Il GCAP e la via italiana all’airpower
Alla fine del 2022 il programma Tempest, in precedenza avviato da Regno Unito e Italia per lo sviluppo di un velivolo da combattimento di sesta generazione, si è trasformato in un’iniziativa trilaterale con l’ingresso del Giappone, dando vita al Global Combat Air Programme (Gcap). L’ingresso di Tokyo è stato significativo in considerazione della sua capacità finanziaria, dell’allineamento tecnologico e dell’esperienza condivisa nel programma F-35 cui partecipano anche Londra e Roma. Al contrario, l’uscita della Svezia è stata influenzata dalla sua preferenza per lo sviluppo di velivoli senza pilota complementari al Gripen, anziché impegnarsi in una piattaforma con equipaggio completamente nuova. L’emergere del Gcap come iniziativa congiunta tra Regno Unito, Italia e Giappone ha di fatto escluso qualsiasi futura fusione con il programma Future Combat Air System condotto da Francia, Germania e Spagna, data la divergenza nei requisiti militari, nelle strutture di governance e nelle priorità industriali.
Il Gcap ha ampie implicazioni geopolitiche, in particolare nel plasmare le dinamiche trilaterali tra Regno Unito, Italia e Giappone. Mentre i primi due stati condividono l’appartenenza alla Nato, il crescente allineamento del Giappone con l’Alleanza atlantica e il rafforzamento dei legami bilaterali con entrambi i Paesi riflettono l’importanza sempre maggiore della cooperazione sulla sicurezza nell’Indo-Pacifico. Il programma richiede compatibilità con gli standard Nato integrando allo stesso tempo i requisiti specifici dei suoi soci fondatori, aggiungendo così ulteriore complessità alla sua gestione.
Anche le differenze culturali e geografiche rappresentano una sfida. A differenza delle precedenti collaborazioni europee, la cooperazione sul Gcap si estende su due continenti; ciò rende necessario un efficace coordinamento nonostante le diverse prassi industriali e prospettive strategiche. Una possibile soluzione è la decentralizzazione della produzione su più siti, per aumentare la resilienza e ridurre le vulnerabilità della catena di approvvigionamento, una delle lezioni apprese dai problemi causati dal conflitto tra Russia e Ucraina. Il Gcap ha portato alla maturazione di relazioni bilaterali più solide, in particolare tra Italia e Giappone che prima di questa iniziativa avevano una limitata cooperazione nell’ambito della difesa. Roma e Londra vantano una lunga storia di progetti congiunti, supportati da aziende con una presenza in entrambi i Paesi come Leonardo e Mbda, mentre la partecipazione del Giappone segna un cambiamento strategico nell’approccio nipponico alla collaborazione internazionale nella difesa. Il rafforzamento di questi legami evidenzia l’importanza del Gcap non solo per lo sviluppo di un caccia di nuova generazione, ma anche per il ruolo di Regno Unito, Italia e Giappone come attori chiave nel plasmare il futuro delle capacità nel combattimento aereo.
L’impegno dell’Italia nel Gcap è solido e coinvolge governo, forze armate e industria. Nonostante il generale scetticismo dell’opinione pubblica interna sulle spese militari, il governo di Giorgia Meloni ha investito un significativo capitale politico nell’iniziativa. Il ministro della Difesa Guido Crosetto si è distinto come un sostenitore convinto, e sia l’Aeronautica Militare che l’industria dell’aerospazio e difesa hanno promosso attivamente il programma.
I documenti strategici della Difesa sottolineano l’importanza del Gcap. Le Linee di indirizzo 2022 del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare evidenziano come le capacità di combattimento aereo di nuova generazione siano un elemento cruciale per le operazioni multidominio. L’Atto di indirizzo 2025-2027 del Ministero della Difesa considera il Gcap un’opportunità per stimolare investimenti in ricerca e tecnologia. Il Documento programmatico pluriennale (Dpp) 2024-2026, che definisce le priorità strategiche dell’Italia, assegna 8,9 miliardi di euro al Gcap fino al 2050, sottolineandone il ruolo nel rafforzamento delle capacità militari italiane.
A differenza del divisivo programma F-35, il Gcap ha finora incontrato una minima opposizione politica in Italia, in parte grazie all’assenza di un coinvolgimento degli Stati Uniti, il che garantisce all’Italia una maggiore autonomia operativa e tecnologica. Roma ha ottenuto una partecipazione paritaria del 33,3 per cento nel Gcap, come Regno Unito e Giappone, assicurandosi benefici industriali ben superiori a quelli ottenuti con l’F-35. Il ministro Crosetto ha fatto della partnership paritaria una priorità, rafforzando la posizione dell’Italia all’interno del programma.
Roma continua a considerare Londra un partner europeo chiave nella difesa, partnership oggi rafforzata dalla visione più positiva dell’UE da parte del governo laburista britannico. L’inclusione del Giappone nel Gcap rappresenta invece un’ulteriore novità nei partenariati dell’Italia in questo ambito. Il principale focus geopolitico di Roma rimane il cosiddetto Mediterraneo allargato, ma il coinvolgimento di Tokyo nel Gcap amplia la sua prospettiva strategica verso l’Indo-Pacifico. Tale ampliamento viene rafforzato con una maggiore cooperazione militare interregionale, inclusa la partecipazione dell’Italia nell’esercitazione Rising Sun 2024 in Giappone. La natura tripartita del Gcap inoltre supporta indirettamente l’interesse crescente della Nato per la cooperazione nell’Indo-Pacifico e contribuisce ad avvicinare Tokyo all’Europa nel settore della difesa, come sottolineato anche dal nuovo status di osservatore del Giappone nel progetto Eurodrone.
Da una prospettiva militare, il Dpp sottolinea la necessità per l’Italia di sostenere autonomamente conflitti ad alta intensità. La guerra in Ucraina ha aumentato la necessità di un mix di capacità militari alto-basso in termini sia di livello tecnologico che di assetti militari; il Gcap rappresenta la componente alta della gamma. L’Aeronautica Militare prevede che il Gcap sia il fulcro di un sistema di sistemi, che integra diversi assetti collegati in rete, tra cui i velivoli da combattimento senza equipaggio (Uncrewed Combat Air Systems, Ucas) e armamenti come i missili per migliorare le capacità operative. Il programma rappresenta un salto in avanti nelle tecnologie dirompenti e richiede una stretta collaborazione tra tutti i soggetti coinvolti: militari, industriali, università e centri di ricerca.
Il Gcap sarà complementare per un certo periodo alle piattaforme in servizio quali Eurofighter e F-35, mentre nel lungo periodo sostituirà la prima. L’Italia ha acquistato un totale di 118 Eurofighter, comprese le nuove varianti della Tranche 4 da poco ordinate, che rimarranno in servizio fino agli anni ’60 di questo secolo e saranno interoperabili con il Gcap. La flotta italiana di F-35 è in espansione, con piani per operare un totale di 115 aerei, aumentando la padronanza italiana delle tattiche basate sulla bassa osservabilità. Intorno al 2040, l’Aeronautica Militare probabilmente opererà oltre 180 tra F-35 e Eurofighter aggiornati, in concomitanza con l’introduzione del Gcap, consolidando la sua posizione come una delle forze aeree più avanzate d’Europa. Tuttavia, l’Italia è indietro rispetto agli Ucas, un divario che il Gcap potrebbe aiutare a colmare attraverso lo sviluppo dei sistemi ausiliari della piattaforma principale.
Sul fronte industriale, il Gcap presenta importanti opportunità per l’industria dell’aerospazio e difesa italiana, in particolare per Leonardo (Lead Systems Integrator, Lsi), per Avio Aero e Elt Group (Lead Sub-Systems Integrator, Lssi), ma anche per Mbda Italia e per l’intera filiera, comprese le piccole e medie imprese (Pmi), gli istituti di ricerca e le università. Persistono tuttavia delle sfide strutturali, tra cui i limitati investimenti nei settori chiave e la riluttanza di alcuni soggetti civili a impegnarsi in un progetto avanzato e altamente classificato come il Gcap. Il programma potrebbe favorire significativi progressi tecnologici ad ampio spettro e richiede una vasta mobilitazione industriale. Il Ministero della Difesa italiano ha lanciato la Gcap Acceleration Initiative nell’aprile 2023 per promuovere l’innovazione, sfruttando la collaborazione tra industria, università ed enti di ricerca.
Il settore aerospaziale italiano ha mantenuto nel corso dei decenni competenze nel design di aerei militari, ma il Gcap rappresenta un salto significativo. Nonostante il programma Eurofighter abbia fornito un’esperienza importante in termini di design authority, l’Italia ha avuto un ruolo secondario rispetto alla Germania e al Regno Unito. Successivamente, il limitato trasferimento di tecnologia e la presenza di “black box” nel programma F-35 hanno frustrato gli attori italiani. Al contrario, l’impegno del Gcap per un accesso paritario alla tecnologia si allinea con l’insistenza dell’Italia sulla sovranità operativa. Garantire un sistema completamente aperto e condividere tecnologie critiche sarà fondamentale per il successo del programma. Attraverso l’ottenimento di una ripartizione equilibrata del lavoro in termini di qualità e quantità, l’Italia punta a massimizzare i benefici strategici e industriali provenienti dal Gcap. In questo contesto, i principi di Freedom of Action (FoA) e Freedom of Modification (FoM) sono fondamentali per ciascuno dei tre Paesi partner al fine di mantenere la sovranità tecnologica e operativa tramite la completa capacità nazionale di operare e modificare la piattaforma e le sue componenti.
L’AeroSpace Power Conference tra strategia, tecnologia e leadership
La II edizione dell’AeroSpace Power Conference organizzata a maggio 2025 a Roma dall’Aeronautica Militare italiana, con la partnership scientifica dello IAI, si concentra sul presente e futuro del potere aereo e spaziale in un contesto internazionale purtroppo sempre più instabile.
La guerra russa contro l’Ucraina in corso dal 2022 e le sfide crescenti poste dalla Cina nell’Indo-Pacifico (e non solo) hanno reso lo scenario di un conflitto tra pari più probabile rispetto ai precedenti trent’anni per i membri e i partner della NATO, segnando una cesura rispetto al periodo post-Guerra Fredda segnato dalla prevalenza ed espansione del modello occidentale. È prevedibile che la competizione geopolitica globale in corso aumenterà nel medio-lungo termine, e quindi le aeronautiche occidentali, e più in generale le forze armate, devono prepararsi a combattere e vincere conflitti complessi, ad alta intensità e su larga scala, in primo luogo per prevenirli attraverso un’efficace deterrenza e, in secondo luogo, qualora quest’ultima fallisse, per porre fine alla guerra il prima possibile.
Di fronte a questa preoccupante realtà, è necessario migliorare e potenziare il dialogo strategico tra la leadership politica e le forze armate al fine di generare una comprensione condivisa, più chiara e approfondita delle minacce e dei rischi, specialmente in Europa. Comprensione a sua volta necessaria per compiere le scelte migliori al fine di proteggere la popolazione e i territori dei Paesi NATO attraverso il continuum pace-crisi-conflitto, un continuum dai confini labili che segnerà stabilmente il quadro strategico internazionale per i prossimi anni. Tale comprensione dovrebbe essere meglio comunicata all’opinione pubblica dei Paesi membri e dei partner della NATO, nel quadro di una sana dialettica democratica alimentata da un dibattito più approfondito e accurato sulle questioni della sicurezza nazionale ed internazionale.
Il successo passato, presente e probabilmente futuro del potere aereo dipende in larga misura dall’accesso a tecnologie chiave e sistemi d’arma avanzati, il che rende l’industria dell’aerospazio e difesa un partner e un attore cruciale. I partenariati pubblico-privati sono quindi fondamentali per affrontare le sfide poste dalla competizione tecnologica globale, e richiedono alle forze armate una visione chiara del loro futuro e una strategia coerente. È prioritario il mantenimento del vantaggio tecnologico, della sovranità operativa sui mezzi e della sicurezza degli approvvigionamenti in caso di crisi o conflitto, anche affidandosi a una catena di approvvigionamento più ampia, diversificata e globalizzata rispetto al passato. Ciò implica anche la creazione di innovative collaborazioni internazionali con partner vecchi e nuovi, militari e industriali, come nel caso del Global Combat Air Programme (Gcap).
I Paesi occidentali dovranno adattare i propri approcci al procurement al fine di accelerare l’entrata in servizio delle nuove tecnologie e sfruttare l’innovazione trainata dal mercato civile. Inoltre, dovranno dotarsi di equipaggiamenti che siano, allo stesso tempo, “secure by design” e costruiti attraverso un’architettura aperta che consenta aggiornamenti ed upgrade più costanti ed efficienti. L’intera gamma di tecnologie emergenti e dirompenti costituisce il principale campo di competizione strategica a livello globale. L’intelligenza artificiale pone nuove sfide, rischi e opportunità per le forze armate, in primis per quanto riguarda una varietà di droni che saranno massicciamente usati in caso di conflitto. Le capacità ipersoniche alla portata di diverse potenze mondiali alterano l’equazione tra tempo e spazio, influenzando significativamente i tempi di reazione richiesti per fronteggiarle e sottolineando, al contempo, un principio chiave del potere aerospaziale come la velocità. Lo spazio cibernetico e lo spettro elettromagnetico hanno acquisito un’importanza sempre maggiore per le operazioni militari.
L’evoluzione tecnologica non rappresenta l’unico fattore da considerare per lo sviluppo della postura dell’aeronautica e in generale delle forze armate. La dottrina militare si evolve infatti anche grazie alle lezioni tratte dai conflitti passati e presenti. Una guerra su larga scala, ad alta intensità e lunga più di tre anni tra Russia e Ucraina rappresenta uno spartiacque per i membri e i partner della NATO, ma è necessario uno sforzo per trarre i giusti insegnamenti per il potere aereo e spaziale.
Infine, ma non per importanza, a causa delle caratteristiche del dominio aereo, della struttura delle forze e del tipo di piattaforme in servizio, la leadership è fondamentale per le aeronautiche, a vari livelli della catena di comando. Ciò implica la capacità di prendere decisioni tempestive e un’attitudine propensa al rischio. Formazione e addestramento rimarranno cruciali per coltivare questi e altri aspetti della leadership, ma dovranno evolversi alla luce dell’evoluzione dottrinale e tecnologiche.
Leadership e dottrina, tecnologia e industria, strategia e politica, sono tutti binomi in continua e veloce interazione tra loro, a livello nazionale e internazionale. Costituiscono quindi un ecosistema tanto complesso quanto importante da comprendere, anche per l’Italia in quanto attore rilevante a livello europeo, transatlantico, del Mediterraneo allargato e, nel campo dell’aerospazio, sempre più a livello globale.
Gli autogol geostrategici degli Stati Uniti nell’Europa orientale
La vistosa assenza del segretario di Stato americano Marco Rubio alle consultazioni euro-americane a Londra per porre fine alla guerra russo-ucraina ha anticipato l’esito dei negoziati. Il nuovo tentativo americano di mediare tra Mosca e Kyiv, dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca a gennaio, è fallito. Per chiunque abbia familiarità con gli attuali sviluppi nell’Europa orientale, questa conclusione del nuovo approccio di Trump alla ricerca di un compromesso tra Russia e Ucraina era ampiamente prevedibile.
Negli ultimi tre anni, il Cremlino ha presentato all’Ucraina una serie di richieste che violano le regole fondamentali del diritto internazionale post-seconda guerra mondiale in generale e dell’ordine di sicurezza europeo post-comunista in particolare. In sostanza, Mosca ha chiesto e continua a chiedere a Kyiv, Washington e al resto del mondo di ignorare, nei confronti dell’Ucraina, paese membro regolare delle Nazioni Unite, i due principi fondamentali dell’ordine statale moderno: l’integrità territoriale e la sovranità nazionale. Washington, nella sua proposta per l’ultimo round di negoziati, ha in parte accolto le richieste della Russia. L’amministrazione Trump ha offerto, tra l’altro, di riconoscere formalmente l’annessione illegale della Crimea da parte della Russia nel 2014 e di annullare la prospettiva di adesione ufficiale dell’Ucraina alla NATO, stabilita nel 2008.
Queste concessioni degli Stati Uniti non rappresentano solo, nell’ambito delle relazioni internazionali in generale, uno sviluppo sconcertante che mina la sicurezza mondiale ignorando apertamente l’integrità e la sovranità di uno Stato membro regolare dell’ONU, ma sono anche paradossali nel contesto della politica estera delle precedenti amministrazioni repubblicane. Una prospettiva di adesione alla NATO, sebbene formulata in modo vago, era stata offerta all’Ucraina e alla Georgia al vertice NATO di Bucarest all’inizio di aprile 2008, sotto la guida e su insistenza dell’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush, membro del Partito Repubblicano. Ancora più sorprendente è il fatto che il segretario di Stato americano Mike Pompeo, durante la prima amministrazione Trump (2017-2021), abbia rilasciato una dichiarazione ufficiale sulla Crimea nel 2018. In tale dichiarazione, Pompeo affermava a nome del suo Dipartimento di Stato che “gli Stati Uniti respingono il tentativo di annessione della Crimea da parte della Russia e si impegnano a mantenere questa politica fino al ripristino dell’integrità territoriale dell’Ucraina“.
La seconda amministrazione Trump non solo ha clamorosamente ribaltato la precedente politica estera del Partito Repubblicano e una delle prime promesse più esplicite della precedente amministrazione Trump nei confronti dell’Ucraina, ma ha compiuto questi e altri incredibili compromessi nei confronti del Cremlino senza ottenere alcun risultato diplomatico concreto. Finora non si registra alcun allentamento del conflitto russo-ucraino né un’inversione sostanziale delle violazioni russe dell’integrità territoriale e della sovranità ucraina. In realtà, il palese allontanamento degli Stati Uniti dal diritto internazionale, dai principi occidentali e dalle tradizioni di politica estera americana sta producendo effetti opposti a quelli desiderati.
Si teme che il controverso comportamento internazionale di Washington, non solo nei confronti dell’Ucraina, ma anche in altri ambiti, continuerà a incoraggiare Mosca ad agire in modo ancora più avventato e aggressivo di quanto abbia fatto finora. La nuova linea di Trump potrebbe persino ridurre l’esitazione finora mostrata dal Cremlino a rischiare un’escalation militare diretta con uno Stato della NATO. Un candidato ideale per un attacco di questo tipo è l’Estonia, membro dell’alleanza nordatlantica, dove si trova Narva, la città più russa al di fuori della Russia, e che adotta un approccio restrittivo nei confronti dei residenti, del commercio e dei turisti russi.
Un’avanzata russa in un paese come l’Estonia è diventata più probabile dopo la pubblicazione della controversa proposta di Trump all’Ucraina. Un attacco a uno Stato membro della NATO coinvolgerebbe direttamente gli obblighi degli Stati Uniti ai sensi del Trattato di Washington del 1949 che istituisce l’Alleanza. Sebbene il piano di Trump sia apparentemente finalizzato alla pace, esso espone gli Stati Uniti – almeno fintanto che prenderanno sul serio il Trattato di Washington – al rischio di un confronto militare diretto con la Russia. Inoltre, la promessa di sostegno reciproco dell’Alleanza nordatlantica è stata oggi sottoscritta da ben 32 paesi europei e americani. Ciò implica che un conflitto armato di entità relativamente minore, ad esempio nella regione baltica, potrebbe rapidamente degenerare in una guerra europea o addirittura mondiale.
Le conseguenze più profonde del voltafaccia di Trump riguardano il regime mondiale di non proliferazione delle armi di distruzione di massa (WMD). La Russia, il suo alleato politico ufficiale, la Cina, e ora anche il suo quasi collaboratore, gli Stati Uniti, sono tutti Stati ufficialmente dotati di armi nucleari ai sensi del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP). Quando l’Ucraina ha ottenuto l’indipendenza nel 1991, era un Paese con migliaia di testate atomiche, ma ha accettato di diventare uno Stato non nucleare ai sensi del TNP. In cambio ha ricevuto garanzie dai cinque Stati nucleari ufficiali del TNP, che sono anche membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Attualmente solo la Francia e il Regno Unito rispettano ancora le cinque garanzie di sicurezza rilasciate all’Ucraina nel dicembre 1994.
L’accordo pubblico di Washington di riconoscere la Crimea come territorio russo e la sua evidente pressione su Kyiv affinché faccia concessioni a Mosca capovolgono la logica della non proliferazione. Il TNP e le convenzioni sulle armi chimiche e biologiche non appaiono più come accordi mondiali per prevenire la distruzione di massa. Al contrario, questi tre accordi sembrano ora stratagemmi per mantenere gli Stati non dotati di armi nucleari indifesi nei confronti delle grandi potenze espansionistiche. Uno scenario sempre più probabile è che i paesi di tutto il mondo abbandonino ufficialmente o tacitamente il regime di non proliferazione e si dotino di armi di distruzione di massa, innescando così un effetto domino, se non una vera e propria corsa agli armamenti nelle loro regioni.
Come in altri settori della politica interna ed estera degli Stati Uniti, dove la seconda amministrazione Trump sta attualmente stravolgendo consolidati accordi, il nuovo approccio di Washington alla guerra russo-ucraina costituisce, anche nell’ambito degli interessi nazionali americani intesi in senso stretto, uno sviluppo insolito. Gli Stati Uniti stanno prendendo le distanze dall’ordine mondiale che un tempo hanno contribuito a creare e dal quale hanno beneficiato per 80 anni. La sfiducia che Washington sta attualmente seminando nei confronti dell’ordine internazionale basato sulle regole in generale e della politica estera statunitense in particolare avrà conseguenze sempre più svantaggiose o addirittura pericolose per gli stessi Stati Uniti.
Politica estera Usa, Cina e la minaccia democratica dell’AfD
L’Ambasciatore Michele Valensise, Presidente dello IAI, è stato ospite del programma Spazio Transnazionale di Radio Radicale, condotto da Francesco De Leo. Nel corso dell’intervista, Valensise ha tracciato un bilancio in chiaroscuro dei primi 100 giorni della presidenza Trump, soffermandosi in particolare sulla politica estera: dai tentativi falliti di negoziazione con Russia e Ucraina, alle difficoltà nel rilanciare l’accordo sul nucleare con l’Iran. Durante la trasmissione si è discusso anche del ruolo dei rapporti tra Stati Uniti e Cina nel mantenimento dell’equilibrio globale, nonché della recente designazione del partito tedesco AfD come minaccia per la democrazia.
Caos al Pentagono: il Signal-gate colpisce Trump più del previsto
di Laura Gaspari
Gli ultimi due mesi non sono stati decisamente i migliori per il Dipartimento della Difesa statunitense e il suo Segretario Pete Hegseth, ex conduttore di Fox & Friends e fedelissimo di Donald Trump. L’ormai noto caso Signal-gate sta continuando a travolgere l’amministrazione Trump come una bufera ed emergono sempre più dettagli, nell’imbarazzo più totale del Pentagono.
Tutto parte il 24 marzo scorso, quando Jeffrey Goldberg, direttore del magazine The Atlantic, pubblica un articolo esclusivo intitolato The Trump Administration Accidentally Texted Me Its War Plans. Nell’articolo, il giornalista raccontava dettagliatamente, con tanto di screenshot, di essere stato inserito il 13 marzo in una chat di Signal – una app di messaggistica istantanea – con altri diciannove membri appartenenti al gabinetto del presidente Trump direttamente da Michael Waltz, Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Il gruppo, rinominatoHouthi PC small group, contava al suo interno il Vicepresidente JD Vance, il Segretario di Stato Marco Rubio, il Segretario della Difesa Pete Hegseth, il Direttore della CIA John Ratcliffe, la Direttrice dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard, il Segretario del Tesoro Scott Bessent, il Vicecapo del personale della Casa Bianca Stephen Miller, il suo superiore, Susie Wiles e l’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff. Nessuno di loro si è accorto della presenza di un estraneo nella chat. Lì, ha riportato Goldberg, si stava coordinando un attacco aereo, con tanto di dettagli, su alcuni bersagli Houthi in Yemen. Senza ripercorrere i dettagli della vicenda e della conversazione, quello che colpisce è che si tratta di informazioni estremamente importanti e classificate, che di norma dovrebbero stare blindate dietro strati e strati di sicurezza, soprattutto informatica. Signal invece, a opinione di molti esperti, non è una app abbastanza sicura per garantire questo grado di protezione: informazioni simili, se finite nelle mani sbagliate, possono risultare estremamente pericolose. Hegseth, infatti, aveva riportato dettagli sulla posizione dei piloti in volo che, se intercettati, avrebbero potuto essere facilmente colpiti da un banalissimo missile terra-aria. La paura, dunque, è ci sia stata da parte dell’amministrazione una violazione dell’Espionage Act del 1917 in quanto Signal non risulterebbe un’applicazione approvata a livello governativo per la condivisione di informazioni classificate.
La reazione generale si è divisa tra imbarazzo e ilarità, specialmente per le reazioni con emoji di Waltz e Witkoff. L’amministrazione Trump si è difesa screditando Goldberg, tenendo conto che il Presidente ha già avuto in passato problemi con il The Atlantic. Lo stesso Hegseth ha negato di aver condiviso dettagli sui piani di guerra in Yemen, dando a Goldberg del bugiardo. Subito dopo il giornalista ha pubblicato gli screenshot della chat su un altro articolo del 26 marzo, sbugiardando completamente il numero uno del Pentagono. Ovviamente la questione ha fatto scattare subito delle indagini, sia interne al Dipartimento della Difesa sia a livello di Congresso. Il terremoto è stato talmente forte che si vociferava di un licenziamento di Waltz da parte di Trump, cosa poi non avvenuta, con il Presidente fortemente dalla parte della sua amministrazione.
La vicenda però non si conclude qui. In un articolo del Guardian dello scorso 6 aprile, viene spiegato perché – probabilmente – Waltz avesse aggiunto Goldberg a quella chat. Secondo un’indagine dell’ufficio informatico della Casa Bianca, l’incidente sarebbe stato causato da una serie di coincidenze e sfortunati eventi, partiti proprio da un’e-mail di Goldberg alla campagna Trump a ottobre 2024 relativo a un articolo sui veterani feriti. In poche parole, l’iPhone di Waltz avrebbe salvato il numero del giornalista automaticamente a causa dell’inoltro di una mail.
Qualche settimana dopo Hegseth è di nuovo finito nell’occhio del ciclone, questa volta per un articolo del New York Times, in cui si sostiene che sia stata creata una seconda chat su Signal, tra i cui membri si contavano la moglie e il fratello. In questa seconda chat il Segretario della Difesa avrebbe condiviso dettagli su altri attacchi aerei e questioni di difesa. Anche in questo secondo caso è stato tutto categoricamente negato, ma il caos che si è generato al Pentagono non ha lasciato indifferente la stampa. Nel frattempo, Trump ha continuato ad attaccare i giornalisti e i media, screditando la credibilità delle informazioni e bollando tutto come un tentativo di gettare zizzania e ombre sulla bontà del suo circolo. Tuttavia, i dettagli che continuano a uscire sulla scarsità della sicurezza dei dispositivi elettronici o il lassismo dei membri del Gabinetto stanno facendo preoccupare per la sicurezza nazionale e internazionale degli Stati Uniti. Dalla linea internet non protetta dell’ufficio di Hegseth, al furto della borsetta contenente documenti e badge della Segretaria della Sicurezza Interna Kristi Noem, all’abitudine di Waltz di usare Signal per qualsiasi operazione, anche internazionale. Avvenimenti che hanno iniziato a far storcere il naso anche ad alcuni repubblicani, come Mitch McConnell e Don Bacon. Senza contare l’allontamento di Joe Kasper, ex capo del personale al Pentagono, dopo aver richiesto un’indagine sui leak. Il consigliere senior Dan Caldwell, il Vicecapo di gabinetto di Hegseth Darin Selnick e Colin Carroll, capo di gabinetto del Vicesegretario alla Difesa Stephen Feinberg, sono stati sospesi proprio a causa delle indagini sulle fughe di notizie sul Canale di Panama. L’ ex portavoce del Pentagono John Ullyot, in un’opinione su Politico, ha definito la situazione nell’agenzia “un inferno”. Una situazione che non dovrebbe verificarsi in un Paese come gli Stati Uniti, i cui segreti militari, se svelati o acquisiti da mani sbagliate, possono diventare estremamente pericolosi a livello globale. E risulta abbastanza comica la possibilità che il Segretario della Difesa, che dovrebbe essere l’incaricato presidenziale a coordinare l’esercito, diventi il target preferito – o comunque più facile da prendere di mira – dello spionaggio e controspionaggio internazionale. Anche in questo caso, alcune voci vogliono che Trump sia infuriato con Hegseth e da qualche giorno si vocifera di un licenziamento imminente. Staremo a vedere se il Presidente deciderà di scoprire un fianco – di fatto già scoperto – o di tenere saldamente le redini, lasciando però che il caos infuri e sperando che si fermi in fretta.
Minerali strategici e sicurezza: verso un nuovo accordo USA-RDC
di Iacopo Andreone
A inizio marzo, il consigliere per l’Africa della Casa Bianca Massad Boulos ha incontrato a Kinshasa il presidente della Repubblica Democratica del Congo Félix Tshisekedi, rilanciando la proposta, avanzata precedentemente da parte congolese, di un’intesa bilaterale incentrata su minerali critici e sicurezza. L’accordo, i cui termini sono ancora da definire, prevederebbe l’accesso preferenziale degli Stati Uniti ai giacimenti di minerali dal valore strategico – tra cui cobalto, rame e litio – in cambio di supporto contro l’avanzata dei ribelli dell’M23, attivi nell’est del Paese. Il gruppo ribelle ha esteso negli ultimi mesi il suo controllo su aree ricche di risorse naturali, grazie soprattutto al supporto diretto del Ruanda, come anche confermato da fonti delle Nazioni Unite.
Sul terreno, la situazione resta instabile: l’offensiva dell’M23 ha provocato nuovi sfollamenti, paralizzato le attività economiche e aggravato la crisi umanitaria, mentre l’esercito congolese fatica a contenere l’avanzata del gruppo ribelle. Il 23 aprile, la RDC e l’M23 hanno annunciato un impegno congiunto per raggiungere un cessate il fuoco, grazie alla mediazione del Qatar. Entrambe le parti si sono impegnate a cessare immediatamente le ostilità e a proseguire il dialogo per raggiungere un accordo definitivo. Contemporaneamente, rappresentanti dei governi di Kinshasa e di Kigali si sono incontrati a Washington e si sono impegnati al raggiungimento di un accordo di pace entro maggio, grazie alla mediazione del governo americano.
La RDC detiene oltre il 60% della produzione globale di cobalto, un minerale cruciale per batterie, veicoli elettrici e tecnologie verdi. Ad oggi, la Cina controlla circa il 70% della raffinazione mondiale di cobalto e ha acquisito numerose concessioni minerarie in territorio congolese attraverso una rete di aziende statali e joint ventures. Per Washington, rompere questa egemonia vorrebbe dire costruire filiere alternative, più resilienti e politicamente sicure, a costo però di un maggiore coinvolgimento diretto nel conflitto regionale.
I termini dell’accordoI dettagli dell’intesa tra Stati Uniti e Repubblica Democratica del Congo non sono ancora stati ufficializzati. Tuttavia, da fonti vicine all’esecutivo congolese emergono alcune linee guida. Washington potrebbe essere disposta a investire nel potenziamento della sicurezza congolese, con particolare attenzione all’addestramento delle forze armate congolesi, al supporto tecnico contro i gruppi armati e alla fornitura di intelligence. In cambio, Kinshasa offrirebbe l’accesso diretto – tramite concessioni – a una serie di giacimenti minerari, soprattutto nelle province meridionali di Lualaba e dell’Alto Katanga, dove operano già grandi società multinazionali provenienti da tutto il mondo. Tali aree, peraltro, sono considerate strategiche non solo per la presenza di cobalto e rame, ma anche per la vicinanza a infrastrutture già consolidate.
Un elemento rilevante è l’intenzione americana di strutturare l’intesa come parte di una strategia su più livelli di cooperazione: non solo tramite contratti bilaterali, ma anche investimenti in infrastrutture, energia e digitalizzazione, eventualmente integrati in progetti già avviati dalla Banca Mondiale o dall’International Development Finance Corporation. Il coinvolgimento di partner multilaterali consentirebbe inoltre di ridurre i costi iniziali e aumentare l’appeal dell’accordo presso investitori privati, in particolare nel settore delle tecnologie verdi.
In questo quadro, l’accordo rappresenterebbe una risposta mirata all’influenza cinese, ma anche un banco di prova per un diverso modello di cooperazione. Resta però da capire in che misura le autorità congolesi riusciranno a far valere i propri interessi, evitando che la logica dello scambio risorse-sicurezza finisca per riprodurre schemi già visti in passato, spesso poco vantaggiosi per la parte africana. L’efficacia dell’intesa dipenderà anche dalla sua capacità di generare effetti concreti a livello locale in ambito economico e infrastrutturale.
La posta in giocoLa corsa al controllo dei minerali critici è ormai uno dei principali fattori di tensione nello scenario globale contemporaneo. Il cobalto, elemento indispensabile per la produzione di batterie al litio e tecnologie a basse emissioni, è ormai un fattore centrale della sicurezza energetica delle grandi potenze. La Repubblica Democratica del Congo, da sola, ne produce oltre il 70% a livello mondiale. Un primato che, in assenza di istituzioni stabili e infrastrutture adeguate, si è tradotto in una fragilità sistemica: il settore è dominato da interessi stranieri, segnato da corruzione, sfruttamento e conflitti ricorrenti, in particolare nelle province orientali.
La Cina ha saputo inserirsi in questo vuoto con una strategia di lungo periodo. Attraverso una rete articolata di acquisizioni e joint ventures, Pechino ha consolidato la propria presenza in RDC, spesso approfittando della debolezza contrattuale delle controparti locali. Il gruppo China Molybdenum (primo produttore al mondo), così come altre imprese statali e veicoli di investimento legati al governo come Zijin Mining o Huayou Cobalt, ha ottenuto concessioni minerarie strategiche, in alcuni casi a condizioni opache. Questo le ha consentito di esercitare un controllo quasi monopolistico non solo sull’estrazione, ma anche sulla fase di raffinazione e trasporto, rendendo la Cina un attore imprescindibile per l’intera filiera globale del cobalto.
L’iniziativa americana potrebbe evolvere in un tentativo esplicito di ridefinire gli equilibri nella regione. Non si tratta soltanto di ottenere accesso a nuove risorse, ma di riscrivere le regole di una filiera strategica. Washington punta a creare alternative alla dipendenza cinese, promuovendo standard ambientali e lavorativi più elevati, e integrando la filiera africana in partenariati con Paesi alleati, come previsto anche nel framework del Minerals Security Partnership, approccio mirato a ridurre le asimmetrie attuali, ma che implica sfide rilevanti in termini di tempi, capacità industriale e credibilità politica.
Tuttavia, questa visione si scontra con la realtà sul terreno: i costi logistici, le tensioni etniche e l’instabilità delle province orientali – dove persistono milizie armate come l’M23 – rendono difficile qualsiasi tentativo di intervento diretto. La presenza crescente di attori regionali, come il Ruanda e l’Uganda, accentua la complessità geopolitica e rende difficile delimitare con chiarezza i confini tra interessi economici, dinamiche militari e alleanze politiche. Il controllo delle risorse essenziali per la transizione energetica sta progressivamente assumendo i contorni di una frizione sistemica. Al centro di questo accordo c’è una partita più ampia: l’equilibrio industriale tra Stati Uniti e Cina. Il controllo delle risorse chiave per la transizione energetica sta diventando un nuovo terreno di confronto strategico, dove la superiorità cinese nel settore delle batterie rischia di essere messa in discussione. La RDC si ritrova così al centro di una competizione che ha tutte le caratteristiche di un nuovo fronte di una nuova guerra fredda tecnologica.
Droghe e precursori: giocare d’anticipo sulla traiettoria
È sempre più orientato verso la Cina e l’India il baricentro del sistema mondiale di produzione delle droghe sintetiche. Proprio da questi paesi la criminalità organizzata si rifornisce dei cosiddetti precursori.
Si tratta di sostanze chimiche non necessariamente legate alla produzione di sostanze psicoattive illecite. Da esse si ricavano anche prodotti leciti, come medicinali, materie plastiche, cosmetici… Per questo la criminalità organizzata molto raramente si avventura nella produzione di queste sostanze – che andrebbe ad appesantire la sua infrastruttura produttiva – preferendo rifornirsi dal mercato lecito per piegarlo poi ai propri interessi.
Dalla Terra del Dragone con furoreCina e India – fornitore emergente secondo la DEA (Drug Enforcement Agency) – guidano la produzione di precursori in generale e specificatamente di quelli necessari alla lavorazione del fentanyl da strada, secondo il metodo Siegfried, come 4-anilin-N-fenetilpiperidina (ANPP) e N-fenetil-4-piperidone (NPP), oltre alle sostanze a struttura simile al prodotto ricercato come il butyrfentanyl.
Le modalità di occultamento e spedizione di questi prodotti includono tecniche sempre più raffinate che vanno dall’uso di spedizionieri negli Stati Uniti, false etichette di ritorno, false fatture, affrancature fraudolente e imballaggi ingannevoli. I produttori comunicano abitualmente con i potenziali clienti su piattaforme criptate e accettano pagamenti in criptovaluta, riducendo così il rischio di essere scoperti dalle forze dell’ordine.
I cartelli messicani di Sinaloa e Jalisco Nueva Generaciòn (CJNG), i due più grossi produttori e trafficanti di fentanyl a livello mondiale, si riforniscono direttamente da fornitori cinesi e indiani attraverso un’intricata rete di intermediari al fine di mascherarne ogni possibile traccia utile agli investigatori internazionali.
Insight Crime della DEA per due anni ha condotto un’indagine individuando, tra l’altro, almeno 188 aziende chimiche cinesi che producono e commerciano precursori, concentrate per il 63% nelle province di Hebei e Hubei, a cui si uniscono Guangdong e Zhejiang, realtà che nella Repubblica Popolare Cinese sono tra le province a più alto reddito pro-capite. Nella sola città di Shenzhen, proprio nel Guandong, nel 2015, sono stati contati più miliardari che in tutta l’Italia.
Nel giugno del 2022, nell’Hebei, il governo centrale cinese ha condotto l’operazione “100 giorni” per reprimere le bande e le reti della criminalità organizzata dopo un’ondata di incidenti violenti. Il Ministero della Pubblica Sicurezza ha arrestato più di 27.000 persone nella provincia, ha registrato 297 reati legati alla droga, smantellato 41 bande locali, iniziando a indagare su 15 funzionari pubblici accusati di proteggere queste organizzazioni criminali, secondo quanto riportato dal Global Times, agenzia di notizie cinesi in lingua inglese.
Negli ultimi dieci anni, l’industria biofarmaceutica cinese ha visto una notevole crescita, con previsioni che indicano un possibile aumento dai 345,7 miliardi di renminbi (47,60 miliardi di dollari) del 2020 a 811,6 miliardi di renminbi (111,76 miliardi di dollari) nel 2025 (+135% in cinque anni). Analogamente, la capitalizzazione di mercato delle aziende biofarmaceutiche cinesi è cresciuta da 1 miliardo di dollari nel 2016 a oltre 200 miliardi di dollari nel 2020.
Dal 2010 al 2020, in Cina sono state lanciate 141 nuove aziende farmaceutiche e biotecnologiche, il doppio rispetto al decennio precedente, beneficiando di investimenti internazionali, tra i quali quelli statunitensi, non immuni da rischi legati a possibili conflitti geopolitici.
Se, per ovvie ragioni, non è possibile fermare la commercializzazione di questi prodotti, gli stessi possono rappresentare, però, importanti tracce rispetto al disvio, in grado di condurre gli investigatori alla catena globale di approvvigionamento del fentanyl e di altre produzioni di sostanze illecite.
Nella Repubblica Popolare Cinese sono in vigore diverse normative sui precursori chimici. Tra queste figurano: il Regolamento sull’amministrazione dei precursori chimici, emanato nel 2005 dal Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese; le Disposizioni sull’amministrazione dell’importazione e dell’esportazione di precursori chimici e sull’amministrazione del controllo internazionale sull’importazione e l’esportazione di precursori chimici e le Misure di autorizzazione per la produzione e l’esercizio di precursori chimici non farmaceutici (2006) e la Legge sul controllo degli stupefacenti della Repubblica Popolare Cinese (2007). Questi regolamenti classificano le sostanze chimiche in tre categorie: sostanze ad alto rischio, precursori e altre materie prime. Tuttavia, le normative rimangono poco rigorose per quanto riguarda i precursori chimici del fentanyl. L’attuazione di queste norme resta di difficile monitoraggio soprattutto a livello locale.
Basti dire che in Cina potrebbero esserci fino a 160.000 aziende chimiche che operano legalmente o illegalmente. L’applicazione delle leggi esistenti per questi settori è spesso cooptata dalla corruzione che rappresenta un ostacolo soprattutto al monitoraggio sulle azioni dei grandi industriali.
È necessaria una cooperazione a livello internazionale così come politiche locali mirate non a colpire i consumatori ma a tutelarli dai rischi e dai danni del consumo.
Non si arresta il narcotraffico con velleitarie politiche di dazi e inasprimento di pene e sanzioni, gli interessi globali legati alle droghe necessitano di misure articolate e multidirezionali.
Non comprendere o misconoscere tutto ciò significa assumersi una complicità forse indiretta ma certamente non meno colpevole rispetto a chi non è disposto ad accontentarsi delle trite e ideologiche narrazioni su consumo e dipendenza patologica.
Le missioni italiane all’estero nel 2025: focus geografico e priorità strategiche
Il decreto missioni, accompagnato dall’audizione davanti alle Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato del Capo di Stato Maggiore della Difesa Luciano Portolano, fornisce un quadro dettagliato dell’impegno del dispositivo militare italiano nelle missioni all’estero. Partendo dalle priorità delineate dal Generale Portolano, si riscontrano degli aspetti rilevanti, tra i quali: l’impegno in Africa e Medio Oriente con riferimento al contrasto di attori destabilizzanti, alla sicurezza energetica e alla garanzia di accesso all’approvvigionamento di materie prime; l’istituzione di forze ad altissima prontezza operativa per il fianco est NATO; il dibattito circa l’opportunità della continuazione di Strade Sicure.
Per quanto riguarda il focus geografico dell’impegno militare all’estero il Mediterraneo allargato rappresenta il fulcro delle attività italiane, che orientare a garantire la sicurezza in un’area caratterizzata da un accresciuto livello di volatilità. Le priorità si delineano nel contributo alla stabilizzazione in Medio Oriente, nel Sahel e nel Golfo di Guinea, e nella partecipazione agli sforzi relativi alla sicurezza e alla stabilizzazione nel Corno d’Africa e nel Mar Rosso. Al tempo stesso, alla luce della guerra in Ucraina il fianco est dell’alleanza rimane al centro degli sforzi italiani nel contribuire alla deterrenza nella cornice dell’Alleanza Atlantica, in particolare nelle Repubbliche Baltiche e in Bulgaria.
In termini di risorse il decreto prevede uno stanziamento complessivo di 1,92 miliardi, che segnano un aumento rispetto ai 1,82 del 2024 e 1,72 del 2023, confermando il trend crescente. Le missioni attualmente in corso secondo quanto riferito dal Generale Portolano sono 39. Il decreto riporta inoltre una consistenza media di 7.750 unità ed un contingente massimo autorizzato di 12.100 unità.
Le novità: forze ad alta e ad altissima prontezza operativaPer quanto concerne le nuove schede il decreto ne presenta una sola, relativa all’istituzione di una forza ad alta e ad altissima prontezza operativa. Con una consistenza massima pari a 2.867 unità ed una composizione degli assetti che si configura in 359 mezzi terrestri, 4 mezzi navali, 15 mezzi aerei, queste forze rispondono alla necessità di maggiore flessibilità e tempestività nella proiezione internazionale dello strumento militare, per far fronte alla crescente mutevolezza ed imprevedibilità del quadro strategico. Questo pone la loro istituzione in linea con le logiche della riforma della legge 145/2006, ovvero con l’adattamento delle dinamiche di impiego dello strumento militare all’estero ad un contesto caratterizzato da sempre maggiore volatilità ed incertezza.
La costituzione di queste forze risponde alle necessità espresse in ambito NATO, ed in particolare il documento esplicita che possano alimentare il contingente nazionale nelle Allied Reaction Forces (ARF). Nonostante il documento faccia riferimento ad un’area di impiego particolarmente ampia, in quanto corrispondente con quella interessata da una presenza di personale nazionale, è evidente come una tale capacità sia concepita come elemento di rafforzamento per il fianco orientale dell’Alleanza. L’istituzione delle forze ad alta e ad altissima prontezza operativa rappresenta dunque un contributo diretto all’impegno in termini di deterrenza e difesa in seno all’Alleanza.
L’impegno (bilaterale) in AfricaL’impegno in Africa conferma la visione strategica per il continente già espressa nel Documento Programmatico Pluriennale, ed in particolare la sinergia dell’impiego dello strumento militare con il Piano Mattei. La presenza in Africa è funzionale al contrasto dei traffici illeciti, al contenimento degli effetti destabilizzanti della presenza di attori come Russia e Cina e conseguentemente alla stabilizzazione dei Paesi partner nella regione, con un ruolo chiave sia nel garantire la stabilità del fianco sud sia nell’attuazione del Piano Mattei. In Africa si riscontra un’enfasi sull’approccio bilaterale, soprattutto in aree come il Sahel, dove in Niger il contingente italiano è l’unico occidentale a permanere con la missione MISIN a seguito del colpo di stato che ha portato all’estromissione degli altri contingenti stranieri. La presenza italiana si estende anche al confinante Burkina Faso con una missione di supporto bilaterale che congiuntamente a MISIN prevede l’invio di 550 unità. Questo impegno dovrebbe rafforzare la presenza italiana nella fascia Saheliana, che allo stato attuale vede una forte influenza russa, come testimoniato dalle partnership in materia di sicurezza e difesa siglate da diverse giunte militari con Mosca.
In un’ottica di stabilizzazione della sponda sud del Mediterraneo e di contrasto alla migrazione illegale sono state prorogate le missioni bilaterali in Tunisia e in Libia, nonché la missione ONU UNSMIL in Libia e la missione Nato denominata “Implementation of Enhancement of the Framework for the South”. Per queste quattro missioni è previsto l’invio di 223 unità e 10 mezzi terrestri. L’impiego militare sia in una dimensione bilaterale che in una multilaterale conferma l’impegno dell’Italia nel mantenere le attività di stabilizzazione in questo quadrante nell’agenda delle organizzazioni internazionali, mentre lavora al rafforzamento delle relazioni su base bilaterale anche in considerazione di una progressiva entrata in crisi dell’approccio multilaterale al continente africano, che per il momento è maggiormente accentuata nella fascia sub-sahariana.
Medio Oriente e missioni navaliIn Libano prosegue l’impegno su base multilaterale con la missione UNIFIL, e a livello bilaterale con la missione MIBIL. Impegno divenuto particolarmente complesso a seguito dell’avvio di operazioni militari da parte delle forze armate israeliane nel sud del Paese ad ottobre 2024, il che ha portato ad una richiesta di revisione delle regole di ingaggio da parte del Ministro Crosetto. Alla presenza in Libano si aggiunge quella dell’operazione bilaterale MIADIT in Cisgiordania, consolidando la presenza italiana in un’area che dall’ottobre 2023 è stata caratterizzata da un conflitto in espansione, da Gaza al Libano. L’Italia mira a profilarsi come attore direttamente coinvolto nelle dinamiche di interposizione e stabilizzazione e come fornitore di sicurezza, con un’ambizione di mediazione a livello politico. Per le tre missioni nell’area è previsto l’impiego di 1.650 unità, la maggior parte delle quali dedicata ad UNIFIL.
Nell’area mediterranea e mediorientale rileva poi la proroga delle missioni navali interforze ASPIDES e ATLANTA, volte a garantire la libertà dei traffici marittimi nell’arteria che conduce al Mar Mediterraneo attraverso il Mar Rosso, oltre alla missione IRINI, il cui obiettivo principale è la verifica del rispetto dell’embargo sulle armi imposto alla Libia, ma che fornisce anche un supporto significativo al contrasto alla migrazione illegale, dossier sempre più politicamente rilevante anche a livello europeo.
L’impegno sul fianco est dell’AlleanzaIl decreto prevede un consolidamento del contributo italiano al mantenimento della deterrenza sul fianco orientale della NATO. In particolare, verrà data priorità all’innalzamento a livello di brigata del Forward Land Forces Battle Group in Bulgaria di cui l’Italia è framework nation, un’operazione già avviata dalla Germania in Lituania nell’aprile 2024. E’ confermato inoltre il contingente italiano nei battle group in Lettonia e Ungheria. Il dispiegamento complessivo in ambito NATO nei tre Paesi è pari a 2.323 unità e 1.046 mezzi terrestri. Viene inoltre rafforzato il contributo all’Air Policing a all’Air Shielding della NATO, con 15 mezzi aerei e 375 unità di personale, rispetto ai 12 mezzi e alle 300 unità del 2024.
Relativamente al fianco est viene inoltre ribadito il supporto all’Ucraina, in particolare con riferimento alla missione di addestramento EUMAM-Ucraina, che si svolge sul territorio degli stati membri dell’Unione Europea, e alla missione NATO di supporto e addestramento NSATU. Per queste due missioni, rispetto al 2024 il dispiegamento di unità ha subito un incremento significativo, passando da 80 a 231, in linea con il più volte ribadito impegno a livello politico a favore dell’Ucraina.
La necessità di riconfigurare l’operazione Strade SicureDurante l’audizione del Generale Portolano è stata dibattuta l’effettiva opportunità del persistere dell’Operazione Strade Sicure, che secondo quanto previsto dalla Legge di Bilancio 2025 vede confermata la dotazione di 6.000 unità, e che dal 2025 al 2027 vedrà un’integrazione di 800 unità ogni anno per il controllo e la sicurezza delle principali infrastrutture ferroviarie. A fronte, dunque, di una maggiore enfasi sulla preparazione per un conflitto ad alta intensità e di un proliferare di focolai di instabilità all’estero, prosegue l’impegno dell’esercito in attività di polizia particolarmente drenanti a livello di personale e risorse, oltre che molto lontane dai pilastri che dovrebbero definire le logiche di impiego delle forze armate, prima fra tutte la difesa territoriale.
Il Generale Portolano ha riconosciuto la necessità di elaborare valutazioni sulla persistenza della minaccia che ha portato all’istituzione di questa missione, ed ha espresso l’opportunità di rivalutare le modalità di impiego per diminuire il personale ad essa dedicato ed aumentarne l’efficienza e l’efficacia. Da questo punto di vista una possibile soluzione da lui prospettata è quella del passaggio dal pattugliamento statico a quello dinamico, che permetterebbe di ridurre il numero di unità dedicate al presidio di una data area.
Uno sguardo in avantiAnche per il 2025, si conferma un elevato grado di ambizione, rappresentato da un alto numero di missioni in molteplici quadranti, dal Maghreb al Baltico. Nonostante la conferma di un trend crescente per quanto concerne il finanziamento si riscontra ancora una discrepanza tra obiettivi e risorse, che rispecchia la necessità a livello più ampio di un effettivo incremento della spesa per la difesa.
Inoltre, relativamente alle missioni in cui è impegnato il dispositivo militare emerge un’evidente idiosincrasia nella persistenza di un’operazione come Strade Sicure mentre ci si adegua alle necessità di un conflitto ad alta intensità con l’istituzione delle forze ad alta e ad altissima prontezza operativa. E’ dunque necessario raggiungere una maggiore omogeneità e chiarezza a livello di valutazioni strategiche, adeguando di conseguenza la preparazione e l’impiego delle forze armate.
I liberali di Carney vincono le elezioni in Canada
Martedì 29 aprile, dopo aver vinto le elezioni canadesi e aver riportato il suo partito liberale a un altro mandato al potere, il primo ministro Mark Carney si è impegnato a battere gli Stati Uniti nella guerra commerciale di Donald Trump.
La Cina ha risposto alla vittoria di Carney dicendosi disponibile a migliorare i legami, mentre il Regno Unito si è congratulato con lui e il capo dell’Unione Europea ha dichiarato che il blocco lavorerà con lui per “sostenere un commercio libero ed equo“.
Dopo una campagna elettorale dominata dai dazi e dalle minacce di annessione di Trump, Carney ha promesso di tracciare “un nuovo percorso” in un mondo “fondamentalmente cambiato” da Stati Uniti nuovamente ostili al libero scambio. “Abbiamo superato lo shock del tradimento americano, ma non dovremmo mai dimenticare la lezione”, ha dichiarato Carney, che ha guidato le banche centrali di Canada e Gran Bretagna prima di entrare in politica all’inizio di quest’anno. “Vinceremo questa guerra commerciale e costruiremo l’economia più forte del G7”, ha dichiarato.
I liberali di Carney hanno ottenuto la maggioranza in parlamento, ma potrebbero non raggiungere la maggioranza assoluta. Questo richiederà accordi con i partiti più piccoli, ma segna comunque una straordinaria rimonta per i liberali, che all’inizio dell’anno sembravano destinati a una sonora sconfitta elettorale.
Il Partito Conservatore di Pierre Poilievre era sulla buona strada per ottenere la vittoria, ma gli attacchi di Trump, uniti alla partenza dell’impopolare ex primo ministro Justin Trudeau, hanno trasformato la situazione.
Carney, che ha sostituito Trudeau come primo ministro solo il mese scorso, ha convinto gli elettori che la sua esperienza nella gestione delle crisi economiche lo rendeva il candidato ideale per affrontare Trump.
Poilievre, il cui partito era sulla buona strada per formare una forte opposizione, ha ammesso la sconfitta e ha promesso di collaborare con i liberali per contrastare Trump. “Metteremo sempre il Canada al primo posto”, ha dichiarato Poilievre ai sostenitori a Ottawa. “I conservatori lavoreranno con il primo ministro e con tutti i partiti con l’obiettivo comune di difendere gli interessi del Canada e di ottenere un nuovo accordo commerciale che ci lasci alle spalle questi dazi proteggendo la nostra sovranità”.
Il leader britannico Keir Starmer si è congratulato con Carney, aggiungendo che il Regno Unito e il Canada sono “i più stretti alleati, partner e amici”. “La nostra partnership si basa su storia e valori condivisi e non vedo l’ora di rafforzare i nostri legami”, ha dichiarato il Primo Ministro Starmer in un comunicato.
La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha dichiarato di essere impaziente di lavorare con Ottawa per “difendere i nostri valori democratici condivisi, promuovere il multilateralismo e sostenere un commercio libero ed equo”.
Il Ministero degli Esteri cinese si è detto “pronto a sviluppare le relazioni Cina-Canada basate sul rispetto reciproco, l’uguaglianza e il mutuo beneficio”. Negli ultimi anni, tuttavia, le relazioni tra i due Paesi sono state difficili: Ottawa e Pechino sono attualmente coinvolte in una disputa commerciale riguardante le esportazioni di tecnologia e agricoltura.
La vittoria dei liberaliQuando è stata annunciata la vittoria dei liberali, nella sede di Ottawa i sostenitori del partito hanno iniziato a festeggiare. “Abbiamo qualcuno che può parlare con il signor Trump alla sua maniera”, ha dichiarato Dorothy Goubault, 72 anni. “Il signor Trump è un uomo d’affari. Anche il signor Carney è un uomo d’affari, e credo che entrambi possano relazionarsi”.
Il legislatore liberale e membro del gabinetto di Carney, Steven Guilbeault, ha associato il risultato a Trump. “I numerosi attacchi del Presidente Trump all’economia canadese, ma non solo all’economia, anche alla nostra sovranità e alla nostra stessa identità, hanno davvero mobilitato i canadesi”, ha dichiarato alla CBC. Ha affermato che i canadesi vedono Carney come “un esperto di economia”.
Carney ha guidato la Banca del Canada durante la crisi finanziaria del 2008-2009 e ha diretto la Banca d’Inghilterra durante le turbolenze legate al voto sulla Brexit del 2016.
Le dimissioni di TrudeauLa partenza di Trudeau è stata cruciale per la vittoria dei liberali, che ha segnato una delle svolte più drammatiche della storia politica canadese.
Il 6 gennaio, giorno in cui Trudeau ha annunciato le sue dimissioni, i conservatori erano in vantaggio sui liberali di oltre 20 punti nella maggior parte dei sondaggi, mentre l’opinione pubblica, esasperata dall’aumento dei costi durante il decennio di governo di Trudeau, manifestava la propria rabbia.
Carney si è distanziato da Trudeau per tutta la campagna elettorale. Ha affermato che l’ex primo ministro non si è concentrato abbastanza sulla crescita dell’economia canadese e ha eliminato la controversa carbon tax di Trudeau, cosa che ha fatto infuriare molti elettori.
Per Poilievre, quarantacinquenne in parlamento da due decenni, il risultato è stato una sconfitta bruciante. Poilievre è stato criticato per la sua apparente mancanza di reazione nei confronti di Trump, ma ha dichiarato di voler mantenere l’attenzione sulle questioni interne. Ha cercato di convincere gli elettori che Carney avrebbe semplicemente offerto una continuazione del fallimentare governo liberale.
Al watch party dei conservatori a Ottawa, Jason Piche ha dichiarato all’Afp di essere rimasto sorpreso dal risultato. “Speravo di poter festeggiare alla grande stasera”, ha dichiarato Piche.
di Michel Comte e Ben Simon
© Agence France-Presse
Cento giorni di Donald Trump alla Casa Bianca
Cento giorni di Donald Trump alla Casa Bianca: un bilancio che lui giudica “trionfale”, ma che elettori, giudici ed analisti bocciano. La popolarità del magnate presidente è in calo, quella di Elon Musk va a picco.
Le proposte di Trump difficilmente realizzabili per porre fine alla guerra russo-ucraina
Nona Mikhelidze, responsabile di ricerca del programma Attori Globali dell’Istituto Affari Internazionali, è intervenuta alla trasmissione Spazio Transnazionale di Radio Radicale, condotta da Francesco De Leo. Mikhelidze ha commentato le proposte avanzate da Donald Trump per l’avvio di negoziati tra Russia e Ucraina, soffermandosi in particolare sulla questione della Crimea, sul gasdotto Nord Stream 2 e sulle narrative mediatiche riguardanti le prospettive di una trattativa.
Palestina: il Consiglio per i diritti umani invoca il rispetto del diritto all’autodeterminazione.
Il conflitto nella Striscia di Gaza continua senza sosta e alle organizzazioni internazionali non resta altro che ribadire alcuni punti di diritto e questo malgrado, al di là dei crimini nella Striscia di Gaza, continui senza sosta l’occupazione dei Territori palestinesi in totale disprezzo, da parte di Israele, degli obblighi di diritto internazionale. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha diffuso un’infografica a marzo 2025 che tiene conto della situazione in Cisgiordania dal 1° novembre 2023 al 31 ottobre 2024 (infografica). Nella zona di West Bank i coloni israeliani sono ben 737,332, con un boom di nuove case e di appropriazione dei territori. Non solo. Sono aumentate le restrizioni alla libertà di circolazione a danno dei palestinesi con numerosi checkpoint e gravi ripercussioni sulla situazione economica dei palestinesi, senza dimenticare che il 50% degli agricoltori palestinesi è stata privata della possibilità di continuare a coltivare gli alberi di ulivo. Sono state 1.179 le strutture abitative distrutte. Il Consiglio per i diritti umani dell’ONU prova ad accendere nuovamente i riflettori sulla situazione e ha adottato, nel corso della 58esima sessione, una risoluzione sugli insediamenti israeliani nei territori occupati, inclusa Gerusalemme est e le alture del Golan, in cui gli insediamenti dei coloni sono arrivati a 20.000 (Palestina).
Sempre il 5 aprile, il Consiglio per i diritti umani ha approvato la risoluzione sul diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione (autodeterminazione). Eppure, anche in questo caso, in cui non si fa altro che ribadire principi codificati nell’ordinamento internazionale, la Repubblica Ceca e la Macedonia del Nord hanno votato contro e Congo e Repubblica domenicana si sono astenuti. Quarantatré i voti a favore.
La risoluzione, approvata nel corso della 58esima sessione, non aggiunge molto altro rispetto ad altri atti già approvati in passato, ribadisce che dopo 57 anni non è stata posta ancora fine all’occupazione israeliana e che dalla risoluzione n. 181 dell’Assemblea generale del 29 novembre 1947 sono passati 77 anni senza che la questione palestinese sia stata risolta. Nella risoluzione si chiede a Israele, in quanto potenza occupante, di cessare dall’occupazione, inclusa quella di Gerusalemme est. Inoltre, il Consiglio ha espresso profonda preoccupazione per i cambiamenti demografici nei Territori palestinesi occupati dovuti all’incremento degli insediamenti israeliani e del trasferimento forzato della popolazione palestinese.
Il Consiglio, ribadito che l’unica soluzione è quella di due Stati, invita i Governi a non riconoscere le situazioni territoriali frutto di una violazione di norme imperative del diritto internazionale al fine di garantire l’autodeterminazione del popolo Palestinese e chiede a Israele la cessazione di tutte le pratiche in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite.
Il dilemma Starlink: le implicazioni dell’accordo per l’Italia
Dopo la rivelazione di Bloomberg di un potenziale accordo da €1,5 miliardi tra il governo Meloni e Starlink, servizio di connettività satellitare offerto da SpaceX, la compagnia aerospaziale di proprietà di Elon Musk, si è creata molta confusione nell’opinione pubblica italiana circa quale sarebbe l’utilizzo di Starlink in Italia e quali sarebbero i rischi e benefici connessi. Per quanto non abbia rivali da un punto di vista tecnologico, Starlink comporta dei rischi circa la sicurezza dei dati, il mantenimento del servizio e l’incolumità da attacchi informatici che rendono il suo utilizzo nell’ambito governativo-militare molto più problematico di un eventuale utilizzo civile.
Ma cos’è Starlink?Starlink è un sistema satellitare privato che permette connessione internet a banda larga tramite una ‘costellazione’ di settemila satelliti in orbita terrestre bassa (500 km dalla terra). È slegato quindi dalla tradizionale infrastruttura a terra come ripetitori e cavi ottici e consente l’accesso a internet da qualsiasi luogo in qualsiasi momento. Queste caratteristiche, insieme alla riduzione dei costi di lancio, dovuta all’uso dei razzi riutilizzabili Falcon 9 di SpaceX, hanno permesso a Starlink di avere oggi una posizione quasi monopolistica nel mercato delle comunicazioni satellitari. Le alternative europee non forniscono prestazioni concorrenziali rispetto a quelle di Starlink: il progetto europeo Iris2 diventerà disponibile solo nel 2030, mentre la franco-britannica Oneweb attualmente dispone solo di 640 satelliti e risulta molto più costosa.
Per cosa verrebbe utilizzato in Italia?Posto che in Italia Starlink è già disponibile per i privati, un eventuale accordo con il governo potrebbe coprire due ambiti.
Da un lato, l’indipendenza dall’infrastruttura a terra rende Starlink adatto per l’utilizzo in ambito civile, soprattutto per fornire connessione internet alle zone più remote del paese e in situazioni emergenziali. Starlink ha già provato la sua utilità durante l’alluvione in Emilia-Romagna (2023), riuscendo a garantire connessione non solo ai privati, ma anche alle amministrazioni locali e agli ospedali. La fornitura di internet a banda larga nelle zone meno connesse del paese è già un obiettivo del Piano Italia a 1 Giga, finanziato dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e affidato a Open Fiber e Fibercop in seguito a gara regolarmente svolta. Per quanto queste aziende stiano avendo difficoltà nel completare il progetto in tempo, affidare un incarico simile a Starlink, che non ha partecipato formalmente alla gara, comporterebbe per il governo problemi di legalità e di compatibilità con le condizioni per ricevere i fondi Ue (velocità di trasmissione di almeno 1 GB al secondo).
Dall’altro lato, l’accordo rivelato da Bloomberg riguardava un sistema di comunicazione crittografata per le comunicazioni governative e militari. Per ora le forze armate e le ambasciate italiane usano Sicral per le comunicazioni strategiche, un sistema composto da due satelliti geostazionari (35.000 km dalla terra) che offrono però una connessione più lenta e minor copertura geografica.
La guerra in Ucraina ha dimostrato l’alto livello di digitalizzazione dei conflitti, il che impone alle forze armate di dotarsi (almeno) di adeguate connessioni a banda larga. Inoltre, il sistema Sicral risulta inefficiente nelle zone lontane dal continente europeo, come l’Indo-Pacifico, verso cui l’Italia si sta rivolgendo per diversificare i mercati per l’export (Piano d’Azione per l’export) e creare catene di approvvigionamento alternative (Imec), oltre che per mantenere una comunanza di obiettivi di politica estera con l’amministrazione Trump (Dichiarazione congiunta Trump-Meloni).
La necessità di una dotazione Starlink per le comunicazioni governative e militari dipende quindi dall’agenda del governo per i prossimi anni. Un tale utilizzo però solleva questioni di sicurezza che non possono essere ignorate.
Quali sono i rischi di Starlink?In primo luogo, le minacce di Musk di scollegare l’Ucraina da Starlink hanno aperto alla possibilità di un blocco arbitrario del servizio. Nonostante Musk stesso abbia poi aggiunto che “non faremo mai una cosa del genere” e non sia passato ai fatti, diversamente è successo nel 2023, quando l’azienda ha unilateralmente deciso di sospendere il servizio in Crimea e di bandirlo per il controllo di droni e veicoli senza equipaggio. Questi precedenti, senza contare l’imprevedibilità e la scarsa sensibilità istituzionale di Musk, sollevano dubbi legittimi sulla possibilità che il servizio venga limitato anche dopo la chiusura del contratto.
In secondo luogo, incertezze sorgono circa la sicurezza dei dati. Nonostante il referente di Musk in Italia, Andrea Stroppa, abbia dichiarato che Starlink utilizza i protocolli di crittografia più avanzata e che esistono “configurazioni che permettono di avere il pieno controllo dei dati e una completa sovranità sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista legale”, incognite rimangono circa la possibilità che i dati che transitano sui sistemi Starlink possano venire alterati, penetrati o duplicati da possibili intercettatori o dal produttore stesso. Roberto Cingolani, AD di Leonardo, sostiene che “la protezione e l’accesso al contenuto delle comunicazioni sarebbero del tutto sotto la sovranità nazionale”, ma allo stesso tempo la legge federale statunitense Cloud Act (2018) impone alle aziende statunitensi di consegnare alle autorità i dati che transitano sulle loro infrastrutture, se richieste. Questo dettaglio legale, unito alla specializzazione in decrittazione della NSA (National Security Agency, l’agenzia di intelligence Usa dei segnali elettronici) i precedenti degli Usa nella sorveglianza delle comunicazioni di altri paesi creano incertezza circa l’effettiva protezione dei dati italiani più sensibili, come quelli governativi e militari.
In terzo luogo, la competizione geopolitica tra Cina e Usa potrebbe minare la sicurezza della connessione per gli utenti finali. La Cina infatti vede la resilienza di Starlink come una minaccia per la sua sicurezza nazionale. Alcune pubblicazioni consigliano al governo cinese di adottare sistemi di sorveglianza per tracciare i movimenti dei satelliti e di sviluppare capacità anti-satellite per colpirne l’efficienza. Per quanto ad ora non esista tecnologia che possa distruggere fisicamente la costellazione di Starlink al punto da minarne l’operatività, articoli scientifici mostrano come la connessione Starlink non protegga sufficientemente da casi di spoofing (attacchi per rubare dati e informazioni) e distributed denial of service (attacchi che rendono difficile o impossibile l’utilizzo del servizio). Dato il recente aumento degli attacchi cinesi alle telecomunicazioni Usa e l’inasprirsi del contrasto tra i due Stati con l’amministrazione Trump, incognite sorgono circa la possibilità che Starlink diventi bersaglio di operazioni ibride o informatiche che comprometterebbero l’utilizzo del servizio per gli utenti finali.
Diventa quindi legittimo chiedersi fino a che punto l’indipendenza dall’infrastruttura fisica a terra e dalla posizione geografica dell’utente finale renda Starlink affidabile per le comunicazioni strategiche se i rischi implicano la possibilità che altri stati ottengano accesso a dati sensibili e che gli utenti finali non riescano ad utilizzare pienamente il servizio a causa di limitazioni imposte dall’azienda stessa o da attacchi informatici.
Qual è l’attuale posizione del governo?Il governo continua a negare l’esistenza di un accordo con SpaceX, complice anche l’opinione pubblica: il 47% si oppone a un accordo tra Musk e il governo e il 51% trova le ingerenze di Musk negative per l’Italia.
In pratica il governo sembra intenzionato ad adottare Starlink in modo indiretto. Il Ministro per i Rapporti col Parlamento Luca Ciriani in Parlamento ha spiegato che il governo non stringerebbe accordi direttamente con SpaceX, ma con aziende italiane che garantiscono la fornitura. Una di queste potrebbe essere Telespazio (partecipata al 67% da Leonardo), che nel 2024 ha annunciato una partnership con SpaceX per la distribuzione dei servizi offerti da Starlink. Teodoro Valente, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), ricorda che “qualsiasi affidamento sarebbe comunque da intendersi come una soluzione ponte, non un’alternativa contrapposta a costellazioni come Iris2”, la quale è pensata appositamente per proteggere le comunicazioni governative e militari dei paesi europei. Resta quindi da vedere se il governo stringerà un accordo, eventualmente con quale azienda e per quale ambito di utilizzo.
Acqua, conflitti e migrazioni: il potere dell’oro blu in Asia centrale
L’Asia centrale è una regione incastonata tra la Russia, la Cina e l’Iran ed è composta da 5 Paesi (Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan). È una regione caratterizzata da forti dinamiche migratorie sia interne che internazionali, è estremamente vulnerabile al cambiamento climatico, è esposta a importanti sfide economiche, conflitti latenti e tensioni politiche. In particolare, è una delle regioni più scarse d’acqua al mondo. Attualmente, 82 milioni di persone in questa regione soffrono di insicurezza idrica. Per accaparrarsi la poca acqua che rimane, gli Stati dell’Asia Centrale stanno ricorrendo sempre più spesso alle armi. Scontri armati, instabilità politica e cambiamento climatico stanno già influenzando le migrazioni dentro e fuori l’Asia Centrale.
Papa Francesco, il leader radicale che ha rotto gli schemi papali
Papa Francesco, morto lunedì 21 aprile all’età di 88 anni, passerà alla storia come un pontefice radicale, un campione degli “sfavoriti” che ha forgiato una Chiesa cattolica più compassionevole, pur senza rivedere dogmi secolari.
Soprannominato “il Papa della gente”, il pontefice argentino amava stare in mezzo al suo gregge ed era popolare tra i fedeli, anche se ha dovuto affrontare un’aspra opposizione da parte dei tradizionalisti all’interno della Chiesa.
Primo Papa proveniente dalle Americhe e dall’emisfero meridionale, ha difeso strenuamente i più svantaggiati, dai migranti alle comunità colpite dal cambiamento climatico, che ha avvertito essere una crisi causata dall’uomo.
Tuttavia, mentre affrontava di petto lo scandalo globale degli abusi sessuali da parte dei sacerdoti, i gruppi di sopravvissuti sottolineavano l’inefficienza delle misure concrete messe in atto.
Fin dalla sua elezione nel marzo 2013, Jorge Mario Bergoglio ha manifestato l’intenzione di lasciare il segno come leader della Chiesa cattolica. È diventato il primo Papa a prendere il nome di Francesco, in onore di San Francesco d’Assisi, un mistico del XIII secolo che rinunciò alle sue ricchezze e si dedicò agli ultimi. “Come vorrei una chiesa povera per i poveri”, ha dichiarato tre giorni dopo la sua elezione a 266° papa.
Era una figura umile che indossava abiti semplici, evitava i sontuosi palazzi papali e telefonava da solo, per lo più a vedove, vittime di stupro o prigionieri. L’ex arcivescovo di Buenos Aires, amante del calcio, è stato anche più accessibile dei suoi predecessori, chiacchierando con i giovani su temi che vanno dai social media alla pornografia e parlando apertamente della sua salute.
Come il suo predecessore Benedetto XVI, che nel 2013 è diventato il primo pontefice dal Medioevo a dimettersi, anche Francesco ha sempre lasciato aperta la possibilità di ritirarsi. Dopo la morte di Benedetto nel dicembre 2022, Francesco è diventato il primo papa in carica nella storia moderna a presiedere un funerale papale.
Le sue condizioni di salute sono peggiorate progressivamente dall’intervento al colon nel 2021 all’ernia nel giugno 2023, fino a bronchiti e dolori al ginocchio che lo hanno costretto a usare la sedia a rotelle.
I migranti e la diplomazia vaticanaPrima della sua prima Pasqua in Vaticano, si è recato in un carcere di Roma per lavare e baciare i piedi dei detenuti. È stato il primo di una serie di potenti gesti simbolici che hanno aiutato il pontefice a ottenere l’entusiastica ammirazione globale che era sfuggita al suo predecessore.
Per il suo primo viaggio all’estero, Francesco ha scelto l’isola italiana di Lampedusa, luogo di ingresso per decine di migliaia di migranti che sperano di raggiungere l’Europa, e ha denunciato la “globalizzazione dell’indifferenza”.
Ha anche condannato i piani del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, durante il suo primo mandato, di costruire un muro di confine contro il Messico, definendoli “non cristiani”. Dopo la rielezione di Trump, papa Francesco ha denunciato le deportazioni di migranti previste come una “grande crisi” che “finirà male”.
Nel 2016, quando la crisi migratoria europea aveva raggiunto il suo apice, Papa Francesco ha fatto visita all’isola greca di Lesbo, portando con sé tre famiglie di musulmani siriani richiedenti asilo e tornando a Roma.
Si è anche impegnato per la riconciliazione interreligiosa, baciando il patriarca ortodosso Kirill di Mosca in uno storico incontro nel febbraio 2016 e lanciando, nel 2019, un appello congiunto per la libertà di credo con il principale chierico sunnita, Sheikh Ahmed al-Tayeb.
Francesco ha rivitalizzato la diplomazia vaticana anche in altri modi, contribuendo a facilitare il riavvicinamento storico tra Stati Uniti e Cuba e incoraggiando il processo di pace in Colombia. Ha inoltre cercato di migliorare i legami con la Cina, raggiungendo un accordo storico nel 2018 sulla nomina dei vescovi, accordo che però è stato criticato.
Appello per il climaGli esperti hanno attribuito a Francesco il merito di aver influenzato gli storici accordi sul clima di Parigi del 2015 con la sua enciclica “Laudato si'”, un appello all’azione sul cambiamento climatico basato sulla scienza. Egli ha sostenuto che le economie sviluppate sono responsabili di un’imminente catastrofe ambientale e, in un nuovo appello del 2023, ha affermato che alcuni dei danni sono ormai irreversibili.
Sostenitore della pace, il pontefice ha ripetutamente denunciato i produttori di armi e ha affermato che è in corso una Terza guerra mondiale, a causa della miriade di conflitti che si registrano in tutto il mondo. Tuttavia, i suoi interventi non hanno sempre riscosso consensi e ha scatenato l’indignazione di Kyiv dopo aver elogiato coloro che, nell’Ucraina devastata dalla guerra, hanno avuto il “coraggio di alzare bandiera bianca e negoziare”.
Nelle sue modeste stanze nella foresteria vaticana di Casa Santa Marta, Francesco affrontava lo stress scrivendo i suoi problemi in lettere a San Giuseppe. “Dal momento in cui sono stato eletto, ho provato una sensazione molto particolare di pace profonda. E questo non mi ha mai abbandonato”, ha dichiarato nel 2017.
Amava anche la musica classica e il tango, tanto che una volta si era fermato in un negozio di Roma per acquistare dei dischi.
Chi sono io per giudicare?Gli ammiratori di Francesco gli attribuiscono il merito di aver trasformato la percezione di un’istituzione che, al momento del suo insediamento, era afflitta da scandali, riportando all’ovile i fedeli che si erano allontanati.
Sarà ricordato come il Papa che, in merito ai cattolici gay, ha affermato: “Chi sono io per giudicare?”.
Ha permesso ai divorziati e ai risposati di ricevere la comunione, ha approvato il battesimo dei transgender e la benedizione delle coppie omosessuali.
Tuttavia, ha abbandonato l’idea di permettere ai sacerdoti di sposarsi, dopo un’ondata di proteste, e, nonostante abbia nominato diverse donne a posizioni di rilievo all’interno del Vaticano, ha deluso le aspettative di chi auspicava l’ordinazione delle donne.
I critici lo hanno accusato di aver manomesso pericolosamente i principi dell’insegnamento cattolico e le sue riforme hanno sollevato una forte opposizione.
Nel 2017, quattro cardinali conservatori hanno lanciato una sfida pubblica senza precedenti alla sua autorità, affermando che le sue riforme avevano seminato confusione dottrinale tra i credenti.
Tuttavia, la sua Chiesa non ha mostrato alcuna intenzione di allentare il divieto di contraccezione artificiale o di modificare la propria posizione riguardo al matrimonio gay, ribadendo che l’aborto è “omicidio”.
Francesco ha anche spinto le riforme all’interno del Vaticano, come permettere ai cardinali di essere processati da tribunali civili o rivedere il sistema bancario della Santa Sede.
Ha anche cercato di affrontare il problema enormemente dannoso degli abusi sessuali da parte dei sacerdoti, incontrando le vittime e giurando di chiamare i responsabili a risponderne. Ha aperto gli archivi vaticani ai tribunali civili e ha reso obbligatorio segnalare alle autorità ecclesiastiche i sospetti di abusi o il loro insabbiamento. Tuttavia, i critici affermano che la sua eredità sarà una Chiesa che fatica a consegnare i preti pedofili alla polizia.
Prima di divenire PapaJorge Mario Bergoglio è nato in una famiglia di emigranti italiani a Flores, un quartiere borghese di Buenos Aires, il 17 dicembre 1936. Primogenito di cinque figli, come scrive il biografo Paul Vallely, è “nato argentino ma cresciuto a pasta”.
A partire dai 13 anni lavorò in una fabbrica di calze nel pomeriggio, mentre di mattina studiava per diventare tecnico chimico. In seguito, per un breve periodo, fece il buttafuori in un locale notturno.
Si dice che gli piacessero il ballo e le ragazze, al punto da chiederne una in sposa prima che, all’età di 17 anni, scoprisse la vocazione religiosa. In seguito, Francesco raccontò di un periodo di agitazione durante la sua formazione gesuita, quando si invaghì di una donna incontrata a un matrimonio di famiglia.
A quel punto era sopravvissuto a un’infezione quasi mortale che aveva comportato l’asportazione di parte di un polmone. L’insufficienza respiratoria aveva compromesso le sue speranze di diventare missionario in Giappone. Fu ordinato sacerdote nel 1969 e nominato provinciale dei Gesuiti in Argentina solo quattro anni dopo.
Il suo periodo alla guida dell’ordine, che ha coinciso con gli anni della dittatura militare in Argentina, è stato difficile. I critici lo accusarono di aver tradito due sacerdoti radicali che erano stati imprigionati e torturati dal regime. Non è mai emersa alcuna prova convincente di questa affermazione, ma la sua guida dell’ordine ha creato divisioni e, nel 1990, fu degradato ed esiliato a Córdoba, la seconda città più grande dell’Argentina.
Poi, a 50 anni, la maggior parte dei biografi lo descrive come un uomo che ha attraversato una crisi di mezza età. Ha deciso di intraprendere una nuova carriera nel mainstream della gerarchia cattolica, reinventandosi prima come il “vescovo dei bassifondi” di Buenos Aires e poi come il papa che avrebbe rotto gli schemi.
© Agence France-Presse
I colloqui USA-Iran e il ruolo dell’Italia
Maria Luisa Fantappiè, responsabile del Programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuta a Spazio Internazionale, la rubrica di Radio Radicale condotta da Francesco De Leo.
In collegamento in diretta da Erbil, in occasione del Forum di Sulemani, Fantappiè ha commentato i recenti colloqui tra Stati Uniti e Iran sul dossier nucleare, soffermandosi sull’importanza dell’iniziativa diplomatica italiana che ha ospitato le trattative. Fantappiè ha infine analizzato anche l’attuale situazione politica in Iraq.
Perché le elezioni in Ucraina non porranno fine alla guerra
Tra le tante stranezze del nuovo approccio statunitense alla guerra russo-ucraina c’è l’ipotesi che le elezioni anticipate in Ucraina possano essere utili o addirittura decisive per porre fine ai combattimenti. In particolare, l’affermazione che la pace può essere raggiunta con una rapida sostituzione della leadership ucraina, in particolare del presidente Volodymyr Zelensky, è ora sostenuta non solo a Mosca, ma anche a Washington. Questi attori presentano uno scenario del genere come plausibile, nonostante il fatto che un cambiamento politico in Ucraina sia improbabile nel prossimo futuro, date sia la politica del paese che la realtà sul campo.
Non è realistico aspettarsi che in Ucraina si tengano elezioni presidenziali e parlamentari significative in tempo di guerra o anche poco dopo un cessate il fuoco. Non solo la legislazione ucraina, come quella di molti altri paesi, vieta le elezioni durante i periodi di legge marziale, ma l’invasione russa su vasta scala in corso dal 2022 rende il voto a livello nazionale impossibile dal punto di vista logistico e della sicurezza.
Inoltre, le elezioni richiederebbero un periodo di preparazione più lungo dopo la fine dei combattimenti. La guerra ha avuto un impatto così devastante sulla società e sulle infrastrutture ucraine che ora nel paese c’è consenso sul fatto che una nuova legge per le elezioni del dopoguerra debba essere approvata e attuata per tenere conto delle nuove circostanze. La preparazione delle elezioni dopo la guerra richiederebbe almeno sei mesi e potrebbe richiedere fino a un anno. Niente di tutto questo è insolito in uno scenario post-conflitto.
Gli ultimi appelli per un rinnovamento politico in Ucraina sono quindi prematuri e ingenui nella migliore delle ipotesi, e manipolatori e sovversivi nella peggiore. Il controllo della Russia su gran parte dell’Ucraina orientale e meridionale, i continui combattimenti e gli attacchi aerei russi in tutto il paese hanno reso impossibile lo svolgimento di elezioni regolari. Un appello pubblico dei gruppi della società civile ucraina, organizzato da Opora, il principale gruppo di monitoraggio elettorale del paese, ha dichiarato il 20 febbraio: “L’instabilità della situazione della sicurezza, il rischio di bombardamenti, attacchi terroristici e sabotaggi, nonché lo sfruttamento minerario su larga scala delle aree, pongono ostacoli significativi in tutte le fasi del processo elettorale”.
La motivazione ufficiale di Mosca per la richiesta di elezioni in Ucraina è una presunta preoccupazione per la legittimità della leadership ucraina. È una strana affermazione, considerando che le elezioni ucraine sono ampiamente riconosciute dagli osservatori internazionali come libere, mentre quelle russe non lo sono. L’obiettivo della Russia non è quello di proteggere il governo popolare in Ucraina, ma piuttosto di utilizzare la maggiore vulnerabilità del Paese durante una campagna elettorale nazionale e la procedura di voto per sovvertire lo Stato.
Il motivo alla base della campagna russa per le elezioni nazionali anticipate in Ucraina non è una pace stabile tra i due paesi, ma la destabilizzazione interna e la conseguente vassallizzazione dell’Ucraina.
Alcuni commentatori potrebbero non essere a conoscenza, o considerare irrilevanti, i motivi nascosti dietro il presunto interesse di Mosca per la democrazia ucraina. Tuttavia, la sovversività della richiesta di elezioni da parte di Mosca non dovrebbe essere sottovalutata. Un’indicazione che la destabilizzazione dello Stato, e non un’ordinata transizione di potere, è l’obiettivo dietro la dichiarata preoccupazione della Russia per la legittimità democratica in Ucraina è che, come Mosca sa, anche lo svolgimento di elezioni con successo probabilmente farebbe poco per cambiare la politica estera dell’Ucraina. Un ipotetico cambio di leadership in Ucraina nel prossimo futuro, compreso un nuovo presidente, non porterà a un sostanziale riavvicinamento russo-ucraino, contrariamente all’opinione di alcuni osservatori esterni.
La maggior parte dei dati dei sondaggi, così come il più ampio panorama politico dall’inizio dell’invasione su vasta scala della Russia nel 2022, suggeriscono un’altra vittoria presidenziale per Zelensky. Di certo, è improbabile che ripeta la sua schiacciante vittoria del 2019, quando ha ottenuto quasi il 75% dei voti al secondo turno delle elezioni presidenziali. I dati dei sondaggi su Zelensky hanno subito fluttuazioni negli ultimi tre anni e l’esito di qualsiasi elezione è quindi difficile da prevedere. Nel 2024, la popolarità del generale Valery Zaluzhny, ex comandante in capo delle forze armate ucraine e ora ambasciatore ucraino nel Regno Unito, ha superato quella di Zelensky in diversi sondaggi.
Zaluzhny, che Zelensky ha promosso al comando delle forze armate nel 2021, sarebbe un potente concorrente politico alle elezioni presidenziali. Finora, tuttavia, Zaluzhny non ha né espresso ambizioni presidenziali né intrapreso alcuna attività di costruzione di partito o altri preparativi per entrare in politica e condurre una campagna. Dopo il suo trasferimento a Londra nel 2024, è diventato meno presente nella vita pubblica ucraina, anche se il sostegno popolare nei suoi confronti è ancora più alto rispetto a qualsiasi altro ipotetico rivale di Zelensky.
Zelensky continua a superare di gran lunga tutti i politici ucraini attivi nei vari partiti politici. Il suo rivale più vicino con ambizioni politiche ufficiali è l’ex presidente Petro Poroshenko, che ha subito una sconfitta clamorosa contro Zelensky nel 2019. Poroshenko attualmente riceve meno della metà del sostegno di Zelensky nei sondaggi di opinione. Finché Zaluzhny non entrerà nella politica di partito ed elettorale, Zelensky rimarrà il favorito assoluto alle prossime elezioni presidenziali.
Anche se dovesse emergere e vincere un serio rivale, ciò non cambierebbe il quadro di base della guerra. La principale opposizione politica e critica a Zelensky e al suo partito Servitore del Popolo proviene dal centro-destra nazionalista e dalla società civile di orientamento nazionale. In Ucraina rimangono solo pochi attori di rilievo che potrebbero spingere per un riavvicinamento alla Russia, e hanno un pubblico residuo. Dal 2022 hanno perso gran parte del loro appeal tra gli elettori, come nel caso di Yuriy Boyko e Dmytro Razumkov, oppure hanno lasciato il Paese o sono stati espulsi, come hanno fatto Viktor Medvedchuk, apertamente filo-Cremlino, e l’ex magnate dei media Yevhen Murayev. Oggi nessuno di loro può essere considerato un serio contendente alla presidenza ucraina.
Zelensky, nonostante le sue origini ebraiche, viene spesso etichettato come “nazista” da Mosca. Tra coloro che in Occidente spingono per un accordo con la Russia, molti lo vedono come un “falco”. La maggior parte degli ucraini, tuttavia, lo ha percepito come un politico relativamente moderato e pacifista sin dall’inizio della sua carriera politica. Da quando è salito al potere nel 2019, Zelensky e il suo team sono stati spesso criticati in Ucraina per essere eccessivamente ottimisti, morbidi e indecisi nei confronti della Russia. L’alta popolarità di Zelensky nei sondaggi si basa in parte sulla speranza che il generale sia più deciso ed efficace contro la Russia.
Gli osservatori politici ucraini si aspettano che i veterani giochino un ruolo importante nella politica del dopoguerra. Molti ucraini vedono ora il personale militare attuale ed ex con esperienza di prima linea o di comando non solo come adatto a proteggere il loro paese dalla minaccia russa, ma anche come meno corrotto, più patriottico e più qualificato per posizioni di leadership rispetto ai politici tradizionali.
Niente di tutto ciò fa presagire l’elezione di una leadership desiderosa di accontentare la Russia, per non parlare di piegarsi alla sua volontà. Nelle prossime elezioni, uomini e donne con un passato militare aumenteranno probabilmente la loro presenza nel governo, nel parlamento nazionale, nelle amministrazioni regionali e nei consigli locali; potrebbero candidarsi con i partiti esistenti, come candidati indipendenti o come parte di nuovi gruppi politici con un profilo militare. È molto probabile che assistiamo a un massiccio ingresso di ex soldati nella politica ucraina, il che indurirà piuttosto che ammorbidire la posizione di Kiev nei confronti di Mosca.
I recenti contatti non ufficiali degli Stati Uniti con Poroshenko e l’ex primo ministro Yulia Tymoshenko, chiaramente intesi come un tentativo di avvicinamento ai possibili successori di Zelensky, indicano un triplice errore di valutazione da parte di Washington.
In primo luogo, la maggior parte degli osservatori che hanno familiarità con la politica ucraina considererebbe irrealistica una futura presidenza di Tymoshenko o Poroshenko. Sebbene siano ancora presenti nella vita pubblica e detengano seggi in parlamento, per gli ucraini rappresentano un’epoca passata e simboleggiano il passato problematico dell’Ucraina post-sovietica. I loro partiti, Solidarietà Europea di Poroshenko e Patria di Tymoshenko, continueranno probabilmente ad avere seggi nel prossimo parlamento, ma i due politici veterani hanno poche possibilità di ottenere nuovamente il potere.
In secondo luogo, sia Poroshenko che Tymoshenko hanno chiarito ai loro omologhi statunitensi di essere contrari a elezioni anticipate. Condividono invece il diffuso rifiuto ucraino di condurre campagne ed elezioni in tempo di guerra. I due politici sarebbero probabilmente scettici anche sul fatto di tenere elezioni troppo presto dopo la revoca della legge marziale, senza un periodo più lungo di preparazione per un processo elettorale adeguato e sicuro.
In terzo luogo, a Washington si sopravvalutano le conseguenze politiche di un’ipotetica presidenza di Tymoshenko, Poroshenko o di qualsiasi altro candidato presidenziale concepibile. Il cambiamento non farebbe molto per modificare l’orientamento della politica estera dell’Ucraina in generale e il suo atteggiamento nei confronti della Russia in particolare. Semmai, i partiti di Tymoshenko e Poroshenko sono più nazionalisti di quello di Zelensky. Entrambi i politici si sono distinti in passato per le dichiarazioni bellicose contro la Russia e il presidente russo Vladimir Putin.
C’è un’evidente discrepanza tra le richieste di elezioni in Ucraina e il loro impatto trascurabile o, più probabilmente, negativo sulla disponibilità di Kiev a fare concessioni. Questa contraddizione è legata al fatto che la richiesta di elezioni in Ucraina, presumibilmente intesa a contribuire a porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina, ha avuto origine al Cremlino e serve a scopi distruttivi. Né la sospensione delle elezioni presidenziali e parlamentari ucraine in tempo di guerra, come previsto dalla legislazione prebellica del Paese, né lo stesso Zelensky sono responsabili della mancanza di progressi nei negoziati tra Stati Uniti, Ucraina e Russia.
Il doppio mito secondo cui l’attuale governo ucraino è illegittimo e che sono necessarie elezioni rapide per porre fine ai combattimenti è stato creato a Mosca. Dover improvvisare elezioni in un paese dilaniato dalla guerra consentirebbe al Cremlino di scatenare la sua intera macchina di guerra politica, compresi disinformazione, attacchi informatici, intimidazioni, sabotaggi e corruzione. Accogliere la richiesta russa di elezioni sarebbe un grave errore per gli altri attori internazionali coinvolti.
GCAP come punta dell’iceberg: la cooperazione italo-britannica nel combattimento aereo
L’Italia e il Regno Unito condividono una forte tradizione di cooperazione industriale nel campo della difesa. Questo rapporto è stato rafforzato da programmi congiunti, come il Panavia Tornado e l’Eurofighter, dall’esistenza di una joint venture leader nel settore missilistico come MBDA, e dalla presenza del Gruppo Leonardo nel Regno Unito tramite la sua controllata Leonardo UK. Il Global Combat Air Programme (GCAP) per lo sviluppo di un velivolo da combattimento di sesta generazione è dunque solo l’ultima dimostrazione di forte complementarità tra industrie e ministeri della difesa dei due Paesi. Di questo si è parlato il 18 marzo presso la residenza dell’Ambasciatore del Regno Unito in Italia grazie all’evento The Anglo-Italian Cooperation on Air Combat, organizzato dall’Istituto Affari Internazionali (IAI) in collaborazione con l’Ambasciata britannica e MBDA.
Una colonna portante della cooperazione europeaTracciando una linea di continuità dal Tornado al GCAP, è subito evidente come l’Italia e il Regno Unito siano gli unici due Paesi ad aver lavorato fianco a fianco costantemente nell’ambito dei velivoli da combattimento dalla fine degli anni sessanta ad oggi. Anche l’F-35, pur rappresentando un programma americano, ha visto la partecipazione di aziende di Paesi partner, tra cui appunto Italia e Regno Unito. Mentre quest’ultimo è l’unico Paese partner ad aver ottenuto lo status di Tier 1, l’Italia è diventato il solo stato europeo ad ospitare una linea di assemblaggio finale (Final Assembly and Check Out, FACO).
Un’analisi di mezzo secolo di collaborazione mette a nudo un fatto sorprendente: anche con il susseguirsi di governi, minacce e interessi strategici, a partire dalla fondazione di Panavia nel 1969 (da parte di Germania, Regno Unito e Italia) per lo sviluppo del Tornado e fino ai giorni nostri sussiste una capacità non comune degli stakeholder della difesa di Roma e Londra di trovare la giusta quadra per portare a termine programmi di cooperazione estremamente complessi.
A livello europeo, questa continuità di rapporti è quasi unica. La Francia ha infatti per decenni optato per programmi puramente nazionali, anche quando inizialmente aveva tentato di intraprendere la via della cooperazione, come agli albori dell’Eurofighter. La Germania invece ha avuto un ruolo fondamentale sia nel programma Tornado che nell’Eurofighter, ma per motivi politici ha preferito unirsi a Francia e Spagna per sviluppare il Future Combat Air System (FCAS). L’F-35 fornisce nuovamente una chiave di lettura interessante per quel che riguarda una convergenza di interessi italo-britannica: tra le principali potenze militari europee, solo Italia e Regno Unito sono partner dai primissimi anni di vita del programma. Infatti la Germania ha temporeggiato fino all’attacco russo all’ucraina del 2022, per poi uscire da una fase di stallo politico durato decenni, mentre la Spagna continua a posticipare una decisione che almeno fino alla fine dell’Amministrazione Biden sembrava inevitabile militarmente ma delicata politicamente.
Allineamento nelle idee e nei mezziLa cooperazione industriale nel campo della difesa è sempre sfidante per governi, industrie e forze armate. Innanzitutto perché richiede una chiara volontà di scendere a compromessi, confrontandosi con le controparti in modo costruttivo e pragmatico. Le fasi di negoziazioni sulla divisione del lavoro sono dunque sempre delicatissime, e cadono spesso in una dinamica di ‘sconfitti e vincitori’ che spesso rallenta i programmi o, nei casi peggiori, li stronca sul nascere. Aldilà delle questioni industriali, la definizione di requisiti comuni e condivisibili da tutti i partecipanti di un programma è un altro passo fondamentale e che spesso sfocia in rotture o divergenze nei prodotti finali. L’Italia e il Regno Unito hanno dimostrato più volte di avere idee chiare e soprattutto simili sul combattimento aereo, raggiungendo una comunanza di piattaforme senza eguali in Europa, che sarà ulteriormente accentuata dall’entrata in servizio della core platform di GCAP nei prossimi decenni.
Questa visione comune, insieme ad una maggiore predisposizione alla cooperazione pragmatica rispetto ad altri Paesi europei, è in parte il fattore abilitante per un rapporto di collaborazione sempre più stretto, ma ne è anche il risultato. Ad oggi, i due Paesi sono talmente abituati a lavorare insieme in questo campo da aver creato insieme una vera e propria ‘cultura di cooperazione’ anglo-italiana basata su una spiccata comprensione dei processi e approcci altrui. Oltre alla piattaforma, anche per quel che riguarda i sistemi d’arma c’è una forte cooperazione grazie a MBDA, joint venture leader nel settore missilistico e che ha sviluppato tra gli altri il missile aria-aria Meteor in dotazione anche agli Eurofighter dell’Aeronautica Italiana e della Royal Air Force.
Guardando al futuro, le opportunità per un ulteriore rafforzamento della già fruttuosa cooperazione tra Italia e Regno unito nel campo del combattimento aereo sembrano abbondare. Come sottolineato in un recente studio dello IAI sul GCAP, la cooperazione in questo ambito non si limita solo allo sviluppo di piattaforme e sistemi d’arma. Si estende infatti, in alcuni casi, anche alla definizione di dottrine simili e di percorsi di addestramento comuni o condivisi che, insieme al processo stesso, gettano le basi per nuovi programmi congiunti. Per l’Italia è evidente il raggiungimento dello status di partner alla pari nei confronti del Regno Unito in termini sia di design authority che di finanziamenti e workshare industriale, dopo decenni di ruolo più secondario rispetto anche alla Germania nei programmi Tornado ed Eurofighter. Sarà fondamentale che gli stakeholder italiani continuino a consolidare questa posizione, raggiunta grazie al solido allineamento tra Difesa, industria e politica, per sfruttare al meglio tutte le opportunità che ne scaturiranno.
Il viaggio a Washington e il dilemma di Meloni
Il compito che aspetta la premier Giorgia Meloni durante la sua visita lampo a Washington è il più classico degli esercizi di equilibrismo. Meloni dovrà allo stesso tempo difendere gli interessi commerciali italiani, ribadire la prossimità dell’Italia agli Stati Uniti ed evitare di creare una frattura interna all’Ue. Il compito è arduo, visto che si tratta di obiettivi difficili da raggiungere e ancor più difficili da conciliare.
Il costo delle tariffe per l’ItaliaL’Italia è uno dei paesi più esposti ai dazi sulle importazioni dall’Ue adottati da Donald Trump il 2 aprile, poi parzialmente sospesi dopo preoccupanti scricchiolii del mercato obbligazionario. Gli Stati Uniti assorbono il 10% delle esportazioni italiane e dal 2023 sono diventati il secondo mercato di destinazione dei nostri beni, per un valore che l’anno scorso ha superato i 64,7 miliardi di euro.
Se l’amministrazione Trump dovesse confermare il dazio del 20% sull’Ue dopo lo scadere della pausa a luglio, le perdite per gli esportatori italiani sarebbero significative. I settori più colpiti includono macchinari e apparecchiature, prodotti farmaceutici, automotive e mezzi di trasporto, oltre che prodotti chimici, tessili e agroalimentare. Né il quadro sarebbe tanto più roseo se si dovesse restare alla soglia attuale del 10% (era di circa l’1% prima del 2 aprile), a cui vanno aggiunti i dazi del 25% su alluminio, acciaio e autovetture. Ancor più preoccupante è la prospettiva che le tariffe generino un rallentamento della crescita globale. Il governo Meloni ha già dimezzato le prospettive di crescita per quest’anno.
Approccio unilaterale o europeoIl governo è notoriamente scettico sull’efficacia di adottare controtariffe, sostenendo che l’effetto sarebbe quello di aggiungere danno a danno. Si è sempre detto a favore di una via negoziale. Questa è una posizione al momento in linea con quella della Commissione europea, che ha deciso di mettere da parte una rappresaglia contro le tariffe del 2 aprile e sospendere l’attuazione delle contromisure in risposta ai dazi su acciaio, alluminio e auto che erano già state approvate, nel tentativo di approfittare della pausa annunciata da Trump per trovare un compromesso. Tuttavia, il commissario al commercio Maroš Šefčovič e il suo team per il momento non hanno ottenuto nulla dall’amministrazione Trump, se non la conferma che un certo livello di dazi resterà senz’altro. Questo rende il compito di Meloni ancora più ingrato.
La coalizione di governo ospita, come è noto, opinioni contrastanti. La Lega di Matteo Salvini spinge per un negoziato bilaterale, mentre Forza Italia insiste sulla necessità di una posizione coordinata con l’Ue. La prima strada è impraticabile perché la politica commerciale è competenza esclusiva dell’Unione. Inoltre, cercare esenzioni per i prodotti italiani creerebbe una frattura interna all’Ue, isolerebbe l’Italia e ne ridurrebbe l’influenza nei negoziati su dossier cruciali come l’eventuale rilassamento del Patto di stabilità e crescita o il ricorso a risorse comuni per sostenere gli investimenti in difesa. È plausibile pertanto che Meloni cerchi un’interlocuzione con Washington su questioni su cui ritiene possibile possa avere sostegno da almeno una parte dei suoi partner europei.
Può ben essere che Meloni ribadisca di essere a favore dell’idea di un’area commerciale industriale a zero tariffe già avanzata dalla Commissione, pur sapendo che non c’è alcuno spazio. Ma il suo messaggio centrale non può che essere l’insistenza sul rafforzamento della relazione transatlantica battendo su due tasti: la competizione con la Cina e un accordo per aumentare le importazioni di beni americani nell’Ue.
Un fronte su cui questi obiettivi possono essere conciliabili è quello delle tecnologie della comunicazione: dal 5G a Starlink, il sistema di comunicazione satellitare di Elon Musk, l’amministrazione Trump inquadra l’acquisto di beni americani come una scelta di campo fra Washington e Pechino per gli europei. Gli americani sono anche interessati ad aumentare le vendite agli europei di gas naturale liquefatto (gnl) e sistemi d’arma. Né è un segreto che l’amministrazione vede le regolamentazioni Ue in campo digitale, ambientale e alimentare come discriminatorie verso compagnie ed esportatori americani.
Margini di manovra limitatiA meno che non si decida per la linea unilaterale favorita dalla Lega, lo spazio di manovra di Meloni è limitato. L’accettazione delle richieste americane risulterebbe in un ulteriore aumento della dipendenza europea dagli Stati Uniti in un momento in cui la domanda di una maggiore autonomia è diventata più urgente.
Il governo italiano potrebbe superare le sue stesse reticenze ad adottare Starlink, ma altri governi europei sono riluttanti a dare un’influenza strutturale a un tecno-miliardario che non esita a interferire direttamente nella loro politica interna appoggiando partiti di estrema destra e promuovendo disinformazione anti-Ue. Il tema della sovranità digitale e tecnologica del resto è sempre più presente nel dibattito interno all’Ue e non è un caso che la Commissione abbia escluso la possibilità di rivedere le leggi europee che regolamentano la concorrenza sui mercati digitali (Digital Markets Act) e impongono ai giganti dell’high-tech di vigilare sui contenuti diffusi sulle piattaforme social (Digital Services Act). È anche impossibile o quasi un allentamento delle barriere all’importazione di prodotti agricoli americani trattati con ormoni o lavati col cloro o cresciuti con organismi geneticamente modificati.
Dove la premier italiana può avere più spazio di manovra in Europa è sul fronte dell’acquisto di GNL americano, in teoria utile a compensare la riduzione delle importazioni dalla Russia, sebbene decisamente più caro. Meloni potrebbe anche promettere di incoraggiare acquisti europei di armi americane, anche se le scarse spese per la difesa non fanno dell’Italia il candidato ideale per perorare la causa. Meloni potrebbe promettere a Washington di battersi per un’applicazione meno aggressiva delle regolamentazioni digitali (cosa che in parte la Commissione sta già facendo), contro la tassazione di Big Tech (una questione nazionale ma che ha peso nel dibattito europeo), e per la rimozione o quantomeno rilassamento delle regolamentazioni ambientali (invise anche a molti attori industriali europei).
Mission impossible?In definitiva, per Meloni esiste uno spazio di convergenza fra interessi americani ed europei che riflette tanto la sua visione strategica, quanto le sue convinzioni ideologiche. Meloni è persuasa che i paesi europei non possano che far parte di un ordine euro-atlantico centrato su Washington, e che se Washington cambia rotta sia dovere degli europei adeguarsi invece di inseguire la chimera di una maggiore autonomia.
Questo ben si concilia con la sua idea di Occidente come una comunità di nazioni di origine europea, legate fra loro non tanto dai valori universalistici della liberaldemocrazia quanto da storia, tradizioni e radici religiose, una civiltà che deve serrare i ranghi per proteggersi internamente dai migranti e dalle élite globaliste ed esternamente dalla Cina.
Il problema per Meloni è che questa amministrazione americana, pur ospitando un’ideologia affine alla sua, sembra assai poco disposta a venire incontro alle sensibilità dei paesi europei, che vuole non solo allineati ma anche divisi e deboli.
Meloni finora si è dimostrata abile a navigare le acque di uno spazio atlantico in tempesta, e non si può escludere che torni da Washington con qualcosa in mano. Ma alla lunga conciliare le sue convinzioni ideologiche e strategiche con l’interesse italiano in un commercio più aperto e in un’Europa più coesa e resiliente può diventare una missione impossibile.