenziali, senza le quali il mondo si fermerebbe (come abbiamo potuto sperimentare durante la pandemia). Per limitarci ad un semplice esempio fra tanti, il fatto di volare da un aeroporto italiano verso una qualunque destinazione estera è reso possibile non solo dalla tecnologia, che da sola non basterebbe, ma anche da un sistema di regole internazionali senza le quali non si potrebbe entrare nello spazio aereo di altri Paesi.

Questa vitale dimensione del diritto internazionale, che continua ad operare quotidianamente dietro le quinte, è non meno reale di quelle però più visibili in quanto più drammatiche, specie quando si ha a che fare con guerre o questioni territoriali (risorse incluse). Dunque se vi è crisi questa non investe (per ora) il diritto internazionale nel suo insieme. Ciò nonostante, è chiaro che in particolare le regole relative all’uso della forza e alle dispute territoriali rappresentano un aspetto nevralgico del sistema per via delle enormi implicazioni umanitarie, di sicurezza ed economiche connesse alla loro osservanza (o meno).

Un altro elemento portante del sistema di regole costruito sulle macerie della seconda guerra mondiale è la tutela internazionale dei diritti umani, il cui avvento è stato favorito anche dalla comprensione del suo legame profondo con il mantenimento della Pace: “non vi sarà pace su questo pianeta finché i diritti dell’uomo saranno violati da qualche parte nel mondo”, ebbe a dire René Cassin, che aveva vissuto di persona le due guerre mondiali (dalla prima uscì invalido), che contribuì poi alla stesura della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e che venne infine insignito del Premio Nobel per la Pace. Lezione (purtroppo) verissima ancora oggi: sono innanzitutto dei regimi autoritari, cioè abituati a comportarsi in modo brutale e arbitrario al proprio interno, ma a volte anche sistemi statali in cui democrazia e Stato di diritto si sono indeboliti, quelli che, disprezzando le regole, diventano capaci di usare la forza anche verso l’esterno.

L’azione sempre più spregiudicata (e spesso brutale) degli Stati più potenti sta effettivamente erodendo la presa delle regole (fondamentali) sull’uso della forza e sul modo (pacifico) in cui vanno gestite e risolte le controversie internazionali. Data la natura di tali regole fondamentali (consuetudinaria, anche se in buona misura codificate nella Carta delle Nazioni Unite), l’atteggiamento e il comportamento di tali Stati possono avere un impatto non solo sul loro contenuto, ma alla lunga sulla loro stessa sopravvivenza.

Diversi fra gli Stati dotati di potenza economico-militare (Russia, Cina, Stati Uniti, con l’aggiunta di Israele a trazione Netanyahu e di qualcun altro) mostrano infatti di credere che la forza di cui dispongono consenta loro di affrancarsi da qualunque preoccupazione relativa a ciò che sia permesso o meno dal diritto. Per questi Stati, in sostanza, tutto è permesso quando serve ai loro interessi.

Questa tendenza – non nuova naturalmente, ma che sta ora mostrando una virulenza inedita – finirà col portare alla desuetudine delle norme fondamentali in questione e col trascinare anche il resto della comunità internazionale verso un (nefasto per tutti nel medio-lungo termine) ripiegamento nel particolare, a discapito di valori e interessi collettivi? Può darsi, ma deve essere chiaro cosa ne conseguirebbe: il passaggio dalla Legge alla … “legge” del più forte, in virtù della quale i forti (che spesso sono anche prepotenti) impongono le loro priorità senza alcun riguardo per gli altri. Ebbene non solo questo non converrebbe ai “vasi di coccio” (comprese – singolarmente – le piccole/medie potenze europee), sempre che questi non accettino una posizione di soggezione, vassallaggio o irrilevanza.

Il punto è anche un altro: la Storia (in particolare del Novecento) insegna che il fallimento dei tentativi di organizzare le relazioni internazionali e di dar loro un minimo di ordine attraverso delle regole ha invariabilmente portato alla guerra, e su vasta scala, il che non è nell’interesse di nessuno, neppure delle “grandi” potenze. Molti sembrano dimenticare che sia la Società delle Nazioni che l’ONU nacquero dalle ceneri delle due spaventose guerre mondiali.

In realtà, ora più che mai abbiamo bisogno di quelle conquiste del diritto internazionale che abbiamo ottenuto a carissimo prezzo alla fine della seconda guerra mondiale. Non è un caso che negli ultimi anni il ricorso ai tribunali internazionali, anche da parte di tutta una serie di Stati diversi dai suddetti (pre)potenti, si sia intensificato a livelli senza precedenti: il diritto internazionale, attraverso le sue corti, è visto sia come l’unica opzione rimasta di fronte ai ripetuti fallimenti della politica, sia come l’ultimo baluardo oltre il quale c’è il caos.

In una indagine d’opinione sul multilateralismo, condotta lo scorso anno in nove importanti Paesi del cosiddetto Sud Globale, su commissione della Conferenza di Monaco sulla sicurezza e pubblicata su Foreign Policy, la maggioranza assoluta degli intervistati (con punte fra il 63 e l’88%) si è pronunciata nel senso che il diritto internazionale serve gli interessi di tutta la comunità internazionale e non solo dei Paesi occidentali, smentendo quindi quella narrazione – in particolare russa e cinese – secondo la quale il diritto internazionale sarebbe un’illusione occidentale.

La principale sfida per l’Europa è quindi trovare coesione, sebbene non tutti sembrino realmente interessati a questo obiettivo. Questo significa riuscire a interagire in modo efficace con il Sud Globale, oltre che con altri Paesi occidentali extraeuropei sulla stessa lunghezza d’onda (come il Canada), allo scopo di costruire un fronte comune a sostegno del diritto internazionale.

Questo presuppone due cambiamenti “di paradigma” fondamentali. Primo, la comprensione che in particolare l’Unione europea (insieme naturalmente a quegli Stati europei che non ne fanno parte ma non meno impegnati in tal senso) può svolgere un ruolo globale, a favore della sopravvivenza di un quadro di riferimento normativo fondamentale (così come della giustizia internazionale, compresa quella penale), solo agendo (coesa) di concerto anche con tutti gli Stati non occidentali che condividono tale visione (e ve ne sono in ogni continente).

Secondo, la consapevolezza che l’autorevolezza e la credibilità dell’Europa dipendono anche dalla sua coerenza fra princìpi e azioni concrete: coerenza al proprio interno (verso l’Ungheria di Orbán, ad esempio) e all’esterno, ovvero rispetto a tutta una serie di situazioni che chiamano in causa l’Europa, in un modo o nell’altro (dall’occupazione militare e uso spropositato della forza da parte delle autorità israeliane – e di molti coloni armati – al ruolo nocivo del Ruanda nell’Est del Congo, e altre ancora).

E bisogna darsi da fare per puntellare l’ultimo baluardo, perché il rischio che cedano le fondamenta del diritto internazionale, così come si è sviluppato dal 1945 ad oggi, è reale e se ciò dovesse sciaguratamente accadere, un’eventuale “crisi d’identità” degli studiosi del diritto internazionale (così Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera) sarebbe davvero l’ultima delle preoccupazioni.

 

Antonio Bultrini è professore associato di diritto internazionale nell’Università di Firenze