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Come l’Europa dissuade azioni coercitive contro i suoi interessi con uno strumento da non utilizzare. Il caso dell’Anti Coercion Instrument

Stiamo assistendo ad una escalation di tensioni e rischi destabilizzanti la sicurezza e l’economia europea. Sono a rischio non solo il regolare andamento dei commerci, ma anche l’autonomia decisionale dell’UE a fronte di azioni coercitive di Paesi terzi nei riguardi delle politiche europee. Se il capitolo più recente è quello dei dazi unilaterali americani, è dal 2021 che si riscontrano una crescente assertività cinese nel minacciare o applicare restrizioni economiche, misure coercitive (blocco all’import) contro la Lituania dopo l’apertura a Vilnius di un ufficio commerciale di Taiwan, divieto russo di acquisti di prodotti agricoli, minacce USA di rappresaglia sulla digital tax.

Ne consegue l‘esigenza di un’”Europa geopolitica” che abbia la forza e la volontà di tutelare e far valere i propri interessi e valori, che supporti i negoziati con misure ad hoc. Avvertita l’impellenza di colmare un vuoto regolamentare, l’UE si è dotata di uno strumento di dissuasione nei confronti di comportamenti distorsivi, da utilizzare (si prese come esempio il deterrente nucleare nella difesa) come opzione di ultima istanza in aggiunta a contromisure europee in risposta a minacce unilaterali di dazi.

La Commissione Europea propose l’ACI (Anti Coercion Instrument), approvato il 22 novembre 2023 dal Consiglio UE. ACI si inserisce nel recente pacchetto europeo di strumenti di tutela come il monitoraggio degli investimenti esteri diretti, il controllo dei sussidi esteri e degli investimenti outbound.

Oggi L’ACI è chiamata a svolgere un ruolo chiave per proteggersi dalla “weaponization of economic dependencies or economic coercion.” Il focus dell’ACI risiede nella difesa dalla coercizione, definita come pratica e comportamento distorsivo che influenza e ostacola l’autonomia decisionale della UE e dei Paesi Membri nelle aree del commercio e degli investimenti. Le eventuali contromisure previste, proporzionali e temporanee, tutelano le industrie a monte e a valle e dei consumatori e l’economia della conoscenza europea. Di rilievo la possibilità di escludere dagli appalti pubblici in Europa le offerte il cui valore globale è costituito per oltre il 50% da beni e servizi originari dal paese terzo.

La gestazione di un framework legale come l’ACI, le cui implicazioni vanno oltre il Trade, non è stata semplice, incontrando divergenze tra le istituzioni europee durante i negoziati. La controversia riguardava gli equilibri e la ripartizione dei poteri tra le istituzioni. La CE propose di estendere le proprie competenze per determinare i casi di coercizione economica e agire in modo unilaterale con contromisure di emergenza. Tuttavia, è stata fortemente limitata per eccesso di discrezionalità, e il potere decisionale è rimasto in capo ai Paesi Membri con la regola della maggioranza qualificata.

Durante i lavori preparatori dell’ACI, pensato per tutelarsi dalla Cina, venne condivisa l’esigenza di tutelare aree quali i dati, il cloud e la proprietà intellettuale. La Francia sollevò la questione dei potenziali effetti extraterritoriali dei controlli non europei per l’export, tentando di far rientrare tra le misure anti-coercizione anche la difesa. Il timore era che gli USA facessero dell’ITAR un utilizzo sistematico andando oltre la misura stessa, prefigurando un’ingerenza politica a discapito dell’autonomia europea. Ma la CE e gli stakeholders considerarono l’ACI uno strumento di politica commerciale UE, quindi perimetrato al comparto economico civile al pari degli Accordi WTO, rimarcando che l’export control è competenza dei Paesi Membri. Perciò l’area di competenza dell’ACI si limita ad accennare alle politiche generali UE inclusa la politica estera e di sicurezza europea.

Nel “corpus legis” UE di misure di tutela commerciale, l’ACI assumerà un ruolo chiave, ponendo le prime basi legali per l’autonomia strategica europea, rimasta per lo più a livello declaratorio e di principi. Le caratteristiche dell’ACI, flessibilità, certezza di disporre di differenziate azioni difensive, velocità di attuazione, ne fanno uno strumento efficace, la cui mera esistenza anche senza attivazione è già di per sé un valido deterrente e un test di credibilità per attuare la “EU open strategic autonomy” e affermare l’Europa come attore geopolitico internazionale.

L’annuncio (si spera prematuro) del tramonto del diritto internazionale

Il diritto internazionale è in crisi? Le offese al diritto internazionale non sono certo mancate in passato, eppure mai prima d’ora si era avvertita una minaccia così seria.

Occorre tuttavia porsi prima un’altra domanda, solo apparentemente provocatoria: il diritto internazionale è utile? Si trascura spesso, infatti, che il diritto internazionale non si occupa, nella quotidianità, solo di guerra (vera o commerciale). In realtà, ogni giorno il diritto internazionale opera tramite numerose norme e trattati che consentono lo svolgersi di attività essenziali, senza le quali il mondo si fermerebbe (come abbiamo potuto sperimentare durante la pandemia). Per limitarci ad un semplice esempio fra tanti, il fatto di volare da un aeroporto italiano verso una qualunque destinazione estera è reso possibile non solo dalla tecnologia, che da sola non basterebbe, ma anche da un sistema di regole internazionali senza le quali non si potrebbe entrare nello spazio aereo di altri Paesi.

Questa vitale dimensione del diritto internazionale, che continua ad operare quotidianamente dietro le quinte, è non meno reale di quelle però più visibili in quanto più drammatiche, specie quando si ha a che fare con guerre o questioni territoriali (risorse incluse). Dunque se vi è crisi questa non investe (per ora) il diritto internazionale nel suo insieme. Ciò nonostante, è chiaro che in particolare le regole relative all’uso della forza e alle dispute territoriali rappresentano un aspetto nevralgico del sistema per via delle enormi implicazioni umanitarie, di sicurezza ed economiche connesse alla loro osservanza (o meno).

Un altro elemento portante del sistema di regole costruito sulle macerie della seconda guerra mondiale è la tutela internazionale dei diritti umani, il cui avvento è stato favorito anche dalla comprensione del suo legame profondo con il mantenimento della Pace: “non vi sarà pace su questo pianeta finché i diritti dell’uomo saranno violati da qualche parte nel mondo”, ebbe a dire René Cassin, che aveva vissuto di persona le due guerre mondiali (dalla prima uscì invalido), che contribuì poi alla stesura della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e che venne infine insignito del Premio Nobel per la Pace. Lezione (purtroppo) verissima ancora oggi: sono innanzitutto dei regimi autoritari, cioè abituati a comportarsi in modo brutale e arbitrario al proprio interno, ma a volte anche sistemi statali in cui democrazia e Stato di diritto si sono indeboliti, quelli che, disprezzando le regole, diventano capaci di usare la forza anche verso l’esterno.

L’azione sempre più spregiudicata (e spesso brutale) degli Stati più potenti sta effettivamente erodendo la presa delle regole (fondamentali) sull’uso della forza e sul modo (pacifico) in cui vanno gestite e risolte le controversie internazionali. Data la natura di tali regole fondamentali (consuetudinaria, anche se in buona misura codificate nella Carta delle Nazioni Unite), l’atteggiamento e il comportamento di tali Stati possono avere un impatto non solo sul loro contenuto, ma alla lunga sulla loro stessa sopravvivenza.

Diversi fra gli Stati dotati di potenza economico-militare (Russia, Cina, Stati Uniti, con l’aggiunta di Israele a trazione Netanyahu e di qualcun altro) mostrano infatti di credere che la forza di cui dispongono consenta loro di affrancarsi da qualunque preoccupazione relativa a ciò che sia permesso o meno dal diritto. Per questi Stati, in sostanza, tutto è permesso quando serve ai loro interessi.

Questa tendenza – non nuova naturalmente, ma che sta ora mostrando una virulenza inedita – finirà col portare alla desuetudine delle norme fondamentali in questione e col trascinare anche il resto della comunità internazionale verso un (nefasto per tutti nel medio-lungo termine) ripiegamento nel particolare, a discapito di valori e interessi collettivi? Può darsi, ma deve essere chiaro cosa ne conseguirebbe: il passaggio dalla Legge alla … “legge” del più forte, in virtù della quale i forti (che spesso sono anche prepotenti) impongono le loro priorità senza alcun riguardo per gli altri. Ebbene non solo questo non converrebbe ai “vasi di coccio” (comprese – singolarmente – le piccole/medie potenze europee), sempre che questi non accettino una posizione di soggezione, vassallaggio o irrilevanza.

Il punto è anche un altro: la Storia (in particolare del Novecento) insegna che il fallimento dei tentativi di organizzare le relazioni internazionali e di dar loro un minimo di ordine attraverso delle regole ha invariabilmente portato alla guerra, e su vasta scala, il che non è nell’interesse di nessuno, neppure delle “grandi” potenze. Molti sembrano dimenticare che sia la Società delle Nazioni che l’ONU nacquero dalle ceneri delle due spaventose guerre mondiali.

In realtà, ora più che mai abbiamo bisogno di quelle conquiste del diritto internazionale che abbiamo ottenuto a carissimo prezzo alla fine della seconda guerra mondiale. Non è un caso che negli ultimi anni il ricorso ai tribunali internazionali, anche da parte di tutta una serie di Stati diversi dai suddetti (pre)potenti, si sia intensificato a livelli senza precedenti: il diritto internazionale, attraverso le sue corti, è visto sia come l’unica opzione rimasta di fronte ai ripetuti fallimenti della politica, sia come l’ultimo baluardo oltre il quale c’è il caos.

In una indagine d’opinione sul multilateralismo, condotta lo scorso anno in nove importanti Paesi del cosiddetto Sud Globale, su commissione della Conferenza di Monaco sulla sicurezza e pubblicata su Foreign Policy, la maggioranza assoluta degli intervistati (con punte fra il 63 e l’88%) si è pronunciata nel senso che il diritto internazionale serve gli interessi di tutta la comunità internazionale e non solo dei Paesi occidentali, smentendo quindi quella narrazione – in particolare russa e cinese – secondo la quale il diritto internazionale sarebbe un’illusione occidentale.

La principale sfida per l’Europa è quindi trovare coesione, sebbene non tutti sembrino realmente interessati a questo obiettivo. Questo significa riuscire a interagire in modo efficace con il Sud Globale, oltre che con altri Paesi occidentali extraeuropei sulla stessa lunghezza d’onda (come il Canada), allo scopo di costruire un fronte comune a sostegno del diritto internazionale.

Questo presuppone due cambiamenti “di paradigma” fondamentali. Primo, la comprensione che in particolare l’Unione europea (insieme naturalmente a quegli Stati europei che non ne fanno parte ma non meno impegnati in tal senso) può svolgere un ruolo globale, a favore della sopravvivenza di un quadro di riferimento normativo fondamentale (così come della giustizia internazionale, compresa quella penale), solo agendo (coesa) di concerto anche con tutti gli Stati non occidentali che condividono tale visione (e ve ne sono in ogni continente).

Secondo, la consapevolezza che l’autorevolezza e la credibilità dell’Europa dipendono anche dalla sua coerenza fra princìpi e azioni concrete: coerenza al proprio interno (verso l’Ungheria di Orbán, ad esempio) e all’esterno, ovvero rispetto a tutta una serie di situazioni che chiamano in causa l’Europa, in un modo o nell’altro (dall’occupazione militare e uso spropositato della forza da parte delle autorità israeliane – e di molti coloni armati – al ruolo nocivo del Ruanda nell’Est del Congo, e altre ancora).

E bisogna darsi da fare per puntellare l’ultimo baluardo, perché il rischio che cedano le fondamenta del diritto internazionale, così come si è sviluppato dal 1945 ad oggi, è reale e se ciò dovesse sciaguratamente accadere, un’eventuale “crisi d’identità” degli studiosi del diritto internazionale (così Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera) sarebbe davvero l’ultima delle preoccupazioni.

 

Antonio Bultrini è professore associato di diritto internazionale nell’Università di Firenze

Spazio, innovazione e difesa: voci dalla seconda edizione della AeroSpace Power Conference

L’8 e 9 maggio 2025, Roma ha ospitato la seconda edizione dell’AeroSpace Power Conference, organizzata dall’Aeronautica Militare italiana in collaborazione scientifica con l’Istituto Affari Internazionali. Un appuntamento esclusivo che ha riunito oltre 1.500 partecipanti tra vertici militari, rappresentanti delle istituzioni, accademici, esperti e professionisti del settore aerospaziale.

In questo episodio, raccogliamo una serie di interviste realizzate durante la conferenza con alcuni dei suoi protagonisti. Attraverso le loro voci, esploreremo temi cruciali come l’innovazione tecnologica, la sostenibilità nel settore della difesa, la centralità dello spazio e le prospettive dell’Italia nel quadro della cooperazione internazionale.

In ordine di intervento, ascolteremo:

  • Generale Luca Goretti, Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare;
  • Valter Villadei, astronauta e pilota colonnello dell’Aeronautica Militare;
  • Massimo Comparini, Managing Director della Space Division di Leonardo;
  • Teodoro Valente, Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana;
  • Lorenzo Mariani, Executive Group Director Sales & Business Development di MBDA e Managing Director di MBDA Italia.

Transizione giusta e diplomazia climatica: necessarie per il successo nazionale ed internazionale

Le politiche climatiche contengono una forte componente sociale. Il Green Deal europeo ha rappresentato la visione climatica ed economica europea degli ultimi anni. Tuttavia, i governi devono implementarlo in maniera attenta ed equilibrata per poter raggiungere i target preservando il supporto politico e pubblico. Se da un lato, infatti, la transizione energetica potrebbe contribuire a un risultato netto positivo in termini di creazione di posti di lavoro a livello macro (insieme a co-benefici a livello locale), la decarbonizzazione causerà anche effetti negativi e regressivi a livello micro, data l’alta concentrazione di industrie e occupazioni ad alta intensità di emissioni. Poiché il bilancio della transizione non è in bianco e nero, richiederà un’attenta calibrazione delle politiche pubbliche.

La paura degli effetti regressivi, in primis la perdita di lavoro, è uno dei fattori frenanti delle politiche climatiche. Per questo, i governi potrebbero essere tentati di rallentare la decarbonizzazione con l’obiettivo di prevenire gli esiti regressivi della transizione verde. Tuttavia, è importante sottolineare che la politica climatica non sia l’unica causa delle disuguaglianze, ma certamente aggiunge un livello di complessità a un modello già fragile, caratterizzato da disuguaglianze elevate e crescenti causate da trasformazioni significative guidate dalla digitalizzazione, dalla globalizzazione e dalla concorrenza internazionale.

In questo contesto, i governi hanno interesse a progettare una strategia di transizione giusta più completa che affronti le fragilità esistenti dell’attuale sistema come componente integrante della progettazione della decarbonizzazione industriale. Inoltre, una strategia di transizione giusta non può essere limitata al livello nazionale dei paesi sviluppati, ma anche nei paesi in via di sviluppo che sono fortemente esposti ai costi della transizione e della crisi climatica. Integrare la transizione giusta nella politica estera garantirebbe nuove opportunità di cooperazione con paesi chiave in un periodo di crescente competizione geoeconomica e industriale. Queste considerazioni sono particolarmente rilevanti sia per l’Unione Europea che per l’Italia.

L’Europa alla prova: verso una nuova strategia sociale industriale

L’UE dovrebbe definire una nuova strategia sociale industriale in parallelo al suo Clean Industrial Deal, in modo da favorire la dimensione della transizione giusta. Negli anni, l’UE ha creato strumenti e meccanismi importanti, ma non sufficienti alle sfide che la aspettano.

Una necessaria riforma riguarda i limiti chiave dell’attuale quadro regolatorio, che manca di un approccio olistico.  Ad esempio, il Just Transition Mechanism è troppo ristretto e caratterizzato da approccio territoriale. È quindi essenziale includere un approccio più ampio che copra i settori industriali chiave che saranno profondamente influenzati dalla transizione, come le industrie ad alta intensità energetica e il settore automobilistico.

La seconda area di modifica è quella legata agli investimenti. Data la scala e la portata della sfida della decarbonizzazione, nuove risorse sono essenziali. Per questo, la dimensione sociale dovrebbe essere un pilastro chiave del prossimo Quadro Finanziario Pluriennale (QFP), nel tentativo di affrontare anche le disparità di spazio fiscale tra gli Stati membri. L’UE dovrebbe allocare risorse finanziarie ai programmi di formazione e sviluppo delle competenze per facilitare la mobilità del lavoro insieme ad altre politiche complementari (curricula educativi).

Il caso italiano: colmare i ritardi e potenziare le competenze

Nel caso italiano, il governo dovrebbe ridurre disallineamenti e obiettivi contrastanti tra documenti politici e programmatici in modo da promuovere un approccio olistico verso la transizione giusta. Inoltre, il paese ha bisogno di migliorare il proprio quadro regolamentare e di governance per sfruttare appieno le risorse finanziarie esistenti per i progetti, che hanno subito ritardi nel caso del Fondo per la Transizione Giusta.

L’Italia dovrebbe potenziare i programmi di sviluppo delle competenze e i fondi per sostenere i lavoratori e rivedere i propri curricula educativi per aumentare le materie STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), che sono ancora poco sviluppate. A questo scopo sono necessarie una serie di politiche per affrontare le incertezze del mercato del lavoro, specialmente nelle regioni meridionali dove i lavoratori sono più esposti alla transizione energetica

Diplomazia climatica: trasformare la transizione in opportunità globale

Come detto, la transizione giusta può essere anche un pilastro per la diplomazia climatica ed energetica europea – soprattutto alla luce delle sfide energetiche-economiche europee e l’evoluzione geopolitica.

Ad oggi, l’attuale strategia diplomatica europea ha registrato alcune carenze che hanno minato lo sforzo delle molteplici iniziative e partenariati causando risultati contrastanti e frustrazioni nei paesi terzi. La prima carenza è la mancanza di una governance chiara e un coordinamento tra Stati-Ue e tra le diverse direzioni generali della Commissione europea

L’occasione per migliorare la governance e il coordinamento è data dalle Clean Trade and Investment Partnership (CTIPs) e Trans-Mediterranean Energy and Clean Tech Cooperation Initiative, previsti nel Clean Industrial Deal come strumenti per raggiungere la decarbonizzazione e la competitività preservando la cooperazione.

Nonostante la transizione giusta non sembri essere esplicitamente integrata in queste misure, queste nuove iniziative rappresentano un test cruciale per la diplomazia climatica dell’UE per favorire una transizione giusta in regioni strategiche. Infatti queste iniziative possono essere strumenti positivi per costruire partnership vantaggiose con paesi terzi, a partire da quelli MENA (Medio Oriente e Nord Africa) e africani, se l’UE integrerà il trasferimento di tecnologia, lo sviluppo di capacità e programmi di formazione per le comunità locali oltre agli accordi energetici e minerari.

Un test importante sarà la cooperazione in merito all’idrogeno coi paesi MENA e africani. Quest’area, strategica per l’UE, ha un grande potenziale di risorse rinnovabili che potrebbe essere utilizzato per lo sviluppo industriale sostenibile. L’UE dovrebbe garantire investimenti lungo la catena del valore, ma anche collaborare con i suoi partner per stimolare la domanda, definendo standard comuni volti a creare un mercato e limitare gli impatti negativi. Allo stesso tempo, queste regioni trarrebbero grande beneficio da queste iniziative in quanto creerebbero prodotti di esportazione ad alto valore aggiunto, favorendo la creazione di posti di lavoro e maggiori ritorni economici per le loro popolazioni giovani e in crescita.

Tale condizione offre un’opportunità per l’Italia di rafforzare il proprio ruolo nella definizione dei futuri partenariati UE-Africa ampliando il suo Piano Mattei. La definizione dei prossimi CTIPs e dell’iniziativa Trans-Med è un’opportunità per l’Italia di essere un attore proattivo e influente nei progetti coordinati nei paesi parte del Piano Mattei. Collaborando e facendo economie di scale, l’Italia potrebbe anche superare i propri limiti finanziari. Per far ciò, Roma dovrebbe puntare a creare piattaforme e punti di contatto nell’ambito del Piano Mattei per riunire le istituzioni e gli Stati membri dell’UE e i paesi africani. La vicinanza geografica e le già presenti infrastrutture e le relazioni energetiche economiche con molti di questi paesi danno la possibilità all’Italia di promuovere partenariati anche su questioni chiave, come l’idrogeno e le emissioni di metano attraverso programmi di formazione, standard condivisi e best practices dal suo settore pubblico e privato.

L’industria italiana alla sfida verde: il dilemma tra competitività e decarbonizzazione

Il Green Deal europeo è ormai entrato in una nuova fase cruciale, in cui competitività e sicurezza economica assumono maggior rilevanza. Con la presentazione del Clean Industrial Deal, la Commissione Europea ha delineato le sue nuove priorità dettate dall’interazione tra politica industriale, competitività e decarbonizzazione alla luce della competizione geopolitica e le crisi energetiche e climatiche.

Oltre a favorire le nuove tecnologie, i governi devono considerare misure per trasformare e proteggere le proprie industrie esistenti in conformità con gli obiettivi di zero emissioni nette, preservando al contempo la competitività e garantendo la sicurezza economica attraverso la capacità manifatturiera. Per far tutto ciò, i dibattiti (e le divisioni) riguardo alla disciplina fiscale e alla creazione di fondi comuni europei riemergono.

Il dilemma è particolarmente evidente per le industrie ad alta intensità energetica. La loro trasformazione sarà essenziale per il raggiungimento della decarbonizzazione, rappresentando circa il 22% delle emissioni di gas serra dell’UE, ma i governi stanno lottando per garantire anche la loro competitività rispetto ai concorrenti internazionali a causa dei prezzi più elevati dell’energia e alla presenza dell’Emission Trading System europeo.

Anche nel contesto italiano, le industrie difficili da decarbonizzare, le cosiddette hard to abate, giocano un ruolo decisivo dal punto di vista sociale, economico ed energetico-ambientale. Per questo, per poter trasformare tali industrie, l’Italia deve perseguire una combinazione di soluzione: favorendo l’elettrificazione laddove possibile, riducendo le emissioni di metano relative al consumo di gas, il crescente utilizzo sostenibile di idrogeno e lo sviluppo della cattura e stoccaggio del carbonio (CCS).

Elettrificazione: il vantaggio competitivo dell’Italia in Europa

L’elettrificazione copre già una quota rilevante del consumo energetico industriale in Italia. Nel 2022, l’elettricità è stata la principale fonte per il settore industriale, rappresentando il 44% del consumo, seguita dal gas naturale (33%). Grazie ai più alti livelli di elettrificazione tra i maggiori paesi europei, l’industria italiana ha uno dei posizionamenti migliori tra i paesi UE27 rispetto all’intensità energetica e carbonica finale per unità di valore aggiunto. Tuttavia, l’Italia deve accelerare l’installazione di impianti rinnovabili, rimuovendo i ritardi autorizzativi e fornendo un quadro normativo chiaro e coerente.

Gas naturale: dipendenza e opportunità nella transizione

Poiché la maggior parte delle emissioni del settore industriale proviene dalla combustione, è necessaria una valutazione del ruolo dell’approvvigionamento energetico e in particolare del gas naturale. Il gas gioca un ruolo centrale all’interno del sistema energetico italiano, rappresentando il 40% del consumo energetico e il 50% del consumo elettrico. Tale ruolo è previsto che rimarrà rilevante in base all’ultima versione del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC). Tuttavia, l’Italia deve scontare una forte dipendenza dalle importazioni. Dunque è necessaria una strategia internazionale che tenga conto delle emissioni di metano – una delle azioni più rapide, efficaci e meno costose per l’Italia per accelerare la transizione rafforzando, allo stesso tempo, anche la propria competitività industriale. La riconfigurazione dei flussi e la crescente rilevanza dei paesi MENA (Medio Oriente e Nord Africa) offre un’opportunità per affrontare questa pressante questione ambientale in un’area strategica come il Mediterraneo.

La scommessa dell’idrogeno: sviluppo sostenibile nel Mediterraneo

Per decarbonizzare le molecole nel lungo periodo, l’Italia deve dare priorità all’uso dell’idrogeno pulito dove l’elettrificazione più efficiente non è fattibile. A novembre 2024, l’Italia ha adottato la sua prima strategia nazionale per l’idrogeno, che prevede diverse traiettorie data l’incertezza sul suo sviluppo e le potenziali migliori prestazioni di altre tecnologie.

Nello sviluppare le necessarie rotte ed infrastrutture per l’approvvigionamento dell’idrogeno, è necessario che l’Italia tenga conto ed affronti i potenziali impatti climatici dell’idrogeno. Infatti, è cruciale limitare non solo le emissioni di anidride carbonica e metano, ma anche le emissioni di idrogeno, poiché l’idrogeno stesso è un gas serra indiretto con potenti impatti di riscaldamento. Infine è doveroso ridurre quanto possibile i rischi ambientali e socioeconomici associati ai sistemi a idrogeno (anche nei paesi terzi). Questo è ancora più rilevante se si tiene conto della possibilità di trasferimenti di capacità manifatturiera fuori dall’Europa a causa delle già citate sfide energetiche. Tuttavia, tale sfida può presentare un’opportunità per l’Italia nel guidare la cooperazione Euro-mediterranea garantendo progetti volti allo sviluppo industriale e l’integrazione delle catene del valore.

CCS: colmare il divario con il Nord Europa partendo da Ravenna

Lo sviluppo della cattura e stoccaggio del carbonio ha riacquistato una rinnovata rilevanza politica perché i governi mirano ad accelerare la transizione energetica preservando al contempo le capacità industriali esistenti. La tecnologia CCS (Carbon Capture and Storage) permette di catturare l’anidride carbonica prodotta da impianti industriali e centrali elettriche prima che venga rilasciata nell’atmosfera, per poi trasportarla e immagazzinarla permanentemente nel sottosuolo.

A livello europeo si può notare un certo divario tra il Mare del Nord e il Mediterraneo in termini di sviluppi CCS; divario che l’Italia ha la possibilità di ridurre. Il PNIEC infatti riconosce un ruolo strategico al progetto di Ravenna, che dovrebbe catturare le emissioni dei settori hard-to-abate.

Strategie per il futuro: sussidi mirati e fondi europei

L’Italia avrà bisogno di una combinazione di misure che favorisca la trasformazione delle industrie energivore esistenti all’interno dei confini europei e nazionali alla luce delle possibili soluzioni tecnologiche ed economiche. Allo stesso tempo, l’Italia deve definire una politica industriale ed estera capace di gestire in maniera ordinata il possibile outsourcing della produzione verso regioni con costi energetici più bassi.

L’allocazione di sussidi volti alla protezione dei produttori nazionale dovrà essere attentamente valutata in base a criteri chiari, come la rilevanza economica (effetti cluster) e la resilienza economica (evitando nuove dipendenze su settori/prodotti critici) – anche alla luce delle ristrettezze fiscali.

Nel trovare un nuovo equilibrio, l’Italia deve lavorare con l’UE nella definizione di priorità, standard e nella creazione di nuovi strumenti, anche relativi agli investimenti, in modo da evitare la frammentazione del mercato europeo. L’Italia deve lavorare alla costruzione di criteri e standard per proteggere i produttori nazionali e esternalizzare parte della produzione. Gli sviluppi positivi e gli sforzi in termini di riduzione dell’intensità di CO2 dovrebbero essere riconosciuti e valorizzati nella progettazione delle caratteristiche per i mercati verdi. Dati i diversi spazi fiscali e gli investimenti necessari per raggiungere la decarbonizzazione, saranno necessari fondi comuni e stabili a livello UE – specialmente per l’Italia. Per poter ottenere ciò, la politica industriale ed energetica dovrà essere definita in maniera chiara, oltre che dimostrare la propria capacità di spendere adeguatamente i fondi esistenti.

Libia: urgente un rinnovato impegno europeo

I recenti scontri a Tripoli a seguito dell’uccisione, il 12 maggio scorso, di Abdul Ghani al-Kikli (detto “Ghaniwa”) capo della milizia Stability Support Apparatus (SSA), hanno riaperto scontri tra fazioni rivali nella capitale libica. Accusato di vari crimini, tra cui assassinii, torture e altre violazioni di diritti umani, al-Kikli controllava l’importante quartiere tripolino di Abu Selim, e la sua uccisione è scaturita dalle rivalità interne tra milizie affiliate al primo ministro del Governo di Unità Nazionale (GNU), Abdul Hamid Dbeibah. Al momento, la situazione pare di nuovo sotto (precario) controllo del governo di Tripoli. Ma notizie di spostamenti di altri gruppi armati all’esterno della capitale, da Zawiya e dall’Est controllato dal generale Khalifa Haftar, hanno fatto temere un conflitto più ampio.

È chiaro, dunque, che la situazione in Libia richiede una rinnovata attenzione da parte della comunità internazionale. Non solo per stabilizzare, ma per sostenere strategicamente il processo guidato dalle Nazioni Unite in un Paese a rischio di collasso. Come ha recentemente sottolineato presso il Consiglio di sicurezza la Rappresentante Speciale del’ONU in Libia, Hanna Tetteh, il sostegno internazionale è essenziale per una svolta politica. Con le istituzioni libiche frammentate, i gruppi armati radicati nell’economia e la Russia che sta rafforzando la sua posizione, un’azione unitaria dell’Europa è vitale, non solo per il futuro della Libia, ma per quello dell’intera regione.

Pur nel linguaggio diplomatico dell’ONU, il recente rapporto del Segretario generale critica fortemente le autorità libiche—sia il GNU riconosciuto dall’ONU che il suo rivale a Est—per il perpetuarsi delle divisioni istituzionali e politiche, che ostacolano la governance e favoriscono l’instabilità. La situazione economica è tra le preoccupazioni principali, a seguito dell’acquisizione forzata della Banca centrale libica (CBL) nel 2024. Nonostante l’aumento della produzione di petrolio, l’economia libica sta ancora risentendo della crisi irrisolta della CBL e dell’ondata di sanzioni internazionali che ne è seguita.

Esiste ovviamente un legame diretto tra il quasi collasso economico e il ruolo dei gruppi armati, radicati nell’economia energetica libica. Questi gruppi dominano zone economiche chiave, incluse strutture petrolifere e valichi di frontiera, traendo profitto dal contrabbando di carburante e dal racket di protezione, e assorbendo risorse statali. L’ONU documenta come le fazioni armate operino nell’economia informale, in particolare a Tripoli, Misurata e nelle città occidentali, sfruttando sussidi energetici e ricavi doganali. Allo stesso modo, le Forze Armate Arabe Libiche (LAAF) e altri gruppi fedeli a Haftar traggono vantaggi da attività illecite e traffici attraverso il controllo dei principali terminal petroliferi, di confini e corridoi del contrabbando nell’est e nel sud del Paese.

Il rapporto ONU fornisce anche informazioni su migrazione illegale e tratta di esseri umani, perpetrata da gruppi armati libici, sia a ovest che a est, con la complicità diretta o indiretta delle autorità statali. Per quanto i leader libici implicati nel crimine guadagnino molto più dal contrabbando di carburante, droga e armi che non dal traffico di migranti, hanno un interesse politico a soddisfare le richieste di governi europei (Italia inclusa) in materia migratoria in cambio di riconoscimento: una strategia che consente loro di restare al potere.

Oltre alle sfide rappresentate da un Paese instabile e mal governato come la Libia per la sicurezza dell’Europa e del Mediterraneo, sviluppi internazionali recenti rendono ancora più urgente un impegno UE. La Russia, presente in Libia da anni sia diplomaticamente che attraverso i mercenari del Gruppo Wagner (ribattezzato Africa Corps), ha recentemente compiuto una svolta strategica, trasferendo truppe e attrezzature dalla Siria alla Libia. I mercenari russi sono coinvolti in attività illecite, come il contrabbando di droga e l’estrazione di minerali. Attraverso una presenza politica, militare ed economica sempre più radicata, allineata con Haftar, Mosca mira a perseguire obiettivi strategici più ampi in Africa: accesso militare, influenza energetica e leva geopolitica contro l’Occidente.

Pertanto, l’UE dovrebbe adottare misure più decise per sostenere la missione UNSMIL nel promuovere elezioni, stabilizzare l’economia, proteggere i diritti umani e affrontare le crisi umanitarie e migratorie. Un impegno europeo coordinato è non solo cruciale per sostenere la stabilità e porre fine all’illegalità, ma anche per contrastare la strategia russa verso il sud del continente africano. Inoltre, l’ambiguità strategica dell’attuale amministrazione statunitense nei confronti della Russia e il suo approccio incoerente in Libia confermano che, non solo sul continente europeo, l’Europa deve fare affidamento sui propri mezzi per affrontare l’aggressivo espansionismo di Mosca.

Le contromisure europee presuppongono che i singoli membri dell’UE abbandonino i loro interessi concorrenti in Libia, che hanno a lungo indebolito l’azione internazionale. Oltre a sostenere con decisione gli sforzi dell’UNSMIL, l’UE dovrebbe fornire una leadership diplomatica aggiuntiva, investimenti finanziari e supporto tecnico mirato, al fine di offrire alternative credibili e sostenibili al popolo libico. A livello economico, l’UE potrebbe ampliare l’assistenza tecnica alla CBL e ad altre istituzioni finanziarie per sostenere l’unificazione del bilancio e riforme anticorruzione.

Inoltre, l’UE dovrebbe migliorare il coordinamento tra gli attori della sicurezza libici, incoraggiando il disarmo delle milizie e promuovendo strategie di riforma per l’unificazione istituzionale. Sulla migrazione, pur tra le difficoltà del clima politico europeo attuale, soluzioni dovrebbero includere l’espansione di percorsi sicuri e legali per i richiedenti asilo, come corridoi umanitari e programmi di integrazione. Smantellare seriamente le reti di traffico di esseri umani e sviluppare meccanismi di protezione comunitaria impone di evitare accordi con politici che traggono profitto dal traffico di esseri umani, nonché garantire l’accesso illimitato dell’ONU e delle ONG a tutti i centri di detenzione.

Per indebolire il ruolo della Russia in Libia occorre, ad esempio, espandere l’Operazione IRINI, la missione navale UE che fa rispettare l’embargo ONU sulle armi in Libia. Questo aiuterebbe a contrastare i traffici illegali di armi (molti dei quali legati agli interessi russi), ma anche a rafforzare lo scambio di intelligence e la sorveglianza sulle attività dei mercenari russi. Andrebbero inoltre avviate iniziative per contrastare la disinformazione russa e sostenere la società civile e le organizzazioni mediatiche libiche nel resistere alle narrazioni promosse dai media russi. Tali azioni potrebbero ricevere supporto dalla NATO, o da singoli membri dell’Alleanza. In generale, una revisione delle strategie regionali UE, da tempo in discussione, dovrebbe puntare a ristrutturare e rafforzare i partenariati con i vicini nordafricani della Libia, come Algeria ed Egitto, ed a cooperare con altri attori coinvolti e potenti, come la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti.

 

* Andrea Cellino è vicepresidente del Middle East Institute Switzerland ed Executive-in-Residence del Geneva Centre for Security Policy.

Vertice a Istanbul tra Zelensky, Putin e Trump? Scenario incerto e prospettive limitate

Nathalie Tocci, Direttrice dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuta a Spazio Transnazionale, la trasmissione condotta da Francesco De Leo su Radio Radicale.

Durante l’intervento ha fatto il punto sul conflitto in Ucraina, sottolineando i tentativi dell’amministrazione Trump di avviare negoziati. Tocci ha espresso dubbi sulla possibilità di un prossimo incontro a Istanbul tra Zelensky, Putin e Trump, ritenendo improbabile che il presidente russo sia realmente interessato a un cessate il fuoco. Nel corso dell’intervista, ha inoltre condiviso alcune riflessioni sul suo recente viaggio in Ucraina.

Il viaggio di Trump nel Golfo: verso una nuova alleanza tra USA e Arabia Saudita

Maria Luisa Fantappiè, responsabile del Programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuta a Spazio Transnazionale, la trasmissione condotta da Francesco De Leo su Radio Radicale.

Fantappiè ha commentato la visita di Donald Trump nei Paesi del Golfo, sottolineando come essa rappresenti una scommessa per costruire una relazione tra Arabia Saudita e Stati Uniti analoga a quella che Washington intrattiene con Israele. Un cambiamento strategico da parte dell’Arabia Saudita, che punta a diventare — insieme a Israele — uno degli alleati fondamentali degli Stati Uniti nella regione.

Robert Francis Prevost è diventato Papa Leone XIV

Robert Francis Prevost è diventato Papa Leone XIV dopo che i cardinali di tutto il mondo lo hanno scelto come primo leader americano degli 1,4 miliardi di cattolici del mondo. Una folla di decine di migliaia di persone è esplosa in preghiera e commozione quando Leone, successore del defunto Francesco, si è affacciato al balcone della Basilica di San Pietro per pronunciare il primo discorso del suo ministero.

“A tutte le persone, ovunque si trovino, a tutti i popoli, a tutta la Terra, la pace sia con voi”, ha detto un sorridente Leone alla folla. “Aiutateci a costruire ponti attraverso il dialogo, attraverso l’incontro, per unirci come un unico popolo, sempre in pace”.

Il discorso di Leone è stato accolto con applausi, soprattutto quando il prelato – che ha trascorso molti anni in Perù – ha parlato in spagnolo, e anche quando ha reso un caloroso omaggio al suo popolare predecessore Papa Francesco, morto il mese scorso. “Abbiamo ancora nelle orecchie la voce debole, ma sempre coraggiosa, di Papa Francesco che benedice Roma”, ha detto, riferendosi al discorso della domenica di Pasqua dell’argentino malato, un giorno prima della sua morte. “Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce ponti, che dialoga, che è sempre aperta”.

Un grande onore

Il nome dell’americano era circolato tra i “papabili” – cardinali ritenuti qualificati per il papato – come qualcuno che potesse difendere e portare avanti l’eredità di Francesco. Ma non era una figura riconosciuta a livello mondiale tra i cattolici. I leader mondiali si sono affrettati ad accogliere la sua nomina e a promettere di lavorare con la Chiesa su questioni globali.

Come cardinale Prevost, il nuovo papa aveva difeso i poveri e i diseredati, spesso ripostando articoli critici nei confronti delle politiche anti-migranti del presidente statunitense Donald Trump, ma il capo della Casa Bianca ha comunque accolto con favore l’elezione. “Congratulazioni al cardinale Robert Francis Prevost, che è stato appena nominato Papa”, ha detto Trump in un post sulla sua piattaforma di social media. “È un tale onore rendersi conto che è il primo Papa americano. Che emozione e che grande onore per il nostro Paese”.

In precedenza, la folla si era emozionata quando dal camino della Cappella Sistina era uscito del fumo bianco che segnalava l’elezione nel secondo giorno di votazioni dei cardinali.

Le campane della Basilica di San Pietro e delle chiese di tutta Roma hanno suonato a festa e la folla si è precipitata in piazza per guardare il balcone della basilica, che è stato allestito con tende rosse per il primo discorso al mondo del 267° Papa, che è stato introdotto in latino con il nome papale scelto.

“È una sensazione incredibile”, ha detto un euforico Joseph Brian, un cuoco di 39 anni di Belfast, nell’Irlanda del Nord, venuto a Roma con sua madre per assistere allo spettacolo. “Non sono una persona troppo religiosa, ma essere qui con tutte queste persone mi ha lasciato senza fiato”, ha detto all’AFP mentre la gente intorno a lui saltava per l’eccitazione. Ci sono state scene euforiche quando un sacerdote si è seduto sulle spalle di qualcuno sventolando una bandiera brasiliana e un altro ha sollevato in aria un pesante crocifisso in segno di giubilo.

“Habemus Papam”

“Habemus papam, woooo!” ha esclamato Bruna Hodara, 41 anni, brasiliana, facendo eco alle parole che sarebbero state pronunciate sul balcone al momento della presentazione del nuovo Papa. Lei, come altri, ha registrato il momento storico sul suo telefono, mentre altri sventolavano bandiere e gridavano “Viva il Papa!” in italiano.

“È un’opportunità unica nella vita essere qui a vedere il Papa. È davvero speciale… Sono emozionato!” ha detto Florian Fried, un quindicenne di Monaco, in Germania.

Francesco è morto all’età di 88 anni dopo un papato di 12 anni durante il quale ha cercato di forgiare una Chiesa più compassionevole – ma ha provocato la rabbia di molti conservatori con il suo approccio progressista.

Leone XIV si trova ora di fronte a un compito epocale: oltre a far valere la sua voce morale su un palcoscenico globale dilaniato dai conflitti, deve cercare di unire una Chiesa divisa e affrontare questioni scottanti come le continue conseguenze dello scandalo degli abusi sessuali.

Non si sa quante votazioni siano state necessarie per eleggere il nuovo Papa, ma il conclave ha seguito la storia recente concludendosi in meno di due giorni. Anche se i dettagli dell’elezione rimarranno per sempre segreti, il nuovo papa ha dovuto ottenere almeno i due terzi dei voti per essere eletto.

Pastore o diplomatico

L’elezione è avvenuta in un momento di grande incertezza geopolitica, che è stata considerata una questione chiave per il voto, insieme alle spaccature all’interno della Chiesa.

Francesco è stato un riformatore compassionevole che ha dato priorità ai migranti e all’ambiente, ma ha fatto arrabbiare i tradizionalisti che volevano un difensore della dottrina piuttosto che un personaggio da prima pagina.

Circa l’80% dei cardinali elettori è stato nominato da Francesco. Provenendo da 70 Paesi del mondo, è stato il conclave più internazionale di sempre. L’insediamento papale avviene solitamente meno di una settimana dopo l’elezione, con una messa celebrata davanti a leader politici e religiosi di tutto il mondo.

© Agence France-Presse

La campagna di sabotaggi russi in Europa interessa anche l’Italia

Nel corso del 2024 le agenzie di intelligence occidentali hanno lanciato l’allarme sull’aumento delle operazioni clandestine condotte dal regime russo in Europa. In particolare, si sono moltiplicati gli incendi dolosi, le esplosioni e le manomissioni di infrastrutture critiche in tutto il continente.

Nel 2023 l’intelligence militare russa (GU) ha istituito un Dipartimento attività speciali incaricato di organizzare attentati e sabotaggi. Centri commerciali e supermercati sono stati dati alle fiamme in Polonia e nei Paesi baltici da cittadini polacchi, bielorussi e persino rifugiati ucraini, motivati da ricompense economiche e talvolta all’oscuro dei mandanti, che li hanno contattati anonimamente via Telegram. In Germania è stato sventato un attentato ad Armin Papperger, amministratore delegato di Rheinmettal, azienda tedesca che fornisce aiuti militari all’Ucraina. Mentre in Spagna è stato assassinato il pilota russo che aveva disertato a favore di Kyiv e si era stabilito sotto falsa identità nei pressi di Alicante, dove è stato raggiunto da sicari assoldati dall’intelligence di Mosca.

È noto infatti che i servizi di Putin abbiano una collaborazione organica con la mafia russa per operazioni clandestine in Europa. In Francia hanno pagato cittadini moldavi e bulgari affinché disegnassero sessanta stelle di David sulle abitazioni di cittadini ebrei di Parigi all’indomani del 7 ottobre, o lasciassero una bara con la scritta “soldati francesi in Ucraina” davanti alla Torre Eiffel. In Germania hanno versato denaro a quattro balcanici per danneggiare oltre 270 auto alla vigilia delle elezioni e incolpare i Verdi, tra i più convinti sostenitori di Kyiv. Uno degli episodi più preoccupanti riguarda l’arresto di un uomo originario del Donbas, rimasto ferito nell’esplosione di un ordigno che stava assemblando nella sua stanza d’hotel all’aeroporto Charles de Gaulle, poche settimane prima dell’inizio delle Olimpiadi di Parigi.

Proprio i giochi olimpici sono stati funestati da un misterioso attacco che ha colpito tre delle quattro principali direttrici ferroviarie ad alta velocità, generando il caos per migliaia di utenti. Le indagini non hanno ancora identificato i responsabili, ma sarebbe ingenuo ritenere che un’operazione di tale portata sia stata ideata ed eseguita esclusivamente da piccoli gruppi di anarchici o ecologisti radicali. Quel che è certo è che il Cremlino ha dato carta bianca, come dimostra il piano per spedire pacchi esplosivi su voli DHL, che avrebbe potuto provocare disastri aerei e ha richiesto l’intervento dell’amministrazione Biden per minacciare ripercussioni.

Ci sono stati arresti di cittadini tedeschi di origine russa che preparavano attacchi a basi NATO dove passano gli aiuti per l’Ucraina o per avvelenare il sistema idrico di aeroporti militari, mentre in Polonia sono finite in carcere dozzine di persone pagate per installare videocamere sulle linee ferroviarie dirette a Kyiv o per sabotarle. La Scandinavia non è stata risparmiata, con incendi dolosi dalla Norvegia alla Finlandia, ma anche in Svezia, con la costruzione di una chiesa ortodossa russa ritenuta in una posizione sospetta, strategicamente vicina a un aeroporto militare e una centrale elettrica.

Le operazioni e i rischi in Italia

Dal 2016 l’Italia è stata oggetto di numerose operazioni di spionaggio, come dimostrano la condanna a 29 anni dell’ufficiale di Marina Walter Biot, i tentativi di infiltrazione alla base NATO di Napoli con l’agente dell’intelligence militare russa Olga Kolobova smascherata dai giornalisti di Bellingcat, o l’ufficiale francese processato per tradimento che lavorava nella struttura partenopea. La reclutatrice dell’FSB Natalia Burlinova, ricercata dall’FBI, nel 2019 è riuscita a infiltrarsi anche negli ambienti italiani. Allo spionaggio si sommano gli attacchi del gruppo hacker NoName057(16) contro infrastrutture digitali di Farnesina, banche e aeroporti, per rappresaglia alle parole del Capo dello Stato Mattarella, definito “russofobo” per la sua condanna dell’imperialismo di Mosca.

Ma le operazioni di sabotaggio non si sono limitate alla sfera digitale. Prova ne è la fuga dell’oligarca russo Artem Uss dai domiciliari a Milano in attesa dell’estradizione negli Stati Uniti per quattro capi d’accusa. L’evasione è stata materialmente facilitata da criminali balcanici, ma coordinata senz’altro dal Cremlino. La medesima procura, nel 2024, ha ottenuto il processo per due imprenditori brianzoli filorussi, accusati di ricevere criptovalute dai servizi di Mosca per mappare le zone cieche delle telecamere di sorveglianza a Milano e Roma, ma anche per allestire una rete di “safe house” per gli operativi russi e installare dash cam per le cooperative di taxi, con le registrazioni da mandare all’intelligence. Questo caso andrebbe messo in relazione con la notizia del Dossier Center, fondato da Mikhail Khodorkovskij, secondo cui i servizi militari russi hanno ricevuto l’ordine di raccogliere informazioni sui critici del Cremlino in Europa, inclusi politici, giornalisti, ricercatori e attivisti.

La sezione antiterrorismo della procura meneghina ha aperto un fascicolo per spionaggio sull’episodio del misterioso drone ad ala fissa di fabbricazione russa che per cinque volte ha sorvolato il Joint Research Centre UE di Ispra, a Varese, poco distante da stabilimenti sensibili di Leonardo. Non si tratterebbe di una novità, in quanto già in Germania droni russi sono stati avvistati sopra basi militari in cui vengono addestrati i soldati ucraini e simili incidenti si sono verificati anche su basi della RAF in Inghilterra. Volendo tracciare un parallelo con la Svezia, anche a Varese nel 2021 è stata inaugurata una chiesa ortodossa russa, a pochi chilometri dal centro europeo sulla ricerca nucleare di Ispra e dalle sedi Leonardo. Al di là delle speculazioni, è noto che il Cremlino utilizzi la Chiesa ortodossa russa per operazioni clandestine, appoggio logistico e propaganda.

Secondo un’analisi del Center for Strategic and International Studies, il numero di attacchi ibridi russi in Europa è triplicato nel 2024 rispetto al 2023, col 27% indirizzato alla rete dei trasporti e un 21% alle infrastrutture critiche, come le condutture energetiche e i collegamenti internet. Le reti ferroviarie italiane sono vulnerabili a sabotaggi fisici e a cyberattacchi, mentre i cavi sottomarini, come quelli Blue Med in posa a Genova, nel Mar Baltico, sono già stati oggetto di danneggiamenti mirati. Anche i rigassificatori di GNL, fondamentali per emanciparsi dalle forniture russe, sono potenziali bersagli nella guerra ibrida di Mosca. Si tratta di asset strategici che richiedono un’attenzione speciale.

Alla luce di questa situazione, anche in Italia si rende necessario un salto di qualità per la sicurezza interna. Una riforma attesa degli apparati di intelligence e controspionaggio, ma anche un’istituzione dedicata al contrasto delle ingerenze esterne per la sicurezza cognitiva. Inoltre, l’Italia è rimasta l’unico paese del G7 a non avere ancora un consiglio di sicurezza nazionale, perché il Consiglio supremo di difesa ha altre prerogative, e manca una strategia di sicurezza nazionale, elaborata invece dagli altri paesi europei. Insomma, occorre adeguare il modello istituzionale alle nuove sfide poste dalla Russia e da altri regimi che vogliono interferire nei processi democratici, aumentare l’instabilità e avanzare i propri interessi egemonici.

Merz eletto cancelliere tedesco

Friedrich Merz, leader conservatore tedesco, ha ottenuto una maggioranza assoluta di 325 voti contro 289 nel secondo voto segreto della Camera bassa del Parlamento per diventare il nuovo Cancelliere della più grande economia europea. Tuttavia, la sua vittoria è stata agrodolce, dopo che la sconfitta iniziale aveva fatto presagire malumori all’interno della sua coalizione.

Merz guiderà una coalizione tra la sua alleanza CDU/CSU e i socialdemocratici di centro-sinistra (SPD) del cancelliere uscente Olaf Scholz.

Il presidente Frank-Walter Steinmeier ha nominato Merz il decimo cancelliere della Germania del dopoguerra. “Accetto questa responsabilità con umiltà, ma anche con determinazione e fiducia”, ha dichiarato Merz. “È un bene che la Germania abbia di nuovo un governo federale con una maggioranza parlamentare”, ha aggiunto, promettendo che la sua coalizione centrista sarà in grado di affrontare i problemi nazionali, dall’economia all’immigrazione.

In un’intervista al canale di informazione NTV, Merz ha anche promesso di essere un leader “molto europeo”, auspicando che la Germania assuma un ruolo più importante a livello internazionale.

Nel suo primo giorno di mandato, il nuovo cancelliere si recherà prima in Francia e poi in Polonia, con l’obiettivo di rafforzare i legami con i vicini europei che hanno cercato di presentarsi uniti nel momento in cui il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha messo in discussione i legami diplomatici e di sicurezza di lunga data, di fronte a una Russia ostile.

Dopo il crollo del governo dell’ex cancelliere Scholz a novembre, la Germania è rimasta per lo più in disparte, con la politica paralizzata in attesa di un nuovo leader.

Alla domanda su come la Germania potrebbe cercare di influenzare i colloqui su un possibile accordo di pace nella guerra in Ucraina, Merz ha risposto che esiste un “formato collaudato” di Berlino che lavora con Francia e Gran Bretagna. “La Germania è stata piuttosto reticente negli ultimi mesi a causa della transizione da un governo all’altro”, ha dichiarato Merz all’emittente pubblica ZDF, prima di aggiungere che d’ora in poi intende “consultarsi intensamente” con Londra e Parigi.

Il rapporto con gli Stati Uniti

Il nuovo cancelliere ha promesso di rilanciare l’economia tedesca in difficoltà e di rafforzare il ruolo di Berlino in Europa, rispondendo ai rapidi cambiamenti avvenuti dopo la vittoria di Trump alle elezioni di gennaio.

Il presidente degli Stati Uniti ha esercitato pressioni sugli alleati europei, affermando che spendono troppo poco per le capacità di difesa della NATO e imponendo tariffe particolarmente dolorose alla Germania, potenza esportatrice.

Durante la campagna elettorale tedesca, gli alleati di Trump, tra cui il principale consigliere e miliardario tecnologico Elon Musk e il vicepresidente JD Vance, hanno offerto un forte sostegno al partito di estrema destra e anti-immigrazione Alternativa per la Germania (AfD). Dopo che la scorsa settimana l’agenzia di spionaggio nazionale tedesca ha definito l’AfD un partito “estremista di destra”, il segretario di Stato americano Marco Rubio ha definito la mossa “una tirannia mascherata” e ha affermato che “la Germania dovrebbe invertire la rotta”.

Merz ha condannato le recenti “osservazioni assurde” degli Stati Uniti senza specificare particolari affermazioni e ha dichiarato di “vorrebbe incoraggiare il governo americano a rimanere ampiamente fuori dalla politica interna tedesca”. Politico con legami di lunga data con gli Stati Uniti, Merz ha affermato di aver sempre percepito “dall’America che sanno distinguere chiaramente tra partiti estremisti e partiti di centro politico”.

Vuoto di potere risolto

Il primo voto parlamentare segreto di martedì 6 maggio era atteso come una formalità, ma si è trasformato in un disastro per Merz, che ha mancato per appena sei voti la maggioranza assoluta necessaria per ottenere l’incarico. Tuttavia, il suo trionfo significa che “il vuoto di potere di sei mesi nel cuore dell’Europa è finito”, ha dichiarato l’analista Holger Schmieding della Berenberg Bank.

Schmieding ha affermato che la battuta d’arresto iniziale di Merz “suggerisce che non può contare sul pieno sostegno dei due partiti che sostengono la sua coalizione… Questo seminerà qualche dubbio sulla sua capacità di portare avanti l’agenda politica”. Nonostante il temporaneo sconvolgimento di oggi, ha aggiunto, “Merz ha una comprovata capacità di riprendersi da battute d’arresto temporanee. Per esempio, gli sono occorsi tre tentativi per diventare capo del suo partito CDU, ma alla fine ce l’ha fatta”.

L’AfD ha esultato soprattutto per il voto iniziale contro Merz, che ha promesso di riportare la stabilità a Berlino. Si è anche impegnato a intensificare i controlli sull‘immigrazione irregolare, in parte per ridurre l’appeal dell’AfD. Ha promesso di “fare di tutto” per “ripristinare la fiducia dei cittadini nel centro politico e impedire che votino per un partito come l’AfD”.

La lunga ambizione di Merz di diventare cancelliere della Germania, sventata per la prima volta decenni fa dalla rivale di partito Angela Merkel, che ha poi ricoperto il ruolo di cancelliere per 16 anni, si è finalmente realizzata.

© Agence France-Presse

Scenari di crisi e trasformazioni della difesa italiana

Alessandro Marrone, responsabile del Programma Difesa, Sicurezza e Spazio dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuto a Spazio Transnazionale, la trasmissione condotta da Francesco De Leo su Radio Radicale.

Nel corso dell’intervista, Marrone ha analizzato l’escalation militare tra India e Pakistan e il piano israeliano per l’occupazione o lo sfollamento forzato della popolazione nella Striscia di Gaza. Ha inoltre commentato l’evoluzione del contesto geopolitico in Medio Oriente, con particolare attenzione al ruolo degli Houthi e alle implicazioni più ampie per la sicurezza regionale e internazionale.

Un focus importante è stato dedicato anche all’evoluzione della difesa italiana, che si sta adattando a una nuova fase storica caratterizzata da minacce complesse e scenari in rapida trasformazione. Marrone ha citato in particolare l’AeroSpace Power Conference, evento dedicato alla riflessione strategica sulle capacità future necessarie per affrontare le sfide internazionali, di cui lo IAI è partner scientifico.

L’escalation delle tensioni tra India e Pakistan

Da quando, il 22 aprile scorso, un commando terroristico ha ucciso 26 civili a Pahalgam, nel Kahsmir indiano, la tensione tra India e Pakistan ha superato i livelli di guardia. L’India ha accusato il Pakistan di essere indirettamente responsabile. L’attacco sarebbe stato infatti portato avanti da uno dei gruppi terroristici che, secondo l’intelligence indiana, riceve supporto logistico e protezione politica da parte dei servizi di sicurezza pachistani. Islamabad, dal canto suo, nega qualsiasi coinvolgimento.

La reazione indiana è stata immediata e decisa: il governo ha sospeso il trattato del 1960 che regolamenta la gestione delle acque del bacino dell’Indo; ridotto al minimo la presenza diplomatica pachistana; interrotto il commercio, anche attraverso paesi terzi; annullato tutti i visti concessi a cittadini pachistani e intimato loro di lasciare il paese; vietato alle navi pachistane di attraccare ai porti indiani; bandito i canali YouTube pachistani; e chiuso i valichi di confine. Il Pakistan ha reagito con misure simili e ha dichiarato che l’accordo di cessate il fuoco in vigore dal 1972 è da considerarsi sospeso. Come di solito avviene in queste situazioni, gli scontri al confine lungo la Linea di Controllo (il confine di fatto tra i due paesi) si sono intensificati. Il premier indiano Narendra Modi ha dato il “via libera” all’esercito di reagire come meglio crede per difendere la sicurezza nazionale.

Nella notte tra il 6 e il 7 maggio, l’India ha sferrato un attacco missilistico contro nove sospette basi terroristiche, causando danni relativamente limitati (anche se Islamabad ha dichiarato che gli attacchi avrebbero causato 26 morti civili). Il Pakistan ha reagito colpendo il Kashmir indiano con colpi d’artiglieria che avrebbero causato almeno nove morti civili. Inoltre, secondo le autorità pachistane alcuni jet dell’aviazione indiana sarebbero stati abbattuti (il governo indiano non ha confermato). Il rischio di un’escalation è alto, anche se alcuni elementi portano a pensare che i due paesi non hanno intenzione di sprofondare in un conflitto su larga scala.

India, Pakistan e la crisi del 2019

L’ultima volta che India e Pakistan si sono trovate sull’orlo della guerra (dopo l’attentato di Pulwama, a pochi mesi dalle elezioni generali indiane del 2019), la situazione non è degenerata per le forti pressioni esercitate dal governo americano su entrambi i paesi, ma anche per una serie di circostanze fortunate: da un lato infatti i raid aerei indiani non causarono danni o vittime – forse intenzionalmente? – e, dall’altro, il pilota indiano catturato dall’esercito pachistano sopravvisse e fu prontamente rimandato in patria. Entrambi i governi, grazie anche al controllo che esercitavano sui media, furono in grado di presentare la propria reazione come una vittoria.

La situazione di oggi presenta qualche somiglianza ma anche notevoli differenze. Come nel 2019, entrambi i governi esercitano un notevole controllo sui media, che gli permetterebbe di presentare scenari molto diversi fra loro come una vittoria. Come nel 2019, Modi è sotto pressione da parte dell’elettorato per mostrare i muscoli, anche in vista delle importanti elezioni statali del Bihar (il terzo stato più popoloso del paese) previste per l’autunno. D’altro canto il capo dell’esercito pachistano Asim Munir, a differenza del suo predecessore che aveva perseguito una linea conciliatrice, sta cercando di rafforzare la sua posizione con una retorica molto aggressiva nei confronti dell’India già da prima dell’eccidio del 22 aprile. Inoltre, gli Stati Uniti non sembrano volersi occupare della questione, non solo per l’apparente disinteresse del presidente Donald Trump, ma anche perché, a differenza del 2019, non hanno più truppe in Afghanistan. Naturalmente, è assai probabile il Dipartimento di Stato americano sia al lavoro per assicurarsi che la tensione tra i due paesi, entrambi dotati di armi nucleari, non salga oltre una certa soglia.

Prospettive di risoluzione e rischi geopolitici

Nonostante l’estrema pericolosità della situazione, al momento un’uscita dalla crisi simile a quella del 2019, quando agli attacchi mirati indiani segui una risposta altrettanto mirata da parte pachistana, sembra la più plausibile. Gli attacchi del 6-7 maggio potrebbero aver soddisfatto le aspettative dell’opinione pubblica indiana e soprattutto dei nazionalisti indù, e la base elettorale del partito del primo ministro, che chiedevano una reazione militare forte. Il Pakistan ha a sua volta dichiarato di aver obbligato il nemico ad alzare “bandiera bianca”, il che potrebbe placare la propria opinione pubblica.

Quel che è certo è che una guerra prolungata avrebbe costi altissimi per entrambi i paesi. Il Pakistan è da anni ingolfato in una grave crisi economica e politica che una guerra non farebbe che aggravare. L’India d’altro canto non può ignorare la possibilità che la Cina, storica alleata di Islamabad, decida di intervenire. Piccoli spostamenti di truppe cinesi nel settore orientale del confine conteso tra i due paesi richiederebbero un immediato dispiegamento di forze indiane su due fronti e cioè il venire in essere del più temuto incubo strategico dell’establishment militare indiano. Molto dipenderà da come i due paesi decideranno di leggere la reazione dell’altro e dalla chiarezza con la quale Cina e Stati Uniti comunicheranno a India e Pakistan la propria soglia di tolleranza.

Francesco: “un Papa giunto dalla fine del mondo”

Ci ha lasciato un Papa con una visione del mondo che gli esperti hanno definito “geopolitica”. In effetti Papa Francesco, per dirla con le sue prime parole di nuovo vicario di Cristo, veniva “dalla fine del mondo” cioè dalla natia Argentina. Un modo per sottolineare che il suo approccio agli affari mondiali era meno “eurocentrico” dei suoi predecessori. Ma fino a un certo punto. Sicuramente diverso da quello tutto incentrato sulla fine della contrapposizione fra Est ed Ovest, fra comunismo e liberalismo, periodo che aveva contraddistinto i 26 anni del lungo papato di Wojtyla fino a portarci al superamento della guerra fredda.

Ma di guerra, quella vera, è stato invece testimone diretto Papa Francesco che in anticipo su tutti gli altri aveva ammonito i governi, non solo europei, sul precipizio cui stavano per cadere: “la terza guerra mondiale a pezzi”. Ben 56 conflitti, diretti e spesso sconosciuti, contraddistinguono questi tormentati anni e sembra che nessuno sia davvero in grado di porvi freno. Certamente non le Nazioni Unite che non hanno né la forza né l’autorità per adempiere alla loro missione costitutiva di mediare fra le parti in lotta. Nessuno dei grandi temi mondiali, dal dramma delle immigrazioni al deteriorarsi dell’ambiente, dal crescere delle disuguaglianze all’indebolimento della difesa dei diritti umani, viene affrontato e gestito con sufficiente credibilità dal Palazzo di Vetro. Ormai emerge un insopprimibile individualismo nazionalistico, come denunciava Papa Francesco, in base al quale ciascun paese decide di affrontare l’altro senza cercare né accettare mediazioni esterne. Lo ha sperimentato lo stesso Papa Bergoglio quando ha cercato la via della mediazione fra Russia e Ucraina. I ripetuti viaggi a Kyiv e Mosca del Cardinale Matteo Zuppi hanno ottenuto assai poco, anche perché la Chiesa ortodossa di Russia, tramite il patriarca Kirill, si è nettamente schierata a sostegno dell’aggressore Vladimir Putin respingendo i buoni uffici del Vaticano. Insomma una situazione internazionale fuori controllo che non poco disagio ha creato a Papa Francesco, che nelle sue omelie ha sempre ricordato e pregato per la fine delle guerre nel mondo, arrivando a citare nel corso degli Angelus anche conflitti poco conosciuti dalle nostre opinioni pubbliche.

L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca non ha fatto altro che aggravare quell’individualismo governativo che tanto si scontrava con la filosofia del Papa di mantenere aperto il dialogo e di cercare a tutti i costi la salvaguardia di una convivenza pacifica in ogni parte del mondo. Pur non essendo “eurocentrico” il Papa, di fronte alla crescente povertà delle istituzioni multilaterali e ai rischi di terza guerra mondiale, ha rivolto il proprio sguardo e le proprie speranze anche all’Unione europea, come progetto di pace ancora valido. Ne rappresenta ancora oggi testimonianza il suo ispirato discorso davanti al Parlamento europeo del 25 novembre 2014. In quei mesi era già scoppiato il primo conflitto intorno ai confini ad est dell’Ucraina e vi era stata l’improvvisa annessione della Crimea da parte della Russia. Insomma la terza guerra mondiale a pezzi veniva confermata nel cuore stesso dell’Europa. Un’Unione europea che già allora appariva nelle parole di Francesco “invecchiata e compressa”, cioè senza quel dinamismo che ne aveva contraddistinto la nascita e la crescita, e che non sembrava quindi in grado di dare risposte convincenti. Ritornare allo spirito pionieristico e di pace dei padri fondatori era più che mai necessario. Anche perché non è possibile che l’Unione ruoti solo intorno allo sviluppo dell’economia. Il suo compito deve essere invece quello di abbandonare i timori crescenti di un’Europa impaurita e piegata su sé stessa e promuovere invece un’Unione protagonista che guarda, difende e tutela l’uomo. Anche perché lo sviluppo disordinato del multipolarismo non permette al mondo di affrontare i problemi globali, dal clima alle enormi diseguaglianze, dalla lotta alla povertà all’accoglimento degli immigrati, tutti temi che premevano a Papa Francesco.

L’Europa, allora, deve puntare secondo Bergoglio a divenire punto di riferimento dell’umanità per il raggiungimento della pace sulla base della sussidiarietà, della solidarietà reciproca e della tutela dei diritti umani e delle libertà. Parole allora profetiche vista l’evoluzione recente dello scenario europeo, ormai condizionato dal proseguimento dell’assurdo conflitto fra Russia e Ucraina e allo stesso tempo dall’allontanamento ormai strutturale del nostro maggiore alleato americano. Davvero un pensiero profondo e di sostegno del progetto di integrazione europea da parte di un Papa che, come dicevamo, veniva considerato meno eurocentrico dei suoi predecessori. Ma Francesco aveva intuito già nel 2014 che l’àncora per il mantenimento della democrazia poteva essere proprio l’Ue, unica realtà politica multilaterale ove i diritti umani venivano considerati un bene comune e dove la dignità umana poteva trovare il giusto contesto per essere sostenuta e sviluppata. Non tutta l’Ue, purtroppo, ma certamente la gran parte di essa rispondeva a questo messaggio pastorale e alla volontà di contrastare il crescente nazionalismo. Purché si abbia la forza di salvaguardare i grandi valori che sono alla base del processo di integrazione europea. Manteniamo quindi, per riprendere il discorso di Papa Francesco, la nostra “unità che vive della ricchezza della sua diversità” e tuteliamo quindi il bene più prezioso della nostra democrazia minacciata sia dall’interno che dall’esterno, ma ancora capace di dare accoglienza alla dignità delle persone.

LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI VESCOVI DEGLI STATI UNITI D’AMERICA

Cari Fratelli nell’Episcopato,

Vi scrivo oggi per rivolgervi alcune parole in questo delicato momento che state vivendo come Pastori del Popolo di Dio che pellegrina negli Stati Uniti d’America.

  1. Il cammino dalla schiavitù alla libertà compiuto dal Popolo d’Israele, così come narrato nel libro dell’Esodo, ci invita a guardare alla realtà del nostro tempo, così chiaramente segnata dal fenomeno della migrazione, come a un momento decisivo nella storia per riaffermare non soltanto la nostra fede in un Dio che è sempre vicino, incarnato, migrante e rifugiato, ma anche nella dignità infinita e trascendente di ogni persona umana.
  2. Queste parole con cui esordisco non sono un costrutto artificiale. Anche un rapido esame della dottrina sociale della Chiesa mostra con enfasi che Gesù Cristo è il vero Emanuele (cfr. Mt1, 23); ha vissuto anche lui la difficile esperienza di essere cacciato dalla propria terra a causa di un pericolo imminente per la sua vita e l’esperienza di rifugiarsi in una società e una cultura estranee alla sua. Il Figlio di Dio, nel farsi uomo, ha scelto anche di vivere il dramma dell’immigrazione. Mi piace ricordare, tra le altre cose, le parole con cui Papa Pio XII ha iniziato la sua Costituzione apostolica sulla cura dei migranti, che è considerata la “Magna Carta” del pensiero della Chiesa sulla migrazione:

«La Famiglia di Nazaret in esilio, Gesù, Maria e Giuseppe, emigranti in Egitto e ivi rifugiati per sottrarsi alle ire di un re empio, sono il modello, l’esempio e la consolazione degli emigranti e dei pellegrini di ogni tempo e di ogni Paese, di tutti i profughi di ogni condizione che, spinti dalla persecuzione o dal bisogno, sono costretti a lasciare la loro patria, l’amata famiglia e i cari amici e recarsi in terra straniera».

  1. Parimenti, Gesù Cristo, amando tutti di un amore universale, ci educa al riconoscimento permanente della dignità di ogni essere umano, senza eccezioni. Di fatto, quando parliamo di “dignità infinita e trascendente”, desideriamo sottolineare che il valore più importante che la persona umana possiede supera e sostiene ogni altra considerazione giuridica che si possa fare per regolare la vita nella società. Pertanto, tutti i fedeli cristiani e le persone di buona volontà sono chiamati a riflettere sulla legittimità di norme e politiche pubbliche alla luce della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali, e non il contrario.
  2. Sto seguendo da vicino la grande crisi che si sta verificando negli Stati Uniti con l’avvio di un programma di deportazioni di massa. La coscienza rettamente formata non può non compiere un giudizio critico ed esprimere il suo dissenso verso qualsiasi misura che tacitamente o esplicitamente identifica lo status illegale di alcuni migranti con la criminalità. Al tempo stesso, bisogna riconoscere il diritto di una nazione a difendersi e a mantenere le comunità al sicuro da coloro che hanno commesso crimini violenti o gravi durante la permanenza nel Paese o prima del loro arrivo. Detto ciò, l’atto di deportare persone che in molti casi hanno abbandonato la propria terra per ragioni di povertà estrema, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave deterioramento dell’ambiente, lede la dignità di molti uomini e donne, e di intere famiglie, e li pone in uno stato di particolare vulnerabilità e incapacità di difendersi.
  3. Non si tratta di una questione di poca importanza: uno Stato di diritto autentico si dimostra proprio nel trattamento dignitoso che tutte le persone meritano, specialmente quelle più povere ed emarginate. Il vero bene comune viene promosso quando la società e il governo, con creatività e rigoroso rispetto dei diritti di tutti — come ho affermato in numerose occasioni — accolgono, proteggono, promuovono e integrano i più fragili, indifesi, vulnerabili. Ciò non ostacola lo sviluppo di una politica che regolamenti una migrazione ordinata e legale. Tuttavia, tale sviluppo non può avvenire attraverso il privilegio di alcuni e il sacrificio di altri. Ciò che viene costruito sul fondamento della forza e non sulla verità riguardo alla pari dignità di ogni essere umano incomincia male e finirà male.
  4. I cristiani sanno molto bene che è solo affermando la dignità infinita di tutti che la nostra identità di persone e di comunità giunge a maturazione. L’amore cristiano non è un’espansione concentrica di interessi che poco a poco si estendono ad altre persone e gruppi. In altre parole: la persona umana non è un mero individuo, relativamente espansivo, con qualche sentimento filantropico! La persona umana è un soggetto dotato di dignità che, attraverso la relazione costitutiva con tutti, specialmente con i più poveri, un po’ alla volta può maturare nella sua identità e vocazione. Il vero ordo amorische occorre promuovere è quello che scopriamo meditando costantemente la parabola del “Buon Samaritano” (cfr. Lc10, 25-37), ovvero meditando sull’amore che costruisce una fratellanza aperta a tutti, senza eccezioni.
  5. Ma la preoccupazione per l’identità personale, comunitaria o nazionale, al di là di queste considerazioni, introduce facilmente un criterio ideologico che distorce la vita sociale e impone la volontà dei più forti come criterio di verità.
  6. Riconosco i vostri preziosi sforzi, cari fratelli vescovi degli Stati Uniti, mentre lavorate a stretto contatto con migranti e rifugiati, proclamando Gesù Cristo e promuovendo diritti umani fondamentali. Dio vi ricompenserà abbondantemente per tutto ciò che fate a protezione e difesa di quanti sono considerati meno preziosi, meno importanti o meno umani!
  7. Esorto tutti i fedeli della Chiesa cattolica, come anche tutti gli uomini e le donne di buona volontà, a non cedere a narrative che discriminano e causano inutili sofferenze ai nostri fratelli e sorelle migranti e rifugiati. Con carità e chiarezza siamo chiamati a vivere in solidarietà e fratellanza, a costruire ponti che ci avvicinino sempre più, a evitare muri di ignominia e a imparare a dare la nostra vita così come l’ha data Gesù Cristo per la salvezza di tutti.
  8. Chiediamo a Nostra Signora di Guadalupe di proteggere le persone e le famiglie che vivono nella paura o nel dolore a causa della migrazione e/o della deportazione. Possa la “Virgen morena”, che sapeva come riconciliare i popoli quando tra loro c’era inimicizia, concedere a tutti noi di incontrarci di nuovo come fratelli e sorelle, nel suo abbraccio, e quindi compiere un passo avanti nell’edificazione di una società più fraterna, inclusiva e rispettosa della dignità di tutti.

Fraternamente,

Francesco

Vaticano, 10 febbraio 2025

Bilal Wahab: Sulaimani Forum, interrogarsi e governare

Cari ospiti, colleghi e amici. Buongiorno!

Benvenuti al 9° Forum di Sulaimani: è un grande onore ospitarvi qui all’American University of Iraq, Sulaimani, specialmente in una giornata così bella.

Il Forum di Sulaimani è ciò che Hoshyar Zebari una volta definì il “Davos del Medio Oriente”: un luogo in cui ci riuniamo non in una qualche capitale lontana, ma proprio qui per affrontare direttamente le sfide della nostra regione. Questa è stata la sua descrizione al primo Forum di Sulaimani nel 2013.

Il Forum di Sulaimani, come lo chiamiamo, è uno spazio raro in cui coltivare un dialogo aperto e orientato alla politica in una regione che ne ha bisogno più che mai. E c’è una ragione per cui si svolge qui all’American University of Iraq, Sulaimani (AUIS). Permettetemi di raccontarvi qualcosa su chi siamo. AUIS è un esperimento audace che ha avuto successo. Costruita sul modello delle arti liberali americane, l’università offre un’educazione basata sul pensiero critico, la responsabilità civica e la libertà accademica. I nostri studenti provengono da tutte le province e regioni dell’Iraq e sempre più dai paesi vicini, non solo per ottenere una laurea, ma per essere coinvolti in modo diretto, per interrogarsi e per governare. Siamo orgogliosi dei nostri ex studenti, molti dei quali ricoprono cariche pubbliche, lanciano startup e difendono la giustizia. Probabilmente conoscete anche alcuni di loro perché effettivamente potrebbero lavorare per voi.

Ciò che rende AUIS unica è la sua resilienza: siamo indipendenti, imparziali e senza scopo di lucro, e ci impegniamo non solo per costruire un’università migliore, ma per costruire un miglior Kurdistan e un miglior Iraq. Un esempio di questo impegno è la nostra piattaforma di ricerca culturale Kashkul, uno spazio per raccontare storie, coltivare la memoria e l’immaginazione. Attraverso narrazioni, poesia, pubblicazioni e mostre, Kashkul preserva le voci di comunità spesso cancellate dalla storia. Iniziative come Shingal Lives e Mosul Maqam sfidano il terrorismo attraverso la cultura. E stiamo condividendo questo patrimonio con il mondo traducendo in inglese poeti come Mahwi e Nalî.

Permettetemi anche di evidenziare Iris, il nostro centro di ricerca e padrone di casa, l’organizzatore di questo forum. Iris si è guadagnato una reputazione per affrontare le questioni più difficili dell’Iraq, dall’intersezione tra cambiamento climatico e conflitti, al miglioramento degli investimenti iracheni in ambito ambientale. Sono ovviamente di parte, perché sono orgoglioso di essere stato uno dei primi borsisti di Iris.

Sono anche entusiasta di condividere alcune nuove iniziative che approfondiranno il nostro impatto qui all’AUIS: il lancio di un nuovo centro per l’energia, un laboratorio di intelligenza artificiale all’avanguardia che prepara i nostri studenti per le economie del futuro. E lo sviluppo del primo ampio modello linguistico in curdo che garantirà l’ingresso della nostra lingua e cultura nel futuro digitale.

Eccellenza accademica, impatto sulla comunità e leadership degli ex studenti: questi sono i pilastri del nostro lavoro qui all’AUIS. Il forum di quest’anno affronterà sia le sfide urgenti che quelle a lungo termine, navigando in un paesaggio geopolitico in cambiamento, rafforzando le economie dell’Iraq e del Kurdistan e preparandoci per le elezioni future.

In conclusione, AUIS e il Forum di Sulaimani riflettono una visione condivisa, una visione in cui le università servono la società, dove l’apprendimento alimenta la leadership e dove il dialogo è il primo passo verso soluzioni reali. Questa visione è radicata nel miglior modello educativo americano. Questa visione è nata qui a Sulaimani grazie al nostro fondatore, il Dr. Barham Salih.

Il discorso di apertura di Bilal Wahab, Presidente dell’American University of Iraq, Sulaimani

La regione MENA in un ordine globale in evoluzione

In un mondo sempre più multipolare, la regione del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA) sta navigando tra dinamiche di potere mutevoli, alleanze frammentate e centri di influenza emergenti. Il primo panel del Sulaimani Forum, moderato da Maria Luisa Fantappiè, responsabile del programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dello IAI, ha esplorato come l’Iraq e gli attori regionali si stiano adattando all’erosione delle tradizionali alleanze geopolitiche e dei centri di potere.

 

Victoria Taylor, vice assistente del Segretario di Stato per l’Iraq e l’Iran

Maria Luisa Fantappiè: Negli ultimi due anni e mezzo la regione MENA ha vissuto cambiamenti incredibili. Ci sono diversi progetti regionali in competizione tra loro: Israele ha il suo modo di vedere la regione, l’Iran un suo modo concorrente di vedere la regione, la Turchia e il Golfo. A ciò si aggiunge un sistema multilaterale in crisi, con attori globali come gli Stati Uniti che si trovano nel momento cruciale della loro storia per definire il loro ruolo nella regione MENA. Vorrei allora iniziare in modo concreto e chiederti di aggiornarci sulla situazione attuale. Sappiamo che l’amministrazione Trump, ha intenzione di dare una possibilità alla diplomazia e di riavviare i negoziati sull’accordo nucleare con l’Iran. Quindi potresti aggiornarci su quanto sta accadendo e a che punto siamo con i negoziati sul nucleare tra Stati Uniti e Iran, soprattutto dopo l’incontro in Oman?

Victoria Taylor: Penso che siamo agli inizi. Naturalmente, il Presidente Trump ha ribadito chiaramente che l’obiettivo degli Stati Uniti è impedire all’Iran di sviluppare un’arma nucleare e un programma di arricchimento di uranio. Ma è stato anche molto chiaro e aperto riguardo al suo interesse a risolvere le divergenze con l’Iran attraverso il dialogo e la diplomazia. La scorsa settimana a Muscat abbiamo avuto l’opportunità di discutere questi temi con gli iraniani e credo che questo sia un primo passo molto positivo. Tuttavia, la strada da percorrere è ancora lunga e, come sappiamo, nel corso di molti decenni ci è sfuggita l’opportunità di raggiungere un accordo duraturo con l’Iran sul suo programma nucleare. Tuttavia, questo primo round è stato positivo e costruttivo e c’è consenso sul fatto che ci saranno colloqui nei prossimi giorni, anche se non ho ulteriori informazioni su quando e dove si terranno. Tuttavia, nei prossimi colloqui ci aspettiamo di sviluppare un quadro più ampio su come procedere con i negoziati.

Maria Luisa Fantappiè: Il Presidente Trump, infatti, ha sempre detto di voler fare un accordo migliore del JCPOA. Quali opzioni ci sono per raggiungere un accordo migliore a questo punto?

Victoria Taylor: Penso che siamo ancora agli inizi e che non abbiamo ancora definito i parametri di questi negoziati. Pertanto, ritengo che il prossimo ciclo di discussioni ci sarà utile per definire la strada da seguire. Ma credo sia anche importante ricordare che, oltre alle preoccupazioni che gli Stati Uniti nutrono per il programma nucleare iraniano, continuiamo a nutrire profonde preoccupazioni per le attività destabilizzanti dell’Iran in tutta la regione, incluse le sue attività di sostegno al terrorismo attraverso i suoi proxy e i complotti letali contro dissidenti all’estero e ex funzionari statunitensi. Queste rimangono dunque preoccupazioni costanti. Credo sia anche importante notare che la massima pressione è ancora in vigore, anche se stiamo portando avanti i negoziati con l’Iran sul suo programma nucleare. Il Presidente ha ordinato agli Stati Uniti di cercare tutte le opportunità per negare all’Iran l’accesso alle entrate che utilizza per finanziare le sue attività nucleari e il sostegno al terrorismo. Pertanto, il modo migliore per l’Iran di ottenere un sollievo economico e di vedere le sanzioni rimosse è quello di interrompere le attività che ci hanno spinto a metterle in atto.

Maria Luisa Fantappiè: La massima pressione è stata ovviamente in gioco, ma a un certo punto si è anche ritorta contro di noi. Intendo dire che in alcuni contesti, come l’Iraq, potrebbe anche rafforzare alcuni gruppi di fronte al governo. Vorrei quindi chiederle se non ci sia spazio per una pressione meno intensa e un approccio più diplomatico, soprattutto quando si tratta di un accordo sul nucleare che potrebbe includere alcuni degli attori regionali inizialmente esclusi dai negoziati, in particolare gli Stati del Golfo.

Victoria Taylor: Credo che ciò dipenda dai parametri dei negoziati. Tuttavia, credo anche che dipenderà dai passi che l’Iran compirà mentre portiamo avanti queste discussioni. Naturalmente, il continuo sostegno dell’Iran a proxy e milizie è una preoccupazione non solo per gli Stati Uniti, ma anche per i Paesi della regione. Anche in questo caso, credo che il modo più rapido per l’Iran di ottenere un sollievo economico sia quello di interrompere le attività che ci hanno spinto ad applicare le sanzioni.

Maria Luisa Fantappiè: È  d’accordo con quanti affermano che anche Israele ha un ruolo destabilizzante nella regione? Inoltre, secondo lei, l’amministrazione Trump ha maggiore peso o dispone di più strumenti per fare pressione su Israele affinché accetti un accordo nucleare?

Victoria Taylor: Credo di poter affermare con certezza che la politica degli Stati Uniti è quella di garantire il diritto di Israele a difendersi e gli Stati Uniti continueranno a fornire sostegno alla difesa e alla sicurezza di Israele. C’è una partnership di lunga data. Per quanto riguarda il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, credo che questo dimostri l’importanza della discussione in corso con Israele per risolvere le preoccupazioni relative al suo programma nucleare e alle sue attività destabilizzanti, ma anche la chiara intenzione e il messaggio del Presidente di voler dare alla diplomazia una reale possibilità.

 

 

Krikor Der-Hagopian, Direttore delle Relazioni Internazionali dell’Ufficio del Primo Ministro

Maria Luisa Fantappiè: Lei ha lavorato con il Primo Ministro in un momento molto difficile, in cui l’Iraq si è trovato ad affrontare un ambiente geopolitico mutevole e in cui Israele ha avviato operazioni militari aggressive in tutta la regione. Può descrivermi come avete affrontato questo momento difficile in qualità di governo iracheno? Mi riferisco in particolare al fatto che, ad esempio, alcuni gruppi non sottoposti al controllo del governo iracheno hanno intrapreso iniziative offensive contro Israele, mettendo a repentaglio la politica estera autonoma dell’Iraq.

Krikor Der-Hagopian: Innanzitutto, per poter avere una politica estera solida, l’Iraq ha bisogno di organizzarsi internamente. Uno dei modi per riuscirci è il monopolio dei mezzi di violenza, che è uno degli elementi essenziali della statualità. Questo è stato uno degli elementi del programma di formazione del governo, in cui i partiti politici che hanno vinto le elezioni si sono riuniti per discutere il programma di governo che affidava al capo dell’esecutivo, il comandante in capo, il compito di condizionare progressivamente il processo EDR al fine di mantenere questo monopolio sui mezzi di violenza. Fin dal primo giorno, il governo ha lavorato in collaborazione con i partiti politici per ottenere il sostegno della popolazione irachena e, ad essere onesti, l’autorità religiosa ha giocato un ruolo centrale a questo scopo, rafforzando il potere del governo nel mantenere il monopolio sui mezzi di violenza. Per questo motivo, dalla formazione del governo fino al 7 ottobre, l’Iraq ha vissuto un’era di sicurezza e stabilità senza precedenti. Tuttavia, quello che è successo il 7 ottobre è stato uno shock sistemico che ha messo a repentaglio l’Iraq e l’intera regione. Una situazione che non dipendeva da noi, ma che ci avrebbe comunque colpito. Di conseguenza, il Primo Ministro, in collaborazione con i suoi partner di coalizione, ha affrontato la questione innanzitutto dal punto di vista politico e, a mio avviso, questo è stato uno dei passi più importanti per entrambe le parti: sia per chi era a favore di trascinare l’Iraq in questo conflitto militare, sia per chi era contrario. Il governo, il Primo Ministro e i suoi sostenitori hanno espresso con chiarezza che l’Iraq sarà sempre all’altezza della sua responsabilità morale.

Maria Luisa Fantappiè: Quando parla di chi è a favore, cosa intende?

Krikor Der-Hagopian: I membri della coalizione che erano contrari a trascinare l’Iraq in questo conflitto militare, pur essendo all’altezza delle responsabilità dell’Iraq nei confronti del popolo palestinese e delle sue rimostranze in termini di responsabilità morale, umanitaria, legale e di cui l’Iraq si è fatto carico. Quindi, tutte queste responsabilità hanno trascinato l’Iraq in un conflitto militare e dobbiamo comprendere la storia dell’Iraq per capire perché è stata presa questa decisione. L’Iraq è stato un Paese all’avanguardia nella regione, molti Paesi e molte persone nella regione guardavano all’Iraq come a un modello. Tuttavia, a seguito di errori, guerre e colpi di stato, la situazione si è ribaltata. Molti iracheni hanno iniziato a guardare a questi Paesi come a un modello e questo ha creato una sorta di amarezza. Inoltre, il popolo iracheno è molto giovane: circa il 30% della popolazione ha meno di quattordici anni. Credo che il 60% abbia meno di sessantaquattro anni. Queste persone hanno bisogno di opportunità di lavoro, vogliono una vita dignitosa e per poterlo fare abbiamo bisogno di pace, sicurezza e stabilità. Questi elementi hanno guidato i calcoli dei governi e della coalizione di governo nel tentativo di isolare l’Iraq dal conflitto militare. Alla fine, il governo iracheno è riuscito a prevalere e la pace e la sicurezza sono state riaffermate.

Maria Luisa Fantappiè: Posso chiederle se, osservando la rapidità con cui le cose sono cambiate, ad esempio in Siria dopo l’8 dicembre, e come anche in pochi mesi abbiamo assistito a una trasformazione senza precedenti in tutta la regione, si temeva che l’Iraq sarebbe stato il prossimo dopo le azioni di Israele in Libano e poi in tutta la regione. Se venisse intrapresa un’azione offensiva di questo tipo, quali conseguenze ci sarebbero?

Krikor Der-Hagopian: In primo luogo, data la relativa sicurezza e stabilità in cui versa l’Iraq, non c’è alcuna minaccia militare da parte di Israele. Si tratterebbe di un’aggressione palese contro l’Iraq, contro il governo e contro il popolo iracheno. Si tratterebbe quindi di una palese aggressione e di una violazione del diritto internazionale: non ce l’aspettiamo e non l’accettiamo. Se ciò accadesse, l’Iraq ne uscirebbe molto destabilizzato. In Iraq si stanno registrando progressi significativi, ma sono sempre fragili e reversibili e credo che si ritorcerebbero contro l’intera regione e anche contro chi li ha provocati. Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo importante nell’evitare uno scenario così catastrofico. Spero che non si arrivi a questo, la coalizione di governo irachena sta facendo tutto il possibile per isolare l’Iraq da un simile conflitto militare; un’aggressione di questo tipo non sarebbe accettabile.

Maria Luisa Fantappiè: Le relazioni tra Stati Uniti e Iraq hanno avuto una storia travagliata, ma anche una storia di graduale comprensione di come possano cooperare. Dopo i cambiamenti avvenuti nella regione, c’è l’idea di ripensare il piano di riduzione della presenza statunitense o siete ancora fermi al programma che prevede un primo ritiro per settembre 2025? A questo proposito, quanto è importante mantenere la presenza della coalizione guidata dagli Stati Uniti sia in Iraq che in Siria per la stabilità del Paese e per contrastare il rischio di una potenziale recrudescenza dell’ISIS?

Krikor Der-Hagopian: Gli Stati Uniti sono stati responsabili del cambiamento, della liberazione dall’oppressione della dittatura e dell’avvio dell’Iraq verso un modello di democrazia pluralistica in Medio Oriente, in cui persone di diverse etnie, religioni e provenienza politica possono incontrarsi e condividere il potere. Naturalmente, per definizione, le transizioni sono processi molto spinosi. Richiedono tempi molto lunghi; se si osserva la storia americana, si scopre che dopo un secolo è scoppiata una guerra civile. Credo che l’Iraq stia prendendo una scorciatoia.

Perciò, penso che questa relazione sia una sorta di ancora di salvezza: se gli americani vogliono impegnarsi in modo costruttivo con l’Iraq e continuare a sostenerlo per completare la transizione in atto, come hanno fatto con la coalizione globale per combattere l’ISIS, penso che sia un elemento importante. Tra i due Paesi c’è stato un annuncio che prevedeva tre condizioni: la prima è la capacità delle forze di sicurezza irachene, la seconda è il livello di minaccia dell’ISIS, la terza è la minaccia ambientale.

E credo che due delle tre condizioni possano cambiare in modo significativo: l’ISIS ha potuto ottenere il controllo di alcune armi in Siria e il livello di minaccia è aumentato; i cambiamenti avvenuti in Siria hanno offerto loro un punto d’appoggio e un trampolino di lancio che deve essere preso in considerazione. Ora, si tratta di una coalizione globale di cui gli Stati Uniti sono un elemento importante, se non il pilastro. Pertanto, stiamo ancora aspettando che le nostre controparti nella coalizione globale esprimano il loro parere politico, affinché la coalizione possa prendere forma e potremo tracciare la nostra strada. Finora non si è discusso di cambiamenti nelle tempistiche; forse si è discusso delle piattaforme, dato il cambiamento della minaccia. In precedenza, il livello di minaccia era localizzato nel nord-est della Siria, mentre ora si è spostato a sud, dai confini iracheni fino alla località di Cervi a Palmera, a sud di Damasco. È possibile che si stiano riconsiderando le piattaforme in cui devono svolgersi le operazioni di contrasto all’ISIS, ma stiamo ancora aspettando che gli americani formulino la loro politica per poter tracciare la nostra strada. Le discussioni sono in corso, ma in ultima analisi si tratta di una decisione politica.

 

S.E. Ann Linde, ex ministro degli Esteri svedese

Maria Luisa Fantappiè: Siamo in un momento critico non solo per il Medio Oriente, ma anche per le relazioni transatlantiche tra gli Stati Uniti e l’Europa: come vede l’evolversi della situazione e come immagina si evolveranno le relazioni Ue-Usa, soprattutto per quanto riguarda l’approccio alla regione MENA? A questo proposito, mi viene in mente il ruolo dell’Ue nel negoziato sul nucleare degli Stati Uniti: l’E3 è ancora parte del JCPOA e questo è un elemento importante. Come vede lo sviluppo delle relazioni Europa-Iran?

S.E. Ann Linde: Sono una responsabile delle politiche dell’Ue e in effetti l’Europa ha a lungo considerato le relazioni transatlantiche come la pietra angolare delle alleanze, in particolare per quanto riguarda la politica estera e di sicurezza, ma anche i legami economici e così via. Oggi, però, questa base si sta spostando e stiamo assistendo a una sorta di erosione delle alleanze tradizionali, il che significa che dobbiamo accettare il fatto che gli Stati Uniti stanno di fatto facendo un passo indietro rispetto al loro ruolo di leadership di lunga data, non solo per quanto riguarda le relazioni con gli Stati Uniti, ma anche per quanto riguarda il loro ruolo di leadership a livello globale. Lo vediamo ogni giorno con le nuove decisioni dell’amministrazione Trump che li stanno di fatto allontanando da un ruolo di leadership nel mondo. Penso che questo non abbia solo grandi implicazioni per l’Ue, ma anche per questa regione del Medio Oriente e Nord Africa (MENA). C’è bisogno di un ribilanciamento e forse anche di una ricalibrazione di con chi cooperare e su cosa farlo. Anche la questione dell’Iraq, che ha una forte relazione con l’Occidente e gli Stati Uniti, è rilevante.

Ora, nel momento in cui gli Stati Uniti stanno tornando indietro, entrano in scena nuovi attori: Turchia, Cina e Arabia Saudita. L’Ue, inoltre, deve considerare il Medio Oriente e l’Africa settentrionale in modo diverso: non possiamo più considerarlo solo come una zona cuscinetto o una fonte per questioni come la migrazione e l’energia, ma dovremmo anche formare un partenariato strategico tra l’Ue e l’area MENA che in realtà non abbiamo mai avuto prima. Dobbiamo costruire resilienza, sostenibilità e transizione verde, temi molto importanti, e accettare il fatto che l’area MENA è un attore che sta plasmando un ordine globale.

Maria Luisa Fantappiè: Ritiene che le relazioni Ue-Golfo possano essere uno dei motori di questo nuovo bilanciamento? E, sempre in relazione alla transizione, come vede il ruolo della Siria nello specifico?

S.E. Ann Linde: Di sicuro il legame transatlantico si è indebolito: era l’inizio di tutto. Era una pietra miliare e ora non lo è più, come si può notare dal fatto che il commissario al commercio è tornato a casa da Washington con le mani vuote. Credo che sarà molto difficile capire quanto siano profonde le implicazioni di queste tariffe. La Svezia è un Paese di 10 milioni di persone e siamo il decimo investitore negli Stati Uniti. Questo significa che, anche se in questa pausa verranno applicati dazi del 25% sull’acciaio, sull’alluminio, sulle automobili e del 10% su tutto il resto, la pausa non porterà a grandi cambiamenti e ora dobbiamo espandere la partnership con altre aree del mondo. Per la prima volta in assoluto, l’Unione europea ha avuto qualche giorno fa un dialogo ad alto livello con l’Autorità Palestinese: non era mai successo prima. L’Ue aveva instaurato rapporti solo con Israele, non con la Palestina: ora è la prima volta e l’aumento del budget per il sostegno alle infrastrutture e al buon governo in Palestina rappresenta un grande cambiamento.

 

Bader Al-Saif, professore assistente presso l’Università del Kuwait e associato alla Chatham House

Maria Luisa Fantappiè: In questo grande caos che stiamo vivendo, a volte sembra che i Paesi del Golfo siano quelli che hanno capito come navigare in questo ordine multipolare a livello globale e multi-allineamento anche a livello regionale. È vero?

Bader Al-Saif: Assolutamente d’accordo. Penso che in questo momento nel Golfo ci sia il senso di rivendicare il fatto che abbiamo sempre avuto ragione e che si percepisca la sensazione che il Golfo si sia sempre più visto come un centro a sé stante. Non c’è momento più significativo di questo per quanto riguarda la centralità del Golfo, se si osserva come si sta muovendo il mondo. Se posso ribattere sull’idea che stiamo entrando in un mondo multipolare, penso che molti nel Golfo non la pensino così e che questo sia probabilmente parte della loro storia di successo. Ci sono delle battute d’arresto, naturalmente, niente è perfetto, ma stanno cercando di muoversi lungo una certa traiettoria e l’argomentazione che ho esposto è che stiamo vivendo in un ordine mondiale frammentato e tale frammentazione richiede un senso di fluidità e agilità nel muoversi.

In questa frammentazione, si osservano diversi ordini mondiali in competizione tra loro, pertanto non si può affermare che stiamo passando rapidamente da un sistema unipolare americano a un sistema multipolare. Ci sono molte commistioni tra i due: prendiamo ad esempio il momento unipolare, che credo sia molto presente in questo periodo. L’America non sta per scomparire. Lo guardo dalla prospettiva del Golfo: guardate le alleanze di sicurezza che abbiamo, guardate i tre dossier più importanti degli Stati Uniti in materia di negoziazione e mediazione; stanno avvenendo nel Golfo, sia che si tratti della questione palestinese e israeliana, sia che si tratti dei colloqui tra Russia e Stati Uniti con gli ucraini a Riyadh, o più recentemente dei colloqui tra Stati Uniti e Iran a Muscat. C’è dunque la sensazione che questo momento stia evolvendo.

Ora, c’è anche la sensazione che ci sia un ordine imperiale che potrebbe andare oltre. La guerra della Russia all’Ucraina ne è stato un esempio, ma ora anche gli Stati Uniti stanno segnalando alcuni Paesi come parte dei loro interessi più ampi, che si tratti della Groenlandia, di Panama o del Canada. Sì, potrebbe trattarsi di un bluff, ma credo che, una volta esposto, ci siano molte cose da tenere a mente.

Maria Luisa Fantappiè: Mi chiedevo, ad esempio, se quando ha detto che in fondo è un po’ il vecchio mondo che esiste ancora nell’unipolarismo statunitense e un po’ il nuovo mondo che si sta realizzando allo stesso tempo, si riferisse anche al fatto che il nuovo mondo sta emergendo proprio mentre il vecchio mondo sta scomparendo. Per quanto riguarda il Golfo, tutti ci chiediamo quanto ancora abbiano importanza le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti per i Paesi del Golfo. Ho quindi una domanda su questo punto e anche riguardo al potenziale ruolo degli Stati del Golfo in un nuovo accordo nucleare. Come la vede?

Bader Al-Saif: Permettetemi di spiegarvi come ci vediamo all’interno di questo ordine globale in evoluzione. Credo che il modo migliore per riassumerlo sia dire che vediamo il mondo con una lente apolare e che non dovrebbe esistere. Pensare alla polarità, infatti, ci riporterebbe al passato. Si tratta di un’unità di analisi stanca e pigra. Dobbiamo andare oltre: quando si pensa al di là di questo, si fa un salto nel futuro e nei modi in cui possiamo connetterci gli uni con gli altri al di là dello Stato nazionale. Decentriamo lo Stato nazionale. Ci sono reti che si stanno sviluppando, connettività e agende che possono fungere da strade di sviluppo. Credo che i modi per andare avanti siano molti.

Le intese sulla sicurezza degli Stati Uniti? Sì, ci sono, e credo che stiamo anche lavorando per aggiornarli. Penso che ci sia stata una certa percezione, tra le varie amministrazioni sia repubblicane che democratiche, che gli interessi degli Stati Uniti si stessero allontanando. Ora, però, entrambi i partiti hanno capito che c’è un riorientamento con più comprensione del fatto che gli Stati del Golfo stanno prendendo in mano la situazione.

Per quanto riguarda i colloqui tra Iran e Stati Uniti, credo che molti Paesi del Golfo, se non tutti, abbiano rilasciato dichiarazioni di sostegno. Questo è l’obiettivo che vogliamo raggiungere. Ma, ancora una volta, non si dovrebbe concentrare eccessivamente sulle questioni nucleari. Credo che ci siano tre settori e che, se li consideriamo nel loro insieme, non siano nell’interesse solo dell’Iran e degli Stati Uniti, ma anche di tutti gli altri paesi coinvolti, e che riguardino anche l’attività missilistica e la rete di proxy. Ora, c’è chi dice che nel 2024 l’Iran sarà più debole; c’è chi sostiene che i proxy non siano più quelli di una volta, ma io non sono d’accordo.

Maria Luisa Fantappiè: Ma in Europa avreste il missile come parte dell’accordo? Intendo dal punto di vista del Golfo.

Bader Al-Saif: Credo che un accordo globale sia nell’interesse di tutte le parti coinvolte. Vogliamo una regione normalizzata in cui tutti possano prosperare insieme.

 

Renad Mansour, direttore dell’Iniziativa Iraq di Chatham House

Maria Luisa Fantappiè: Se domani lei fosse il consigliere del Primo Ministro Sudani, e lo fosse anche per il prossimo anno, visto che ha annunciato che si ricandiderà, cosa gli suggerirebbe come piano di politica estera per i prossimi cinque anni?

Renad Mansour: Prima di rispondere a questa difficile domanda vorrei riprendere quanto affermato da Al-Saif. Attualmente, a livello globale, si stanno verificando due dinamiche. In primo luogo, se si osservano i dati sui conflitti negli ultimi 10 anni, si può notare che i conflitti a livello globale sono raddoppiati: nel 2025 i conflitti nel mondo sono due volte superiori a quelli del 2015. La seconda dinamica è la frammentazione dell’ordine internazionale e la presenza di un sistema non propriamente unipolare né multipolare, ma quello che credo si stia definendo come multi-allineamento. Di conseguenza, le medie potenze della regione possono scegliere, di volta in volta, come approcciarsi. Non ci sono poli. Non si tratta di noi contro loro, dell’Est contro l’Ovest o dei comunisti contro la democrazia. Dipende dalle situazioni.

Come possiamo quindi unire queste due dinamiche per dare loro un senso? È possibile che il multi-allineamento sia in realtà la causa del raddoppio dei conflitti? Il Medio Oriente è il luogo in cui il cambiamento dell’ordine mondiale si sta manifestando in modo violento. È la prima linea del cambiamento delle dinamiche globali ed è per questo che stiamo assistendo alla violenza odierna. Non esistono sfere d’influenza rigide e l’Occidente, gli Stati Uniti e l’Europa hanno ancora una mentalità da Guerra Fredda nel comprendere i conflitti.

Ciò che sta accadendo nella regione da parte delle medie potenze, che si tratti del Golfo, della Turchia o, in qualche misura, dell’Iraq, è una presa di coscienza del fatto che non possiamo essere un Paese con politiche diverse basate su questioni diverse. Guardate l’Iraq. Per quanto riguarda il settore della sicurezza, in Iraq è presente una significativa missione della NATO, ci sono ancora delle missioni degli Stati Uniti e il governo iracheno continua ad avere accordi militari e di sicurezza con la Russia – tutti a Baghdad – e con altri Paesi. Quindi il Paese è multi-allineato e non viene spinto verso un solo orientamento.

Maria Luisa Fantappiè: Dunque secondo lei l’Occidente ha ancora una mentalità da guerra. Come è possibile? Intende dire che non si investe molto nella diplomazia? Invece, le potenze regionali hanno dimostrato di saper gestire le cose meglio.

Renad Mansour: Sì, le gestiscono in base alle situazioni. Un altro esempio che viene spesso usato: gli Stati Uniti, sotto massima pressione, stanno cercando di impedire all’Iran di esportare alcunché. Tuttavia, non sta accadendo. Anzi, in alcuni settori, come quello del GPL, l’Iran ha aumentato le sue esportazioni proprio quando le pressioni erano al massimo. Il motivo non è solo perché l’Iran fa parte dell’asse della resistenza. Oltre all’asse di resistenza, l’Iran può contare sul multi-allineamento. Ciò significa che l’Iran può inviare il suo carburante e il suo gas verso la Cina o verso altre parti dell’Africa, lavorando con alleati e avversari allo stesso tempo, perché su questo tema il panorama è diverso. Se si osserva la geoeconomia, il settore militare e la geopolitica, il rapporto tra il Golfo e l’Iraq, e persino con l’Iran, è un nuovo scenario. È un nuovo momento. Molti nel Golfo non sostengono più l’idea di dover “contenere l’Iran”. Anzi, ora sostengono l’impegno. Il punto è che, poiché il raddoppiamento del conflitto si è verificato in Medio Oriente, le potenze mediorientali stanno cercando di assumere il controllo della situazione per poter dire: “Come possiamo allontanarci da quel mondo multipolare, bipolare e unipolare della Guerra Fredda?”

Maria Luisa Fantappiè: L’azione aggressiva e l’uso della forza offensiva non funzionano sempre, e dobbiamo sempre investire nel multi-allineamento e nella diplomazia, o esiste una via di mezzo? Lo chiedo perché c’è un punto di vista secondo il quale, in realtà, Israele ha causato così tanta morte e distruzione, ma ora potrebbe nascere un nuovo Libano. Quindi, alcuni potrebbero dire: “Beh, sai, c’è stata molta distruzione, ma alcune dinamiche sono cambiate e l’uso della forza è legittimo”.

Renad Mansour: Penso che alcune tecnologie e tattiche di guerra impiegate da Israele, come gli attacchi con i cercapersone contro Hezbollah, mostrino un nuovo volto della guerra, un futuro da brivido. Inoltre, dimostra che il sistema giuridico internazionale e i sistemi dei diritti umani, costruiti dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono messi in discussione e contraddittori. Non credo che una soluzione militare possa risolvere davvero un problema politico e l’Iraq è un caso emblematico.

Maria Luisa Fantappiè: Spero che abbiamo fatto un po’ di chiarezza sul fatto che il mondo sta cambiando in base alle alleanze legate ai temi piuttosto che ai poli. Penso che tutti noi abbiamo notato che, dopo 20 anni, l’Iraq sta finalmente iniziando a definire una chiara linea di politica estera e che c’è una nuova visione che proviene dal Golfo che può sostenere l’integrazione regionale e l’Iraq, nonché potenzialmente un nuovo tipo di partenariato regionale dell’Ue in fase di sviluppo.

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Iran, Iraq e Medio Oriente

Con gli importanti sviluppi politici in Siria e Libano, il corridoio strategico che collega l’Iran al Levante sta subendo cambiamenti che un anno fa sarebbero stati impensabili. Il secondo panel del Sulaimani Forum, moderato da Zeinab Badawi, Presidente della SOAS, Università di Londra, ha esaminato cosa significano questi cambiamenti per le dinamiche politiche e di sicurezza in Medio Oriente e le prospettive di nuovi allineamenti o di ulteriore instabilità. Tra i partecipanti al panel S.E. Saeed Khatibzadeh, Vice Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Islamica dell’Iran, S.E. Rebar Ahmed Khalid, Ministro degli Interni del Governo Regionale del Kurdistan e Amb. Barbara A. Leaf, senior fellow presso il Middle East Institute, Assistente segretario di Stato per gli affari del Vicino Oriente degli Stati Uniti.

 

I principali cambiamenti critici nella regione

Zeinab Badawi: Abbiamo assistito a grandi cambiamenti politici in Siria, Libano e in altre parti del Medio Oriente. Vogliamo quindi esaminare le implicazioni di tutto questo per le dinamiche politiche e di sicurezza di questo corridoio strategico che collega l’Iraq al Levante e capire se porterà a nuovi allineamenti o se invece potrà creare ulteriore instabilità.

Saeed Khatibzadeh: Il Medio Oriente è probabilmente la regione più internazionalizzata che la politica internazionale abbia mai conosciuto. Qualsiasi cosa accada in questa regione avrà ripercussioni sulla politica internazionale. Tutti sanno cosa è successo dal 7 ottobre e quali cambiamenti ha portato. È evidente a tutti che questa regione sta attraversando profondi cambiamenti. Non sappiamo se questa sia l’ultima fase dei cambiamenti o se siamo in una fase di passaggio. Quello che posso dire è che stiamo assistendo sia alla continuità che al cambiamento. Non si tratta solo di cambiamenti e mutamenti, ma ci sono anche elementi di continuità nella nostra regione. Ciò che sta accadendo in questo momento è molto allarmante e in continuo cambiamento. Dobbiamo aspettare e vedere cosa succederà in futuro. La parte più importante di ciò che sta accadendo è il linguaggio nudo della forza: la situazione di guerra permanente che stiamo vedendo nella nostra regione, le atrocità che stiamo vedendo a Gaza, in Palestina, e anche questa illegalità, se posso dire, passata o post pactum, che stiamo vedendo in questa regione, è molto allarmante.

Rebar Ahmed Khalid: Quando parliamo del Medio Oriente, dobbiamo affrontare i problemi alla radice. I problemi in Medio Oriente sono iniziati molto tempo fa, all’inizio della formazione degli Stati nazionali in questa regione, dopo la prima guerra mondiale. Quindi, non era giusto per le nazioni che vivono in Medio Oriente. Quando parliamo di stabilità e sicurezza e di qualsiasi tipo di movimento dinamico in Medio Oriente, dobbiamo tenere in considerazione l’equilibrio tra le nazionalità che vivono qui e che appartengono alla prospettiva curda. Dobbiamo occuparci del futuro di tutte le nazioni della regione. Soprattutto quando si tratta di pace, sicurezza, stabilità e sviluppo della regione.

Noi, come nazione, siamo uno dei principali partner del Medio Oriente, in particolare il Kurdistan come nazione curda. Purtroppo, però, nel corso della storia non è mai stata trovata una soluzione equa per la nostra nazione e per il futuro della regione. Pertanto, quando parliamo di stabilità, dobbiamo tenere a mente il futuro di questa nazione. In Medio Oriente ci sono quasi 14 milioni di persone senza alcuna entità politica. Come ha affermato con forza il Presidente Neçîrvan Barzanî nel suo discorso, abbiamo bisogno di pace e stabilità per tutti. Questo si potrà ottenere attraverso il dialogo e il confronto pacifico con tutti, compresa la nostra nazione. In questo momento specifico abbiamo dimostrato di poter essere un fattore di stabilità e crediamo che i nostri diritti in Iraq debbano essere conformi alla Costituzione e in ogni singolo Paese della regione che comprende la nazione curda. Hanno il diritto di negoziare pacificamente con i loro governi, di assumere atteggiamenti e di affrontare le loro situazioni. Saremo più che felici di avere un Medio Oriente stabile e sicuro, senza milizie e senza conflitti, in cui tutti possano trarre vantaggio dalla stabilità.

Barbara Leaf: Lascerò trapelare un po’ dell’ottimismo che c’è in me, perché quello che vedo è quanto segue. Negli ultimi sei mesi abbiamo assistito a un cambiamento sismico in un’area molto vasta e fragile, ovvero il Libano e la Siria. Un cambiamento sismico che avviene forse una volta ogni due generazioni e che ha, in un certo senso, liberato sia i libanesi che i siriani dai pesi interni che gravavano sulla loro sovranità sotto forma di Hezbollah e sotto forma di procuratori dell’uomo che hanno disseminato il paesaggio siriano. La cosa più opprimente di tutte è stato il governo di Assad per 50 anni. Ora ci sono straordinarie opportunità, ma anche rischi e pericoli per queste persone e per i paesi vicini. Penso che sia molto importante che gli Stati chiave della regione, in particolare i vicini, ma non solo, si impegnino ad aiutare il popolo libanese e quello siriano a superare questo periodo di pericolo, perché, onestamente, le sfide, le minacce e le probabilità sono contro il successo delle transizioni in luoghi di così straordinaria fragilità e trauma. D’altra parte, che mondo nuovo si prospetta per il popolo siriano e per quello libanese? Sono preoccupata per entrambi gli Stati, ma credo anche che ci siano enormi opportunità per l’intera regione, nella misura in cui queste transizioni avranno successo.

 

La situazione in Siria

Zeinab Badawi: Barbara Leaf è stata uno dei primi funzionari statunitensi a incontrare Ahmad al-Shara e abbiamo sentito cose contrastanti su di lui. Lui stesso si presenta come un uomo con cui è possibile fare affari. Vuole aumentare i legami con l’Occidente e così via. Il suo governo è inclusivo, mentre lui ha una costituzione provvisoria con le protezioni civili e cose simili. Poi, c’è chi dice che in passato ha avuto legami con Al Qaeda e l’ISIS. L’avete conosciuto. Ci si può fidare di lui?

Barbara Leaf: Mi rifaccio a Ronald Reagan che diceva: “Fidati, ma verifica”. Ahmad al-Shara mi sembra un uomo profondamente pragmatico e moderato. È indubbiamente un leader politico, non semplicemente un capo milizia o un comandante militare. Questo è il modo in cui ha colpito non solo me o alcuni diplomatici europei a dicembre, ma anche molte altre persone nella regione che hanno avuto incontri simili e che hanno avuto modo di farsi un’idea di persona. Alla fine, sarà giudicato in base alla sua risposta alle numerose prove che si accumuleranno al di là della nostra vista. Quali sono queste prove? Le avete viste a marzo, con le terribili atrocità sulla costa e gli assalti ai civili innocenti che non avevano nulla a che fare con gli attacchi iniziali di elementi del regime di Assad. Questa risposta non è stata diretta da Damasco, ma è evidente che Damasco non aveva il controllo della situazione. Ha affermato di avere il controllo. Ha promesso di assumersi le proprie responsabilità. Vedremo, ma questa è una delle pericolose minacce che potrebbero ostacolare il successo della transizione, guidata da al-Shara o da chiunque altro, dopo 50 anni e, soprattutto dopo 14 anni di desiderio represso di vendetta e di rappresaglia. Quindi, tenere sotto controllo questo aspetto è importante. Essere responsabili e trasparenti è un altro paio di maniche. Il modo in cui affronterà la questione della sicurezza mostrerà il suo vero volto. Ma soprattutto, cosa farà per rendere concreta l’inclusività? Potrebbe avere una definizione diversa. Una definizione più ristretta di quella che i siriani stessi auspicano. Ma, ancora una volta, sta dicendo e facendo le cose giuste. Sta facendo un’ottima impressione sui leader regionali. Tuttavia, credo che sia logico aspettarsi che, quando sarà messo alla prova da queste diverse sfide per il successo della transizione, si vedrà se è davvero un uomo pragmatico.

Zeinab Badawi: Viceministro Saeed Khatibzadeh, qual è l’opinione di Teheran sulla Siria? Avrete sicuramente assistito alla rimozione del regime di Assad e ora vedete gruppi che erano alleati di Hayat Tahrir al-Sham, il gruppo guidato da Ahmad al-Shara. I sunniti negli Eserciti dell’Opposizione e così via. Avete assistito a un vero e proprio esaurimento dell’influenza iraniana in Siria. Quanto la preoccupa questo fatto?

Saeed Khatibzadeh: Nel 2013 ero di base a Berlino e ricordo di aver avuto colloqui ravvicinati e discreti con l’opposizione siriana. Nel 2013 non era il momento migliore per Assad e le sue truppe. Ci siamo incontrati in un hotel. Cinque leader dell’opposizione siriana, appartenenti a diverse fazioni e sezioni, hanno partecipato all’incontro. Io ero tra gli iraniani che li hanno incontrati. Durante tutti questi anni, abbiamo cercato di raggiungere diverse opposizioni genuine e anche alcuni esponenti del governo. Ricordo che all’epoca seppi che una delle persone chiave di quell’incontro era morta. Era una persona di grande spessore e non so se la notizia sia corretta, ma la signora era presente all’incontro. Probabilmente non è contenta che io la nomini se è ancora viva, ma durante l’incontro mi ha chiesto: “Perché insisti tanto su Assad?” Era il 2013. Era una sorta di ministro degli Esteri ad interim dell’opposizione. Le ho detto: “Senti, siamo molto preoccupati per il dopo Assad, perché si verificherà un’occupazione, l’ISIS prenderà il sopravvento, i combattenti non siriani prenderanno il potere e gli elementi estremisti salafiti avranno l’opportunità di escludere gli altri”. Ho fatto un elenco delle nostre preoccupazioni.

Ora, rispondendo alla sua domanda. Vedo la situazione in Siria e vorrei essere ottimista, ma è davvero il caso? Ora si registra una minore occupazione in Siria? Gli israeliani non solo hanno occupato le alture del Golan, ma si trovano anche a 40 km da Damasco. Miei cari amici, qualsiasi Paese sotto occupazione non può godere di prosperità, stabilità, pace e sviluppo. Gli israeliani non hanno alcuna intenzione di andarsene. Sono lì per restare. Una parte della Siria è occupata dagli Stati Uniti, un’altra parte dalla Turchia, eppure crediamo in un governo inclusivo? Vorrei davvero crederci e avere fiducia nella trasformazione. C’è speranza, ma abbiamo bisogno di qualcosa in più. La speranza si trasformerà presto in frustrazione se continueremo a concentrarci su questi elementi. Per quanto riguarda l’Iran, al momento siamo un po’ lontani dalla Siria, stiamo osservando con cautela l’evolversi della situazione e sosteniamo il popolo siriano. Questo è ciò che faremo. Daremo il nostro sostegno con la buona volontà e con il buon ufficio, cercando di aiutare il governo siriano a essere il più inclusivo possibile e a cercare di ridurre gli errori nella costruzione del governo siriano in questi giorni.

Non stiamo affrettando le cose. Siamo pronti a impegnarci, siamo pronti ad aiutarli, siamo pronti a sostenerli. Se l’Iran non fosse in Siria, ora nessuno parlerebbe di HTS. Al-Qaeda sarebbe stato al potere in questo momento. Speriamo che l’HTS possa presto formare un governo inclusivo e cercare di allontanare quegli elementi siriani non combattenti che in realtà facevano parte dell’HTS. L’HTS era composto da siriani, ceceni, uiguri e molti altri combattenti non siriani. Non sappiamo ancora con certezza dove si trovino e non conosciamo il loro ruolo preciso. Siamo pronti a impegnarci se necessario.

Barbara Leaf: Il governo iraniano ha intenzione di sostenere il popolo siriano e di rimandare i combattenti stranieri in Siria. Ovviamente l’Iran ha portato afghani, pakistani, iracheni e altri. Quelli se ne sono andati e i combattenti stranieri nella grande tenda della coalizione con l’HTS sono un problema.

 

Il ritorno dell’ISIS in Siria

Zeinab Badawi: Sappiamo dai rapporti che l’ISIS è davvero riemerso in Siria. Il Soufan Center, il think tank con sede a New York, dice che gli attacchi compiuti dall’ISIS in Siria l’anno scorso sono triplicati, circa 700, e che sono più dispersi. Il think tank esprime anche preoccupazione per gli operativi dell’ISIS, migliaia dei quali sono detenuti in centri di detenzione e varie forze stanno cercando di tenerli sotto controllo. Questa minaccia è reale non solo per la Siria, ma per l’intera regione.

Rebar Ahmed Khalid: Vorrei parlare della lotta al terrorismo nella regione in generale. Più in particolare, in Iraq e in Siria. Noi curdi, attraverso le forze Peshmerga, siamo stati le prime forze a sconfiggere l’ISIS sul campo, grazie al sostegno ricevuto dalle forze della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, e questo sostegno è molto apprezzato in generale in Iraq e, in particolare, nel Kurdistan. L’ISIS rappresenta un problema nella regione da molto tempo. Non è la causa principale. Il terrorismo è una conseguenza di altri problemi politici, economici e sociali nella regione. È un problema di convinzioni. Credo che dobbiamo affrontare l’ideologia alla base di tutto ciò. Altrimenti, il terrorismo continuerà a manifestarsi in forme diverse, con nomi diversi e in tempi diversi, come è successo in passato. Tuttavia, quando si parla della Siria, bisogna considerare i cambiamenti positivi avvenuti di recente nel Paese: sì, c’è un vuoto e il terrorismo ne approfitta. L’ISIS è più attivo in alcune aree vicine al confine iracheno e noi siamo tutti pronti a sostenere la nuova amministrazione siriana e a Damasco.

Di recente, come tutti sanno, si è tenuto un incontro tra i Paesi vicini, tra cui Iraq, Turchia, Libano, Giordania e Siria. L’incontro, molto produttivo, si è tenuto in Giordania per affrontare la questione specifica siriana. Tuttavia, per poter cooperare efficacemente e scambiare informazioni, è necessaria una coalizione a livello locale o globale. La base dovrebbe essere lo scambio reciproco e la creazione di un database contenente tutte queste informazioni e i dati dei membri, in particolare quelli relativi al campo di al-Hol. Questa è una delle principali minacce e sfide per la sicurezza e la stabilità di tutto il mondo, non solo della Siria. All’interno dei campi di al-Hol si trova un gran numero di combattenti stranieri e migliaia di famiglie irachene e di membri del terrorismo vi hanno soggiornato. Di recente abbiamo collaborato in modo eccellente con il nostro partner di Baghdad e con i nostri partner regionali per affrontare questa problematica, cooperando con le forze della coalizione globale e con quelle siriane. Come possiamo mantenere queste aree sicure e protette per tutti? È una vera e propria sfida per il nostro confine e la situazione non sarà di supporto se si verificherà un qualsiasi punto debole in questo Paese.

Zeinab Badawi: L’Iran sta lavorando per cercare di destabilizzare la transizione politica in Siria?

Saeed Khatibzadeh: Penso che la questione non riguardi più l’Iran. Deviare la vera questione non aiuterà nessuno. Ora tutto è in mano a coloro che sostengono HTS e al-Shara. L’Iran è presente? Non ci siamo mai resi conto che il governo centrale siriano non era più interessato a difendere il Paese nel momento in cui abbiamo lasciato la Siria. Non siamo mai stati in un Paese per combattere per conto del governo centrale di quel Paese. Siamo lì su richiesta del governo centrale di quel Paese. Quindi, potete vedere che abbiamo una politica coerente di sostegno al governo centrale del Qatar, che è completamente contrario all’Arabia Saudita. Ricordate che, su richiesta del governo centrale del Qatar, gli Emirati Arabi Uniti sostenevano molto l’HTS, mentre noi non eravamo dalla stessa parte. Con la Turchia, quando è avvenuto il colpo di Stato, avevamo il meccanismo di aiutarci a vicenda e di cercare di coordinare le nostre differenze sulla Siria attraverso questo processo. Siamo rimasti svegli tutta la notte per aiutare i nostri fratelli e amici in Turchia. Questa è una politica coerente dell’Iran che mira sempre a garantire la stabilità in questi Paesi, a prescindere da ciò che gli altri cercano di rappresentare.

Le accuse arrivano sempre quando c’è frustrazione. Quando le persone sono deluse, cercano una scusa. Ora, tutto è nelle mani di al-Shara e di coloro che lo hanno sponsorizzato per essere al potere in quel Paese. Questo è quanto. L’Iran non c’entra nulla. Siamo lontani da ciò che sta accadendo in Siria e stiamo osservando con cautela. Raccomando a chi sta sostenendo il governo siriano in questo momento di agire con responsabilità. Cercate di agire in modo responsabile. L’Iran, ancora una volta, è pronto ad aiutare il governo siriano e a trasformarlo in un governo inclusivo migliore, se ci sarà una richiesta in tal senso, e questo è il messaggio ufficiale che vi sto trasmettendo in questo momento.

 

La situazione in Libano

Zeinab Badawi: L’Iran ha visto diminuire la sua influenza in Libano, ovviamente con i problemi che Hezbollah ha avuto con l’assassinio di Nasrallah e tutto il resto. Ora vediamo il presidente libanese Joseph Aoun e altri membri del governo impegnati con i parlamentari di Hezbollah sulla questione dell’arsenale di Hezbollah e sull’elaborazione di una nuova strategia di difesa nazionale. Tuttavia, ci giungono notizie che Hezbollah si starebbe riarmando tramite le rotte marittime. E che l’Iran sia coinvolto in questo. Mi chiedevo quindi se potesse commentare la posizione del suo governo nei confronti di Hezbollah e del Libano e le nuove dinamiche in quel Paese.

Saeed Khatibzadeh: Quello che sta accadendo in Libano è un argomento che tutti stanno seguendo da vicino, compreso l’Iran, e credo che tutti coloro che sono interessati alla stabilità e alla pace in Medio Oriente lo stiano facendo. Hezbollah è nato dall’invasione israeliana del Libano del 1981. Prima del 1981 non c’era nessun Hezbollah. Hezbollah è nato quando gli israeliani hanno iniziato l’occupazione e l’invasione del Libano. Finché c’è un’invasione, un’aggressione o un’occupazione, c’è una resistenza. Chiunque sia al di fuori della regione, chiunque siano le forze extra regionali che costringono la resistenza ad accettare l’occupazione fallirà. Con o senza l’Iran, la resistenza rimarrà. Coloro che vengono da fuori della nostra regione, probabilmente, stanno solo leggendo e vivendo con noi, cercando di seguire ciò che sta accadendo. Ma noi viviamo in questa regione. Viviamo la profonda frustrazione che c’è nel cuore di tutti in questa regione e le ferite che si riaprono al solo pensiero di un palestinese dopo che il primo ministro di Israele ha ucciso e massacrato almeno 50.000 persone. Cosa è successo a Gaza? Avete sentito qualcosa dagli Stati Uniti in questi giorni? Per sentire coloro che sostengono il Primo Ministro israeliano, egli esce allo scoperto e dice davanti a tutti “finiamo il lavoro”. Chi sta pensando che “finiamo il lavoro” si riferisca all’Iran? Lui sa che l’Iran è capace di cosa? Quindi non sta parlando dell’Iran. Forse sta parlando del fatto che gli Stati Uniti si confrontano direttamente con l’Iran, ma la cosa più importante che sta suggerendo è di “finire il lavoro”, rendendo impossibile la creazione di uno Stato palestinese. Come? Ma senza nazione e senza territorio. Questa è la realtà sul campo. Quello che vedo ora in Libano è molto simile a questo. Il braccio di Hezbollah è una questione molto interna. Spetta a Hezbollah, come forza politica libanese in Parlamento e agli altri, pensiamo che tutti abbiano visto gli sviluppi all’interno del territorio libanese.

Barbara Leaf: Quello che sta accadendo in Libano è che lo Stato sta riuscendo a riaffermare la propria autorità nei confronti di un’istituzione parallela. Il Libano ha sofferto per 40 anni a causa di uno Stato parallelo e di uno Stato predatore, Hezbollah. Molto tempo dopo che gli israeliani hanno lasciato il Libano meridionale, Hezbollah ha continuato a operare come tale e rappresenta una minaccia per la sovranità e l’autorità dello Stato. È quanto ha dichiarato la nuova leadership del Libano, che sta cercando di riprendersi la sovranità del Paese. Questo è un punto. Per quanto riguarda la Siria, l’Iran ha sostenuto il regime di Assad e il governo centrale nel suo tentativo di brutalizzare milioni di siriani. Quindi, ancora una volta, è positivo sentire che l’Iran sta ora cercando di sostenere con cautela il popolo siriano, ma vorrei solo dire che avete molto da insegnare ad altri Paesi riguardo all’occupazione e al portare proxy sul loro territorio. Per ora, il governo di Damasco non ci ha accusato di occupare il territorio siriano. Piuttosto, stiamo aiutando a combattere lo Stato Islamico e promuovendo la riconciliazione.

Rebar Ahmed Khalid: Cercherò di creare un collegamento tra tutte queste parti del puzzle in Libano, in Siria, in Iraq e in Iran e di trarre vantaggio dall’esperienza maturata in Medio Oriente, dove diversi Paesi cercano di armare la regione. Questo non è positivo per la stabilità e la sicurezza dell’area, perché non si tratta solo di interessi locali. È una questione che coinvolge le forze internazionali e le superpotenze di tutto il mondo. Quando parliamo di armamenti in Libano, in Siria e, in precedenza, in Iraq, si è verificata la stessa situazione e ora in Iran. Quindi, tutti spendono un gran numero di miliardi di dollari per queste armi. In fin dei conti, però, non ne traggono alcun beneficio. Il loro obiettivo è distruggere la stabilità, la pace e la coesistenza in Medio Oriente. Dobbiamo quindi concentrarci sul rafforzamento delle nostre capacità interne e sull’integrazione reciproca in Medio Oriente nell’ambito del processo economico e delle aree di sviluppo.

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Il Sud Globale ha perso il suo Papa. Il mondo ha perso la sua coscienza

Papa Francesco non era un liberale, ma ha incarnato uno spirito di solidarietà internazionale sempre più raro. La sua morte, avvenuta il giorno dopo l’incontro con il Vice-Presidente statunitense, JD Vance, ha assunto connotazioni ancora più sinistre quando la deputata Repubblicana Marjorie Taylor Greene – sostenitrice di Trump e autoproclamata “nazionalista Cristiana” – sembrava accogliere con favore la sua scomparsa come un “segno della sconfitta del male”.

A dispetto di una serie di tensioni con la Casa Bianca, Francesco non è stato affatto un liberale. Nonostante cercasse di astenersi dal giudicare l’omosessualità, ha espresso chiaramente la sua disapprovazione verso le riforme liberali della Chiesa Cattolica in Germania, che nel 2023 aveva stabilito che i dipendenti ecclesiastici non potessero essere licenziati sulla base del loro orientamento omosessuale o per essersi risposati dopo un divorzio. Su temi come l’aborto, l’eutanasia, i diritti delle donne e quelli LGBTQ+, Francesco ha deluso le grandi aspettative che i liberali e i progressisti avevano riposto in lui.

I liberali hanno anche criticato la sua posizione in merito alla guerra in Ucraina: Francesco sembrava simpatizzare con la narrazione russa del conflitto, suggerendo che fosse stata causata, riportando le sue parole, dall’“abbaiare della NATO alla porta della Russia”. Ciò non significa che fosse insensibile alla sofferenza ucraina: il pontefice, specialmente grazie agli sforzi del Cardinale Matteo Zuppi, ha instancabilmente cercato di mediare sulle questioni umanitarie legate alla guerra, a partire dai rapimenti di bambini ucraini da parte della Russia, per cui la Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto per Vladimir Putin.

Il papa argentino è stato inequivocabilmente una delle voci più potenti del Sud globale, se non la più potente: non è stato solo il primo papa proveniente dall’America Latina, ma anche il primo non europeo a guidare la Chiesa da Papa Gregorio III, nato in Siria, nell’ottavo secolo.

Francesco è stato anche un papa guidato da principi saldi. Sulla questione del Medio Oriente, e in particolare a Gaza, ha sostenuto con fermezza l’urgenza di rispettare i diritti umani e il diritto internazionale. Ciò che colpiva non era solo la sua posizione morale, ma la sua irremovibile vicinanza alla sofferenza palestinese: ogni sera, anche quando era ormai fragile e malato, chiamava l’unica parrocchia cattolica nella devastata Striscia di Gaza.

Un pilastro fondamentale del pontificato di Francesco è stato il dialogo interreligioso, attraverso cui ha cercato di ripristinare i rapporti tra cristiani e musulmani dopo le frizioni causate da Benedetto XVI. Il suo impegno si è concretizzato in gesti storici: dalla prima visita di un pontefice nel Golfo alla firma di un documento sulla fraternità umana con i leader sunniti nel 2019. Un impegno che si è esteso anche agli Sciiti, con l’incontro storico a Najaf, in Iraq, con il Gran Ayatollah Ali al-Sistani nel 2021.

Francesco si è fatto papa del Sud globale anche grazie alla sua costante attenzione verso temi come salute, povertà, clima e migrazione. Nella sua enciclica del 2015, Laudato Si’, ha elevato la protezione ambientale allo stesso livello della giustizia sociale nella dottrina vaticana. Essendo figlio di migranti e portavoce degli ultimi, è stato severo nella sua critica all’ “Europa fortezza”. Il suo primo viaggio da pontefice è stato sull’isola di Lampedusa, al largo della quale decine di migliaia di migranti hanno perso la vita. Più recentemente, ha criticato le deportazioni di massa di Trump, contestando l’interpretazione distorta del principio cattolico ordo amoris da parte di Vance, secondo il quale la compassione dovrebbe essere mostrata prima alla propria famiglia e ai propri connazionali, e solo successivamente al resto del mondo.

Francesco ha parlato di questioni vicine a chi è stato lasciato indietro, sostenendo un livello di principi che raramente è stato dimostrato dai leader del Nord o del Sud globale, incarnando quello spirito di solidarietà internazionale che nacque con gli accordi di Bandung del 1955 e che oggi scarseggia dappertutto. Quando i 135 cardinali si riuniranno in conclave per scegliere il prossimo pontefice, ci sono buoni motivi per credere che la direzione apocalittica auspicata dal mondo dell’estrema destra MAGA non prevarrà. La Chiesa cattolica sotto Francesco è molto cambiata, e gran parte dei cardinali considerati “papabili” provengono dall’emisfero Sud o sono vicini alle cause promosse durante il suo papato. Raccogliere l’eredità di Francesco come voce coerente e radicata nei principi del Sud globale non sarà facile. Ma il mondo ne ha bisogno più che mai.

La scarsa abilità negoziale pesa sui colloqui per la tregua in Ucraina

L’immagine di Donald Trump e Volodymir Zelensky seduti uno di fronte all’altro al centro della basilica di San Pietro conserverà a lungo tutto il suo impatto emotivo. Due mesi dopo la penosa scenata nello Studio Ovale, si riannoda un filo di comunicazione tra Stati Uniti e Ucraina e nella cornice solenne delle esequie del Pontefice sembra aprirsi uno spiraglio di dialogo. In tanti vorrebbero credere in un primo passo per una tregua, resa oggi ancor più necessaria dalla stanchezza e dagli orrori della guerra voluta da Mosca. Qualcuno ipotizza addirittura un miracolo del Papa appena scomparso. È il segno di quanto sia diffusa la domanda di pace.

Siamo indotti a pensare che le armi potrebbero davvero tacere e che le dispute siano riconducibili a un tavolo negoziale, anziché essere risolvibili nelle trincee o con missili e droni. Se tutto questo è plausibile e giustificato dal desiderio che sia posta fine a una guerra insensata, occorre separare i desideri dalla realtà, soprattutto quando questa è costellata di minacce gravi e di ostacoli grandi come macigni.

Le mosse della nuova amministrazione americana per una soluzione diplomatica e rapida della guerra sinora hanno allontanato la meta, anziché ravvicinarla. Lo sbrigativo allineamento iniziale di Trump con le condizioni poste dalla Russia ha complicato l’esercizio e nuociuto alla mediazione americana: non si può mettere il peso su un solo piatto della bilancia, tanto meno a sostegno delle posizioni di chi ha avviato la guerra. Né è produttivo un negoziato in cui prima ancora del suo inizio si fissino a favore di una parte concessioni unilaterali, non bilanciate da elementi a favore della controparte, come quelle imposte a Kyiv, quali la rinuncia de jure alla sovranità sulla Crimea, la perdita definitiva delle regioni ucraine orientali occupate (o annesse) dalla Russia, la cancellazione delle sanzioni alla Russia.

Anche se può apparire un aspetto marginale, difficoltà derivano anche da un certo divario di abilità negoziale. L’inviato di Trump, Steve Witkoff, è un immobiliarista poco esperto di diplomazia, che saluta Putin con la mano sul cuore e deve fronteggiare la grande professionalità dei negoziatori russi. Ma soprattutto a ridimensionare qualche ottimismo di troppo pesa il fatto che sinora Mosca non si è spostata di un centimetro dalle sue rivendicazioni, confermate da poco dal ministro degli Esteri Sergej Lavrov: preclusione definitiva dell’eventuale entrata dell’Ucraina nella Nato, riconoscimento di Crimea e delle quattro regioni orientali (Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhizhia) quali territori russi, eliminazione della sanzioni alla Russia, smilitarizzazione e “denazificazione” dell’Ucraina. Colpisce la quasi totale corrispondenza con le prime indicazioni di Washington.

D’altra parte, negli ultimi giorni Donald Trump non ha nascosto la frustrazione né il timore che il capo del Cremlino lo stia prendendo in giro: parla di pace, ma aumenta i bombardamenti su obiettivi civili ucraini (Sumy, Kyiv e altri centri). Certo, c’è da seguire l’andamento contraddittorio dell’umore presidenziale dai suoi post. Tuttavia, dopo appelli e proposte non risolutivi, il presidente Usa potrebbe ricalibrare la sua linea con una pressione mirata su Mosca. La priorità è sospendere i combattimenti. L’oltranzismo russo, le intermittenti minacce di Mosca e la contrarietà russa all’intesa appena firmata Ucraina-Usa per lo sfruttamento congiunto delle risorse minerarie ucraine potrebbero determinare qualche ripensamento di Trump sulla sua linea accondiscendente con Mosca.

A Kyiv il realismo è d’obbligo ed è gratificato dalla ripresa degli aiuti finanziari americani alla difesa dell’Ucraina, i primi dell’era Trump, anche se relativamente modesti (50 milioni di dollari). Ora Zelensky mira soprattutto a un cessate il fuoco, più lungo dei tre giorni concessi da Putin, su cui avviare finalmente un negoziato equo, con mutue rinunce. Su tutto il resto, territori, garanzie di sicurezza, sanzioni, ricostruzione, collocazione internazionale dell’Ucraina – è il sottinteso – si dovrà trattare a bocce ferme, non sotto le bombe.

A questo punto anche gli europei, esclusi dai colloqui diretti, potrebbero raccomandare a Washington maggior rigore nei confronti di Mosca. Se si vuole davvero mettere fine a questa sciagurata guerra, più che quelli che l’hanno subita e patita sulla loro pelle occorre convincere chi l’ha iniziata. Ma la strada è ancora molto lunga e tutta in salita.