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Biden vs. Trump, la rivincita

Ormai, anche quelli che non ci potevano credere, anche coloro che non ci volevano credere, si sono – quasi – rassegnati: Usa 2024 sarà un remake di Usa 2020. Il presidente Joe Biden, democratico, e l’ex presidente Donald Trump, repubblicano, saranno di nuovo l’uno contro l’altro il 5 novembre, un duello rivincita.

È la prima volta che accade dal 1956: Dwight Eisenhower, il generale dello sbarco in Normandia, eletto presidente per i repubblicani nel 1952, battendo il candidato democratico Adlai Stevenson, s’impose per la seconda volta sul suo rivale, un intellettuale che ispirò l’espressione ‘testa d’uovo’ divenuta poi virale. Ed è la seconda volta soltanto che un candidato di uno dei maggiori partiti si presenta per tre volte di fila avendo perso nel mezzo un’elezione: il democratico Grover Cleveland vinse nel 1884, perse nel 1888 contro Benjamin Harrison e si prese la rivincita nel 1892. Un po’ quello che potrebbe avvenire quest’anno, a partiti invertiti.

Altre Americhe, quelle del secondo dopoguerra e di fine Ottocento: meno divise, meno diverse, molto meno polarizzate. In comune con questa avevano la difficoltà del ricambio generazionale, ora evidentissima. Già nel 2020, Biden e Trump, 152 anni in due, erano la coppia di rivali più anziani mai affrontatisi nella storia dell’Unione e chiunque avesse vinto sarebbe stato il presidente più anziano a entrare alla Casa Bianca – il record battuto era di Ronald Reagan, eletto la seconda volta a quasi 74 anni. Quest’anno, i due insieme fanno 160 anni. E, dietro di loro, non emergono i ricambi.

Le primarie del 5 marzo, il Super Martedì, con 15 Stati al voto, hanno spianato la strada a Biden e Trump verso la nomination. Quelle del 12 marzo, con cinque Stati al voto, hanno dato a entrambi l’aritmetica certezza della maggioranza dei delegati alle convention dei rispettivi partiti.

I giochi sono fatti. Eppure, il percorso resta fitto di incognite. Sul cammino di Biden, gli ostacoli maggiori sono l’età e la scarsa popolarità. Rispetto al rivale, il presidente pare più fragile, anche perché nessuno si aspetta da Trump, che parla per slogan, coerenza e precisione, mentre tutti le pretendono da Biden.

Sul cammino di Trump, invece, gli ostacoli sono soprattutto giudiziari – ne parliamo diffusamente più avanti – e finanziari, perché i processi gli costano un sacco di soldi in spese legali e indennizzi da pagare e perché i donatori repubblicani, finora, sono molto meno generosi di quelli democratici.

Nelle primarie fin qui svoltesi, i due rivali hanno mostrato la loro forza e anche le loro vulnerabilità elettorali. L’uno e l’altro sono esposti a dissensi interni ai loro schieramenti: Biden fa meno presa che nel 2020 su giovani, minoranze, sinistra; Trump non convince i conservatori moderati e stenta fra gli indipendenti.

Il numero delle schede ‘uncommitted’ fornisce una misura delle riserve dei democratici sul presidente: elettori democratici che non ne avallano la candidatura, con punte vicino al 20%. Tuttavia, l’ipotesi che Biden si faccia da parte è ormai remota, salvo fatti traumatici: la sua carta vincente potrebbe essere il carattere divisorio della candidatura Trump, che – sottolineano i democratici – “vuole distruggere la democrazia, strapparci libertà fondamentali e fare tagli fiscali per miliardi di dollari per i ricchi”.

Nel discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato giovedì 7 marzo davanti al Congresso in plenaria, Biden ha avuto un sussulto di rara efficacia: “Il problema – ha detto – non è la nostra età, ma quella delle nostre idee. La vita mi ha insegnato a scegliere libertà e democrazia, un futuro che sia basato sui valori fondamentali che definiscono l’America, onestà, correttezza, dignità, uguaglianza, rispettare tutti e offrire a tutti una giusta possibilità, per non dare all’odio un porto sicuro … Altri – un riferimento a Trump, ndr – hanno la stessa età, ma vedono una storia americana di risentimento, vendetta e punizione”.

Come nel 2020, Biden ha dalla sua l’establishment democratico, magari con meno convinzione e più apprensione rispetto al 2020. C’è stata una sfilata di presidenti alla raccolta fondi democratica, giovedì 28 marzo, presso il Radio City Music Hall di New York: l’evento, curato da Anna Wintour, aveva l’obiettivo dichiarato di raccogliere 25 milioni di dollari. Con Biden, c’erano Barack Obama e Bill Clinton. Presenti i più bei nomi della New York della moda, dello spettacolo, del glamour e della finanza: i biglietti d’ammissione andavano dai 225 dollari ai 500 mila dollari.

I tre presidenti hanno dialogato fra di loro. Schiumante d’invidia, e molto indietro nella raccolta fondi, Trump, che non ha dalla sua nessun ex presidente – l’unico repubblicano vivente, George W. Bush, gli rema contro –, ha scritto ai suoi sostenitori: “Ricordatevi che la mia campagna non è finanziata dall’élite di Hollywood che può staccare assegni a sei cifre. È finanziata da voi” e ha sollecitato “un milione di patrioti” a fare donazioni a lui, povero miliardario.

Guerre, aborto, economia, i temi della campagna

Le guerre, l’aborto, l’economia: tre assi portanti, non necessariamente nell’ordine, della campagna per Usa 2024. I sondaggi dicono che gli americani si fidano più di Trump che di Biden sul fronte dell’economia, forse perché impressionati dai successi da imprenditore del magnate. Ma è anche vero che gli elettori non riconoscono al presidente i risultati raggiunti: la crescita elevata e la disoccupazione molto bassa. L’inflazione post-pandemia e post-guerra in Ucraina ha eroso il potere d’acquisto e aumentato il costo del denaro e, per quanto si sia ridotta, i suoi effetti negativi restano persistenti. Inoltre, il conflitto mediorientale può fare ripartire la spirale dei costi energetici.

Se l’economia è nella casella di Trump, l’aborto è in quella di Biden. La sentenza con cui nel 2022 la Corte Suprema a trazione ‘trumpiana’ ha cancellato cinquant’anni di diritto all’aborto riconosciuto e le offensive anti-abortiste lanciate negli Stati più conservatori sono largamente impopolari, tranne che fra i fondamentalisti cristiani. Trump ne parla il meno possibile; Biden, pur cattolico, difende il diritto di scelta delle donne e promette una normativa federale, se in Congresso ci sarà una maggioranza per approvarla.

Più di altre volte, in Usa 2024 c’è spazio per la politica estera. Le guerre in atto sono un handicap per Biden, che insiste sul sostegno all’Ucraina, cui i repubblicani però negano gli aiuti, e critica fin qui sterilmente Israele per le stragi di civili a Gaza. Il presidente sconta una certa stanchezza dell’opinione pubblica sull’Ucraina e la delusione di arabo-americani e giovani sul Medio Oriente. Trump dice che con lui le guerre non ci sarebbero mai state: quella in Ucraina finirà il giorno dopo che sarà eletto, mentre l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza ha il suo pieno avallo.

A Mosca, Vladimir Putin, che ha appena avuto l’ennesimo mandato presidenziale, e Benjamin Netanyahu a Gerusalemme lo aspettano come una manna. Invece, l’Europa ne teme il ritorno: al Trump 2, che nega l’aiuto agli alleati ‘morosi’, la Nato potrebbe non sopravvivere.

Migranti, battaglie in Congresso, nei tribunali e al confine tra Texas e Messico

Se c’è una cosa in cui l’America e l’Europa si assomigliano è che il tema dei migranti è centrale nelle rispettive campagne elettorali: da mesi, i repubblicani in Congresso bloccano ogni proposta in merito dell’Amministrazione Biden, convinti che l’attuale situazione di disordine e tensione al confine li avvantaggi sul piano elettorale.

Nel 2016, Trump aveva fatto campagna, ed era stato eletto, con la promessa di mettere un freno all’immigrazione e di costruire un muro lungo la frontiera con il Messico, a spese del Paese stesso: obiettivi ben difficili da realizzare e, infatti, non centrati. Ora, Trump fa campagna sugli stessi temi, senza più evocare il muro, profittando del fatto che pure Biden ha fatto fiasco.

Il flusso di migranti dal Messico è stato a tratti record nell’ultimo anno. Il sostanziale fallimento dell’Amministrazione Biden ha coinvolto, in prima persona, la vice-presidente Kamala Harris, cui, un po’ perfidamente, il presidente aveva affidato la ‘patata bollente’. Adesso, la Casa Bianca, senza fondi, ha sostanzialmente le mani legate: il tema la vede sulla difensiva.

Nei giorni scorsi, un’inattesa sentenza della Corte Suprema ha creato il caos ai confini tra Texas e Messico, ulteriormente aggravatosi quando una corte d’appello federale ha congelato la legge sull’immigrazione texana, controversa ma appena avallata dai giudici supremi. La norma sui migranti del Texas ne autorizza l’arresto e il rimpatrio se intercettati privi di documenti dalla polizia statale sul territorio statunitense. La legge appare in contrasto con le prerogative federali. Ma la Corte le ha dato via libera, sia pure provvisoriamente, e con decisione contrastata – sei giudici, i conservatori, pro; tre, i progressisti, contro –, suscitando immediatamente le critiche della Casa Bianca. I giudici progressisti hanno motivato il loro dissenso con il rischio di creare “caos” ai confini dell’Unione.

Anche il Messico s’è fatto sentire, comunicando che non accetterà il rimpatrio di migranti sulla base della nuova legge, che le autorità statali non hanno finora applicata. Il governatore del Texas Greg Abbott è un ultra ‘trumpiano’ ed è favorevole al ‘pugno di ferro’ contro i migranti, che viene contestato in giustizia dall’Amministrazione federale, dalla Contea di El Paso e da gruppi per la tutela dei diritti civili.

Giustizia, Trump gioca al rinvio e i giudici gli tengono bordone

Giustizia e politica: in Italia, è cosa già vista; negli Usa, è un inedito, in un’elezione presidenziale. Come in Italia, l’accusato ricco e famoso proclama la propria innocenza, ma non ha nessuna fretta di essere assolto, anche perché rischia di essere condannato. Dunque, non vuole andare a processo per dimostrare la propria estraneità, ma cerca di dilazionare, rinviare, procrastinare il più possibile, utilizzando tutto l’arsenale di strumenti legali a sua disposizione e intasando la magistratura d’appelli, ricorsi, eccezioni.

Ovviamente, tutto ciò ha un costo: stuoli di avvocati da pagare per azzeccare il garbuglio giusto che valga un rinvio. Del resto, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un povero vada alla Casa Bianca. Ma c’è una variante che è un’aggravante: la sudditanza di giudici nominati dal potere politico a chi li ha eletti.

Su Trump pesano 88 capi d’accusa, in quattro processi: due federali, a Washington e in Florida, uno statale, in Georgia, e uno a New York. Lui denuncia una ‘caccia alle streghe’ politicamente motivata da parte della magistratura e, contando su giudici ‘amici’, prova a evitare che i dibattimenti, o almeno alcuni di essi, inizino prima delle elezioni presidenziali. Con l’eccezione del caso di New York, è ormai difficile che vadano a sentenza prima del voto.

La stampa Usa mainstream e liberal segnala comportamenti anomali, nei suoi confronti, di giudici di vario livello: da singoli magistrati alla Corte Suprema, dove sei giudici su nove sono conservatori – e tre di questi scelti da Trump quand’era presidente – e tre progressisti.

In particolare, fanno molto discutere le scelte di Aileen Cannon, di nomina ‘trumpiana’, che presiede il processo in Florida sui documenti riservati illegalmente portati via dalla Casa Bianca e illegittimamente – e malamente – custoditi dall’ex presidente nelle sue residenze. Il Washington Post cita esperti legali, secondo cui le scelte di Cannon sono “molto molto singolari”, dal punto di vista del diritto. Risultato: il giudice non ha ancora fissato l’inizio del processo, che sembrava potesse iniziare il 20 maggio, ma che sicuramente slitterà.

In Georgia, la difesa d’uno degli imputati ha tirato fuori storie di lenzuola tra la PM e un suo collaboratore, la cui rilevanza nel caso resta misteriosa. Un giudice ha deciso che il processo può andare avanti, essendosi sciolti fra i due sia il legame sentimentale che quello professionale, ma ha contestualmente ammesso un ricorso contro la sua sentenza. Così il procedimento resta bloccato, mentre la difesa già avanza altre istanze di rinvio o di cassazione.

A Washington, la ‘madre di tutti i processi’, quello sul ruolo dell’allora presidente nell’insurrezione del 6 gennaio 2021 per rovesciare l’esito delle elezioni, attende che la Corte Suprema si pronunci sulla pretesa d’immunità di Trump. Tuttavia, la Corte se la prende comoda: il 22 aprile, ascolterà le parti; forse prima dell’estate, darà il suo parere; dopo di che mancheranno più o meno 100 giorni al voto e saranno pochi per fare il processo e arrivare a sentenza. Sempre che la Corte Suprema non avalli la tesi dell’immunità. Alcune decisioni dei giudici supremi, tutte pro-Trump, appaiono discutibili o almeno contraddittorie: affermano le prerogative federali su quelle statali, quando si tratta di non escludere Trump dalle liste – una decisione unanime, evidentemente indiscutibile in punta di diritto –, ma poi consentono a uno Stato, il Texas, ‘trumpiano’, di prevaricare le leggi federali, quando si tratta di migranti.

Resta il processo di New York sul pagamento in nero coi soldi degli elettori per comprare il silenzio di due donne su storie del passato con il magnate durante la campagna elettorale 2016. Si doveva cominciare il 25 marzo, ma s’è slittati al 15 aprile per permettere l’esame di nuove carte: sui giudici di New York non c’è ombra di pregiudizi favorevoli a Trump, anzi è piuttosto il contrario.

Nella giustizia ordinaria, dunque, tutto fermo al palo di partenza, o quasi. Prosegue, invece, la speciosa inchiesta della commissione di sorveglianza della Camera che istruisce l’impeachment contro il presidente Joe Biden: mancano del tutto le prove dell’asserto, ma l’obiettivo è solo quello di mettere in difficoltà il presidente.

Intanto, Trump vuole ingaggiare come consigliere della sua campagna Paul Manafort, che fu già suo campaign manager nel 2016 e che lui graziò a fine mandato, dopo che era stato condannato per frode fiscale e bancaria nell’ambito dell’inchiesta sul Russiagate. Manafort dovrebbe occuparsi della raccolta di fondi del magnate. La sua assunzione riaprirebbe il capitolo delle interferenze della Russia in Usa 2016. Allora, Manafort aveva condiviso dati della campagna con un suo socio che, secondo l’Fbi, aveva legami con l’intelligence di Mosca.

Election Day, il presidente, ma non solo, centinaia di appuntamenti

L’Election Day del 5 novembre è il giorno dell’elezione del presidente. Ma non solo: gli americani vanno alle urne per centinaia di altre scelte, a livello federale, statale, di contea e locale; decidono, in particolare, chi controllerà il Senato e la Camera nei prossimi due anni ed è raro che mettano tutto il potere nelle mani di un solo partito. Ad esempio, l’Amministrazione Biden ha avuto la Camera dalla sua e il Senato contro fino al 2022; dopo il voto di midterm, la situazione s’è rovesciata con Camera repubblicana e Senato democratico.

Quest’anno, ci potrebbe essere un altro ribaltone: alla Camera, dove si assegnano tutti i 435 seggi, la maggioranza repubblicana s’è assottigliata, causa decessi, dimissioni ed elezioni suppletive, 217 a 213 (con cinque seggi vacanti); al Senato, dove si assegna un terzo dei seggi, i democratici hanno 51 seggi e i repubblicani 49. Ad oggi, i pronostici sono per un rovesciamento delle posizioni. I democratici hanno la possibilità, che appare concreta, di riprendersi la Camera, per una somma di fattori: andamenti politici e demografici, ridefinizione dei collegi, situazioni locali. Invece, i repubblicani puntano a ribaltare la situazione al Senato, dove alcuni seggi democratici appaiono vulnerabili.

Tre, in particolare, le corse su cui si concentra l’attenzione: l’Ohio, dove il senatore democratico uscente, Sharrod Brown, 71 anni, dovrà affrontare uno sfidante repubblicano aggressivo e molto ‘trumpiano’, Bernie Moreno, 57 anni, un uomo d’affari di Cleveland, la West Virginia e l’Arizona. Qui, due senatori indipendenti, ma che erano stati eletti e votavano come democratici, Joe Manchin e Kyrsten Sinema, hanno deciso di non ripresentarsi. Nei due Stati sarà molto difficile per i democratici mantenere il seggio: perderli entrambi basterebbe a rovesciare la maggioranza.

Il 5 novembre verranno poi rinnovati diversi governatori e, parzialmente o totalmente, le assemblee di diversi Stati; saranno inoltre assegnate cariche elettive a ogni livello. Come sempre, infine, ci sarà un cospicuo corredo di referendum statali o locali sulle materie più disparate.

Il calendario degli eventi, di qui all’Election Day

La stagione delle primarie di Usa 2024, che si è aperta il 15 gennaio con i caucuses repubblicani nello Iowa, è poco oltre metà strada: si chiuderà, in pratica, il 4 giugno, con il voto in una manciata di Stati. Ma gli appuntamenti che restano non possono più incidere sull’esito finale: Biden e Trump hanno già acquisito il numero di delegati sufficiente a garantire loro la nomination.

Formalmente, il presidente e l’ex presidente diventeranno i candidati ufficiali del loro partito durante le convention estive: quella repubblicana si svolgerà a Milwaukee, dal 15 al 18 luglio (prima, Trump dovrà avere scelto il suo vice); quella democratica a Chicago, dal 19 al 22 agosto.

La campagna elettorale vera e propria inizierà dopo il Labor Day, la Festa del Lavoro negli Usa, che quest’anno cade il 2 settembre. Biden e Trump faranno comizi, incontri, raccolte fondi; il presidente utilizzerà come tribune anche gli appuntamenti internazionali di cui è fitta la sua agenda come il G7 in Puglia a giugno e il Vertice della Nato a Londra in luglio; l’ex presidente trasformerà in podi le aule di tribunale dove sarà chiamato a comparire per i suoi processi. Per gli elettori più indecisi saranno inoltre fondamentali i tre dibattiti televisivi: il 16 settembre (alla Texas State University) e l’1 e il 9 ottobre, inframmezzati da un dibattito fra i ‘vice’ del 25 settembre, al Lafayette College in Pennsylvania.

L’Election Day, il 5 novembre, è il giorno in cui l’America decide, anche se molti elettori avranno già votato, per posta o nei seggi aperti in anticipo – regole e modalità variano da Stato a Stato. Tuttavia, le cronache recenti, dal 2000 al 2020, ci insegnano che la conta dei voti e l’esito delle elezioni possono prendere qualche tempo: nel 2020, Biden acquisì la certezza di essere il presidente eletto solo il 7 novembre, tre giorni dopo il martedì elettorale del 2 novembre.

A quel punto, resteranno una serie di passaggi burocratici e politici – le riunioni dei Grandi Elettori dei singoli Stati, la riunione corale dei Grandi Elettori a Washington, la ratifica dei risultati da parte del Congresso riunito in sessione plenaria – fino all’Inauguration Day, venerdì 20 gennaio. Sempre che il diavolo delle contestazioni non ci metta la coda.

Guerra chiama guerra

A quel che sembra, guerra chiama guerra. L’avidità imperialista che ha spinto la Russia ad attaccare l’Ucraina sta accrescendo il coinvolgimento di tutto il continente europeo in quelle regioni dove la guerra non si è mai arrestata, in Medio Oriente e in Africa. 

L’attentato terrorista dell’Isis al Crocus City Hall di Mosca è stato concepito e diretto dalle basi che questa organizzazione ha in Afghanistan. L’Isis, a sua volta, è stato certamente stimolato a un maggiore attivismo, anche al di fuori delle sue aree tradizionali di intervento, dal mostruoso attacco condotto da Hamas contro Israele, il 7 ottobre scorso. Dapprima si era mosso in Iran, con l’attentato di Kerman, puntando con un certo successo ad alimentare il conflitto con il Pakistan. Contemporaneamente aveva sviluppato un maggiore attivismo in Iraq e in Siria, contro americani, russi, il governo di Assad, e in concorrenza con Hezbollah (che appoggia Assad, ma è anti americano e anti israeliano), quest’ultimo sinora tenuto parzialmente a freno da Teheran, per evitare uno scontro diretto con Israele.

Ecco dunque che il fronte orientale dell’Europa comincia a saldarsi con quello mediterraneo e medio orientale, già sollecitato dai drastici mutamenti sopravvenuti nel mercato energetico in seguito al forzato riorientamento verso l’Asia delle esportazioni russe (e iraniane). La Cina e qualche altro stato, come l’India, ne approfittano tatticamente per ridurre la loro bolletta energetica, ma nel complesso le guerre influenzano negativamente la crescita dell’economia globale. Anche perché gli effetti di conflitti solo apparentemente circoscritti geograficamente sono a volte sorprendenti. Chi aveva previsto che la guerra a Gaza avrebbe avuto un forte impatto negativo sulla libertà di navigazione e sulle rotte e i costi del commercio navale?

Gli effetti sociali della guerra e le conseguenze della nuova rivoluzione tecnologica 

Gli effetti possono essere perfino più complessi. La crescita tumultuosa dell’antisemitismo ha ormai investito anche i maggiori e più prestigiosi centri di formazione della gioventù occidentale, da Harvard alla Normale di Pisa. Per tali vie cresce la frammentazione e la litigiosità all’interno della società occidentale, risvegliando antichi spettri e alimentando la faziosità tipica dei social media, con effetti devastanti sul dibattito politico e quindi sulla tenuta stessa dei nostri sistemi democratici.

Alcuni leader politici si stagliano come i maggiori profittatori e, allo stesso tempo, come coloro che più contribuiscono ad alimentare questo disordine, da Vladimir Putin a Benjamin Netanyahu, passando per Donald Trump. Ma non sono certamente i soli: la tentazione di cavalcare assieme ai cavalieri dell’apocalisse è forte anche in molti altri casi.

In questo disordine stiamo anche sperimentando i primi passi di quella che si annuncia come una nuova grande rivoluzione tecnologica destinata a ridisegnare gli equilibri nati dalla rivoluzione industriale del passato (e quindi anche le forme di aggregazione sociale, lo svolgimento delle guerre, la tenuta e l’evoluzione dell’attuale sistema di Stati nazionali, e molto altro ancora). Se attualmente le promesse di questa rivoluzione sono appena abbozzate, già cominciano invece a sentirsi gli effetti trasformativi sul mercato del lavoro e sul tessuto connettivo delle società più sviluppate (che più hanno guadagnato dalle rivoluzioni passate). La protesta e il timore del mutamento sono quindi più forti delle promesse per il futuro e accrescono le difficoltà della transizione.

D’altro canto il processo innescato è ormai irreversibile, anche perché sembra offrire al cosiddetto Sud del Mondo, che meno aveva potuto profittare delle passate rivoluzioni industriali, un’occasione per accrescere significativamente il suo peso e la sua concorrenzialità. Si tratta quindi, dal nostro punto di vista, di cercare di dare ordine e significato alla rivoluzione tecnologica, perché essa non vada a contrapporsi alle conquiste politiche e sociali che caratterizzano in positivo i nostri paesi. Si tratta, altresì, di non abbandonare il controllo e il governo di questa rivoluzione tra le mani di sistemi antagonisti che vorrebbero piuttosto rompere tale continuità.

Non uno scenario facile dunque, perché alla conflittualità più tradizionale, alimentata dal fanatismo o dalla volontà di potenza, se ne accompagna anche una di tipo sistemico – o quanto meno una fortissima competizione – per decidere sulle forme future del governo della globalizzazione.

L’importanza di trovare soluzioni comuni a problemi globali

Ma naturalmente anche gli scenari più disastrosi e conflittuali hanno al loro interno importanti controspinte. Il sistema internazionale è ancora forte e non sembra voler cedere facilmente alle spinte autodistruttive. Pensiamo alla flessibilità con cui riesce a gestire i mutamenti, anche quelli apparentemente più complessi, come la riorganizzazione del mercato energetico, e soprattutto alla resilienza delle catene di produzione del valore, che sopravvivono alle divergenze politiche e impongono un livello accettabile di cooperazione tra opposti sistemi.

C’è una generale e diffusa consapevolezza sulla necessità di trovare soluzioni comuni a problemi globali, che i singoli Stati, per grandi e potenti che siano, non riescono in realtà ad affrontare da soli – dall’ambiente alle pandemie, alla gestione delle conseguenze della rivoluzione tecnologica in atto –, anche se i diversi punti di partenza a volte mascherano l’esistenza di un forte interesse comune e rendono lento e difficile questo processo. C’è persino una confusa, ma reale ripresa dell’iniziativa europea, ancora molto parziale e insufficiente, ma comunque in netta controtendenza con le spinte disgregatrici e conflittuali.

Gli scenari di guerra tendono a polarizzare l’attenzione delle opinioni pubbliche e ad accrescere divisioni artificiose tra i partigiani dei campi contrapposti, quasi ci si trovasse ad assistere allo scontro tra opposte tifoserie. In realtà non possiamo puntare a chiarissime soluzioni che individuano senza possibili dubbi i vincitori e i vinti. Certamente la guerra di Gaza non si concluderà con una resa incondizionata e la guerra in Ucraina passerà probabilmente, nel migliore dei casi, per un difficile compromesso. D’altro canto, al di là di Putin e delle ossessioni che sembrano oggi mobilitare troppa parte della leadership russa, è forse interesse dell’Europa spingere la Russia sempre più verso l’Asia e rinnegare secoli di ravvicinamento tra Mosca e l’Occidente?

La questione delle riserve russe congelate

In risposta all’invasione russa dell’Ucraina i paesi occidentali hanno prima congelato le riserve in valuta della banca centrale russa e ora stanno considerando come utilizzarle per sostenere l’Ucraina. La brutale aggressione militare di un Paese sovrano giustifica pienamente, da un punto di vista morale, forti sanzioni economiche. Le riserve valutarie di uno Stato sono però uno degli strumenti finanziari fondamentali delle moderne economie monetarie, che gli permette di aprirsi agli scambi con l’estero e di proteggersi nei momenti di crisi finanziaria e valutaria. Per questo motivo le banche centrali hanno sempre goduto di immunità sovrana, che le sottrae alla giurisdizione di altri Stati. Sono ora in corso vari approfondimenti sulle opzioni legali per agire nei confronti di un Paese che ha comunque violato vari principi fondamentali del diritto internazionale. Ma è necessario anche chiedersi se il timore della perdita di “inviolabilità” delle riserve valutarie possa favorire lo sviluppo di monete e sistemi finanziari alternativi a quelli occidentali.

Il ruolo dello yuan cinese nel sistema economico internazionale

Secondo molti, questo rischio è trascurabile. Non esistono alternative credibili al dollaro e all’euro che rappresentano rispettivamente circa il 50 e il 20 per cento delle riserve valutarie globali, mentre la moneta della seconda economia mondiale, lo yuan cinese, ha una quota di solo il 3 per cento. La sfiducia degli investitori internazionali circa la volontà delle autorità cinesi di liberalizzare i movimenti di capitale e accettare disavanzi di bilancia dei pagamenti impedisce alla moneta cinese di assumere lo status di valuta internazionale.

Alcuni importanti segnali di cambiamento si stanno però manifestando. Negli ultimi due anni le banche centrali hanno acquistato più di mille tonnellate di oro all’anno e la Cina è stato uno dei principali acquirenti. La Cina ha anche ridotto la sua posizione in US Treasury di circa 262 miliardi di dollari, pari a circa il 33 per cento della posizione che aveva prima dell’invasione russa a gennaio del 2022. Inoltre, ha fortemente promosso l’uso della sua moneta nelle transazioni commerciali internazionali. Secondo alcune fonti, lo yuan, nel secondo trimestre del 2023, è stato usato nel 49 per cento delle transazioni bilaterali cinesi, superando per la prima volta il dollaro. E i paesi in cui lo yuan è usato di più, anche solo come mezzo di pagamento, dovranno inevitabilmente detenere maggiori riserve nella valuta cinese.

Un altro importante fattore è lo sviluppo delle tecnologie digitali, soprattutto la tecnologia blockchain. Banche e altri operatori sono già in grado di usare le cryptocurrencies, come i Bitcoin o i cosiddetti stablecoins, per transazioni che potrebbero aggirare l’attuale infrastruttura globale dei pagamenti fondata sul sistema SWIFT di trasmissione dei messaggi. Sono sviluppi nuovi, dagli esiti ancora incerti, ma che potrebbero rendere il sistema dei pagamenti internazionali meno trasparente e in cui verrebbe fortemente ridotta la capacità dei paesi occidentali di imporre sanzioni finanziarie. Le nuove tecnologie potrebbero anche essere utilizzate per digitalizzare attività reali potenzialmente utilizzabili come riserve. Per esempio il World Gold Council ha avviato un progetto per creare un oro digitale che potrebbe semplificare gli scambi di questa materia prima.

Il rischio di un’economia internazionale frammentata

Difficile dire se iniziative, come la confisca delle riserve russe, possano imprimere un’accelerazione di queste tendenze che erano in atto anche prima dell’imposizione di sanzioni. Molti paesi del “global south”, come alcuni dei BRICs, che attualmente hanno legami con gli Stati Uniti ma anche con paesi loro antagonisti, potrebbero considerare questa misura come un pericoloso precedente che li spingerebbe ad aderire a nuovi sistemi monetari alternativi per motivi politici oltre che economici. Già oggi in Brasile le riserve in yuan hanno superato quelle in euro e si collocano al secondo posto dopo quelle in dollari.

Il rischio di un sistema economico sempre più diviso in blocchi non va quindi sottovalutato. Il costo sarebbe minore crescita e maggiore vulnerabilità a tensioni finanziarie. Ne potrebbe risultare anche un deterioramento dei rapporti tra Unione Europea e Stati Uniti. Alcune frizioni sono già visibili. L’esposizione dell’Unione Europea nei confronti della Russia, pari a 223 miliardi di dollari, è molto più alta di quella degli Stati Uniti (pari a 9,6 miliardi) o quella del Canada (2,9). Fa bene quindi l’Europa a esplorare opzioni meno radicali del sequestro delle riserve, come l’utilizzo dei profitti da esse generate, un’opzione di cui andrebbe comunque verificata la compatibilità con il diritto internazionale.

La divisione in blocchi può ancora essere evitata. La Cina stessa ha tutto l’interesse a mantenere l’integrazione finanziaria con l’Occidente. Con riserve in dollari pari a circa 1,8 trilioni di dollari, un rapido deterioramento della valuta americana danneggerebbe la sua posizione finanziaria. Una Cina ancora integrata nell’economia globale è molto meno pericolosa per l’economia mondiale di una Cina autarchica, a capo di un’alleanza antagonista del mondo occidentale.

La scommessa del Green Deal

Rendere l’Europa il primo continente al mondo a impatto climatico zero è l’impegno vincolante della normativa europea sul clima, nata nel 2021 nel contesto del Green Deal Europeo. Per l’Italia questo percorso è l’unico possibile: la probabilità del rischio di eventi climatici estremi è aumentata del 9% negli ultimi vent’anni e il Mediterraneo è riconosciuto come uno degli hot-spot del cambiamento climatico. Nel nostro Paese gli impatti sono già largamente evidenti e i dati contenuti nel recente report della European Environment Agency non fanno che rimarcare la progressione dei cambiamenti in atto.

Il Green Deal e la strada verso una decarbonizzazione europea

Da decenni, l’Ue traina gli impegni di decarbonizzazione dell’Italia. E non potrebbe essere diversamente, per molte ragioni. In primis perché la transizione richiede la trasformazione del paradigma economico del continente e quindi di tutti i suoi pilastri – dall’industria ai trasporti, dall’approvvigionamento energetico alla fiscalità. In secondo luogo, perché i cambiamenti climatici intervengono in maniera trasversale su tutti i settori interni ed esterni all’Ue, con impatti su sicurezza, salute, politica estera e commerciale, catene del valore e sui comportamenti delle persone. Terzo, perché la transizione necessita di cooperazione e solidarietà tra paesi per costruire sistemi energetici interconnessi e, quarto, perché servono strumenti comuni per supportarla. Quinto, perché non ci possiamo decarbonizzare da soli mentre il resto del mondo va in direzione opposta, altrimenti rischiamo di subire un contraccolpo interno e l’isolamento a livello internazionale. La lista potrebbe andare avanti.

Ma la strada del Green Deal non è stata semplice. Nato cinque anni fa, ha dovuto fare i conti con le tradizionali divisioni intra-europee – come l’inesauribile dibattito sul nucleare – ma anche con shock esterni molto violenti – la pandemia e la crisi energetica. Ha però sorprendentemente mostrato una grande resilienza: con Next Generation EU (nato per supportare la ripresa post-Covid) e tramite il pacchetto RepowerEU (parte della risposta europea all’invasione russa in Ucraina), il blocco ha rafforzato la propria ambizione climatica. In Italia il PNRR ha una componente ingente di fondi a supporto della transizione energetica e la dimensione securitaria della decarbonizzazione è ora più chiara.

Il ruolo degli stati membri nel processo di transizione energetica

A fronte di target al rialzo, i 27 Stati membri si devono pian piano adattare. I piani nazionali energia e clima sono infatti gli strumenti che ogni stato ha per chiarire il proprio percorso, permettendo alla Commissione di capire se, sommando gli sforzi di tutti, si stia realmente percorrendo la strada verso la neutralità climatica. Nuove bozze di aggiornamento dei piani sono state preparate nel 2023 (anche dall’Italia) e la Commissione ha proceduto a fare delle raccomandazioni su come migliorarle dato che permangono lacune sostanziali per il raggiungimento degli obiettivi. Nella loro forma più recente, le bozze di aggiornamento porterebbero a una riduzione delle emissioni di gas serra del 51% rispetto al 1990 contro l’obiettivo del 55% dell’Unione. Le rinnovabili rappresenterebbero una quota del 38,6-39,3% del consumo finale lordo di energia nel 2030, rispetto al 42,5%, mentre un divario ancora più sostanziale permane per quanto riguarda l’efficienza energetica. Su queste basi gli stati devono definire piani finali per giugno 2024, proprio a ridosso delle elezioni. La Commissione ha inoltre già provveduto a fissare un target di riduzione delle emissioni nette di gas serra entro il 2040 per tracciare il percorso verso il 2050. Questo doppio binario – europeo e domestico – è sicuramente complesso ma fondamentale per “governare” la transizione, comprendendo via via dove si possono rafforzare le sinergie o le interconnessioni tra stati e dove occorre, d’altra parte, prevedere strumenti di supporto più adeguati.

L’agenda climatica otterrà un’attenzione senza precedenti nelle prossime elezioni europee e nazionali, i cui risultati potrebbero avere un impatto sugli sviluppi delle politiche Ue – in particolare sulla pianificazione finanziaria e sulla tempistica della transizione. Una crescente polarizzazione sul tema costituisce un rischio per la fase di implementazione nei contesti nazionali delle misure adottate finora, che potrebbe così rallentare. Un certo livello di contrapposizione tra istanze diverse è, d’altra parte, fisiologico e dimostra come il cambiamento sia effettivamente in atto. Tuttavia, per attuare la transizione nei tempi stabiliti e per coglierne a pieno i vantaggi occorre la progressiva istituzionalizzazione della politica climatica nei livelli nazionali ed europei e al contempo bisogna prevenire i rischi di fratture negli e tra gli Stati membri, impegnandosi nella costruzione di strumenti europei comuni a supporto della decarbonizzazione. La posizione di finanza pubblica italiana rimane per esempio affetta da grosse fragilità strutturali, che potrebbero portare a crescenti difficoltà nel raggiungimento degli obiettivi verdi e nello sfruttamento di opportunità di ricollocazione industriale in settori sempre più strategici. Un antagonismo rispetto all’agenda climatica rischierebbe poi di ridurre le opportunità di influenza sulle prossime fasi della transizione, non consentendo di sfruttare appieno congiunture potenzialmente favorevoli all’Italia.

Cooperazione Italo-Britannica. Jeremy Quin allo IAI

La redazione di AffarInternazionali ha conversato con Jeremy Quin, Presidente della Commissione Difesa della Camera dei Comuni britannica, in occasione dell’incontro svoltosi allo IAI tra una delegazione della Commissione stessa e il team di ricerca dell’Istituto. Il meeting si è concentrato sulla cooperazione italo-britannica riguardo a un ampio ventaglio di dossier militari, industriali e geopolitici a partire dal Global Combat Air Programme, ed è stato parte del calendario ufficiale di appuntamenti dei parlamentari britannici che hanno incontrato i propri omologhi italiani, i vertici del Ministero della Difesa e di Leonardo.

La nostra visita in Italia

L’obiettivo principale della nostra visita è parlare del GCAP, che riteniamo essere incredibilmente importante. Esiste un accordo congiunto tra il governo italiano, quello giapponese e il Regno Unito per la realizzazione del GCAP, un sistema di combattimento di sesta generazione. Con esso, si passa da velivoli e piattaforme tradizionali a un sistema aereo da combattimento di prim’ordine ed enormemente avanzato, in cui i dati saranno assolutamente fondamentali. È un importante passo avanti. Sono un ex ministro degli Approvvigionamenti della Difesa nel Regno Unito: abbiamo un rapporto molto solido con le Forze armate e l’industria italiana, e la combinazione di Leonardo, BAE Systems e Mitsubishi Heavy Industries è estremamente forte. Questo è un progetto incredibilmente innovativo: richiederà tante risorse e tanto personale qualificato, ma è molto stimolante e i tempi sono stretti da qui al 2035. Nel Regno Unito, questo progetto gode di un consenso trasversale tra i partiti e stiamo valutando quali saranno i risultati, le tempistiche, le modalità di collaborazione con l’industria. Di tutto questo abbiamo parlato nei nostri incontri, ai quali hanno partecipato non solo il mio omologo, il Presidente della Commissione Difesa alla Camera dei Deputati, ma anche il capo dell’Aeronautica Militare e i suoi colleghi. Entrambi sono stati molto rassicuranti: ora sappiamo che l’Italia ha le competenze, le capacità, il budget e la volontà di collaborare come partner alla pari con il Regno Unito e il Giappone. Questo è stato lo scopo principale della nostra visita.

Abbiamo però toccato anche altri ambiti. Viviamo tempi molto pericolosi e preoccupanti. Per me, come per la maggior parte dei miei coetanei, il momento politico più importante della nostra vita è stato il 1989. Ero uno studente quando il muro di Berlino è caduto ed è stato un momento intenso. Considerando tutte le paure degli anni precedenti, all’improvviso è arrivata questa svolta e abbiamo potuto respirare di nuovo. Questo evento ha avuto conseguenze su molti ambiti della difesa e degli affari esteri, influenzando il modo in cui le nostre forze armate sono state progettate e dotate di risorse negli anni successivi. La spesa per la difesa è diminuita in tutti i paesi della Nato. Certamente, noi siamo abituati ad avere forze di difesa estremamente attive, e sia le forze armate italiane sia quelle britanniche lo sono a livello globale. L’Italia fa molto per sostenere gli sforzi internazionali in materia di peacekeeping e in altri progetti internazionali in corso, compreso nel settore marittimo. Tuttavia, la mia commissione è molto preoccupata: abbiamo pubblicato un rapporto sulla nostra preparazione nell’eventualità che si verifichi lo scenario peggiore, quello che coinvolge la Nato – e la possibile attivazione dell’Articolo 5 – in una guerra prolungata ad alta intensità. E siamo tutti d’accordo che il modo in cui si evita la guerra e in cui si preserva la pace è prepararsi alla guerra: un motto latino, in origine, valido 2.000 anni fa e anche oggi. Stiamo quindi riflettendo su ciò che il Regno Unito deve fare e stiamo formulando delle raccomandazioni. Sono consapevole che questo è un dibattito che si sta svolgendo anche in altri Paesi europei, in quanto tutti noi dobbiamo pensare a come garantire il giusto livello di resilienza collettiva, che significa avere il personale qualificato, i livelli di scorte di munizioni e le capacità avanzate per scoraggiare qualsiasi rischio di worst-case scenario. In questo contesto, è molto positivo che il Regno Unito, l’Italia e l’intera Europa abbiano una posizione solida sull’Ucraina, perché si tratta – ed è una tragedia assoluta – di una guerra feroce in corso nel nostro continente con conseguenze spaventose. È molto positivo che l’Europa abbia agito collettivamente a sostegno di un Paese sovrano e indipendente, oggetto di questo brutale attacco. Questo è un aspetto che certamente ci ha spinto a comunicare la nostra gratitudine, perché questa unione invia un chiaro segnale.

Tuttavia, siamo consapevoli che ci sono altre sfide nel mondo. So bene che l’Italia ha componenti della sua Marina Militare (un cacciatorpediniere, una fregata) che operano per cercare di proteggere la navigazione civile nel Mar Rosso. Come l’Italia, anche noi siamo una nazione marittima e per noi è assolutamente fondamentale non solo proteggere le vite dei naviganti civili, ma anche garantire che il flusso commerciale attraverso il Mar Rosso e da quel punto critico di snodo dall’Europa all’Asia continui a scorrere, senza interruzioni. Comprendiamo perfettamente la posizione italiana, che desidera contribuire, insieme agli alleati europei e alla più ampia alleanza occidentale, a proteggere il trasporto marittimo. È una chiara priorità per tutti noi.

Il Regno Unito e l’Ucraina

Il Regno Unito può anche non essere un membro dell’Ue, ma siamo ancora parte integrante dell’Europa. Questo non è cambiato in alcun modo. Noi, così come l’Italia, siamo assolutamente membri fondamentali della Nato. Quando si tratta della nostra difesa comune, c’è molto che ci lega. La Nato è ovviamente cresciuta in dimensioni dal febbraio 2022 e questo è molto positivo. Apprezzo molto che l’Ue abbia fornito sostegno all’Ucraina. L’Italia lo ha fatto in termini di spedizioni di equipaggiamento militare, così come il Regno Unito. Penso che ci sia un riconoscimento netto del fatto che, nell’Ue o fuori dall’Ue, questo è il nostro continente e quello russo è stato un terribile, barbaro attacco a uno Stato sovrano. È quindi assolutamente riconosciuto che dobbiamo reagire in modo appropriato, sostenendo il governo ucraino.

Il Regno Unito e l’Italia

Non ho intenzione di andare oltre la mia area di competenza, che è quella della difesa. In questo campo, le nostre industrie lavorano molto bene insieme. Sono stato sul Tornado e sull’Eurofighter: qui abbiamo un forte rapporto di collaborazione e i nostri servizi lavorano a stretto contatto. L’ho visto in particolare con le due forze aeree, dove c’è una relazione molto solida. Inoltre, ci sono una serie di missioni Nato in cui i nostri servizi lavorano a stretto contatto, con un vice comandante italiano e un comandante britannico, o viceversa. E funziona bene. Quindi, nel campo della difesa, c’è chiaramente la possibilità di fare di più, e lo stiamo vedendo nel GCAP, con il quale Regno Unito, Italia e Giappone, come partner alla pari, hanno intrapreso un progetto incredibilmente stimolante, ma è anche una grande impresa: dobbiamo passare dalla quarta generazione di Eurofighter alla sesta generazione. Ce la faremo, sarà un grande successo. Ma tutti e tre i Paesi devono essere davvero concentrati sul raggiungimento degli obiettivi. Il vantaggio del nostro incontro di oggi è che abbiamo la certezza assoluta che il governo, il parlamento e l’aeronautica italiana stiano indirizzando le loro energie proprio in questo senso, ed è un piacere vederlo.

Putin e quel disperato bisogno di guerra all’Ucraina

L’importanza delle elezioni presidenziali in Russia svoltesi il 15-17 marzo non riguarda il loro esito bensì quel che ci dicono sulla traiettoria della Russia e della guerra in Ucraina.

La vittoria di Putin non è frutto di una competizione elettorale

Che Vladimir Putin avrebbe stravinto le elezioni, assegnandosi un quinto mandato e divenendo così il leader russo più longevo dai tempi di Josef Stalin, era una delle pochissime certezze di questo periodo di profondi sconvolgimenti. L’elezione di Putin non è mai stata un cigno nero, piuttosto un gigantesco rinoceronte grigio che tutti avvistavano nitidamente da lontano. In Russia non c’è stata alcuna competizione elettorale. I tre contendenti ufficiali di Putin – Leonid Slutsky, Nikolai Kharitonov e Vladislav Davankov – sono sostenitori del presidente. L’unica voce fuori dal coro, Boris Nadezhdin – con un approccio più critico nei confronti non tanto di Putin quanto della sua guerra in Ucraina – è stato squalificato dalla contesa elettorale, mentre l’unica vera minaccia al potere di Putin è stata assassinata. Come noto, infatti, il leader dell’opposizione democratica Alexey Navalnhy è stato ucciso a febbraio nella colonia penale artica di Kharp. Al netto dei brogli, della propaganda e dell’intimidazione, è difficile non stravincere quando non c’è competizione. Insomma, l’operazione elettorale speciale in Russia, con la vittoria schiacciante di Putin, è andata come voluto e ampiamente previsto.

Cosa ci dice questo 87%

Eppure queste elezioni ci dicono molto sia sulla Russia sia sulla sua guerra contro l’Ucraina. Il fatto che non siano state elezioni democratiche non rende irrilevante la vittoria di Putin con l’87% dei voti, ossia ben 10 punti percentuali in più rispetto alla sua ultima vittoria nel 2018. Lo stesso aumento ha caratterizzato anche l’affluenza, un dato tanto (o forse più) significativo di quello sull’esito, specie in un sistema autoritario. Questo, tuttavia, non significa che non ci sia una reale opposizione a Putin: le lunghe file ai seggi a mezzogiorno di domenica 17 marzo in Russia e davanti alle ambasciate russe in diverse città europee e del Caucaso, di cittadini russi che coraggiosamente e silenziosamente hanno aderito all’appello dell’opposizione democratica a presentarsi alle urne a quell’ora in segno di protesta, ci parlano di un’opposizione che resiste, nonostante la violenza e la repressione. Tuttavia, è probabile che anche se questa opposizione avesse avuto piena libertà di esprimersi e votare liberamente il proprio candidato, Putin avrebbe comunque vinto seppur non con l’87% dei voti. Sarebbe fuorviante, infatti, dedurre che alla luce dei brogli e della repressione Putin non goda di un reale sostegno della maggioranza nel suo Paese. Non è una novità che la maggioranza dei russi sia profondamente nazionalista e anti occidentale, amante dell’uomo forte al potere e dell’idea – mai veramente abbandonata – di essere un impero, considerando i Paesi limitrofi indegni di sovranità. Oppure, più banalmente, questa maggioranza vuole tenersi alla larga dalla politica e sarebbe disposta a votare chiunque le venga suggerito o imposto. Putin rappresenta perfettamente questa maggioranza.

Putin ha bisogno della guerra in Ucraina

L’esito delle elezioni in Russia ci dice inoltre che la guerra per Putin sta svolgendo la funzione voluta in casa. Negli ultimi due anni, il leader russo ha trasformato la narrazione e la legittimazione del conflitto nel suo Paese: l’invasione dell’Ucraina non ha più solo o principalmente lo scopo di denazificare e demilitarizzare il Paese, alla vigilia di una sua ipotetica entrata nella Nato, ma è diventata una nuova grande guerra patriottica contro l’Occidente. Questa è una narrazione che ha molta più presa sull’opinione pubblica russa e le elezioni, nonché il terribile attacco al Crocus City Hall di Mosca del 22 marzo scorso, lo dimostrano. Non a caso Putin è ingaggiato nel tentativo maldestro di scaricare la responsabilità indiretta dell’attacco su Kyiv.

Se la prosecuzione della guerra funziona così bene per Putin, anzi se Putin ne ha bisogno per alimentare il suo consenso interno, perché mai dovrebbe porvi fine con un cessate il fuoco e una trattativa? Le elezioni in Russia e l’attacco al Crocus City Hall confermano ciò che è evidente da tempo: della guerra Putin ha e continuerà sempre più ad avere un disperato bisogno. A noi trarne le dovute conseguenze.

L’India nucleare

L’11 marzo scorso, l’Organizzazione per la ricerca e lo sviluppo per la difesa dell’India ha condotto con successo un test del missile Agni-V. Sebbene questo missile non rappresenti una novità per gli esperti che seguono lo sviluppo degli armamenti in India – essendo stato integrato nel Comando delle Forze Strategiche dell’India dal luglio 2018 – il recente test è stato rilevante per l’introduzione della tecnologia dei veicoli di rientro con obiettivi multipli e indipendenti (conosciuta come Mirv, acronimo in inglese). Questo posiziona l’India in un club relativamente esclusivo di paesi, tra cui Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito, che dispongono di missili equipaggiati con tale tecnologia.

La tecnologia Mirv

Mirv è un sistema di armi nucleari installate su un singolo missile balistico intercontinentale, come i russi Topol-M e Bulava o quello statunitense per i sottomarini. Al contrario di una testata convenzionale, Mirv consente a un solo missile di colpire obiettivi multipli o di concentrare la potenza su un numero inferiore di bersagli. Questa caratteristica è importante perché un missile balistico equipaggiato con Mirv viene lanciato da un punto specifico – solitamente un silo terrestre, un sottomarino o un aereo – e, quando lascia l’atmosfera terrestre e raggiunge l’altitudine designata, rilascia il carico utile Mirv. Ogni testata si separa dal corpo del missile, generalmente tramite piccoli razzi o un meccanismo di rilascio, e possiede il proprio sistema di propulsione e guida, consentendole di manovrare autonomamente verso l’obiettivo designato. In questo modo, un solo missile può attaccare più bersagli contemporaneamente o in breve tempo.

L’India ha cercato di sviluppare questa tecnologia fin dai primi anni Ottanta.

Le considerazioni politico-elettorali dietro al test del governo Modi

Tuttavia, vi è disaccordo all’interno della comunità degli esperti riguardo l’utilità del Mirv, specialmente nel caso dell’India, data la sua politica di non-primo uso. La dottrina nucleare indiana si basa, infatti, su una dissuasione minima che evidenzia come il Paese possieda solo capacità di secondo attacco, per rispondere alle esigenze fondamentali di difesa e sicurezza.

Il test è stato annunciato pochi giorni prima che la commissione elettorale dell’India dichiarasse l’inizio della campagna elettorale per le elezioni generali del paese, in cui il Partito Bharatiya Janata (BJP) di Narendra Modi aspira a un terzo mandato consecutivo. In questo contesto, il test del missile sembra rispondere più a una retorica o discorso interno del governo di Modi – per mostrare all’opinione pubblica indiana i grandi progressi tecnologici compiuti durante i suoi mandati – piuttosto che a ragioni puramente strategiche. Non esiste, infatti, una ragione oggettiva per cui l’India dovrebbe investire in questa tecnologia.

Se guardiamo al panorama internazionale, la Cina continua a sviluppare il suo programma nucleare e attualmente si trova nelle prime fasi di attuazione di una difesa missilistica balistica; la Russia è un alleato dell’India, mentre New Delhi gode già di un vantaggio convenzionale sul Pakistan. Emerge, dunque, una questione di prestigio: l’India vuole far parte del club nucleare, non solo in termini di possesso di armi nucleari, ma anche di accesso alle tecnologie associate ad esse. Inoltre, ovviamente, il BJP cerca di accumulare ulteriori consensi in vista delle prossime elezioni.

Le implicazioni regionali del test: il campo di gioco con la Cina

La portata del missile, di oltre 5.000 km, e la sua potenziale utilità come arma di “primo uso”per provocare un conflitto sollevano preoccupazioni riguardo alla possibilità che il test dell’11 marzo possa scatenare una nuova corsa agli armamenti nel sud-est asiatico e causare, a medio termine, una maggiore instabilità tra India, Pakistan e Cina, poiché il missile può coprire, in termini di portata, tutti i loro territori.

Per quanto riguarda la Cina, il test dell’Agni-V mira a riequilibrare il campo di gioco nell’ambito dei missili nucleari. La Cina, infatti, dispone già di missili come il Dong Feng-41, con una portata di 12.000-15.000 km, in grado di colpire qualsiasi città indiana. Inoltre, ha incrementato notevolmente il suo budget militare, aumentandolo del 7,2% quest’anno, il maggior aumento in cinque anni. Entro il 2024, crescerà anche la spesa militare fino a 1,67 trilioni di yuan. Tuttavia, l’Agni-V non offre, in realtà, un vero e proprio vantaggio all’India. Al massimo, invia il messaggio a Pechino che New Delhi padroneggia questo tipo di tecnologia. È molto probabile che la Cina sviluppi in breve tempo un maggior numero di missili con una tecnologia più avanzata rispetto all’India, comportando così uno squilibrio e un aumento delle tensioni nel sud-est asiatico.

Tuttavia, è probabile che i cinesi siano preoccupati dal fatto che le loro principali città, compresa Pechino, siano ora entro la gittata di una bomba nucleare indiana. Ad esempio, Pechino si trova a circa 2.400 km dallo stato indiano più orientale di Arunachal Pradesh e a 4.000 km da Bangalore. Fino ad ora, l’India ha avuto relativamente pochi missili con la gittata necessaria per minacciare le città cinesi sulla costa orientale.

Allo stesso modo, un missile in grado di lanciare più testate può garantire la capacità di attacco a lungo raggio a un costo inferiore rispetto alla costruzione di diversi missili, ognuno con una sola testata. Tuttavia, passerà del tempo prima che l’India possa incorporare questa nuova tecnologia missilistica nelle sue forze nucleari strategiche e, nel frattempo, il programma missilistico cinese potrebbe divenire molto più avanzato.

Le tensioni tra India e Cina non sono nuove: i due paesi hanno combattuto una guerra nel 1962 per antiche dispute territoriali, che si sono acuite con molteplici schermaglie al confine negli ultimi cinque anni. Attualmente, il confine himalayano tra i due paesi è pieno di soldati e artiglieria da entrambe le parti in attesa che possa scoppiare un nuovo conflitto su vasta scala.

Presidenziali americane: partita aperta tra Trump e Biden

Con le primarie a oltre metà percorso e a poco più di sette mesi dalle elezioni presidenziali negli Usa, sembra ormai consolidata la prospettiva che sarà Trump il candidato del partito repubblicano, ora allineato, salvo rarissime eccezioni, sulle posizioni dell’ex Presidente. Analogamente, sul fronte del partito democratico sembra da considerare acquisita la candidatura dell’attuale Presidente in carica, malgrado il pesante handicap dell’età, qualche problema di salute e le perplessità che emergono da vari settori del suo stesso partito e perfino da diversi organi di stampa normalmente vicini ai democratici. Salvo sorprese le due nomination alle rispettive conventions dovrebbero essere poco più che formalità.

Alle presidenziali americane 2024 si ripeterà la sfida Biden contro Trump

Se alle elezioni del prossimo novembre si assisterà a una replica della sfida fra Biden e Trump del 2020, gli americani si troveranno a scegliere tra due candidati molto anziani, entrambi deboli (anche se per motivi diversi), ambedue con una base elettorale caratterizzata da un marcato profilo identitario. Dovranno decidere tra due candidati che rappresentano due “Americhe” profondamente diverse e contrapposte e che ripropongono lo scenario di un Paese diviso verticalmente su quei valori e principi che dovrebbero essere alla base del corretto funzionamento della democrazia della nazione che resta pur sempre la più ricca e potente del mondo.

I sondaggi più recenti danno il candidato repubblicano in testa sia pure di misura. La sensazione prevalente è che contro Biden giochi soprattutto il fattore età – con la conseguente impressione di fragilità, malgrado l’ottimo andamento dell’economia americana e del mercato del lavoro – e una gestione accorta e responsabile della politica estera. Contro di lui anche la crescente sensazione d’impotenza degli Usa rispetto al conflitto in Ucraina e, ancora di più, alla ripresa del conflitto israelo-palestinese, malgrado l’impegno della Amministrazione. A suo sfavore, infine, vi sono l’impatto dell’inflazione sul potere d’     acquisto dei ceti medi e la percezione di una scarsa capacità di gestire flussi migratori e sicurezza interna, soprattutto nelle grandi città. La campagna elettorale di Donald Trump

Trump, convinto di non essere riuscito, nel suo precedente mandato alla Casa Bianca, a realizzare il suo programma elettorale per le resistenze del cosiddetto “deep state”, ha già minacciato di attuare un drastico ricambio a tutti i livelli della dirigenza federale, con l’obiettivo di fare affidamento esclusivamente su collaboratori di fede provata. Inoltre,      sta trasformando i processi avviati contro di lui da varie procure statali e federali in altrettante occasioni per presentarsi, con un certo successo, come un perseguitato politico. Sta anche conducendo una campagna elettorale, secondo il suo inimitabile stile, con dichiarazioni clamorose e spiazzanti, che sarebbero inammissibili per qualsiasi persona di buon senso, ma che sono in grado di mobilitare il suo elettorato. E la fa promettendo meno Stato e più mercato, sgravi fiscali e meno spesa pubblica, più sicurezza interna e contrasto più efficace delle migrazioni, la fine delle politiche ambientali e degli impegni sulla transizione energetica e sulla decarbonizzazione. Promette un’America più in grado di tutelare autentici interessi nazionali, più isolazionista e meno propensa ad assumersi le responsabilità che dovrebbero competere a una grande potenza una volta egemone, più favorevole a declinare le relazioni con gli altri attori sulla scena internazionale sulla base di rapporti di forza e, infine, poco interessata a ripristinare un multilateralismo efficace e istituzioni internazionali funzionanti.

La partita è ancora aperta e molto può ancora succedere prima di novembre. Ma la prospettiva di un ritorno di Trump alla Casa Bianca non può essere scartata anche perché l’ipotesi di una rielezione dell’ex Presidente repubblicano che, secondo le nostre sensibilità, rappresenta una minaccia per la democrazia negli Usa e un incubo per la componente più moderata del Paese, è convintamente sostenuta perlomeno da metà dell’elettorato americano. I rischi di un secondo mandato di Trump per gli alleati europei

Un ritorno di Trump rischia di provocare una soluzione di continuità traumatica, con la rimessa in discussione di valori, principi e politiche caratteristiche degli Stati Uniti e sancirebbe una lacerazione profonda nella società americana. Provocherebbe, inoltre, una forte discontinuità quanto al ruolo del Paese sulla scena internazionale e, soprattutto, rappresenterebbe una fonte di grandi preoccupazioni per i suoi alleati europei.

Pur scontando la notoria imprevedibilità dell’ex Presidente e le scarse indicazioni finora fornite su un suo ipotetico programma organico di politica estera, è facile prevedere che per gli europei un suo ritorno comporterebbe seri problemi di gestione del rapporto transatlantico. Anche senza prendere alla lettera le sue dichiarazioni più clamorose sulla Nato, che lasciavano presumere un prossimo disimpegno americano, appare verosimile che la solidità e la credibilità dall’Alleanza Atlantica possano subire un serio ridimensionamento. Sicuramente con Trump di nuovo alla Casa Bianca diventerebbero molto più pressanti le richieste agli europei perché spendano di più per la loro difesa. Trump in fondo non ha mai creduto nel valore strategico del rapporto con gli europei, dimostrando in più occasioni di considerare l’Ue con un misto di fastidio e condiscendenza, preferendo stabilire relazioni con singoli Paesi europei più congeniali. Senza contare poi che un suo successo contribuirebbe verosimilmente a rafforzare anche in Europa la popolarità di formazioni politiche dichiaratamente sovraniste ed euro-scettiche, rischiando di accentuare le distanze fra Paesi dell’Ue come conseguenza di una maggiore convergenza o divergenza rispetto a Trump e alle sue politiche.

La politica estera dell’ex Presidente

Un cambio della guardia a Washington potrebbe poi segnare una soluzione di continuità nella posizione americana sulla guerra in Ucraina, con la sospensione degli aiuti militari americani e la tentazione di realizzare un accordo con la Russia, anche al costo di forzare soluzioni indigeste per l’Ucraina. Ugualmente, potrebbe comportare un diverso posizionamento degli Usa rispetto al contesto medio-orientale, con un allentamento delle pressioni americane sul governo israeliano, la definitiva rinuncia all’ipotesi di un accordo sulla base della formula dei due popoli e due Stati e con la ripresa di una più aggressiva politica di contenimento dell’Iran. Due possibili sviluppi che, come minimo, accentuerebbero le distanze dagli europei.

Verosimile anche aspettarsi che un’amministrazione americana a guida Trump adotti nuove misure protezionistiche e limitazioni delle importazioni, a tutela di produzioni nazionali e posti di lavoro negli Usa, minacciati dalla concorrenza dall’estero. E non solo contro la Cina (come già annunciato) ma anche nei confronti degli alleati europei. A     nalogamente, con il venire meno dell’interesse degli Usa per l’Europa come partner strategico e con una probabile maggiore concentrazione di interesse su Asia e Indo-pacifico, potrebbero essere rimesse in discussione altre forme di cooperazione (come il      Trade e Technology Council) su cui europei e americani fanno attualmente affidamento per regolare in maniera cooperativa sfide comuni su temi di attualità (sicurezza economica, sviluppi del digitale, regolazione dell’intelligenza artificiale), ma potenzialmente divisivi.

Gli europei non votano alle presidenziali americane ma, se potessero esprimere una preferenza, il buon senso dovrebbe indurli a favore dell’usato sicuro di Biden rispetto a      un Trump imprevedibile e destabilizzante. Anche se, magra consolazione, va riconosciuto che il ritorno di un Presidente americano così poco sensibile alle preoccupazioni e agli interessi degli europei potrebbe fare il miracolo di costringerli a impegnarsi sul serio per realizzare concretamente il progetto di una autonomia strategica dell’Europa.

Il G7 e il sistema bancario. Parla Giovanni Sabatini, Direttore dell’Associazione Banche Italiane

Direttore, comincerei dalla transizione verso un’economia sostenibile e la trasformazione digitale. Sono sfide al centro dell’agenda del G7 a guida italiana. Il mondo bancario in che modo può fornire le risorse per sostenerle e che difficoltà sta incontrando?

“La trasformazione digitale e la transizione verso un’economia più sostenibile sono due momenti di profonda discontinuità che richiederanno anche ingenti investimenti. Ad esempio, la Commissione europea ha stimato che il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 al 2050 richiederà investimenti aggiuntivi per circa 500 miliardi di euro. Queste risorse non potranno venire solo dalle finanze pubbliche, ma richiederanno anche risorse private sia nella forma di finanziamenti sia di capitale di rischio. Quindi il settore finanziario, in particolare le banche, avrà un ruolo fondamentale nel sostenere gli investimenti necessari per queste due transizioni. Principalmente, alle banche viene chiesto di svolgere un ruolo di catalizzatore dei flussi finanziari verso gli investimenti sostenibili, innanzitutto sotto il profilo ambientale e sociale. Pienamente consapevoli del loro ruolo, le banche si stanno organizzando, incorporando nei loro processi di analisi del merito di credito anche la valutazione dei profili di sostenibilità delle imprese. Occorre sottolineare – e qui vengo alle difficoltà – che le banche sono partner delle imprese in questo percorso di transizione, ma non possono svolgere il ruolo di poliziotto dei loro comportamenti. Inoltre, osserviamo anche un quadro normativo ancora incompleto: mentre vengono minuziosamente definite le regole e i comportamenti attesi dalle banche, manca ancora un quadro ben definito perché siano disponibili dati accessibili di buona qualità circa il profilo di sostenibilità delle imprese. Mancano quindi dati, schemi di reporting a livello globale e metriche per la quantificazione di questi rischi. Questo è un elemento fondamentale, così come a livello europeo manca ancora una tassonomia della transizione, e cioè una guida che consenta alle banche di finanziare effettivamente quelle imprese che, pur non essendo oggi ancora conformi ai requisiti della tassonomia ambientale, hanno però intrapreso un percorso credibile di transizione per raggiungere modelli di business sostenibili e coerenti con gli obiettivi della Commissione europea”.

La trasformazione digitale, sulla quale si è appena soffermato, sta modificando radicalmente l’organizzazione del lavoro. Come le istituzioni bancarie affrontano questo fenomeno?

“Ormai da tempo la digitalizzazione è parte integrante delle strategie di servizio delle banche, anche se con una significativa diversità di approccio e di modello. Ma ciò che accomuna l’azione delle banche è la consapevolezza che l’evoluzione tecnologica, anche dove comporta cambiamenti profondi, non si sostituisce alle persone: essa è infatti basata sulla fiducia e sul rapporto con gli individui. Questo è riconosciuto anche nel nostro contratto collettivo nazionale del lavoro dove l’importanza degli sviluppi tecnologici viene presa in adeguata considerazione da specifiche disposizioni. Nel rinnovo di dicembre, ad esempio, con le organizzazioni sindacali abbiamo confermato e rafforzato le funzioni di un comitato bilaterale paritetico che ha il compito di seguire i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro derivanti dalle nuove tecnologie e dalla digitalizzazione. Questo comprende anche il cosiddetto modello digitale, proprio per poter continuare a mantenere aggiornate le previsioni del contratto collettivo nazionale all’evoluzione tecnologica. In questo contesto la formazione è fondamentale: le banche stanno investendo profondamente in azioni mirate al re-skilling, write-skilling e upskilling dei lavoratori anche in una prospettiva di occupabilità, di tutela delle professionalità e per attrarre nuovi giovani talenti, poiché la transizione digitale e quella verso modelli più sostenibili richiedono nuove competenze”.

Altro tema cruciale del G7 è quello dell’Intelligenza Artificiale, tema sul quale è stato approvato un codice di condotta. Sulla scia dello sforzo normativo europeo, ritiene che si possano raggiungere ulteriori intese a livello globale?

“Sicuramente la Commissione europea, e quindi l’Unione europea, rappresenta una punta avanzata nella regolamentazione dell’Intelligenza Artificiale. Il regolamento da poco approvato definisce in maniera puntuale e delimita le modalità di utilizzo in particolare di quei modelli che possono presentare maggiori rischi. Ovviamente questi sono fenomeni globali e se l’Europa va avanti da sola con un modello che non trova coerenza con la regolamentazione in altre giurisdizioni, il suo sforzo risulta di fatto limitato e non produce i risultati attesi. Quindi è fondamentale da questo punto di vista la guida italiana nel G7, che può dare un ulteriore impulso all’esperienza europea, facendo sì che il suo modello venga effettivamente utilizzato e adottato in maniera globale”.

In ultimo, una novità importante destinata ad avere un impatto considerevole sul sistema finanziario internazionale è l’introduzione delle monete digitali da parte delle banche centrali. Quale ruolo può avere il G7 nella promozione di una cornice di regole comuni in questo ambito?

“Sicuramente le monete di banca centrale in forma digitale rappresentano la più appropriata e utile risposta all’emergenza delle cosiddette pseudo valute crypto e hanno il compito di preservare la stabilità finanziaria e il ruolo delle banche centrali nella definizione e trasmissione delle politiche monetarie. La Banca centrale europea è particolarmente avanti con l’analisi e la definizione del progetto di euro-digitale a cui l’intero settore e l’Abi stanno contribuendo in termini di idee ed esperienze. Riteniamo che una moneta di banca centrale con riferimento all’utilizzo retail possa rappresentare un elemento di innovazione e spinta alla digitalizzazione dell’economia, ma occorre un attento disegno delle caratteristiche affinché questa nuova forma di moneta – che avrà corso legale affiancandosi al contante – da un lato rimanga uno strumento di pagamento, non trasformandosi in riserva di valore, e dall’altro offra la possibilità al settore bancario di fornire soluzioni innovative alle attuali modalità di pagamento. Un altro tema importante riguarda l’idea di moneta di banca centrale all’ingrosso, il cosiddetto wholesale, poiché le monete di banca centrale digitali possono rendere più efficienti i trasferimenti internazionali. Oggi questa tipologia di transazione comporta processi complessi e onerosi che ne rendono difficile l’utilizzo: l’uso di nuove tecnologie sottostanti a una moneta di banca centrale digitale all’ingrosso potrebbe ottimizzare le procedure, ridurre i costi e facilitare le transazioni al di fuori di una singola area monetaria. Da questo punto di vista sarà necessario però definire standard comuni, che abilitino l’interoperabilità nello scambio di questi strumenti. Anche in questo caso, il G7 e il ruolo che l’Italia può svolgere saranno determinanti”.

La democrazia indiana al vaglio delle elezioni

Dopo settimane di attesa, sono state finalmente annunciate le date delle elezioni generali in India, che si terranno in sette fasi tra il 19 aprile e il 1° giugno 2024, con lo spoglio dei risultati fissato per il 4 giugno. Si vota per la Camera del Popolo, la camera bassa del parlamento federale indiano, da cui emerge la maggioranza di governo. Con poco meno di un miliardo di elettori coinvolti, sarà la più grande elezione della storia.

L’importanza delle elezioni in una “autocrazia elettorale”

Nel 2019 si presentarono più di 8 mila candidati, che spesero più di 8 miliardi di dollari in campagna elettorale (in un paese con un Pil pro capite di poco superiore ai duemila dollari). Più di due terzi degli elettori si presentarono alle urne e, per la prima volta, più della metà erano donne. La diciottesima elezione generale indiana sarà, come tutte le precedenti, una grande festa della democrazia, in un paese dove quest’ultima non avrebbe dovuto mettere radici – troppo grande, povero, diverso e poco istruito.

I dati sulla partecipazione fanno emergere l’importanza attribuita alle elezioni da parte di elettori e candidati, nonostante la democrazia indiana sia stata messa sotto pressione in maniera quasi insostenibile dal Primo ministro Narendra Modi, al potere dal 2014. Secondo l’ultimo rapporto dell’istituto V-Dem, l’India è tra i dieci paesi che hanno subito l’involuzione democratica più rapida negli ultimi vent’anni, diventando un’“autocrazia elettorale” – un sistema nel quale libere elezioni convivono con strategie di repressione del dissenso e controllo del consenso che ne snaturano il carattere democratico. Negli ultimi dieci anni, gli spazi di libertà si sono molto ristretti sia a causa dell’accentramento del potere nelle mani del Primo ministro e all’erosione dell’indipendenza delle istituzioni, sia a causa di un uso indiscriminato delle agenzie investigative, che hanno colpito in maniera sproporzionata giornalisti, attivisti critici del governo e politici d’opposizione. In particolare, la minoranza musulmana (circa il 15% della popolazione) è stata oggetto di ripetute vessazioni da parte di gruppi di estremisti indù, ricevendo scarsa protezione dallo stato.

Verso il terzo mandato per il BJP di Modi?

Il Bharatiya Janata Party (BJP), il partito nazionalista indù di Modi, non dovrebbe avere grossi problemi a rimanere al governo per un terzo mandato consecutivo. I sondaggi meno favorevoli prevedono che il BJP otterrà una maggioranza solo lievemente inferiore a quella del 2019. Ma nelle passate due elezioni, il Primo ministro ha sempre ottenuto risultati ampiamente superiori alle aspettative, grazie a una macchina elettorale senza rivali, sia a livello organizzativo sia finanziario (il BJP ottiene più donazioni di tutti gli altri partiti messi insieme), e a una popolarità solida e diffusa tra tutti gli strati della popolazione (ad eccezione della minoranza musulmana).

Le opposizioni sono divise e demoralizzate. Alcuni partiti avevano formato un’alleanza con l’obiettivo di non disperdere il voto anti-BJP – che aveva ottenuto “solo” il 37% dei voti nel 2019, ma il 55% dei seggi. Tuttavia, nel corso degli ultimi mesi non è chiaro cosa ne sia rimasto. Uno dei fondatori dell’alleanza, il chief minister (letteralmente, il ‘ministro in capo’) dello stato del Bihar, Nitish Kumar, ha abbandonato la coalizione e si è alleato con il BJP. Un’altra fondatrice, la chief minister del West Bengal, Mamata Banerjee, ha deciso di correre da sola, così come l’Aam Admi Party (che governa il Punjab e Delhi). Il Congresso, principale partito d’opposizione, sta contrattando con ciò che rimane dell’alleanza, che però non sembra a questo punto in grado di preoccupare il BJP. Anche perché il partito di Modi sta lentamente svuotando il Congresso dall’interno, attraverso una politica di “porte aperte” che continua ad attrarre leader del partito di Gandhi, che ha perso la posizione dominante di cui ha goduto per decenni dopo l’indipendenza.

L’unico ostacolo al completo dominio del BJP è rappresentato dai cinque stati del sud, tutti guidati da partiti di opposizione e dove l’agenda ipernazionalista indù del BJP non ha mai messo radici. Eppure, anche qui non è escluso che il BJP possa vincere qualche seggio in più del 2019 grazie ad alleanze strategiche con partiti locali.

La popolarità di Modi tra gli imbarazzi del BJP e una crisi dell’occupazione

Non sembra insomma esserci spazio per sorprese, considerando che la popolarità di Modi rimane altissima, pari al 70%. Nel corso degli ultimi anni il governo ha superato indenne una serie di crisi, dalla decisione di togliere valore a quasi tutto il contante circolante del 2016 – che causò un arresto cardiaco dell’economia durato mesi – alla pandemia, senza che il Primo ministro ne risentisse. Questo, tuttavia, non significa che sia del tutto invulnerabile.

A poco meno di un mese dalle elezioni, infatti, la Corte Suprema ha obbligato la più grande banca pubblica, la State Bank of India (SBI), a pubblicare i dati relativi agli electoral bonds (EB), uno strumento per il finanziamento dei partiti politici introdotto nel 2017. Gli EB garantivano a chi li acquistava completo anonimato. Tuttavia, la decisione della Corte Suprema ha portato alla luce una serie di fatti potenzialmente molto imbarazzanti per il BJP. Primo, il partito di Modi ha ottenuto circa 670 milioni di euro tra il 2019 e il 2024 (quasi quanto tutti gli altri partiti messi insieme). Secondo, un significativo numero di donazioni è avvenuto subito dopo l’avvio di indagini sulle compagnie donatrici da parte delle agenzie investigative. Terzo, diverse donazioni sono avvenute subito prima dell’assegnazione di importanti contratti pubblici alle compagnie donatrici. Mentre è ovviamente prematuro stabilire un rapporto di causa-effetto tra donazioni e azioni governative, è chiaro che sia stata messa in discussione la reputazione di un partito che aveva fatto della lotta alla corruzione uno dei propri cavalli di battaglia.

Inoltre, nonostante la crescita molto rapida del Pil – sostenuto in misura significativa da investimenti e spesa pubblica – l’economia non riesce a generare sufficienti posti di lavoro e diversi indicatori mostrano che la situazione economica della maggior parte della popolazione è peggiorata o rimasta stagnante negli ultimi anni. La mancanza di lavoro rimane in cima alle preoccupazioni degli elettori, come dimostrato dalle imponenti manifestazioni da parte di gruppi castali che chiedono di essere inseriti all’interno del sistema di discriminazione positiva che riserva posti di lavoro nel settore pubblico alle caste svantaggiate.

Le difficoltà economiche, declinate in una logica castale, sembravano essere una potente arma a disposizione delle opposizioni. Nel dicembre 2023, il Bihar pubblicò il rapporto sul proprio censimento castale – il primo nel paese dal 1931 –, dal quale emerge che l’80% della popolazione dello stato appartiene a caste basse, ma “solo” il 49% dei posti nelle università e nell’impiego pubblico – la principale via di ascesa sociale nel paese – è per legge riservato a loro. Immediatamente, associazioni e partiti castali, compresi molti che facevano parte dell’alleanza anti-BJP, hanno iniziato a promettere di aumentare questa proporzione, mentre il BJP si è sempre opposto, nonostante derivi una parte sostanziale del proprio elettorato proprio da questi gruppi (ma con una leadership quasi esclusivamente di casta alta, con l’eccezione di Modi).

Tuttavia, i deludenti risultati del Congresso in una serie di elezioni statali nel tardo 2023 – quando il partito puntò molto sulla questione – hanno di fatto escluso che provare a dividere l’elettorato del BJP su basi castali sia una strategia percorribile. L’unica speranza delle opposizioni sembra essere l’imprevedibilità degli elettori indiani, che in molte delle passate 17 elezioni hanno sorpreso anche i più attenti osservatori del complicatissimo panorama politico indiano.

Raid contro il consolato iraniano: colpa di Israele, “linee rosse” superate

di Acil Tabbara

L’attacco mortale contro un edificio diplomatico iraniano a Damasco, attribuito a Israele, rischia di provocare un’esplosione in Medio Oriente, con una possibile ritorsione dell’Iran attraverso i suoi alleati regionali.

L’incursione senza precedenti di lunedì nella sezione consolare dell’ambasciata iraniana ha provocato 13 morti, tra cui l’ufficiale iraniano più anziano in Siria, Mohammad Reza Zahedi, e altri sei membri delle Guardie Rivoluzionarie, l’esercito ideologico dell’Iran. “Si tratta di un’escalation importante. Prendendo di mira una struttura diplomatica iraniana, Israele ha superato il limite”, ha dichiarato Ali Vaez, analista dell’International Crisis Group.

L’Iran e la Siria hanno accusato Israele, loro nemico giurato, ma quest’ultimo non ha ancora confermato la sua responsabilità nel raid. Israele raramente conferma attacchi nella vicina Siria, dove l’Iran, gli Hezbollah libanesi filo-iraniani e altri gruppi fedeli a Teheran forniscono sostegno militare al governo siriano di Bashar al-Assad nella guerra iniziata nel 2011. L’esercito israeliano ha intensificato i suoi attacchi contro questi obiettivi dall’inizio della guerra a Gaza contro Hamas, scatenata da un sanguinoso attacco del movimento islamista palestinese contro Israele il 7 ottobre.

L’Iran, che sostiene Hamas pur negando qualsiasi coinvolgimento nell’attacco del 7 ottobre, ha mobilitato i suoi alleati nella regione, dal Libano all’Iraq passando per lo Yemen, per attaccare obiettivi israeliani o degli Stati Uniti, principale alleato di Israele, pur avendo affermato di non volere una guerra regionale. Ma dopo l’attacco di Damasco, la Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, ha avvertito martedì che “il perverso regime sionista sarà punito dai nostri coraggiosi uomini”.

La logica dell’escalation

“L’attacco al consolato iraniano a Damasco ha trasgredito molte linee rosse”, afferma Bassam Abou Abdallah, un analista siriano vicino al governo che dirige il Centro di ricerca strategica di Damasco. “C’erano regole di ingaggio, ma ora è guerra aperta tra Israele e l’asse della resistenza”, aggiunge. Gli alleati di Hamas, tra cui gli Hezbollah libanesi e i ribelli yemeniti Houthi, sono infatti riuniti dall’Iran in quella che viene descritta come “asse della resistenza” a Israele. L’Iran potrebbe utilizzare i suoi ausiliari per rispondere all’attacco.

Bassam Abou Abdallah ritiene che “è chiaro che siamo in una logica di escalation”. “Potrebbero riprendere gli attacchi contro le basi americane in Iraq, Siria o altrove”. Anche se, secondo un funzionario statunitense citato dal sito Axios, gli Stati Uniti hanno detto all’Iran di “non essere coinvolti” nell’attacco a Damasco.

Alla fine di gennaio, gruppi filo-iraniani in Iraq hanno interrotto i loro attacchi contro le basi americane nella regione dopo un bombardamento in Giordania che ha ucciso tre militari americani. La decisione è stata presa per evitare un’escalation e dopo che l’Iran ha criticato gli attacchi.

Hezbollah ha inoltre dichiarato che l’attacco di Damasco “non rimarrà impunito”. A sostegno del suo alleato Hamas, Hezbollah bombarda quasi quotidianamente le postazioni di confine israeliane, ma per il momento si astiene dal colpire obiettivi lontani dal confine. “È probabile che l’Iran faccia pagare Israele, ma indirettamente e attraverso l’intermediazione dei suoi partner e ausiliari nella regione”, afferma Ali Vaez. Secondo l’analista, il “dilemma” di Teheran è che “l’assenza di una risposta potrebbe essere un segno di debolezza per Israele (…) Ma la ritorsione potrebbe portare ad azioni più severe da parte degli Stati Uniti o di Israele (…)”.

I nemici più pericolosi

Secondo gli analisti, l’attacco a Damasco potrebbe anche essere un tentativo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di provocare un conflitto regionale. “Sotto la pressione degli americani, Netanyahu non ha più tempo per continuare la guerra a Gaza e si sta rivolgendo al Libano e alla Siria”, afferma Nick Heras, esperto del New Lines Institute for Strategy and Policy, riferendosi alle pressioni americane su Israele per non trascinare la guerra a Gaza.

Israele ritiene che “gli iraniani stiano gestendo i fronti da Damasco” a Gaza e in Libano e Netanyahu “si aspetta la prossima guerra regionale con l’Iran” in cui “spera di essere affiancato dagli Stati Uniti”, aggiunge l’esperto.

“Gli israeliani sanno che le Guardie Rivoluzionarie saranno il loro nemico più pericoloso in questa guerra e stanno cercando di eliminare i suoi leader più importanti”, ha concluso.

© Agence France-Presse

Lo shock dei risultati elettorali in Turchia

I principali insegnamenti del risultato elettorale in Turchia

di Fulya Ozerkan

Le elezioni locali di domenica in Turchia, un test di popolarità fondamentale per il partito di governo di Recep Tayyip Erdogan, hanno visto l’opposizione riprendersi dalla sconfitta alle elezioni presidenziali dello scorso anno e il sostegno al conservatore islamico AKP di Erdogan precipitare ai minimi storici.

I candidati del Partito Repubblicano del Popolo (CHP), partito di opposizione, hanno rafforzato il loro controllo sulla città più grande della Turchia, Istanbul, e della capitale Ankara, con quote di voto più alte rispetto a cinque anni fa.Nel 2019, il candidato del CHP Ekrem Imamoglu ha conquistato la poltrona di sindaco di Istanbul anche dopo la ripetizione del voto, ma ha dovuto affrontare un’assemblea comunale dominata dall’AKP e dai suoi alleati di destra. Domenica, il centro-sinistra ha ottenuto il controllo di 26 dei 39 distretti di Istanbul, rispetto ai 14 di cinque anni fa, compreso il territorio di residenza di Erdogan, il conservatore Uskudar.

In passato, i media filogovernativi potevano deridere il CHP come il “partito delle spiagge e delle ville con piscina”, poiché il suo sostegno era più forte sulle prospere coste occidentali della Turchia, sull’Egeo e sul Mediterraneo. Ma la sua spinta domenica verso l’interno dell’Anatolia potrebbe contribuire a scrollarsi di dosso questa reputazione elitaria, prendendo il potere in luoghi come la città industriale nord-occidentale di Bursa e Adiyaman, la città sud-orientale colpita da un devastante terremoto nel febbraio 2023. “Nonostante le regole del gioco distorte, i candidati dell’AKP hanno perso anche nelle roccaforti conservatrici”, ha dichiarato Berk Esen, politologo dell’Università Sabanci di Istanbul. Nei bastioni dell’AKP che hanno resistito, come Trabzon e Rize sulla costa nord-orientale del Mar Nero, importanti distretti sono passati sotto il controllo dell’opposizione.

L’AKP di Erdogan ha dovuto affrontare la dura concorrenza del partito islamico Yeniden Refah (Nuovo Welfare), che ha ottenuto il 6,2% dei voti e ha conquistato il terzo posto a livello nazionale, secondo i risultati quasi definitivi. Il Nuovo Welfare è stato fondato nel 2018 dal figlio del leggendario leader islamista Necmettin Erbakan, un mentore che ha ispirato Erdogan con la sua ideologia di “visione nazionalista” che fonde l’identità turca nazionalista e islamica. Il Nuovo Welfare ha scalzato l’AKP dalle sue roccaforti di Sanliurfa nel sud-est e Yozgat nell’Anatolia centrale e ha diviso il voto di destra nell’Uskudar di Istanbul, aiutando il CHP a superare il traguardo. Il suo leader Fatih Erbakan ha attaccato Erdogan soprattutto per aver mantenuto il commercio turco con Israele nonostante la guerra a Gaza. “Il risultato di queste elezioni è stato deciso dal comportamento di coloro che hanno continuato a commerciare liberamente con Israele e con gli assassini sionisti”, ha dichiarato domenica.

Pur evitando di pronunciare la parola “sconfitta”, Erdogan ha dichiarato che il voto di domenica è stato un “punto di svolta” per il suo partito dopo due decenni al potere. Il potente leader turco aveva detto a marzo che queste elezioni sarebbero state le sue ultime, anche se alcuni analisti hanno visto la dichiarazione come un espediente per convincere i turchi a dargli un altro assegno in bianco. Erdogan ha dichiarato domenica che il suo partito farà autocritica e trarrà insegnamento dall’esito delle elezioni. Il successo di Yeniden Refah “potrebbe cambiare i calcoli di Erdogan (e) rimescolare la sua alleanza elettorale” dopo aver superato l’alleato nazionalista MHP, ha dichiarato Gonul Tol del Middle East Institute di Washington.

Yeniden Refah, il partito islamista turco che ha sconvolto Erdogan

di Burcin Gercek

Fondato nel 2018, Yeniden Refah porta avanti lo spirito di Necmettin Erbakan, influente politico che fu mentore di Erdogan. Alla fine degli anni ’60 Erbakan ha creato il movimento islamista Milli Gorus (Visione Nazionale) che ha ispirato molti partiti politici in Turchia e ha un ampio seguito tra la diaspora turca in Germania e Francia. Un Erdogan ventunenne ha mosso i primi passi politici con il partito e grazie al sostegno di Necmettin Erbakan è stato eletto sindaco di Istanbul nel 1994. Ma i rapporti con il suo padre spirituale si sono deteriorati quando Erdogan e i suoi alleati hanno cercato di spodestarlo alla guida del partito Refah e poi hanno creato l’AKP nel 2002, escludendolo.

Necmettin Erbakan, chiamato “hodja” (“il professore”), è morto nel 2011 e uno dei suoi figli, Fatih Erbakan, ha rilanciato il partito nel 2018 con il nome di Yeniden Refah. Agli occhi di molti osservatori, il giovane ha vendicato il padre contribuendo alle sconfitte elettorali di Erdogan di domenica, sottraendo voti all’AKP e permettendo all’opposizione laica di vincere non solo a Istanbul ma anche ad Ankara, Smirne e Bursa.

Le posizioni conservatrici-islamiche di Yeniden Refah sono più rigide di quelle dell’AKP, che in confronto è un partito conservatore religioso più mainstream. “Chiuderemo le associazioni LGBT una volta al potere. È un’eresia proibita da tutte le religioni”, ha dichiarato il leader del partito. Il partito si oppone, inoltre, al femminismo e nel 2021 ha sostenuto il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul, che mira a combattere la violenza contro le donne.

Negli ultimi mesi, il partito ha denunciato in particolare il mantenimento delle relazioni commerciali della Turchia con Israele, nonostante la guerra a Gaza. “Se il governo smette di commerciare con Israele, chiude il radar di Malatya (installato nel 2012 dalla NATO di cui la Turchia è membro) che protegge Israele e raddoppia le pensioni a 20.000 lire turche (580 euro) al mese, siamo pronti a ritirare il nostro candidato a Istanbul”, ha proposto Erbakan alcuni giorni prima delle elezioni. Secondo gli analisti, Yeniden Refah ha attirato molti elettori ponendo al centro della sua campagna elettorale la guerra a Gaza e l’inflazione, attualmente al 67%.

Yeniden Refah, che ha sostenuto Erdogan durante la sua vittoriosa campagna di rielezione alle presidenziali del 2023, ha vinto domenica in due province precedentemente gestite dall’AKP, Sanliurfa nel sud-est e Yozgat nel centro. Con il 6,2% dei voti a livello nazionale, ha fatto meglio del partner di coalizione di Erdogan, l’MHP (Partito di Azione Nazionale), che ha ottenuto il 5%. “Non bisogna mai fidarsi di coloro che hanno cercato di farci perdere, anche se una volta erano al nostro fianco”, ha detto Erdogan durante la campagna elettorale. Ma visti i risultati elettorali, secondo alcuni esperti, il presidente turco potrebbe essere tentato di rinnovare l’alleanza.

Erdogan ha ancora un ruolo da svolgere dopo le batoste elettorali

di Anne Chaon

Gli oppositori di Recep Tayyip Erdogan possono aver festeggiato la batosta elettorale di domenica per il presidente turco come se lo avessero disarcionato, ma il “reis” (capo) ha ancora almeno quattro anni di potere davanti a sé. Si è trattato, infatti, di una rara batosta per il settantenne Erdogan, al potere da 21 anni e confermato al suo posto lo scorso maggio con oltre il 52% dei voti – anche se dopo aver combattuto il suo primo ballottaggio in assoluto. Il presidente ha personalmente riversato energie nella campagna per le elezioni municipali nella speranza, alla fine vana, di riconquistare Istanbul, lasciando che gli elettori identificassero i fallimenti del suo partito con Erdogan stesso.

Il partito conservatore islamico Giustizia e Sviluppo (AKP) non controlla nessuna delle principali città turche e ha persino perso province e comuni che un tempo si ritenevano inespugnabili per il Partito Popolare Repubblicano (CHP), laico e di centro-sinistra. Tuttavia, “come politico esperto, (Erdogan) si adatterà”, ha affermato lo scienziato politico dell’Università di Oxford Dimitar Bechev, osservando che “la coesistenza con i sindaci è già stata sperimentata”. Alcuni osservatori avevano previsto prematuramente la sua uscita di scena politica quando l’AKP ha perso i mandati di sindaco di Istanbul e Ankara nel 2019.

Lo stesso Erdogan ha dichiarato che “lavoreremo con i sindaci che hanno vinto” e ha invitato il suo stesso partito a fare “autocritica”. Il discorso pacato del presidente a una folla di sostenitori scossi ha sorpreso gli osservatori, in quanto ha accettato senza mezzi termini l’ondata di voti dell’opposizione, definendola un “punto di svolta” per l’AKP. In seguito ha respinto le speculazioni secondo cui potrebbe indire elezioni anticipate per rimanere aggrappato al suo mandato presidenziale ancora per un po’. “La Turchia ha davanti a sé un tesoro di oltre quattro anni. Non possiamo sprecare questo periodo con discussioni che faranno perdere tempo alla nazione e al Paese”, ha dichiarato Erdogan.

Con 265 seggi, l’AKP rimane infatti di gran lunga la forza più forte nel parlamento di 598 seggi, e la sua alleanza con il partito di estrema destra MHP porta a 314 i suoi seggi in parlamento. Il potere della maggioranza, tuttavia, ha dei limiti: non ha i numeri per rivedere la Costituzione e permettere a Erdogan di candidarsi nuovamente alla presidenza nel 2028. Non ci sarebbe nemmeno molto interesse per gli alleati parlamentari di Erdogan a sciogliere la camera per nuove elezioni, perché il leader “ha perso la capacità di attrarre elettori al di fuori dei suoi ranghi”, ha detto Ahmet Insel, uno scienziato politico turco che vive in esilio.

Per il momento, Erdogan potrebbe giocare a fare lo statista internazionale, con una prossima visita alla Casa Bianca di Joe Biden il 9 maggio. “Sarà in grado di tenere a galla le cose fino al 2028, ma oltre è compromesso… probabilmente ci sarà un trasferimento di potere” all’opposizione, ha detto Bayram Balci dell’università parigina Sciences Po, aggiungendo che “senza Erdogan, non c’è molto da fare per l’AKP”.

D’altra parte, in una regione instabile tra Europa e Medio Oriente, “ci sono molte cose che potrebbero accadere con la Siria, l’Iraq o la Russia” nei prossimi quattro anni, “anche sul fronte della sicurezza interna”. Erdogan ha già parlato duramente domenica scorsa, avvertendo che “non permetterà un ‘Terroristan’ ai confini meridionali della Turchia”, ha sottolineato Insel. Il presidente potrebbe “puntare sul nazionalismo e sulla battaglia vitale contro il terrorismo, a cui il CHP farà fatica ad opporsi”, ha aggiunto. Lunedì gli aerei da guerra turchi hanno bombardato le postazioni del Partito dei Lavoratori Curdo (PKK) nel nord dell’Iraq, un gruppo bollato come terrorista da Ankara, dagli alleati occidentali della Turchia e ora da Baghdad.

© Agence France-Presse

Tredici anni dall’inizio della guerra civile in Siria

di Gaia Pelosi

Lo scorso 15 marzo ha segnato il tredicesimo anniversario dall’inizio della guerra civile siriana. Nel 2011 infatti, la rivoluzione contro il regime di Bashar al Assad, che ha coinvolto persone provenienti da diverse classi sociali ed etnie, è stata violentemente repressa dal governo. In una recente dichiarazione, il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha esortato tutte le parti coinvolte a “fare tutto il necessario per raggiungere una soluzione politica autentica e credibile”, sottolineando l’importanza di “proteggere i civili”. Guterres ha anche evidenziato che le detenzioni arbitrarie, le sparizioni forzate, la violenza sessuale e di genere, la tortura e altre violazioni dei diritti umani continuano a costituire un ostacolo significativo per il raggiungimento di una pace sostenibile in Siria.

Lo scoppio della guerra siriana nel 2011

Bashar al Assad assume la presidenza nel 2000, quando succede al padre Hafez. Già prima dell’insorgere del conflitto, numerosi cittadini siriani lamentavano l’alto tasso di disoccupazione, la diffusa corruzione e la mancanza di libertà politica nel Paese. Tuttavia, la situazione si complica quando, nel marzo 2011, manifestazioni pro-democratiche scoppiano nella città meridionale di Deraa sull’onda delle Primavere Arabe, sorte in gran parte del mondo arabo. Il governo siriano però, cerca prontamente di sopprimere con la forza il dissenso popolare: come risposta, in tutto il Paese nascono proteste per chiedere le dimissioni del presidente Assad. La violenza delle proteste si inasprisce rapidamente, conducendo la Siria, in pochi mesi, in una delle guerre civili più sanguinarie del ventunesimo secolo. Con il passare del tempo però, il conflitto si evolve da una guerra civile ad una complessa serie di guerre sovrapposte e combattute simultaneamente tra potenze regionali e internazionali. Potenze straniere iniziano infatti a prendere posizione, inviando denaro ed armi: la Russia e l’Iran emergono come principali sostenitori del governo, mentre la Turchia, le potenze occidentali e diversi stati arabi del Golfo, hanno sostenuto l’opposizione durante il corso del conflitto. La situazione si complica ulteriormente quando organizzazioni estremiste jihadiste, come il gruppo dello Stato Islamico (ISIS) e al-Qaeda, intervengono per perseguire i propri obiettivi. Questo ha fortemente allarmato la comunità internazionale che le ha immediatamente considerate la minaccia maggiore. La terza dimensione del conflitto, infine, è rappresentata dai curdi siriani che desiderano il diritto all’autogoverno e all’indipendenza e che, durante la guerra in Siria, hanno assunto un ruolo cruciale nella lotta contro l’ISIS.  

Il controllo della Siria oggi: zone e attori coinvolti

Lo scorso 15 marzo, migliaia di persone hanno riempito le strade della zona nord-ovest della Siria, controllata da diverse fazioni ribelli ma principalmente dal gruppo Hayat Tahrir al-Sham (HTS), affiliato ad al-Qaeda, che controlla la città di Idlib. I manifestanti si sono riuniti non solo per ricordare l’anniversario della guerra contro Assad, ma anche per manifestare contro il leader del gruppo HTS, Abu Mohammed al-Jolani. Più di 4,1 milioni di civili vivono in quest’area, almeno la metà dei quali è stata sfollata almeno una volta dall’inizio del conflitto. I civili in queste zone sono privi di risorse per spostarsi altrove, impossibilitati a chiedere asilo in Turchia ed oggetto di persecuzioni se tentano di trasferirsi in aree controllate dal governo. Secondo il rapporto di agosto 2023 dell’UN COI, Hayat Tahrir al-Sham continua a detenere arbitrariamente attivisti, giornalisti e civili che esprimono opinioni critiche. Nel corso del tempo, il governo siriano ha riconquistato le città più importanti, ma una vasta parte del territorio, situata a nord-est della Siria, è sotto il controllo di forze prevalentemente curde. Infatti, la coalizione Forze Democratiche Siriane (Sdf), raggruppa miliziani delle Ypg curde e formazioni composte tra tribù arabe locali che controllano la regione, spesso in lotta fra loro. Lo scorso agosto, gli scontri tra le SDF e il Consiglio Militare a guida araba di Deir-al-Zour hanno avuto gravi ripercussioni sui civili, con l’OHCHR che ha documentato l’uccisione di almeno 23 civili. Infine, la zona con maggiore attività turca è quella a nord del Paese, dove sono presenti l’Esercito siriano libero ed un numero cospicuo di forze turche.

La Siria oggi: conseguenze e prospettive 

Tredici anni di guerra hanno devastato l’infrastruttura civile ed i servizi della Siria, con gravi conseguenze sull’accesso all’assistenza sanitaria, elettricità, istruzione, trasporti pubblici, acqua e igiene. Secondo l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, oltre 300.000 civili sono stati uccisi tra marzo 2011 e marzo 2021 a causa del conflitto. Il Syrian Observatory for Human Rights (SOHR), un gruppo di monitoraggio con una vasta rete di fonti sul campo, ha documentato le morti di mezzo milione di persone entro marzo 2023. Inoltre, più di 14 milioni di persone sono dovute fuggire dalle proprie case: circa 7.2 milioni sono sfollati interni, altri 6 milioni sono rifugiati o richiedenti asilo all’estero. I paesi confinanti come Libano, Giordania e Turchia hanno faticato ad affrontare una delle più grandi esodi di rifugiati della storia recente. Nel solo anno 2023, la Turchia ha espulso migliaia di siriani verso il nord della Siria, aggiungendo ulteriore pressione ad una situazione di per sé precaria. All’inizio del 2023, l’ONU ha dichiarato che 15,3 milioni di persone all’interno della Siria avevano bisogno di qualche forma di assistenza umanitaria. Nel febbraio 2023, la già grave situazione umanitaria nel nord-ovest del Paese è stata ulteriormente aggravata dal grande terremoto che ha colpito vicino alla città turca di Gaziantep, a circa 80 km dal confine siriano. Entro la metà del 2023, oltre il 90% dei siriani viveva al di sotto della soglia di povertà, almeno 12 milioni non potevano accedere o permettersi cibo di qualità sufficiente e almeno 15 milioni necessitavano di qualche forma di aiuto umanitario per sopravvivere.

Nonostante numerosi programmi volti all’assistenza dei rifugiati e dei civili siriani siano stati implementati, una soluzione politica a lungo termine che possa portare a una pace duratura in Siria sembra ancora essere irraggiungibile. Il processo politico riguardante l’attuazione della risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2015, che richiede un cessate il fuoco e una soluzione politica in Siria, rimane in stallo. Questo documento delineava una tabella di marcia per la transizione politica in Siria, un obiettivo delineato anche nel Geneva Communiquè del 2012, che prevedeva la formazione di un organo di governo transitorio “formato sulla base del consenso reciproco”.  Nonostante nove round di colloqui per la pace mediati dall’ONU, non si è registrato alcun progresso, con il presidente Assad riluttante a negoziare con i gruppi di opposizione politica. Parallelamente, nel 2017, Russia, Iran e Turchia hanno avviato negoziati politici noti come processo di Astana, anch’essi senza successo. Mentre il Consiglio di Sicurezza ha di recente sottolineato la necessità che Damasco riprenda il dialogo con il Comitato Costituzionale verso una soluzione duratura, la crisi umanitaria siriana continua a peggiorare.

Usa 2024 e le vicende giudiziarie

La campagna elettorale di Usa 2024 è segnata dalle vicende giudiziarie: i processi a Donald Trump e l’inchiesta d’impeachment per Joe Biden. Ma le sentenze potrebbero non arrivare prima del voto

Le elezioni europee e i dati del sondaggio Ipsos per Euronews

In questo podcast vi proponiamo gli interventi dell’Ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, Presidente dello IAI, a commento del sondaggio Ipsos per Euronews sulle elezioni europee, nella trasmissione di RadioRadicale “Spazio Transnazionale” condotta e curata da Francesco De Leo. Il sondaggio rivela come l’estrema destra potrebbe vincere più di un quinto dei seggi alle prossime elezioni europee del 2024. Il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, è dato al 27 per cento, con un distacco di quasi dieci punti dai rivali.

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Biden e Trump, ormai certi delle loro nomination, cambiano i toni della campagna. Ma il loro cammino resta disseminato d’incognite, dall’età ai processi.

La guerra russo-ucraina è iniziata già nel febbraio 2014

Molti politici, diplomatici e analisti in tutto il mondo datano, inavvertitamente o deliberatamente, l’inizio dell’attuale guerra russo-ucraina a febbraio 2022 anziché a febbraio 2014. Tre narrazioni – plasmate dalla disinformazione promossa da Mosca sull’annessione illegale della Crimea e sull’intervento occulto nel Donbas – spiegano questo equivoco che si autoalimenta ormai da 10 anni.

La prima narrazione suggerisce che la secessione della Crimea dall’Ucraina, così come lo scoppio dei combattimenti nel Donbas subito dopo, sono stati determinati da dinamiche locali anziché da interferenze esterne. Una seconda narrazione propone che l’annessione della Crimea da parte della Russia sia stata un trasferimento pacifico e non un atto violento. Infine, una terza narrazione afferma che l’attacco di Mosca è stato provocato da Kyiv: le azioni ucraine non hanno lasciato alla Russia altra scelta se non quella di assumersi la responsabilità di proteggere gli abitanti russofoni della Crimea e del Donbas.

Narrazione 1: una “rivolta locale”

Il Parlamento ucraino ha identificato come data di inizio della guerra russo-ucraina il 20 febbraio 2014, quando le forze armate russe violarono per la prima volta le regole concordate per i loro movimenti in Crimea, con un convoglio di veicoli blindati che lasciò illegalmente la base della Flotta russa del Mar Nero a Sebastopoli. Anche la medaglia del Ministero della Difesa russo per la restituzione della Crimea riporta la stessa data come l’inizio dell’operazione di annessione da parte della Russia. Il 17 aprile dello stesso anno il Presidente Putin ha ammesso il coinvolgimento delle truppe russe negli eventi in Crimea.

Tuttavia, alcuni analisti continuano ad affermare che il distacco della Crimea dall’Ucraina e la sua adesione alla Russia siano stati determinati da dinamiche locali. Nel contesto di questi dibattiti, viene spesso menzionato lo pseudo-referendum in Crimea del 16 marzo 2014. Indipendentemente dall’interpretazione che si vuole dare a questo evento, l’acquisizione illegale della Crimea da parte di Mosca era già stata completata a quel punto. Infatti, solo dopo la conquista militare della penisola da parte della Russia è stato chiesto ai suoi abitanti di ratificare questo atto violento mediante una votazione fittizia. L’annessione illegale non è stata, dunque, il risultato di uno sviluppo politico dinamico all’interno della Crimea, ma di un’audace operazione dall’esterno. È stato un atto di guerra.

La narrazione della continuazione della guerra russa nel Donbas un mese dopo ha sfumature differenti. Le truppe russe regolari, infatti, non hanno svolto un ruolo significativo nel sud-est dell’Ucraina continentale fino a metà agosto 2014. Gli attori principali erano, invece, gruppi irregolari guidati, diretti, finanziati e/o incoraggiati da Mosca: un mix di avventurieri paramilitari russi e ucraini, cosacchi, estremisti e mercenari, aiutati da agenti dei servizi segreti russi.

Narrazione 2: un “trasferimento pacifico”

L’invasione armata della Crimea da parte della Russia è iniziata nel febbraio 2014, coinvolgendo circa 20.000 truppe russe. Nonostante a chiara natura militare del passaggio della Crimea sotto il controllo di Mosca, alcuni osservatori occidentali insistono ancora sul ruolo cruciale dell’opinione socio-politica locale nella sua secessione. Queste argomentazioni si basano sui sondaggi d’opinione condotti in Crimea dopo l’annessione, che sembrano dimostrare un sostegno schiacciante verso l’adesione alla Russia.

Tuttavia, queste narrazioni non affrontano alcune spinose questioni metodologiche: i sondaggi sull’opinione pubblica in Crimea prima dell’inizio dell’operazione di annessione non hanno rivelato, infatti, un chiaro consenso a favore della secessione, nemmeno tra i russi etnici della penisola. Al contrario, si è registrata una tendenza verso una graduale “ucrainizzazione” politica della popolazione della Crimea a partire dal 1991.

La cattura della penisola con la forza da parte della Russia è stata pianificata per prevenire sia una crescente fedeltà allo Stato ucraino sia una possibile resistenza ad hoc all’annessione da parte della popolazione della Crimea. Il carattere apparentemente pacifico della rapida occupazione militare e dell’annessione politica della Russia non ne diminuisce lo status di atto illegale condotto dalle forze armate russe.

Narrazione 3: una “reazione difensiva”

La distorsione più pericolosa sull’inizio della guerra russo-ucraina non riguarda tanto la data di inizio quanto le sue origini politiche. Questo approccio sostiene che gli eventi in Ucraina all’inizio del 2014 abbiano rappresentato una minaccia esistenziale per la nazione russa. Sia lo Stato russo che l’etnia russa in Ucraina sarebbero stati gravemente preoccupati dal presunto “colpo di Stato” a Kyiv e dalle sue conseguenze sugli affari interni ed esteri dell’Ucraina. Questa narrazione non è un ingenuo errore storico, come le due interpretazioni precedenti, ma piuttosto una deliberata scusa politica per giustificare il comportamento del Cremlino.

La rivolta del 2013-2014 non è stata illegittima, come spesso viene ancora dipinta, né le sue ripercussioni sulla Russia e sull’etnia russa in Ucraina sono state così drammatiche come più volte affermato. La Rivoluzione della Dignità non è stata una rivolta anti-russa, ma una protesta popolare contro il governo sempre più autoritario del Presidente Yanukovych. Le manifestazioni, inizialmente pacifiche, sono degenerate nel gennaio-febbraio 2014, quando le forze governative hanno iniziato a sparare contro i manifestanti disarmati. La rivolta è terminata bruscamente quando è stato raggiunto un accordo tra Yanukovych e l’opposizione, la mattina del 21 febbraio 2014. Nonostante il ripristino dell’ordine, l’impopolare presidente ha lasciato frettolosamente la capitale.

L’Ucraina era ancora in crisi e gli eventi in Crimea erano già in corso. Yanukovych era assente, ma non aveva rassegnato le dimissioni, costringendo il Parlamento ucraino, fino ad allora favorevole a Yanukovych, a votare per la sua destituzione. Il potere a Kyiv è passato temporaneamente nelle mani del presidente della Verkhovna Rada, Oleksandr Turchynov, che, con l’ampio sostegno del Parlamento, è diventato presidente ad interim. Successivamente, sono state indette nuove elezioni presidenziali entro il termine costituzionalmente previsto di tre mesi: il quinto Presidente dell’Ucraina, Petro Poroshenko, è stato eletto il 25 maggio 2014 con il 54,70% dei voti al primo turno. Gli eventi in Ucraina nella prima metà del 2014 e le loro conseguenze sono stati drammatici, ma non possono in alcun modo essere visti come una giustificazione per la conquista della Crimea da parte della Russia o per l’intervento occulto nell’Ucraina orientale.

Un secondo argomento, di natura psicologica, che enfatizza la percezione della minaccia da parte di Mosca, è altrettanto fuorviante. Alla base dell’annessione, infatti, non c’è tanto la vittoria della Rivoluzione della Dignità e le sue possibili conseguenze, quanto l’imperialismo, il nazionalismo e l’irredentismo russo. L’annessione illegale della Crimea da parte della Russia è iniziata il 20 febbraio 2014, quando Yanukovych era ancora presente a Kyiv, riconosciuto come capo di Stato dell’Ucraina e impegnato in negoziati aperti con l’opposizione e con politici stranieri. La rapidità e l’intenzionalità dell’acquisizione della Crimea nel febbraio-marzo 2014 suggeriscono una dettagliata pianificazione preliminare.

I fatidici eventi in Crimea e Donbas nel febbraio-aprile 2014 non sono stati rivolte locali, trasferimenti pacifici di territorio alla Russia o reazioni russe alle provocazioni ucraine. Sono stati guidati dall’espansionismo imperiale e hanno costituito un’aggressione russa pre-pianificata all’Ucraina. Si è trattato di operazioni militari volte a espandere illegalmente il territorio russo con la forza a spese dell’Ucraina. Per questo il 20 febbraio 2024 fu l’inizio della guerra russo-ucraina che dura ancora oggi.

Julia Kazdobina è Visiting Fellow, Jakob Hedenskog e Andreas Umland sono analisti presso il Centro di Stoccolma per gli Studi sull’Europa Orientale (SCEEUS) dell’Istituto Svedese per gli Affari Internazionali (UI). L’articolo si basa su un rapporto SCEEUS pubblicato nel febbraio 2024.