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Il rapporto di Enrico Letta: un mercato finanziario unico per l’Europa

Nel pieno delle crisi multiple (guerra in Ucraina, Medio Oriente, rivalità strategiche tra gruppi di medie e grandi potenze, concorrenza economica spietata fra le grandi aree produttive) l’Unione Europea cerca il suo “momentum”, il modello di spinta per evitare un indebolimento complessivo della sua posizione nel mondo. La leva che può cambiare le cose, superando lo stanco evoluzionismo istituzionale, si condensa nel trinomio “unione mercato capitali”. È uno dei punti qualificanti del rapporto sul mercato interno dell’Ue che l’ex premier Enrico Letta ha preparato per il Consiglio Europeo. Si affianca al rapporto sulla competitività che sta preparando per giugno (dopo il voto) Mario Draghi. È facile ritenere che la sintonia tra i due estensori sarà pressoché totale.

L’unione del mercato dei capitali è una di quelle visioni comprensibili solo agli addetti ai lavori: in soldoni si tratta di avere un mercato finanziario integrato, senza barriere interne, con regole e vigilanza comuni, in grado di finanziare l’economia europea. Lanciata nel 2015, i progressi sono limitati. Non è andata come per l’unione bancaria: in reazione alla crisi finanziaria originata dagli Usa alla fine del primo decennio del secolo e poi prolungatasi con la crisi del debito sovrano, la vigilanza bancaria nell’area euro è di fatto centralizzata sotto l’egida della BCE, tassello del “federalismo monetario” europeo. Per le banche si è proceduto dall’alto, per i mercati finanziari si è proceduto dal basso con il risultato che restano sostanzialmente nazionali.

L’Europa non può più fare a meno di un mercato finanziario unico

Avere o meno un mercato dei capitali senza barriere fa la differenza per il finanziamento dell’economia e qui il divario tra Ue e Usa è enorme. Per esempio, il finanziamento azionario a fine 2023 rappresentava solo l’84% del Pil dell’area euro contro il 173% negli Stati Uniti. Il fondo venture capital europeo più grande (investimenti in imprese start-up o ad alto potenziale di crescita) è inferiore per importo raccolto al decimo più grande americano. Non avere un mercato finanziario unico priva l’Europa di una risorsa di cui non può più fare a meno. Letta spiega ai capi di stato e di governo, in linea con Draghi, che l’Ue non può permettersi il lusso di non fare nulla. Ricorda nell’Ue ci sono 33 mila miliardi di risparmi privati, che ogni anno circa 300 miliardi lasciano l’Europa per dirigersi negli Usa. Risparmio europeo che torna in Europa sotto forma di investimenti per finanziare lo shopping di importanti imprese europee. Un paradosso.

La leva della finanza europea integrata è decisiva nel momento in cui si accumulano le transizioni epocali: “verde”, digitale, difesa/sicurezza, nuova fase di allargamento dell’Unione europea (Balcani e in prospettiva Ucraina e Georgia), rafforzamento delle coperture sociali (sempre più importante se si vuole mantenere il consenso dei cittadini al Green Deal). In gioco ci sono la difesa del tessuto industriale europeo, la risposta allo spiazzamento nella produzione di pannelli solari, batterie, chip elettronici, intelligenza artificiale, la riduzione della dipendenza da produzioni di punta effettuate altrove e dalle materie prime e rare importate.

Lo sforzo di investimenti necessario è immane, si calcola in diverse centinaia di miliardi di euro per anno per molti anni. Solo per transizione verde e digitale circa 750 all’anno fino al 2030. Sono i conti minimali di un IRA europeo (riferimento all’Inflation Reduction Act che sostiene la svolta industriale e verde negli USA). Non basteranno le casse degli stati, in tempi di debiti pubblici alle stelle, né il canale bancario, che costituisce la principale fonte di finanziamento delle imprese. E neppure le risorse europee attuali: il bilancio Ue vale meno di 1.100 miliardi per 7 anni, se ne aggiungono 800 di Next Generation EU fino al 2026. Certamente, c’è la Banca europea degli investimenti, di cui sono azionisti gli stati Ue, che ha una capacità effettiva di mobilitazione di capitali privati, però dovrebbe essere ricapitalizzata per aumentarne la potenza.

L’opzione proposta da Letta: un “safe asset” unificato

L’azione proposta da Letta implica superare divisioni profonde: un fronte di paesi guidato dal Lussemburgo si oppone alla prospettiva di supervisione centralizzata dei mercati finanziari; un altro fronte spinge per forzare le tappe creando un prodotto di risparmio comune europeo per aggregare l’offerta di capitali, assicurare un buon rendimento ai sottoscrittori e fondi per investire in progetti europei, procedendo anche con un gruppo di volontari. È l’idea francese appoggiata dall’Italia. Il cancelliere Scholz è incline a seguire queste strade, ma il governo tedesco appare diviso. Letta propone di forzare le tappe emettendo entro il 2026 un “safe asset” unificato centralizzando tutte le emissioni di obbligazioni Ue per convogliare i risparmi dei comuni cittadini nel finanziamento dell’economia reale. Non è una strada spianata perché la concorrenza nel mercato delle emissioni è effettiva e nessun governo vuole rischiare spiazzamenti nelle preferenze degli investitori (i bond Ue hanno la massima valutazione delle agenzie di rating). Sarebbe un passo rilevante anche per gli effetti positivi per la trasmissione della politica monetaria unica e per il ruolo globale dell’euro. Economia e ruolo geopolitico si intrecciano.

La leva del mercato dei capitali unificato coronerebbe l’azione più generale per integrare i mercati dell’energia e delle telecomunicazioni, settore quest’ultimo in cui gli operatori sono troppi e l’economia di scala minimale rispetto a Usa e Cina. Sarebbe poi utile per allentare la pressione sugli aiuti pubblici alle imprese: Letta propone più rigore a livello nazionale compensato da più sostegni a livello europeo e immagina un meccanismo che imponga ai paesi di destinare una parte dei loro finanziamenti nazionali alle imprese al sostegno di investimenti paneuropei. Anche su questo la strada non sarà in discesa. Inoltre, lo sblocco del mercato dei capitali potrebbe convincere gli stati “frugali”, Germania in testa, ad accettare emissioni di debito comune, anche questa una prospettiva inevitabile se l’Ue vuole davvero evitare lo spiazzamento competitivo con Stati Uniti e Cina, che sono in grado di sostenere l’industria nazionale con ingenti trasferimenti e impiego di denaro pubblico (nel caso cinese a suon di pratiche sleali di sussidio).

Il confronto tra Iran e Israele entra in una nuova fase

“Fino ad oggi si mantiene ferma l’analisi secondo cui sia Israele sia Iran non vogliono entrare in un conflitto aperto uno contro l’altro. Tuttavia, dopo il 7 ottobre soprattutto dopo l’attacco dell’Iran a Israele, lo scontro latente a bassa intensità tra questi due attori si è trasformando, rischiando sempre più di divenire uno scontro diretto”, afferma Maria Luisa Fantappiè, responsabile del programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dello IAI.

New York, Donald Trump a giudizio

L’America s’avventura in un territorio inesplorato: il processo penale a un ex presidente, mai avvenuto. Dal 15 aprile, Donald Trump è a giudizio a New York: se condannato, magari non andrà in carcere, ma sarà un candidato presidenziale ‘convicted felon’.

Il primo attacco diretto dell’Iran contro Israele. Putin si allinea a Teheran.

In questo podcast vi proponiamo l’intervento del Direttore editoriale di AffarInternazionali Stefano Silvestri, a commento dell’attacco dell’Iran allo Stato di Israele, nella trasmissione di Radio Radicale “Spazio Transnazionale” condotta e curata da Francesco De Leo.

Cosa ha perso e cosa può guadagnare l’Iran dalla rappresaglia contro Israele

A poche ore dall’attacco iraniano contro Israele è possibile fare una prima valutazione preliminare. Come si è arrivati a questa situazione? Cosa ci ha perso l’Iran e cosa ci potrebbe aver guadagnato? Come se ne esce?

L’attacco è il culmine di un ciclo escalatorio durato mesi

L’attacco dell’Iran è una rappresaglia in risposta a una serie di operazioni condotte da Israele a partire da dicembre 2023 contro alti funzionari iraniani in Siria, culminate nell’attacco al consolato iraniano di Damasco, nel quale è rimasto ucciso il generale di più alto grado delle Guardie della rivoluzione islamica operanti in Siria. Questi attacchi, e soprattutto quello di Damasco, hanno messo l’Iran in una posizione quasi impossibile.

Da una parte avrebbe potuto incassare il colpo e continuare a beneficiare indirettamente del crescente isolamento israeliano seguito alla devastazione inflitta a Gaza da Israele stesso. Questo avrebbe comportato un grave indebolimento della capacità di deterrenza iraniana e, di fatto, avrebbe rappresentato un invito a Israele ad alzare ulteriormente la posta. Dall’altra parte, l’Iran aveva l’opzione di rispondere militarmente, nel tentativo di recuperare un po’ della deterrenza perduta, rischiando però di essere trascinato in una guerra che non vuole e in cui il governo israeliano avrebbe fatto di tutto per portare gli Stati Uniti.

Si è optato per una sorta di via di mezzo, un massiccio attacco diretto dal territorio iraniano con droni (tra 130 e 150) e missili balistici e di crociera (circa 150 in tutto). Si è trattato di un attacco di grande impatto politico ma scarso effetto pratico: non ci sono state vittime né danni ingenti. Dopotutto è stato comunicato con largo anticipo per dare a Israele, agli Stati Uniti e ai loro alleati europei e arabi (Regno Unito, Francia, Giordania in testa) il tempo di prepararsi. Ma l’Iran ha ottenuto davvero quello che cercava?

Sconfitta o vittoria strategica per l’Iran?

Per un verso, l’Iran ci ha senz’altro perso in tutta questa storia. Israele sostiene di aver intercettato la quasi totalità dei doni e dei missili e questo avrebbe mostrato i limiti della potenza militare iraniana. Inoltre il fatto che l’attacco sia stato deliberatamente limitato e comunicato in largo anticipo indica chiaramente che l’Iran ha paura di una guerra che non può sostenere.

L’attacco ha anche visto la partecipazione a difesa del territorio israeliano della Giordania, il che avrebbe messo in risalto come la reale linea divisoria in Medio Oriente non sia quella fra arabi e israeliani – come è stato fino agli anni ’80 del Novecento – ma quella fra Israele e i paesi arabi da una parte (con l’eccezione della Siria) e l’Iran all’altra. Ma la cosa più importante è che l’attacco ha spostato il focus internazionale da Gaza, su cui Israele è sulla difensiva, all’Iran, rispetto al quale Israele ha facilmente recuperato il sostegno degli americani e degli europei.

L’Iran ha pertanto perso alcuni dei vantaggi che aveva indirettamente guadagnato dalle critiche internazionali piovute su Israele per la distruzione di Gaza. Tuttavia ci sono alcuni elementi che fanno pensare che potrebbe aver guadagnato qualcosa.

Innanzitutto, ha mostrato una certa capacità militare. È del tutto plausibile che il tasso di intercetti sia inferiore al 99% vantato dagli israeliani. Un attacco in futuro condotto non a scopo politico ma militare avrebbe con ogni probabilità un impatto superiore a quello ‘telegrafato’ della notte del 13-14 aprile.

In secondo luogo, la reputazione dell’Iran nell’opinione pubblica regionale si è probabilmente rafforzata perché ha avuto l’audacia di attaccare Israele nonostante il rischio di una pesantissima contro-rappresaglia da parte israeliana e americana. Considerando che gli unici altri attori regionali che hanno colpito Israele durante le operazioni militari israeliane a Gaza sono alleati dell’Iran (Hezbollah e Houthi), la credibilità dell’‘asse della resistenza’ – il network di alleati iraniani in Siria, Libano, Iraq e Yemen – nella regione è aumentata.

Terzo, l’attacco ha messo una volta di più in risalto l’ipocrisia occidentale, che ha prontamente condannato (giustamente!) l’Iran, ma non ha mai ammonito Israele per avere innescato la spirale escalatoria. Di fatto prima della rappresaglia Stati Uniti ed Europa hanno esortato l’Iran a non agire, senza però fare altrettanto con Israele.

Infine l’attacco iraniano ha palesato agli occhi del Sud globale e di Russia e Cina la codardia occidentale: Stati Uniti, Francia e Regno Unito non hanno esitato a utilizzare le loro forze per difendere lo spazio aereo e il territorio di Israele da una rappresaglia che il Paese stesso ha di fatto provocato. Eppure, si guardano bene dal prendere misure per chiudere lo spazio aereo dell’Ucraina, un Paese innocente aggredito da una potenza imperialista con propositi di conquista – e che peraltro utilizza lo stesso tipo di drone.

Una via d’uscita?

L’Iran considera conclusa la faccenda, come ha detto la sua rappresentanza alle Nazioni Unite. Anche gli Usa sembrano propensi a superare l’incidente. Il presidente Joe Biden ha detto al primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu di “prendersi la vittoria” dell’intercetto di tutti o quasi i missili e droni (vero o meno che sia). Soprattutto, gli ha comunicato che gli Stati Uniti non intendono partecipare a una contro-rappresaglia israeliana. Non sorprenderebbe se la soffiata alla stampa in base alla quale Biden si sarebbe lamentato del fatto che Netanyahu stia facendo di tutto per trascinare gli Stati Uniti in una guerra in Medio Oriente fosse stata una mossa deliberata.

La questione ora è che farà Israele. Finora il governo Netanyahu ha costantemente ignorato le richieste e gli ammonimenti degli americani su Gaza, né si è sentito in dovere di avvertire Washington prima dell’attacco di Damasco che ha innescato la spirale di escalation. Tirerà ancora la corda attaccando l’Iran in modo tale da provocarne una seconda rappresaglia? Se lo farà sarà perché non avrà ricevuto alcuna forma di pressione da parte degli americani e degli europei. Se quindi nelle prossime settimane e mesi ci troveremo un conflitto generalizzato in Medio Oriente, la responsabilità sarà anche di Washington e degli europei.

Iran-Israele e il ruolo della comunità internazionale

Israele e Iran non vogliono entrare in un conflitto aperto. Tuttavia, gli scambi di fuoco delle ultime settimane – prima l’attacco israeliano all’ambasciata di Damasco e poi la rappresaglia iraniana – potrebbero inavvertitamente portarci a questo risultato. L’Europa deve guardare agli stati arabi della regione, e in particolare ai membri del GCC, come alleati per aiutare a sventare questa possibilità. Una condizione necessaria affinché ciò avvenga è che, nelle ore e nei giorni successivi all’attacco, l’Europa non commetta gli stessi errori compiuti dopo il 7 ottobre, parteggiando a favore di una parte contro l’altra, rendendosi quindi vittima della competizione tra due attori, invece che potenziale canale di dialogo.

Il 7 ottobre ha cambiato le regole non scritte di competizione tra Tehran e Tel Aviv, portando entrambe le parti ad alzare l’asticella delle tensioni. Segnali di un cambiamento rispetto al passato sono rappresentati dall’attacco di Israele all’ambasciata iraniana di Damasco e dalla decisione di Tehran di rispondere lanciando un attacco dal proprio territorio a quello israeliano. In passato, Israele si limitava a colpire milizie pro-iraniane in Siria e in Iraq. Dal canto suo, Tehran continuava ad armare una serie di gruppi para-militari suoi alleati dispiegati alle frontiere con Israele. Il conflitto tra i due rimaneva latente ma a bassa intensità. Vi era, inoltre, il ruolo degli Stati Uniti nel porre dei limiti alle operazioni di Israele per evitare una conflagrazione regionale.

Ora entriamo in una nuova fase dove le regole della competizione tra i due attori sono cambiate. Entrambi vogliono dimostrare la propria capacità di colpire e umiliare l’altro. Dopo il 7 ottobre, l’attuale governo israeliano punta non solo allo sradicamento di Hamas, ma sembra determinato anche a costruire un cuscinetto di sicurezza contro tutti gli attori legati a Tehran. L’Iran fa leva sull’offensiva israeliana per consolidare la propria legittimità come unico difensore della causa palestinese e per rafforzare i legami con i gruppi paramilitari suoi alleati in Iraq, Siria e Libano, espandendo così la propria influenza strategica nel mondo arabo.

Il ruolo dell’Europa nella crisi in Medio Oriente

Il ruolo delle grandi potenze è cambiato. La competizione tra Iran e Israele avviene in un contesto dove non vi è una potenza globale a fissare i limiti di questo scontro – gli Stati Uniti dimostrano una diminuita capacità di influenza su Israele – né una potenza regionale capace di controbilanciare e mediare tra questi due attori. L’Arabia Saudita ci ha provato, ma senza successo, sancendo un accordo con Tehran e alludendo, nei giorni prima del 7 ottobre, alla volontà di normalizzazione con Israele.

Le conseguenze di una competizione “senza regole” sono molte per una regione così vicina all’Europa. Il levante arabo (Iraq, Siria, Libano e Giordania) rischia di diventare teatro di confronto tra questi due attori, aggravando le crisi profonde che già attraversano questi paesi. Crisi come quella del Mar Rosso (dove gli Houthi, gruppo yeminita legato a Tehran, lanciano attacchi su imbarcazioni occidentali che cooperano con Israele) rischiano di protrarsi, aggravarsi e moltiplicarsi in altri contesti. Inoltre, il conflitto israelo-palestinese continua ad appronfondirsi, diffondendo instabilità in Medio Oriente e attenuando la polarizzazione globale tra Occidente e Sud globale a favore di Cina e Russia.

L’Europa e gli Stati membri, insieme agli Stati arabi della regione e in particolare ai membri del GCC, hanno tutto l’interesse a collaborare per sventare una crisi regionale e dispongono di alcuni mezzi per farlo. In primo luogo, il dialogo con l’Arabia Saudita è necessario per far avanzare una proposta araba sul conflitto israelo-palestinese in cambio di un ritorno al processo di normalizzazione tra Israele e Riyadh.

Europa e paesi del GCC possono inoltre porsi come canali di dialogo per aiutare Israele e Iran a definire le regole non scritte della competizione in questa nuova fase della storia e evitare uno scontro diretto. Membri del GCC che hanno relazioni di lungo periodo con l’Iran – come l’Oman – possono aiutare a definire in modo più chiaro le intenzioni di Tehran e le conseguenze di ulteriori attacchi lanciati da Israele su obiettivi iraniani.

Gli stati dell’Unione europea con una lunga tradizione di cooperazione con Israele possono fare lo stesso sulla parte israeliana. La diplomazia europea deve quindi diventare canale di dialogo tra le parti in conflitto invece di porsi in modo unilaterale a favore o contro una di esse.

L’aggressione iraniana a Israele e il diritto internazionale

Nella notte tra il 13 e il 14 aprile, l’Iran ha condotto un attacco armato contro Tel Aviv, mediante il lancio di un’ingente quantità di missili balistici e droni. Alcuni di essi sarebbero provenuti anche dal territorio libanese, attribuiti a Hezbollah.

Secondo le prime dichiarazioni dello Stato iraniano, si tratterebbe dell’esercizio del diritto naturale di legittima difesa ai sensi dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite in risposta alle continue aggressioni israeliane, culminate nell’attacco alla sede diplomatica della Repubblica dell’Iran a Damasco, in Siria, e nel “martirio”- secondo quanto riportato – dei consiglieri militari iraniani presenti. Il ministro degli Esteri iraniano evoca anche una responsabilità del suo Stato connessa al suo ruolo funzionale al mantenimento della stabilità nell’area regionale a fronte di Israele, accusato, tra l’altro, di portare avanti un regime di apartheid nei territori occupati e una “campagna genocidaria” nei confronti del popolo palestinese.

Fonti di intelligence avevano preannunciato l’imminente attacco da parte dell’Iran, cui Israele ha risposto efficacemente. Grazie al sistema Iron Dome e al supporto difensivo fornito dagli assetti navali statunitensi presenti nel Mar Rosso, tra cui l’ammiraglia portaerei della marina statunitense USS Eisenhower, gli effetti dell’attacco iraniano non hanno prodotto effetti devastanti.

Numerose le dichiarazioni di supporto manifestate pubblicamente a Israele e di condanna all’aggressione da parte dell’Iran, compresa quella italiana. La prima reazione del Segretario Generale dell’ONU, limitata a un invito all’immediata cessazione delle ostilità per evitare “un’altra guerra”, è stata piuttosto flebile, in linea con l’orientamento scarsamente decisionista dei tempi più recenti. Nella giornata del 14 aprile, è attesa una riunione del Consiglio di Sicurezza, dopo circa 24 ore dall’avvenuto.

L’aggressione iraniana e il punto di vista giuridico

L’azione militare dell’Iran rivolta contro Israele tramite ingenti operazioni aeree pare difficilmente riconducibile a un esercizio della legittima difesa ai sensi dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite a fronte dell’attacco dell’ambasciata iraniana in Siria. In primo luogo, sotto il profilo temporale, essa non segue a un attacco armato attuale o imminente, essendosi concluso da giorni quello richiamato. In secondo luogo, Israele non ha rivendicato questo attacco, ma è stato attribuito allo stesso dall’Iran. Peraltro, esso ha colpito una sede diplomatica iraniana ma sita sul territorio di uno Stato terzo, la Siria.

Per contro, l’azione iraniana condotta il 13 aprile potrebbe avere i caratteri di un’aggressione ai sensi dell’art. 2 par.4 della Carta dell’Onu, in quanto chiaramente e dichiaratamente un massiccio attacco armato è partito dal territorio della Repubblica islamica dell’Iran nei confronti di un altro Stato sovrano. La risposta israeliana sembra, invece, configurabile come un’azione in legittima difesa a fronte di un attacco armato attuale e finalizzata a respingerlo secondo criteri di proporzionalità, in conformità all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Il supporto statunitense o di altri Stati nella difesa pare a sua volta configurabile come un’ipotesi di intervento in legittima difesa collettiva.

Da un punto di vista formale – per quanto sin dalle prime battute del conflitto armato tra Israele e Hamas si sia ipotizzato un coinvolgimento, non dimostrato, della repubblica islamica dell’Iran a supporto di quest’ultimo oppure degli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso -,  si trattava di un appoggio non incontroverso e di natura logistica. Un coinvolgimento indiretto nel conflitto armato, tramite il supporto di gruppi armati, ma senza un intervento diretto, generalmente non è ritenuto idoneo a far qualificare uno Stato come parte dello stesso. Risultava pertanto da escludere un coinvolgimento diretto dell’Iran come parte belligerante di un conflitto armato internazionale. Dal punto di vista giuridico, gli eventi recenti sono invece configurabili come un atto di aggressione, come definito in maniera condivisa a livello internazionale, contro la sovranità di un altro Stato, tale da dare origine a un conflitto armato internazionale. In tal caso, apparirebbe incontrovertibile la sussistenza di un animus bellandi, tale da far qualificare quest’ultimo come “guerra” dal punto di vista giuridico.

I bombardamenti iraniani, pertanto, hanno rappresentato certamente un’esclalation sotto il profilo militare, ma anche un momento di svolta, rendendo chiara e diretta la contrapposizione armata tra Israele e la Repubblica islamica dell’Iran.

Soltanto un’intensa attività diplomatica, in ogni sede, potrebbe attenuare il deterioramento della crisi nell’area mediorientale, che, allo stato attuale, appare destabilizzata in maniera critica, senza dimenticare che c’è il sospetto del possesso dell’arma nucleare tra le parti al conflitto.

Le imminenti riunioni del G7 e del Consiglio di sicurezza dell’ONU, già convocate, unitamente alle reazioni di supporto a Israele provenute da un ampio novero di attori, inclusa la NATO, testimoniano la preoccupazione della Comunità internazionale rispetto alla destabilizzazione dell’area.

Perché la guerra del Donbas non è mai stata “civile”

Il 12 aprile 2014, la guerra russo-ucraina, iniziata con l’occupazione illegale della Crimea da parte della Russia il 20 febbraio 2014, si è trasformata in un grande e violento conflitto armato. Molti degli analisti, oggi solidali con l’Ucraina e attivi nel condannare l’invasione su larga scala della Russia del 24 febbraio 2022, rimangono ambivalenti sulle sue origini: a causa della propaganda russa, di preconcetti teorici, di semplice ingenuità o di altre ragioni, molti di loro continuano infatti a fare una netta distinzione tra i combattimenti in Ucraina prima e dopo questa data.

Il ruolo della Russia nella “ribellione” dell’Ucraina orientale

La guerra del Donbas è stata uno dei diversi risultati di un più ampio tentativo russo di prendere sotto controllo le zone orientali e meridionali dell’Ucraina, in gran parte russofone. Inizialmente, il Cremlino intendeva farlo riducendo al minimo i combattimenti militari. L’evento più noto di questa operazione (per lo più segreta ma già ampiamente organizzata e chiaramente militare) è stato l’annessione della Crimea da parte della Russia tra il 20 febbraio e il 18 marzo 2014.

Il tentativo di catturare quella che i nazionalisti imperiali russi chiamano Novorossiia (Nuova Russia) ha incluso una moltitudine di altre azioni simultanee sovversive, ibride, clandestine volte a minare la coesione sociale, la stabilità politica e la capacità dell’Ucraina orientale e meridionale, e non solo. Tra gli strumenti più importanti della guerra ibrida russa in Ucraina continentale, all’inizio del 2014, c’erano i mass media russi e quelli ucraini sotto l’influenza di attori russi o filorussi. Tuttavia, l’effetto della campagna di demonizzazione di Mosca sull’opinione pubblica dell’Ucraina orientale è rimasto limitato. Non solo i canali di propaganda russi, ma anche i mass media stranieri hanno spesso dipinto le manifestazioni filorusse nel Donbas, all’epoca, come espressione di presunti umori popolari diffusi.

Tuttavia, vari sondaggi d’opinione condotti prima e durante questa fase dipingono un quadro diverso. Nel marzo 2014, ad esempio, ancora solo un terzo dei residenti delle regioni di Donetsk e Luhansk era favorevole alla separazione del Donbas dall’Ucraina, mentre il 56% respingeva questa idea. Molte delle azioni separatiste nelle città dell’Ucraina orientale e meridionale non sono state solo o per nulla avviate a livello locale, ma sono state dirette e finanziate da Mosca.

Il gruppo armato russo di Strelkov e l’escalation di violenza

Mentre la tensione era già alta all’inizio di aprile 2014, gli scontri su larga scala sono iniziati solo nella seconda settimana di aprile. La nuova fase del confronto, a metà aprile, ha visto l’uso di armi da fuoco e l’onnipresenza di cittadini russi. Questa escalation ha costituito l’inizio della guerra del Donbas come sottoconflitto armato della più ampia guerra della Russia contro l’Ucraina, iniziata con i movimenti di truppe russe in Crimea il 20 febbraio 2014 e durata fino ad oggi. La guerra del Donbas è iniziata quando, il 12 aprile, sono stati sequestrati edifici amministrativi a Sloviansk e Kramatorsk dell’Oblast di Donetsk sotto la guida di combattenti russi irregolari. La presa di Sloviansk è stata seguita dai primi combattimenti su larga scala della guerra russo-ucraina.

Gli irregolari anti-ucraini a Sloviansk erano guidati dal cittadino russo, colonnello in pensione ed ex ufficiale dell’FSB Igor Girkin (alias “Strelkov”). Il gruppo armato di Girkin, composto da oltre 50 combattenti irregolari, era appena arrivato in Ucraina attraverso il territorio dalla Crimea già occupata, dove la maggior parte di questi uomini aveva partecipato all’operazione di annessione. Il gruppo ha svolto un ruolo decisivo nella trasformazione del conflitto civile regionale del Donbas in una guerra interstatale delegata tra Russia e Ucraina. In un’intervista rilasciata al settimanale russo di estrema destra Zavtra (Domani) nel novembre 2014, Girkin ha ammesso: “Ho premuto il grilletto della guerra. Se la nostra unità [armata] non avesse attraversato il confine [dalla Russia all’Ucraina], tutto sarebbe andato come è andato a Kharkiv [nell’Ucraina nord-orientale] e a Odesa [nell’Ucraina meridionale]. […] [L’impulso alla guerra, che dura ancora oggi, è stato dato dalla nostra unità [armata]. Abbiamo mescolato tutte le carte che erano sul tavolo. Tutte!”.

I cosiddetti “separatisti” ucraini guidati da Mosca

Il 13 aprile, il presidente ucraino ad interim Oleksandr Turchynov ha annunciato l’inizio della cosiddetta operazione antiterrorismo (ATO). La decisione iniziale del governo ucraino di lanciare l’operazione difensiva come un’operazione antiterroristica piuttosto che militare – nonostante le prove fin dall’inizio di un profondo coinvolgimento russo a Sloviansk e Kramatorsk – viene talvolta interpretata come la prova di un conflitto interno allo Stato piuttosto che internazionale. Tuttavia, questa decisione è stata presa su basi pragmatiche piuttosto che paradigmatiche, soprattutto perché la prevenzione del separatismo rientra nella legislazione ucraina sull’antiterrorismo piuttosto che in quella sulla difesa. Nell’aprile 2014, Kyiv non era disposta ad annunciare la legge marziale prima delle elezioni presidenziali, previste per il maggio 2014 e che sarebbero state annullate con lo stato di emergenza.

Diverse ricerche sull’inizio e l’andamento della guerra del Donbas hanno rivelato le molteplici connessioni tra attori irregolari antiucraini apparentemente indipendenti nell’Ucraina orientale, da un lato, e organi statali russi, a Mosca, Rostov-on-Don, Simferopol o altrove, dall’altro. Lo storico russo con sede in Germania, Nikolay Mitrokhin, è stato tra i primi accademici di spicco a sottolineare, in un articolo intitolato Provocazione transnazionale, il ruolo cruciale non solo degli attori irregolari russi, ma anche dello Stato russo nello scoppio della guerra del Donbas, apparentemente civile. In seguito, il politologo giapponese Sanshiro Hosaka con i suoi articoli, ad esempio Russian Political Technology in the Donbas War, e il ricercatore tedesco Jakob Hauter con il suo libro Russia’s Overlooked Invasion, hanno confermato e sostenuto le prime indicazioni di Mitrokhin.

Già prima della comparsa di indagini empiriche dettagliate sul coinvolgimento della Russia, quest’ultimo fattore appariva come la spiegazione più plausibile per lo scoppio della guerra. Il contesto politico più ampio dell’escalation militare nel Donbas nella primavera del 2014 è stato, fin dall’inizio, suggestivo. Non poteva essere una coincidenza che la guerra fosse in preparazione e alla fine scoppiasse nello stesso periodo in cui le truppe regolari russe stavano conquistando la Crimea e la Russia stava accelerando un attacco ibrido multidirezionale contro l’Ucraina continentale. Un aspetto strano dell’apparente “ribellione” nel Donbas è sempre stato che, dall’inizio alla fine, non ha mai incluso nessun noto leader politico o di altro tipo, né organizzazioni politiche o di altro tipo rilevanti della regione.

L’arrivo delle forze regolari russe nella guerra del Donbas

Fino ad oggi, la Russia nega che le sue truppe regolari siano state attivamente coinvolte nella conduzione della guerra del Donbas. Questo è stato, in effetti, in gran parte vero fino alla fine di agosto 2014. Tuttavia, oltre al ruolo cruciale delle truppe regolari russe nell’annessione della Crimea nel febbraio-marzo 2014, nell’Ucraina orientale si sono verificati diversi casi che indicano la presenza di soldati russi non solo irregolari ma anche regolari.

L’eccezione più tristemente nota è stata l’equipaggio di un sistema missilistico terra-aria semovente Buk TELAR delle forze di difesa aerea russe che nel luglio 2014 è entrato per un paio di giorni nel territorio dell’Ucraina orientale, abbattendo accidentalmente il volo passeggeri MH-17 della Malaysian Airlines che, con 298 civili a bordo, stava sorvolando il Donbas. Nello stesso periodo in cui piccoli distaccamenti regolari russi, come l’unità Buk, sostenevano gli irregolari filorussi che combattevano nel Donbas, l’esercito russo ha iniziato a sparare oltre confine contro le truppe ucraine. Nel mese di luglio 2014, sono stati immortalati in foto e video diversi attacchi con razzi e artiglieria contro le posizioni ucraine dal territorio russo. Il primo di questi attacchi si è verificato l’11 luglio 2014 nei pressi del villaggio di Zelenopillya, nell’Oblast’ di Luhansk, e ha causato la morte di 30 soldati ucraini e guardie di frontiera. In un rapporto pubblicato nel dicembre 2016, il famoso gruppo OSINT Bellingcat ha descritto i bombardamenti russi sull’Ucraina in almeno 149 occasioni distinte.

Nel mese successivo, la Russia ha infine invaso su larga scala l’Ucraina continentale. Il 14 agosto 2014, una grande colonna di almeno due dozzine di mezzi corazzati e altri veicoli dell’esercito russo ha attraversato il confine russo-ucraino. Questa è stata la prima intrusione massiccia di forze regolari russe nell’Ucraina continentale confermata da osservatori indipendenti. Alla fine di agosto 2014, fino a otto cosiddetti “gruppi tattici di battaglioni” (BTG) delle forze armate russe erano stati dispiegati nel territorio dell’Ucraina, con oltre 6.000 effettivi.

Nonostante questi avvenimenti, molti politici, giornalisti, diplomatici e persino alcuni studiosi in tutto il mondo seguono ancora, nel commentare questi eventi, la narrazione propagandistica del Cremlino sulla guerra del Donbas degli ultimi 10 anni. I media, i commentatori politici, accademici e civili dovrebbero assicurarsi di capire bene le origini e la natura della guerra. Politici, diplomatici e altri attori interessati al futuro dell’Ucraina dovrebbero sottolineare in modo esplicito e continuo nelle loro dichiarazioni pubbliche e non, che il conflitto armato nel Donbas nel 2014-2022 è stato una guerra interstatale delegata tra Russia e Ucraina e non una guerra civile interna all’Ucraina.

Julia Kazdobina è Senior Fellow presso il Programma di studi sulla sicurezza del Consiglio di politica estera “Ukrainian Prism” a Kiev, mentre Jakob Hedenskog e Andreas Umland sono analisti presso il Centro di Stoccolma per gli studi sull’Europa orientale dell’Istituto svedese per gli affari internazionali. Questo articolo si basa su un rapporto SCEEUS di prossima pubblicazione: https://sceeus.se/en/publications/.

Europa sovrana in uno scenario di policrisi

Siamo vivendo una fase di radicali cambiamenti nelle relazioni internazionali che sta ridisegnando l’intero assetto dell’economia mondiale e pone all’Unione europea sfide complesse e in larga misura inedite.

In estrema sintesi tre mutamenti si possono citare tra i più rilevanti, in generale e per il loro impatto sull’Europa. Innanzitutto, nelle relazioni internazionali contano ormai più i rapporti di forza tra paesi che le regole e le istituzioni multilaterali del passato. Le condizioni di sicurezza influenzano in misura determinante le scelte economiche dei paesi. In secondo luogo, la fase di transizione ecologica, una vera e propria sfida epocale per la sopravvivenza dell’umanità, ha conosciuto un’accelerazione più di recente ed è strettamente intrecciata, dopo la guerra di Putin, al problema della sicurezza energetica. Infine, si sta consolidando un’accesa competizione industriale e tecnologica tra i maggiori paesi e, in particolare, tra le due superpotenze, Stati Uniti e Cina, diretta ad assumere posizioni di vantaggio in ambito commerciale e strategico.

Per l’Europa questi cambiamenti rappresentano altrettante sfide da fronteggiare. Alcune risposte, anche importanti, sono venute dall’Unione negli anni più recenti, attraverso interventi senza precedenti e la mobilitazione di un significativo ammontare di risorse. È stato così all’epoca della pandemia con l’adozione di un approccio comune negli acquisti, forniture e distribuzione dei vaccini anti Covid-19. E, poi, con il varo del programma Next Generation EU (e RRF), finanziato con debito comune e fondato sulla doppia transizione verde e digitale. Ancora, i paesi dell’Ue hanno adottato rapidamente e all’unanimità pesanti sanzioni nei confronti di Mosca in risposta all’invasione dell’Ucraina, riducendo al contempo in misura drastica la loro dipendenza dal gas russo.

Si è trattato senza dubbio di passi avanti importanti. Ma il mondo è cambiato nel frattempo e ancor più velocemente. Dopo la guerra di Putin ha posto all’Europa sfide nuove e ancor più complesse. Nel nostro libro “Europa sovrana” le analizziamo e suggeriamo varie risposte di policy da parte dell’Unione, adottando un approccio di International Political Economy, una disciplina che guarda all’interazione tra economia e politica nelle scelte dei paesi e che rimane spesso ignorata in Europa. Delineiamo così un percorso in direzione di un assetto dell’Ue che potremmo definire sovrano, sia all’interno chò.e all’esterno, una dimensione quest’ultima che è stata in passato considerata meno rilevante.

In ambito domestico, la sfida in estrema sintesi riguarda il modello di crescita europeo che deve profondamente riconvertirsi per adattarsi al nuovo contesto globale.  E la leva fondamentale è la transizione ambientale e digitale, che rappresenta un grande progetto di trasformazione dell’Ue, al pari di altri nel passato, quali la costruzione del Mercato interno e l’Unificazione monetaria. Ma è una riconversione che si presenta difficile perché deve arrestare ed invertire un processo di deindustrializzazione e arretramento tecnologico in corso da tempo e che sta minacciando pezzi importanti della base manifatturiera europea. Per avere successo l’Ue deve porre mano a un ventaglio di politiche e introdurre strumenti nuovi di intervento di politica industriale e tecnologica che sappiano legare innovazione, tecnologia e competitività.

Un’Europa sovrana significa affrontare anche una seconda sfida rivolta all’esterno, altrettanto importante, per affermare un nuovo e rafforzato ruolo dell’Unione a livello globale. Ha assunto particolare rilevanza nell’attuale contesto globale in cui l’interdipendenza è fonte non solo di opportunità e prosperità economiche, come in passato, ma anche di potenziali vulnerabilità e scontri di sovranità, in grado di innescare una crescente conflittualità tra paesi.

In questo nuovo contesto l’Europa deve arrivare a definire una propria autonomia strategica che le permetta di influire sulle vicende internazionali e contribuire alla definizione di una governance globale. L’Europa è tra i grandi poli quello con il grado di apertura maggiore e per continuare a crescere ha bisogno di una economia mondiale che si mantenga aperta, pur tenuto conto dei nuovi fattori geopolitici e di sicurezza.

E non vi sono dubbi che l’intreccio tra economia e sicurezza rappresenti oggi – come già osservato – una caratteristica fondamentale delle relazioni tra i maggiori paesi. Anche l’Europa ha cominciato a prenderne atto, soprattutto dopo l’invasione dell’Ucraina. Ma molto resta da fare per integrare interessi e fattori economici e geopolitici in una vera e propria strategia europea, unitamente agli strumenti da utilizzare. È un passaggio fondamentale perché l’Unione possa perseguire una propria sovranità e una capacità di ‘resilienza’ ai vari livelli così da agire da protagonista nel nuovo contesto globale.

In ultimo, il rilancio della crescita sostenibile e l’affermazione di un rafforzato ruolo a livello globale potranno realizzarsi solo alla condizione che l’Unione disponga di più risorse e strumenti d’intervento rispetto ad oggi. Il sistema di governance europeo nella attuale struttura non può assolutamente bastare. In altri termini, serve una sua profonda ristrutturazione e rinnovamento. E questa è la terza grande sfida per l’Europa, che condiziona da vicino le altre due.

Al riguardo vanno ipotizzate varie possibili configurazioni del futuro percorso di integrazione dell’Europa. È nostra convinzione che una sua maggiore differenziazione per gruppi di paesi a seconda delle preferenze d’integrazione sia un passaggio che si porrà come ineludibile. Ancor più in vista dell’allargamento dell’Ue all’Ucraina e ai paesi dei Balcani, destinato ad accrescere notevolmente l’eterogeneità all’interno dell’Ue. Pur se forti resistenze di natura politica potrebbero impedire di muoversi in tale direzione.

Il rischio maggiore, tuttavia, è un altro ed è lo status quo dell’Unione. Lo stallo del processo di integrazione finirebbe per accentuare le divisioni tra i paesi europei e aumentare il pericolo di una drammatica marginalizzazione dell’Europa in presenza di un contesto globale in radicale e rapida trasformazione.

Verso una difesa comune europea?

Recentemente la Commissione Europea ha varato una proposta per un programma di rafforzamento dell’industria della difesa comune europea. Sorvolando su tutti i possibili dibattiti che si aprono a livello politico, economico ed etico sulle condizioni generali in cui viene lanciata questa idea, giacché su queste tematiche si è già argomentato a sufficienza da entrambe le parti, si vuole qui, assumendo per ipotesi che sia opportuno procedere in questa direzione, proporre una breve analisi dei punti principali di questo programma.

Innanzitutto sarebbe opportuno sgombrare il campo da due equivoci che potrebbero sorgere leggendo il discorso di Von der Leyen: le istituzioni europee non effettueranno acquisti di armamenti, né in proprio né a nome degli Stati membri; piuttosto si tratterà di creare una serie di uffici, strumenti e prassi allo scopo di incentivare acquisti coordinati da parte dei singoli Stati membri. Inoltre l’obiettivo primario del programma è quello di potenziare l’industria della difesa – processo che a sua volta agevolerebbe il riarmo degli Stati – e non di contribuire direttamente al riarmo.

Il programma per la difesa comune europea

Le principali misure proposte sono:
1) creare un comitato per coordinare gli acquisti di armamenti degli Stati membri;
2) incentivare la cooperazione attraverso l’EDTIB, un programma per il coordinamento della progettazione di armamenti già esistente ma finora poco utilizzato;
3) varare una serie di meccanismi e prassi volti a favorire la formazione di scorte di materie prime e materiali utili all’industria della difesa e la loro condivisione tra gli Stati membri;
4) lanciare progetti di difesa europei da realizzarsi entro il 2035 nei settori difesa antiaerea e antimissile integrata, monitoraggio dei satelliti, difesa cibernetica e difesa marittima;
5) erogare aiuti alle imprese per incrementare la base industriale e la ricerca;
6) inserire considerazioni di difesa nell’elaborazione dei progetti industriali comunitari.

Gli aspetti più positivi del programma sono senz’altro l’attenzione all’aspetto logistico e industriale della produzione di armamenti e l’impegno a valutare dal punto di vista delle implicazioni sulla difesa i futuri programmi industriali europei. Positivo anche il varo di progetti di difesa integrata europea, benché resti da capire cosa si intenda nella documentazione per “risorse di protezione navale e sottomarina”.

Le potenziali criticità del programma

Una seria problematica potrebbe sorgere invece sulle difese anti-missile, qualora si avessero in mente difese ABM strategiche (la proposta non è precisa in merito): queste infatti sono considerate destabilizzanti poiché, riducendo la pericolosità di un attacco nucleare di rappresaglia avversario, potrebbero spingere quest’ultimo a lanciare un attacco preventivo prima che le difese siano completate, considerazione che si inserisce all’interno delle recenti dichiarazioni di Macron sull’assenza di linee rosse nei confronti della Russia e sulla possibilità di inviare truppe in Ucraina.

La maggiore vulnerabilità dell’intero progetto consiste nella sua dipendenza dalla volontà degli Stati membri, che gli estensori della proposta ammettono essere stata finora scarsa; benché essi ritengano che i recenti avvenimenti internazionali abbiano mutato al situazione non è da escludersi che la ritrosia dei Paesi membri faccia naufragare l’intero progetto.

Ci sarebbe infine da riflettere sul fatto che l’aumento della capacità produttiva delle imprese della difesa (private o parzialmente private) dovrà essere ottenuto tramite incentivi pubblici, quando i principali avversari dell’attuale corso politico europeo (Russia e Cina) hanno strumenti più economici per spingere le proprie aziende della difesa ad aumentare la base produttiva disponibile.

In definitiva il programma, benché con alcune potenziali criticità, sembra essere tutto sommato coerente e adeguato per l’obiettivo che si propone, ma costituisce solamente un piccolo passo verso la realizzazione della difesa comune e, come sempre nella storia della comunità europea, le sue sorti dipenderanno in massima parte dalla volontà degli Stati membri.

*Marco Vadrucci studia Scienze Storiche presso l’Università “La Sapienza” di Roma

Il G7 e il sistema bancario: intervista a Giovanni Sabatini, Direttore di Abi

In questo podcast, Giovanni Sabatini, Direttore dell’Associazione Banche Italiane, analizza il ruolo delle banche per sostenere e far fronte alle sfide della transizione verso un’economia sostenibile e della trasformazione digitale, nell’ambito dell’agenda del G7 a guida italiana.

 

Project 2025: alle origini del piano conservatore per cambiare il volto degli USA

di Vittoria Loffi

Con l’avvicinarsi di novembre 2024, quando gli Stati Uniti designeranno il proprio nuovo capo dell’esecutivo nell’ambito delle elezioni presidenziali, ci si interroga con sempre maggiore frequenza sulle possibilità dell’ex Presidente Donald Trump di tornare ad abitare la Casa Bianca e, se così sarà, su quali saranno i connotati di un suo secondo mandato.

Se l’attuale assetto politico americano suggerisce che per rispondere alla prima domanda sia troppo presto, trattandosi di una partita ancora aperta, per quanto concerne la seconda domanda – le caratteristiche di una presidenza Trump 2.0 – è, invece, già tutto scritto: i punti salienti di un mandato presidenziale reazionario, infatti, sono ampiamente illustrati in Mandate For Leadership: The Conservative Promise, un manuale di 900 pagine realizzato grazie alla stretta collaborazione tra Heritage Foundation e altre 100 organizzazioni conservatrici statunitensi.

Meglio conosciuto come Project 2025, il manuale e le organizzazioni che guidano una fortemente reazionaria e conservatrice visione degli Stati Uniti, lavorano da anni per sviluppare centinaia di obiettivi politici afferenti a ogni sfera della vita pubblica.

La loro ragione di azione si inserisce comodamente nel quadro di un eterno conflitto tra il governo centrale e quelli statali: l’infinita lotta in favore di un primato dei diritti degli Stati rispetto al governo federale – le cui aspirazioni liberali non hanno fatto altro che determinare, secondo la destra reazionaria e religiosa americana, un’ingiustificata interferenza nella vita degli individui – ha permesso a diverse organizzazioni di incardinare lotte dalla presidenza Reagan in poi per cambiare il volto degli Stati Uniti.

Al di là di Donald Trump

Project 2025 ha affrontato una lunga marcia prima di individuare in Trump un valido baluardo presidenziale: si tratta di una precisazione importante, perché suggerisce che il progetto di lungo corso è esistito prima di Trump e continuerà a farlo dopo, avendo come principale interlocutore “il prossimo conservatore” che occuperà la Casa Bianca.

Questa lunga sopravvivenza e indipendenza sono possibili grazie alle solide basi su cui poggia Project 2025, nato direttamente dall’esperienza dei Mandates for Leadership, manuali pubblicati sempre dalla Heritage Foundation a partire dal 1981 guardando all’allora amministrazione Reagan come punto di riferimento politico.

Non si tratta dunque, del “piano di Trump per la presidenza” come definito da diverse testate italiane, ma di una strategia di azione multidimensionale, che ha individuato Trump 2024 – e non Trump 2016 – come l’attuale specchio delle proprie politiche.

La macchina reazionaria ha tardato nell’approvare il trumpismo e non si è mobilitata in tempo per fornire personale o il solido corpus di proposte politiche contenute in Project 2025 alla prima presidenza Trump. All’epoca, infatti, il tycoon ricopriva principalmente il ruolo di salvatore, adatto alla narrativa nazionalista cristiana bianca, ma non ancora un valido investimento per il Network Koch – forza trainante nel promuovere il negazionismo climatico negli Stati Uniti – e per Leonard Leo della Federalist Society, oggi principali finanziatori di Project 2025.

In vista delle presidenziali di quest’anno, invece, il rapporto con Trump sembra essere mutato, e Project 2025 è pronto ad abbracciare l’ex Presidente.

Uno storico (e ricco) Network conservatore

Circa due terzi dei gruppi coinvolti in Project 2025 sono finanziati tramite le società filantropiche gestite proprio da Leonard Leo, da anni figura di spicco della destra cattolica statunitense e tra i principali responsabili del percorso di politicizzazione –  e spostamento a destra – della Corte Suprema.

Non sorprende, infatti, il frequente ritrovamento del nome di Leo a fianco di quello di Steven Calabresi (fondatore della Federalist Society), di Robert P. George (autore della Manhattan Declaration) e di quelli dei membri della Heritage Foundation nelle discussioni concernenti lo storico sfruttamento del tema dell’aborto per ottenere l’obiettivo di radicalizzare la suprema istituzione giudiziaria americana.

Molteplici sono le prove di interdipendenza tanto politica quanto economica tra queste figure e realtà: a partire dall’episodio che vide il giudice Clarence Thomas guadagnarsi la nomina nel 1987 presenziando agli incontri della Heritage Foundation (e definendo Roe v. Wadeun colpo di stato contro la Costituzione”) fino ai finanziamenti guidati da uno dei co-autori del manuale, l’economista conservatore Stephen Moore.

Oltre che co-autore del piano reazionario, Moore risulta aver co-fondato la Committee to Unleash Prosperity (CUP), insieme al miliardario Steve Forbes, l’economista Larry Kudlow, e Arthur Laffer, economista e opinionista che ha affiancato tanto Reagan quanto Trump, e al quale quest’ultimo ha conferito la medaglia presidenziale della libertà.

Diversi report hanno provato il flusso di denaro – pari a 1,77 milioni di dollaridiretto verso CUP e proveniente da DonorsTrust, un gruppo di destra che non è tenuto a rivelare i nomi dei suoi donatori, ma con chiari legami con Leonard Leo e il Network Koch – e dunque, con Project 2025.

Un progetto, dunque, che funge da lente d’ingrandimento sulle dinamiche reazionarie che da anni cercano di plasmare la società, l’identità e la storia statunitense puntando alle massime istituzioni – dalla presidenza alla Corte Suprema – e che sembra sempre più vicino a rendere 900 pagine di distopia conservatrice realtà; ma più di tutto, Project 2025 mette in piena luce il ruolo delle associazioni filantropiche e delle organizzazioni braccio armato ed economico della destra americana, come da più di 50 anni è la Heritage Foundation.

Biden vs. Trump, la rivincita

Ormai, anche quelli che non ci potevano credere, anche coloro che non ci volevano credere, si sono – quasi – rassegnati: Usa 2024 sarà un remake di Usa 2020. Il presidente Joe Biden, democratico, e l’ex presidente Donald Trump, repubblicano, saranno di nuovo l’uno contro l’altro il 5 novembre, un duello rivincita.

È la prima volta che accade dal 1956: Dwight Eisenhower, il generale dello sbarco in Normandia, eletto presidente per i repubblicani nel 1952, battendo il candidato democratico Adlai Stevenson, s’impose per la seconda volta sul suo rivale, un intellettuale che ispirò l’espressione ‘testa d’uovo’ divenuta poi virale. Ed è la seconda volta soltanto che un candidato di uno dei maggiori partiti si presenta per tre volte di fila avendo perso nel mezzo un’elezione: il democratico Grover Cleveland vinse nel 1884, perse nel 1888 contro Benjamin Harrison e si prese la rivincita nel 1892. Un po’ quello che potrebbe avvenire quest’anno, a partiti invertiti.

Altre Americhe, quelle del secondo dopoguerra e di fine Ottocento: meno divise, meno diverse, molto meno polarizzate. In comune con questa avevano la difficoltà del ricambio generazionale, ora evidentissima. Già nel 2020, Biden e Trump, 152 anni in due, erano la coppia di rivali più anziani mai affrontatisi nella storia dell’Unione e chiunque avesse vinto sarebbe stato il presidente più anziano a entrare alla Casa Bianca – il record battuto era di Ronald Reagan, eletto la seconda volta a quasi 74 anni. Quest’anno, i due insieme fanno 160 anni. E, dietro di loro, non emergono i ricambi.

Le primarie del 5 marzo, il Super Martedì, con 15 Stati al voto, hanno spianato la strada a Biden e Trump verso la nomination. Quelle del 12 marzo, con cinque Stati al voto, hanno dato a entrambi l’aritmetica certezza della maggioranza dei delegati alle convention dei rispettivi partiti.

I giochi sono fatti. Eppure, il percorso resta fitto di incognite. Sul cammino di Biden, gli ostacoli maggiori sono l’età e la scarsa popolarità. Rispetto al rivale, il presidente pare più fragile, anche perché nessuno si aspetta da Trump, che parla per slogan, coerenza e precisione, mentre tutti le pretendono da Biden.

Sul cammino di Trump, invece, gli ostacoli sono soprattutto giudiziari – ne parliamo diffusamente più avanti – e finanziari, perché i processi gli costano un sacco di soldi in spese legali e indennizzi da pagare e perché i donatori repubblicani, finora, sono molto meno generosi di quelli democratici.

Nelle primarie fin qui svoltesi, i due rivali hanno mostrato la loro forza e anche le loro vulnerabilità elettorali. L’uno e l’altro sono esposti a dissensi interni ai loro schieramenti: Biden fa meno presa che nel 2020 su giovani, minoranze, sinistra; Trump non convince i conservatori moderati e stenta fra gli indipendenti.

Il numero delle schede ‘uncommitted’ fornisce una misura delle riserve dei democratici sul presidente: elettori democratici che non ne avallano la candidatura, con punte vicino al 20%. Tuttavia, l’ipotesi che Biden si faccia da parte è ormai remota, salvo fatti traumatici: la sua carta vincente potrebbe essere il carattere divisorio della candidatura Trump, che – sottolineano i democratici – “vuole distruggere la democrazia, strapparci libertà fondamentali e fare tagli fiscali per miliardi di dollari per i ricchi”.

Nel discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato giovedì 7 marzo davanti al Congresso in plenaria, Biden ha avuto un sussulto di rara efficacia: “Il problema – ha detto – non è la nostra età, ma quella delle nostre idee. La vita mi ha insegnato a scegliere libertà e democrazia, un futuro che sia basato sui valori fondamentali che definiscono l’America, onestà, correttezza, dignità, uguaglianza, rispettare tutti e offrire a tutti una giusta possibilità, per non dare all’odio un porto sicuro … Altri – un riferimento a Trump, ndr – hanno la stessa età, ma vedono una storia americana di risentimento, vendetta e punizione”.

Come nel 2020, Biden ha dalla sua l’establishment democratico, magari con meno convinzione e più apprensione rispetto al 2020. C’è stata una sfilata di presidenti alla raccolta fondi democratica, giovedì 28 marzo, presso il Radio City Music Hall di New York: l’evento, curato da Anna Wintour, aveva l’obiettivo dichiarato di raccogliere 25 milioni di dollari. Con Biden, c’erano Barack Obama e Bill Clinton. Presenti i più bei nomi della New York della moda, dello spettacolo, del glamour e della finanza: i biglietti d’ammissione andavano dai 225 dollari ai 500 mila dollari.

I tre presidenti hanno dialogato fra di loro. Schiumante d’invidia, e molto indietro nella raccolta fondi, Trump, che non ha dalla sua nessun ex presidente – l’unico repubblicano vivente, George W. Bush, gli rema contro –, ha scritto ai suoi sostenitori: “Ricordatevi che la mia campagna non è finanziata dall’élite di Hollywood che può staccare assegni a sei cifre. È finanziata da voi” e ha sollecitato “un milione di patrioti” a fare donazioni a lui, povero miliardario.

Guerre, aborto, economia, i temi della campagna

Le guerre, l’aborto, l’economia: tre assi portanti, non necessariamente nell’ordine, della campagna per Usa 2024. I sondaggi dicono che gli americani si fidano più di Trump che di Biden sul fronte dell’economia, forse perché impressionati dai successi da imprenditore del magnate. Ma è anche vero che gli elettori non riconoscono al presidente i risultati raggiunti: la crescita elevata e la disoccupazione molto bassa. L’inflazione post-pandemia e post-guerra in Ucraina ha eroso il potere d’acquisto e aumentato il costo del denaro e, per quanto si sia ridotta, i suoi effetti negativi restano persistenti. Inoltre, il conflitto mediorientale può fare ripartire la spirale dei costi energetici.

Se l’economia è nella casella di Trump, l’aborto è in quella di Biden. La sentenza con cui nel 2022 la Corte Suprema a trazione ‘trumpiana’ ha cancellato cinquant’anni di diritto all’aborto riconosciuto e le offensive anti-abortiste lanciate negli Stati più conservatori sono largamente impopolari, tranne che fra i fondamentalisti cristiani. Trump ne parla il meno possibile; Biden, pur cattolico, difende il diritto di scelta delle donne e promette una normativa federale, se in Congresso ci sarà una maggioranza per approvarla.

Più di altre volte, in Usa 2024 c’è spazio per la politica estera. Le guerre in atto sono un handicap per Biden, che insiste sul sostegno all’Ucraina, cui i repubblicani però negano gli aiuti, e critica fin qui sterilmente Israele per le stragi di civili a Gaza. Il presidente sconta una certa stanchezza dell’opinione pubblica sull’Ucraina e la delusione di arabo-americani e giovani sul Medio Oriente. Trump dice che con lui le guerre non ci sarebbero mai state: quella in Ucraina finirà il giorno dopo che sarà eletto, mentre l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza ha il suo pieno avallo.

A Mosca, Vladimir Putin, che ha appena avuto l’ennesimo mandato presidenziale, e Benjamin Netanyahu a Gerusalemme lo aspettano come una manna. Invece, l’Europa ne teme il ritorno: al Trump 2, che nega l’aiuto agli alleati ‘morosi’, la Nato potrebbe non sopravvivere.

Migranti, battaglie in Congresso, nei tribunali e al confine tra Texas e Messico

Se c’è una cosa in cui l’America e l’Europa si assomigliano è che il tema dei migranti è centrale nelle rispettive campagne elettorali: da mesi, i repubblicani in Congresso bloccano ogni proposta in merito dell’Amministrazione Biden, convinti che l’attuale situazione di disordine e tensione al confine li avvantaggi sul piano elettorale.

Nel 2016, Trump aveva fatto campagna, ed era stato eletto, con la promessa di mettere un freno all’immigrazione e di costruire un muro lungo la frontiera con il Messico, a spese del Paese stesso: obiettivi ben difficili da realizzare e, infatti, non centrati. Ora, Trump fa campagna sugli stessi temi, senza più evocare il muro, profittando del fatto che pure Biden ha fatto fiasco.

Il flusso di migranti dal Messico è stato a tratti record nell’ultimo anno. Il sostanziale fallimento dell’Amministrazione Biden ha coinvolto, in prima persona, la vice-presidente Kamala Harris, cui, un po’ perfidamente, il presidente aveva affidato la ‘patata bollente’. Adesso, la Casa Bianca, senza fondi, ha sostanzialmente le mani legate: il tema la vede sulla difensiva.

Nei giorni scorsi, un’inattesa sentenza della Corte Suprema ha creato il caos ai confini tra Texas e Messico, ulteriormente aggravatosi quando una corte d’appello federale ha congelato la legge sull’immigrazione texana, controversa ma appena avallata dai giudici supremi. La norma sui migranti del Texas ne autorizza l’arresto e il rimpatrio se intercettati privi di documenti dalla polizia statale sul territorio statunitense. La legge appare in contrasto con le prerogative federali. Ma la Corte le ha dato via libera, sia pure provvisoriamente, e con decisione contrastata – sei giudici, i conservatori, pro; tre, i progressisti, contro –, suscitando immediatamente le critiche della Casa Bianca. I giudici progressisti hanno motivato il loro dissenso con il rischio di creare “caos” ai confini dell’Unione.

Anche il Messico s’è fatto sentire, comunicando che non accetterà il rimpatrio di migranti sulla base della nuova legge, che le autorità statali non hanno finora applicata. Il governatore del Texas Greg Abbott è un ultra ‘trumpiano’ ed è favorevole al ‘pugno di ferro’ contro i migranti, che viene contestato in giustizia dall’Amministrazione federale, dalla Contea di El Paso e da gruppi per la tutela dei diritti civili.

Giustizia, Trump gioca al rinvio e i giudici gli tengono bordone

Giustizia e politica: in Italia, è cosa già vista; negli Usa, è un inedito, in un’elezione presidenziale. Come in Italia, l’accusato ricco e famoso proclama la propria innocenza, ma non ha nessuna fretta di essere assolto, anche perché rischia di essere condannato. Dunque, non vuole andare a processo per dimostrare la propria estraneità, ma cerca di dilazionare, rinviare, procrastinare il più possibile, utilizzando tutto l’arsenale di strumenti legali a sua disposizione e intasando la magistratura d’appelli, ricorsi, eccezioni.

Ovviamente, tutto ciò ha un costo: stuoli di avvocati da pagare per azzeccare il garbuglio giusto che valga un rinvio. Del resto, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un povero vada alla Casa Bianca. Ma c’è una variante che è un’aggravante: la sudditanza di giudici nominati dal potere politico a chi li ha eletti.

Su Trump pesano 88 capi d’accusa, in quattro processi: due federali, a Washington e in Florida, uno statale, in Georgia, e uno a New York. Lui denuncia una ‘caccia alle streghe’ politicamente motivata da parte della magistratura e, contando su giudici ‘amici’, prova a evitare che i dibattimenti, o almeno alcuni di essi, inizino prima delle elezioni presidenziali. Con l’eccezione del caso di New York, è ormai difficile che vadano a sentenza prima del voto.

La stampa Usa mainstream e liberal segnala comportamenti anomali, nei suoi confronti, di giudici di vario livello: da singoli magistrati alla Corte Suprema, dove sei giudici su nove sono conservatori – e tre di questi scelti da Trump quand’era presidente – e tre progressisti.

In particolare, fanno molto discutere le scelte di Aileen Cannon, di nomina ‘trumpiana’, che presiede il processo in Florida sui documenti riservati illegalmente portati via dalla Casa Bianca e illegittimamente – e malamente – custoditi dall’ex presidente nelle sue residenze. Il Washington Post cita esperti legali, secondo cui le scelte di Cannon sono “molto molto singolari”, dal punto di vista del diritto. Risultato: il giudice non ha ancora fissato l’inizio del processo, che sembrava potesse iniziare il 20 maggio, ma che sicuramente slitterà.

In Georgia, la difesa d’uno degli imputati ha tirato fuori storie di lenzuola tra la PM e un suo collaboratore, la cui rilevanza nel caso resta misteriosa. Un giudice ha deciso che il processo può andare avanti, essendosi sciolti fra i due sia il legame sentimentale che quello professionale, ma ha contestualmente ammesso un ricorso contro la sua sentenza. Così il procedimento resta bloccato, mentre la difesa già avanza altre istanze di rinvio o di cassazione.

A Washington, la ‘madre di tutti i processi’, quello sul ruolo dell’allora presidente nell’insurrezione del 6 gennaio 2021 per rovesciare l’esito delle elezioni, attende che la Corte Suprema si pronunci sulla pretesa d’immunità di Trump. Tuttavia, la Corte se la prende comoda: il 22 aprile, ascolterà le parti; forse prima dell’estate, darà il suo parere; dopo di che mancheranno più o meno 100 giorni al voto e saranno pochi per fare il processo e arrivare a sentenza. Sempre che la Corte Suprema non avalli la tesi dell’immunità. Alcune decisioni dei giudici supremi, tutte pro-Trump, appaiono discutibili o almeno contraddittorie: affermano le prerogative federali su quelle statali, quando si tratta di non escludere Trump dalle liste – una decisione unanime, evidentemente indiscutibile in punta di diritto –, ma poi consentono a uno Stato, il Texas, ‘trumpiano’, di prevaricare le leggi federali, quando si tratta di migranti.

Resta il processo di New York sul pagamento in nero coi soldi degli elettori per comprare il silenzio di due donne su storie del passato con il magnate durante la campagna elettorale 2016. Si doveva cominciare il 25 marzo, ma s’è slittati al 15 aprile per permettere l’esame di nuove carte: sui giudici di New York non c’è ombra di pregiudizi favorevoli a Trump, anzi è piuttosto il contrario.

Nella giustizia ordinaria, dunque, tutto fermo al palo di partenza, o quasi. Prosegue, invece, la speciosa inchiesta della commissione di sorveglianza della Camera che istruisce l’impeachment contro il presidente Joe Biden: mancano del tutto le prove dell’asserto, ma l’obiettivo è solo quello di mettere in difficoltà il presidente.

Intanto, Trump vuole ingaggiare come consigliere della sua campagna Paul Manafort, che fu già suo campaign manager nel 2016 e che lui graziò a fine mandato, dopo che era stato condannato per frode fiscale e bancaria nell’ambito dell’inchiesta sul Russiagate. Manafort dovrebbe occuparsi della raccolta di fondi del magnate. La sua assunzione riaprirebbe il capitolo delle interferenze della Russia in Usa 2016. Allora, Manafort aveva condiviso dati della campagna con un suo socio che, secondo l’Fbi, aveva legami con l’intelligence di Mosca.

Election Day, il presidente, ma non solo, centinaia di appuntamenti

L’Election Day del 5 novembre è il giorno dell’elezione del presidente. Ma non solo: gli americani vanno alle urne per centinaia di altre scelte, a livello federale, statale, di contea e locale; decidono, in particolare, chi controllerà il Senato e la Camera nei prossimi due anni ed è raro che mettano tutto il potere nelle mani di un solo partito. Ad esempio, l’Amministrazione Biden ha avuto la Camera dalla sua e il Senato contro fino al 2022; dopo il voto di midterm, la situazione s’è rovesciata con Camera repubblicana e Senato democratico.

Quest’anno, ci potrebbe essere un altro ribaltone: alla Camera, dove si assegnano tutti i 435 seggi, la maggioranza repubblicana s’è assottigliata, causa decessi, dimissioni ed elezioni suppletive, 217 a 213 (con cinque seggi vacanti); al Senato, dove si assegna un terzo dei seggi, i democratici hanno 51 seggi e i repubblicani 49. Ad oggi, i pronostici sono per un rovesciamento delle posizioni. I democratici hanno la possibilità, che appare concreta, di riprendersi la Camera, per una somma di fattori: andamenti politici e demografici, ridefinizione dei collegi, situazioni locali. Invece, i repubblicani puntano a ribaltare la situazione al Senato, dove alcuni seggi democratici appaiono vulnerabili.

Tre, in particolare, le corse su cui si concentra l’attenzione: l’Ohio, dove il senatore democratico uscente, Sharrod Brown, 71 anni, dovrà affrontare uno sfidante repubblicano aggressivo e molto ‘trumpiano’, Bernie Moreno, 57 anni, un uomo d’affari di Cleveland, la West Virginia e l’Arizona. Qui, due senatori indipendenti, ma che erano stati eletti e votavano come democratici, Joe Manchin e Kyrsten Sinema, hanno deciso di non ripresentarsi. Nei due Stati sarà molto difficile per i democratici mantenere il seggio: perderli entrambi basterebbe a rovesciare la maggioranza.

Il 5 novembre verranno poi rinnovati diversi governatori e, parzialmente o totalmente, le assemblee di diversi Stati; saranno inoltre assegnate cariche elettive a ogni livello. Come sempre, infine, ci sarà un cospicuo corredo di referendum statali o locali sulle materie più disparate.

Il calendario degli eventi, di qui all’Election Day

La stagione delle primarie di Usa 2024, che si è aperta il 15 gennaio con i caucuses repubblicani nello Iowa, è poco oltre metà strada: si chiuderà, in pratica, il 4 giugno, con il voto in una manciata di Stati. Ma gli appuntamenti che restano non possono più incidere sull’esito finale: Biden e Trump hanno già acquisito il numero di delegati sufficiente a garantire loro la nomination.

Formalmente, il presidente e l’ex presidente diventeranno i candidati ufficiali del loro partito durante le convention estive: quella repubblicana si svolgerà a Milwaukee, dal 15 al 18 luglio (prima, Trump dovrà avere scelto il suo vice); quella democratica a Chicago, dal 19 al 22 agosto.

La campagna elettorale vera e propria inizierà dopo il Labor Day, la Festa del Lavoro negli Usa, che quest’anno cade il 2 settembre. Biden e Trump faranno comizi, incontri, raccolte fondi; il presidente utilizzerà come tribune anche gli appuntamenti internazionali di cui è fitta la sua agenda come il G7 in Puglia a giugno e il Vertice della Nato a Londra in luglio; l’ex presidente trasformerà in podi le aule di tribunale dove sarà chiamato a comparire per i suoi processi. Per gli elettori più indecisi saranno inoltre fondamentali i tre dibattiti televisivi: il 16 settembre (alla Texas State University) e l’1 e il 9 ottobre, inframmezzati da un dibattito fra i ‘vice’ del 25 settembre, al Lafayette College in Pennsylvania.

L’Election Day, il 5 novembre, è il giorno in cui l’America decide, anche se molti elettori avranno già votato, per posta o nei seggi aperti in anticipo – regole e modalità variano da Stato a Stato. Tuttavia, le cronache recenti, dal 2000 al 2020, ci insegnano che la conta dei voti e l’esito delle elezioni possono prendere qualche tempo: nel 2020, Biden acquisì la certezza di essere il presidente eletto solo il 7 novembre, tre giorni dopo il martedì elettorale del 2 novembre.

A quel punto, resteranno una serie di passaggi burocratici e politici – le riunioni dei Grandi Elettori dei singoli Stati, la riunione corale dei Grandi Elettori a Washington, la ratifica dei risultati da parte del Congresso riunito in sessione plenaria – fino all’Inauguration Day, venerdì 20 gennaio. Sempre che il diavolo delle contestazioni non ci metta la coda.

Guerra chiama guerra

A quel che sembra, guerra chiama guerra. L’avidità imperialista che ha spinto la Russia ad attaccare l’Ucraina sta accrescendo il coinvolgimento di tutto il continente europeo in quelle regioni dove la guerra non si è mai arrestata, in Medio Oriente e in Africa. 

L’attentato terrorista dell’Isis al Crocus City Hall di Mosca è stato concepito e diretto dalle basi che questa organizzazione ha in Afghanistan. L’Isis, a sua volta, è stato certamente stimolato a un maggiore attivismo, anche al di fuori delle sue aree tradizionali di intervento, dal mostruoso attacco condotto da Hamas contro Israele, il 7 ottobre scorso. Dapprima si era mosso in Iran, con l’attentato di Kerman, puntando con un certo successo ad alimentare il conflitto con il Pakistan. Contemporaneamente aveva sviluppato un maggiore attivismo in Iraq e in Siria, contro americani, russi, il governo di Assad, e in concorrenza con Hezbollah (che appoggia Assad, ma è anti americano e anti israeliano), quest’ultimo sinora tenuto parzialmente a freno da Teheran, per evitare uno scontro diretto con Israele.

Ecco dunque che il fronte orientale dell’Europa comincia a saldarsi con quello mediterraneo e medio orientale, già sollecitato dai drastici mutamenti sopravvenuti nel mercato energetico in seguito al forzato riorientamento verso l’Asia delle esportazioni russe (e iraniane). La Cina e qualche altro stato, come l’India, ne approfittano tatticamente per ridurre la loro bolletta energetica, ma nel complesso le guerre influenzano negativamente la crescita dell’economia globale. Anche perché gli effetti di conflitti solo apparentemente circoscritti geograficamente sono a volte sorprendenti. Chi aveva previsto che la guerra a Gaza avrebbe avuto un forte impatto negativo sulla libertà di navigazione e sulle rotte e i costi del commercio navale?

Gli effetti sociali della guerra e le conseguenze della nuova rivoluzione tecnologica 

Gli effetti possono essere perfino più complessi. La crescita tumultuosa dell’antisemitismo ha ormai investito anche i maggiori e più prestigiosi centri di formazione della gioventù occidentale, da Harvard alla Normale di Pisa. Per tali vie cresce la frammentazione e la litigiosità all’interno della società occidentale, risvegliando antichi spettri e alimentando la faziosità tipica dei social media, con effetti devastanti sul dibattito politico e quindi sulla tenuta stessa dei nostri sistemi democratici.

Alcuni leader politici si stagliano come i maggiori profittatori e, allo stesso tempo, come coloro che più contribuiscono ad alimentare questo disordine, da Vladimir Putin a Benjamin Netanyahu, passando per Donald Trump. Ma non sono certamente i soli: la tentazione di cavalcare assieme ai cavalieri dell’apocalisse è forte anche in molti altri casi.

In questo disordine stiamo anche sperimentando i primi passi di quella che si annuncia come una nuova grande rivoluzione tecnologica destinata a ridisegnare gli equilibri nati dalla rivoluzione industriale del passato (e quindi anche le forme di aggregazione sociale, lo svolgimento delle guerre, la tenuta e l’evoluzione dell’attuale sistema di Stati nazionali, e molto altro ancora). Se attualmente le promesse di questa rivoluzione sono appena abbozzate, già cominciano invece a sentirsi gli effetti trasformativi sul mercato del lavoro e sul tessuto connettivo delle società più sviluppate (che più hanno guadagnato dalle rivoluzioni passate). La protesta e il timore del mutamento sono quindi più forti delle promesse per il futuro e accrescono le difficoltà della transizione.

D’altro canto il processo innescato è ormai irreversibile, anche perché sembra offrire al cosiddetto Sud del Mondo, che meno aveva potuto profittare delle passate rivoluzioni industriali, un’occasione per accrescere significativamente il suo peso e la sua concorrenzialità. Si tratta quindi, dal nostro punto di vista, di cercare di dare ordine e significato alla rivoluzione tecnologica, perché essa non vada a contrapporsi alle conquiste politiche e sociali che caratterizzano in positivo i nostri paesi. Si tratta, altresì, di non abbandonare il controllo e il governo di questa rivoluzione tra le mani di sistemi antagonisti che vorrebbero piuttosto rompere tale continuità.

Non uno scenario facile dunque, perché alla conflittualità più tradizionale, alimentata dal fanatismo o dalla volontà di potenza, se ne accompagna anche una di tipo sistemico – o quanto meno una fortissima competizione – per decidere sulle forme future del governo della globalizzazione.

L’importanza di trovare soluzioni comuni a problemi globali

Ma naturalmente anche gli scenari più disastrosi e conflittuali hanno al loro interno importanti controspinte. Il sistema internazionale è ancora forte e non sembra voler cedere facilmente alle spinte autodistruttive. Pensiamo alla flessibilità con cui riesce a gestire i mutamenti, anche quelli apparentemente più complessi, come la riorganizzazione del mercato energetico, e soprattutto alla resilienza delle catene di produzione del valore, che sopravvivono alle divergenze politiche e impongono un livello accettabile di cooperazione tra opposti sistemi.

C’è una generale e diffusa consapevolezza sulla necessità di trovare soluzioni comuni a problemi globali, che i singoli Stati, per grandi e potenti che siano, non riescono in realtà ad affrontare da soli – dall’ambiente alle pandemie, alla gestione delle conseguenze della rivoluzione tecnologica in atto –, anche se i diversi punti di partenza a volte mascherano l’esistenza di un forte interesse comune e rendono lento e difficile questo processo. C’è persino una confusa, ma reale ripresa dell’iniziativa europea, ancora molto parziale e insufficiente, ma comunque in netta controtendenza con le spinte disgregatrici e conflittuali.

Gli scenari di guerra tendono a polarizzare l’attenzione delle opinioni pubbliche e ad accrescere divisioni artificiose tra i partigiani dei campi contrapposti, quasi ci si trovasse ad assistere allo scontro tra opposte tifoserie. In realtà non possiamo puntare a chiarissime soluzioni che individuano senza possibili dubbi i vincitori e i vinti. Certamente la guerra di Gaza non si concluderà con una resa incondizionata e la guerra in Ucraina passerà probabilmente, nel migliore dei casi, per un difficile compromesso. D’altro canto, al di là di Putin e delle ossessioni che sembrano oggi mobilitare troppa parte della leadership russa, è forse interesse dell’Europa spingere la Russia sempre più verso l’Asia e rinnegare secoli di ravvicinamento tra Mosca e l’Occidente?

La questione delle riserve russe congelate

In risposta all’invasione russa dell’Ucraina i paesi occidentali hanno prima congelato le riserve in valuta della banca centrale russa e ora stanno considerando come utilizzarle per sostenere l’Ucraina. La brutale aggressione militare di un Paese sovrano giustifica pienamente, da un punto di vista morale, forti sanzioni economiche. Le riserve valutarie di uno Stato sono però uno degli strumenti finanziari fondamentali delle moderne economie monetarie, che gli permette di aprirsi agli scambi con l’estero e di proteggersi nei momenti di crisi finanziaria e valutaria. Per questo motivo le banche centrali hanno sempre goduto di immunità sovrana, che le sottrae alla giurisdizione di altri Stati. Sono ora in corso vari approfondimenti sulle opzioni legali per agire nei confronti di un Paese che ha comunque violato vari principi fondamentali del diritto internazionale. Ma è necessario anche chiedersi se il timore della perdita di “inviolabilità” delle riserve valutarie possa favorire lo sviluppo di monete e sistemi finanziari alternativi a quelli occidentali.

Il ruolo dello yuan cinese nel sistema economico internazionale

Secondo molti, questo rischio è trascurabile. Non esistono alternative credibili al dollaro e all’euro che rappresentano rispettivamente circa il 50 e il 20 per cento delle riserve valutarie globali, mentre la moneta della seconda economia mondiale, lo yuan cinese, ha una quota di solo il 3 per cento. La sfiducia degli investitori internazionali circa la volontà delle autorità cinesi di liberalizzare i movimenti di capitale e accettare disavanzi di bilancia dei pagamenti impedisce alla moneta cinese di assumere lo status di valuta internazionale.

Alcuni importanti segnali di cambiamento si stanno però manifestando. Negli ultimi due anni le banche centrali hanno acquistato più di mille tonnellate di oro all’anno e la Cina è stato uno dei principali acquirenti. La Cina ha anche ridotto la sua posizione in US Treasury di circa 262 miliardi di dollari, pari a circa il 33 per cento della posizione che aveva prima dell’invasione russa a gennaio del 2022. Inoltre, ha fortemente promosso l’uso della sua moneta nelle transazioni commerciali internazionali. Secondo alcune fonti, lo yuan, nel secondo trimestre del 2023, è stato usato nel 49 per cento delle transazioni bilaterali cinesi, superando per la prima volta il dollaro. E i paesi in cui lo yuan è usato di più, anche solo come mezzo di pagamento, dovranno inevitabilmente detenere maggiori riserve nella valuta cinese.

Un altro importante fattore è lo sviluppo delle tecnologie digitali, soprattutto la tecnologia blockchain. Banche e altri operatori sono già in grado di usare le cryptocurrencies, come i Bitcoin o i cosiddetti stablecoins, per transazioni che potrebbero aggirare l’attuale infrastruttura globale dei pagamenti fondata sul sistema SWIFT di trasmissione dei messaggi. Sono sviluppi nuovi, dagli esiti ancora incerti, ma che potrebbero rendere il sistema dei pagamenti internazionali meno trasparente e in cui verrebbe fortemente ridotta la capacità dei paesi occidentali di imporre sanzioni finanziarie. Le nuove tecnologie potrebbero anche essere utilizzate per digitalizzare attività reali potenzialmente utilizzabili come riserve. Per esempio il World Gold Council ha avviato un progetto per creare un oro digitale che potrebbe semplificare gli scambi di questa materia prima.

Il rischio di un’economia internazionale frammentata

Difficile dire se iniziative, come la confisca delle riserve russe, possano imprimere un’accelerazione di queste tendenze che erano in atto anche prima dell’imposizione di sanzioni. Molti paesi del “global south”, come alcuni dei BRICs, che attualmente hanno legami con gli Stati Uniti ma anche con paesi loro antagonisti, potrebbero considerare questa misura come un pericoloso precedente che li spingerebbe ad aderire a nuovi sistemi monetari alternativi per motivi politici oltre che economici. Già oggi in Brasile le riserve in yuan hanno superato quelle in euro e si collocano al secondo posto dopo quelle in dollari.

Il rischio di un sistema economico sempre più diviso in blocchi non va quindi sottovalutato. Il costo sarebbe minore crescita e maggiore vulnerabilità a tensioni finanziarie. Ne potrebbe risultare anche un deterioramento dei rapporti tra Unione Europea e Stati Uniti. Alcune frizioni sono già visibili. L’esposizione dell’Unione Europea nei confronti della Russia, pari a 223 miliardi di dollari, è molto più alta di quella degli Stati Uniti (pari a 9,6 miliardi) o quella del Canada (2,9). Fa bene quindi l’Europa a esplorare opzioni meno radicali del sequestro delle riserve, come l’utilizzo dei profitti da esse generate, un’opzione di cui andrebbe comunque verificata la compatibilità con il diritto internazionale.

La divisione in blocchi può ancora essere evitata. La Cina stessa ha tutto l’interesse a mantenere l’integrazione finanziaria con l’Occidente. Con riserve in dollari pari a circa 1,8 trilioni di dollari, un rapido deterioramento della valuta americana danneggerebbe la sua posizione finanziaria. Una Cina ancora integrata nell’economia globale è molto meno pericolosa per l’economia mondiale di una Cina autarchica, a capo di un’alleanza antagonista del mondo occidentale.

La scommessa del Green Deal

Rendere l’Europa il primo continente al mondo a impatto climatico zero è l’impegno vincolante della normativa europea sul clima, nata nel 2021 nel contesto del Green Deal Europeo. Per l’Italia questo percorso è l’unico possibile: la probabilità del rischio di eventi climatici estremi è aumentata del 9% negli ultimi vent’anni e il Mediterraneo è riconosciuto come uno degli hot-spot del cambiamento climatico. Nel nostro Paese gli impatti sono già largamente evidenti e i dati contenuti nel recente report della European Environment Agency non fanno che rimarcare la progressione dei cambiamenti in atto.

Il Green Deal e la strada verso una decarbonizzazione europea

Da decenni, l’Ue traina gli impegni di decarbonizzazione dell’Italia. E non potrebbe essere diversamente, per molte ragioni. In primis perché la transizione richiede la trasformazione del paradigma economico del continente e quindi di tutti i suoi pilastri – dall’industria ai trasporti, dall’approvvigionamento energetico alla fiscalità. In secondo luogo, perché i cambiamenti climatici intervengono in maniera trasversale su tutti i settori interni ed esterni all’Ue, con impatti su sicurezza, salute, politica estera e commerciale, catene del valore e sui comportamenti delle persone. Terzo, perché la transizione necessita di cooperazione e solidarietà tra paesi per costruire sistemi energetici interconnessi e, quarto, perché servono strumenti comuni per supportarla. Quinto, perché non ci possiamo decarbonizzare da soli mentre il resto del mondo va in direzione opposta, altrimenti rischiamo di subire un contraccolpo interno e l’isolamento a livello internazionale. La lista potrebbe andare avanti.

Ma la strada del Green Deal non è stata semplice. Nato cinque anni fa, ha dovuto fare i conti con le tradizionali divisioni intra-europee – come l’inesauribile dibattito sul nucleare – ma anche con shock esterni molto violenti – la pandemia e la crisi energetica. Ha però sorprendentemente mostrato una grande resilienza: con Next Generation EU (nato per supportare la ripresa post-Covid) e tramite il pacchetto RepowerEU (parte della risposta europea all’invasione russa in Ucraina), il blocco ha rafforzato la propria ambizione climatica. In Italia il PNRR ha una componente ingente di fondi a supporto della transizione energetica e la dimensione securitaria della decarbonizzazione è ora più chiara.

Il ruolo degli stati membri nel processo di transizione energetica

A fronte di target al rialzo, i 27 Stati membri si devono pian piano adattare. I piani nazionali energia e clima sono infatti gli strumenti che ogni stato ha per chiarire il proprio percorso, permettendo alla Commissione di capire se, sommando gli sforzi di tutti, si stia realmente percorrendo la strada verso la neutralità climatica. Nuove bozze di aggiornamento dei piani sono state preparate nel 2023 (anche dall’Italia) e la Commissione ha proceduto a fare delle raccomandazioni su come migliorarle dato che permangono lacune sostanziali per il raggiungimento degli obiettivi. Nella loro forma più recente, le bozze di aggiornamento porterebbero a una riduzione delle emissioni di gas serra del 51% rispetto al 1990 contro l’obiettivo del 55% dell’Unione. Le rinnovabili rappresenterebbero una quota del 38,6-39,3% del consumo finale lordo di energia nel 2030, rispetto al 42,5%, mentre un divario ancora più sostanziale permane per quanto riguarda l’efficienza energetica. Su queste basi gli stati devono definire piani finali per giugno 2024, proprio a ridosso delle elezioni. La Commissione ha inoltre già provveduto a fissare un target di riduzione delle emissioni nette di gas serra entro il 2040 per tracciare il percorso verso il 2050. Questo doppio binario – europeo e domestico – è sicuramente complesso ma fondamentale per “governare” la transizione, comprendendo via via dove si possono rafforzare le sinergie o le interconnessioni tra stati e dove occorre, d’altra parte, prevedere strumenti di supporto più adeguati.

L’agenda climatica otterrà un’attenzione senza precedenti nelle prossime elezioni europee e nazionali, i cui risultati potrebbero avere un impatto sugli sviluppi delle politiche Ue – in particolare sulla pianificazione finanziaria e sulla tempistica della transizione. Una crescente polarizzazione sul tema costituisce un rischio per la fase di implementazione nei contesti nazionali delle misure adottate finora, che potrebbe così rallentare. Un certo livello di contrapposizione tra istanze diverse è, d’altra parte, fisiologico e dimostra come il cambiamento sia effettivamente in atto. Tuttavia, per attuare la transizione nei tempi stabiliti e per coglierne a pieno i vantaggi occorre la progressiva istituzionalizzazione della politica climatica nei livelli nazionali ed europei e al contempo bisogna prevenire i rischi di fratture negli e tra gli Stati membri, impegnandosi nella costruzione di strumenti europei comuni a supporto della decarbonizzazione. La posizione di finanza pubblica italiana rimane per esempio affetta da grosse fragilità strutturali, che potrebbero portare a crescenti difficoltà nel raggiungimento degli obiettivi verdi e nello sfruttamento di opportunità di ricollocazione industriale in settori sempre più strategici. Un antagonismo rispetto all’agenda climatica rischierebbe poi di ridurre le opportunità di influenza sulle prossime fasi della transizione, non consentendo di sfruttare appieno congiunture potenzialmente favorevoli all’Italia.

Cooperazione Italo-Britannica. Jeremy Quin allo IAI

La redazione di AffarInternazionali ha conversato con Jeremy Quin, Presidente della Commissione Difesa della Camera dei Comuni britannica, in occasione dell’incontro svoltosi allo IAI tra una delegazione della Commissione stessa e il team di ricerca dell’Istituto. Il meeting si è concentrato sulla cooperazione italo-britannica riguardo a un ampio ventaglio di dossier militari, industriali e geopolitici a partire dal Global Combat Air Programme, ed è stato parte del calendario ufficiale di appuntamenti dei parlamentari britannici che hanno incontrato i propri omologhi italiani, i vertici del Ministero della Difesa e di Leonardo.

La nostra visita in Italia

L’obiettivo principale della nostra visita è parlare del GCAP, che riteniamo essere incredibilmente importante. Esiste un accordo congiunto tra il governo italiano, quello giapponese e il Regno Unito per la realizzazione del GCAP, un sistema di combattimento di sesta generazione. Con esso, si passa da velivoli e piattaforme tradizionali a un sistema aereo da combattimento di prim’ordine ed enormemente avanzato, in cui i dati saranno assolutamente fondamentali. È un importante passo avanti. Sono un ex ministro degli Approvvigionamenti della Difesa nel Regno Unito: abbiamo un rapporto molto solido con le Forze armate e l’industria italiana, e la combinazione di Leonardo, BAE Systems e Mitsubishi Heavy Industries è estremamente forte. Questo è un progetto incredibilmente innovativo: richiederà tante risorse e tanto personale qualificato, ma è molto stimolante e i tempi sono stretti da qui al 2035. Nel Regno Unito, questo progetto gode di un consenso trasversale tra i partiti e stiamo valutando quali saranno i risultati, le tempistiche, le modalità di collaborazione con l’industria. Di tutto questo abbiamo parlato nei nostri incontri, ai quali hanno partecipato non solo il mio omologo, il Presidente della Commissione Difesa alla Camera dei Deputati, ma anche il capo dell’Aeronautica Militare e i suoi colleghi. Entrambi sono stati molto rassicuranti: ora sappiamo che l’Italia ha le competenze, le capacità, il budget e la volontà di collaborare come partner alla pari con il Regno Unito e il Giappone. Questo è stato lo scopo principale della nostra visita.

Abbiamo però toccato anche altri ambiti. Viviamo tempi molto pericolosi e preoccupanti. Per me, come per la maggior parte dei miei coetanei, il momento politico più importante della nostra vita è stato il 1989. Ero uno studente quando il muro di Berlino è caduto ed è stato un momento intenso. Considerando tutte le paure degli anni precedenti, all’improvviso è arrivata questa svolta e abbiamo potuto respirare di nuovo. Questo evento ha avuto conseguenze su molti ambiti della difesa e degli affari esteri, influenzando il modo in cui le nostre forze armate sono state progettate e dotate di risorse negli anni successivi. La spesa per la difesa è diminuita in tutti i paesi della Nato. Certamente, noi siamo abituati ad avere forze di difesa estremamente attive, e sia le forze armate italiane sia quelle britanniche lo sono a livello globale. L’Italia fa molto per sostenere gli sforzi internazionali in materia di peacekeeping e in altri progetti internazionali in corso, compreso nel settore marittimo. Tuttavia, la mia commissione è molto preoccupata: abbiamo pubblicato un rapporto sulla nostra preparazione nell’eventualità che si verifichi lo scenario peggiore, quello che coinvolge la Nato – e la possibile attivazione dell’Articolo 5 – in una guerra prolungata ad alta intensità. E siamo tutti d’accordo che il modo in cui si evita la guerra e in cui si preserva la pace è prepararsi alla guerra: un motto latino, in origine, valido 2.000 anni fa e anche oggi. Stiamo quindi riflettendo su ciò che il Regno Unito deve fare e stiamo formulando delle raccomandazioni. Sono consapevole che questo è un dibattito che si sta svolgendo anche in altri Paesi europei, in quanto tutti noi dobbiamo pensare a come garantire il giusto livello di resilienza collettiva, che significa avere il personale qualificato, i livelli di scorte di munizioni e le capacità avanzate per scoraggiare qualsiasi rischio di worst-case scenario. In questo contesto, è molto positivo che il Regno Unito, l’Italia e l’intera Europa abbiano una posizione solida sull’Ucraina, perché si tratta – ed è una tragedia assoluta – di una guerra feroce in corso nel nostro continente con conseguenze spaventose. È molto positivo che l’Europa abbia agito collettivamente a sostegno di un Paese sovrano e indipendente, oggetto di questo brutale attacco. Questo è un aspetto che certamente ci ha spinto a comunicare la nostra gratitudine, perché questa unione invia un chiaro segnale.

Tuttavia, siamo consapevoli che ci sono altre sfide nel mondo. So bene che l’Italia ha componenti della sua Marina Militare (un cacciatorpediniere, una fregata) che operano per cercare di proteggere la navigazione civile nel Mar Rosso. Come l’Italia, anche noi siamo una nazione marittima e per noi è assolutamente fondamentale non solo proteggere le vite dei naviganti civili, ma anche garantire che il flusso commerciale attraverso il Mar Rosso e da quel punto critico di snodo dall’Europa all’Asia continui a scorrere, senza interruzioni. Comprendiamo perfettamente la posizione italiana, che desidera contribuire, insieme agli alleati europei e alla più ampia alleanza occidentale, a proteggere il trasporto marittimo. È una chiara priorità per tutti noi.

Il Regno Unito e l’Ucraina

Il Regno Unito può anche non essere un membro dell’Ue, ma siamo ancora parte integrante dell’Europa. Questo non è cambiato in alcun modo. Noi, così come l’Italia, siamo assolutamente membri fondamentali della Nato. Quando si tratta della nostra difesa comune, c’è molto che ci lega. La Nato è ovviamente cresciuta in dimensioni dal febbraio 2022 e questo è molto positivo. Apprezzo molto che l’Ue abbia fornito sostegno all’Ucraina. L’Italia lo ha fatto in termini di spedizioni di equipaggiamento militare, così come il Regno Unito. Penso che ci sia un riconoscimento netto del fatto che, nell’Ue o fuori dall’Ue, questo è il nostro continente e quello russo è stato un terribile, barbaro attacco a uno Stato sovrano. È quindi assolutamente riconosciuto che dobbiamo reagire in modo appropriato, sostenendo il governo ucraino.

Il Regno Unito e l’Italia

Non ho intenzione di andare oltre la mia area di competenza, che è quella della difesa. In questo campo, le nostre industrie lavorano molto bene insieme. Sono stato sul Tornado e sull’Eurofighter: qui abbiamo un forte rapporto di collaborazione e i nostri servizi lavorano a stretto contatto. L’ho visto in particolare con le due forze aeree, dove c’è una relazione molto solida. Inoltre, ci sono una serie di missioni Nato in cui i nostri servizi lavorano a stretto contatto, con un vice comandante italiano e un comandante britannico, o viceversa. E funziona bene. Quindi, nel campo della difesa, c’è chiaramente la possibilità di fare di più, e lo stiamo vedendo nel GCAP, con il quale Regno Unito, Italia e Giappone, come partner alla pari, hanno intrapreso un progetto incredibilmente stimolante, ma è anche una grande impresa: dobbiamo passare dalla quarta generazione di Eurofighter alla sesta generazione. Ce la faremo, sarà un grande successo. Ma tutti e tre i Paesi devono essere davvero concentrati sul raggiungimento degli obiettivi. Il vantaggio del nostro incontro di oggi è che abbiamo la certezza assoluta che il governo, il parlamento e l’aeronautica italiana stiano indirizzando le loro energie proprio in questo senso, ed è un piacere vederlo.