Il bilancio dei primi sei mesi di Trump alla Casa Bianca
Il bilancio dei primi sei mesi del secondo mandato alla Casa Bianca è positivo sui fronti interni, grazie anche al sostegno del Congresso e alla connivenza della Corte Suprema, ma è deficitario su quelli internazionali.
Gli Stati Uniti hanno cambiato rotta sull’Ucraina?
Dopo aver minacciato pochi mesi fa di porre fine agli aiuti militari all’Ucraina, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sembra aver cambiato idea. L’ipotesi iniziale della nuova amministrazione statunitense era che la sua retorica, i suoi segnali e la sua diplomazia filo-russa avrebbero provocato reazioni reciproche a Mosca e aperto la strada alla fine della guerra russo-ucraina. Ora, Trump e i suoi collaboratori sembrano aver iniziato a rendersi conto che questo approccio non solo è un vicolo cieco, ma ha anche avuto l’effetto opposto. Negli ultimi mesi, gli attacchi aerei russi contro città, comuni e villaggi ucraini si sono intensificati anziché attenuarsi.
La maggior parte degli americani, tra cui molti membri del Partito Repubblicano, elettori repubblicani e persino sostenitori di MAGA, è ancora favorevole a sostenere l’Ucraina. Trump potrebbe ora rendersi conto che i costi politici del suo approccio filoro russo stanno diventando elevati. Il suo recente cambiamento di rotta è una concessione al sentimento anti-putiniano e filo-ucraino prevalente all’interno del Paese, piuttosto che il risultato di un progresso cognitivo nella valutazione della politica estera russa da parte della Casa Bianca.
Il 14 luglio Trump ha minacciato pubblicamente i partner commerciali di Mosca con sanzioni secondarie se il Cremlino non accetterà presto un cessate il fuoco in Ucraina. Potrebbe trattarsi di un’inversione di rotta nella politica di Trump nei confronti della Russia? Probabilmente no, almeno non ancora. O forse nemmeno in futuro. Finora, questa e altre dichiarazioni ufficiali simili di Trump e della sua amministrazione rimangono semplici dichiarazioni di intenti su azioni future incerte. A dirla tutta, la maggior parte delle dichiarazioni orali e persino alcune dichiarazioni scritte di Trump devono essere prese con cautela.
Le reazioni in Ucraina alla nuova retorica di Washington sono state quindi contrastanti. I commentatori ucraini riconoscono che Trump sta ora assumendo un tono diverso, dopo mesi di atteggiamenti accattivanti nei confronti di Vladimir Putin. Tuttavia, la maggior parte degli ucraini rimane scettica sulla sostenibilità di questo apparente cambiamento di atteggiamento da parte di Washington.
Poiché Trump ha dato per la prima volta un ultimatum a Putin, potrebbe esserci una possibilità di ulteriore sviluppo della questione. Se il Cremlino non accetterà un accordo di pace entro 50 giorni, gli Stati Uniti dovrebbero imporre dazi punitivi del 100% sui partner commerciali della Russia. Sebbene si tratti di un piano molto più concreto rispetto alle precedenti dichiarazioni, con questo schema Washington ha avviato un gioco complicato. La pressione che Trump vuole esercitare su Mosca non dovrebbe provenire direttamente dagli Stati Uniti, ma da paesi terzi come Cina, India e Brasile, che acquistano petrolio e/o altri beni dalla Russia.
Non è chiaro se e in che misura questi e altri paesi si piegheranno alla pressione americana. Un dazio del 100% da parte degli Stati Uniti sarà sufficiente a spingere, ad esempio, l’India a interrompere gli scambi commerciali con la Russia? Se il piano di Trump non dovesse portare a una riduzione significativa del commercio estero non occidentale con la Russia e Washington dovesse effettivamente imporre dazi ai paesi che continuano a fare affari con Mosca, questi ultimi reagirebbero con misure di ritorsione sulle importazioni dagli Stati Uniti. I cittadini americani sono disposti a soffrire per l’Ucraina?
Il piano di Trump non sembra ben congegnato e forse non è mai stato pensato per essere effettivamente attuato. Un approccio più efficace sarebbe stato quello di minacciare i partner commerciali della Russia con dazi molto elevati, come il 500% proposto dal Senato americano. Ciò avrebbe inviato un segnale a questi Stati indicando che è imperativo interrompere i rapporti con la Russia. Resta da vedere quale sarà il risultato dell’attuale approccio tortuoso di Trump per fermare l’aggressione russa.
A breve termine, i nuovi piani di sanzioni degli Stati Uniti potrebbero avere effetti opposti a quelli desiderati. Probabilmente, l’annuncio di Trump porterà solo a un’intensificazione degli attacchi russi all’Ucraina nelle prossime settimane. Stranamente, al Cremlino è stata concessa una sorta di scadenza quasi ufficiale entro la quale potrà continuare i bombardamenti senza conseguenze economiche immediate. La scadenza di 50 giorni imposta da Washington fa sospettare che a Putin sia stata consapevolmente concessa un’altra opportunità per occupare più territorio e ottenere successi militari prima della ripresa dei negoziati.
Se il piano di Trump dovesse funzionare, la perdita dei partner commerciali non occidentali potrebbe effettivamente danneggiare la macchina da guerra di Putin. Se la Cina, l’India e altri paesi, sotto la minaccia delle sanzioni americane, volteranno le spalle alla Russia e seguiranno l’esempio degli Stati Uniti, questo sarà un problema per il Cremlino. Finora, la maggiore – ma non unica – debolezza delle numerose sanzioni internazionali dirette contro la Russia è stata che Mosca era e rimane in grado di rivolgersi a mercati alternativi, acquirenti e intermediari stranieri, nonché a rotte di trasporto non occidentali, compensando così l’impatto delle misure punitive occidentali. Se i dazi di Trump entreranno in vigore, queste alternative potrebbero diventare più complicate per Mosca.
Oltre all’ultimatum sui dazi, Washington ha anche annunciato “massicce” forniture di armi statunitensi all’Ucraina. Si tratta principalmente (ma non solo) dei famosi sistemi missilistici mobili terra-aria “Patriot”. Diversi paesi europei, tra cui la Germania, dovrebbero acquistarli negli Stati Uniti e poi trasferirli all’Ucraina. Anche questo è un piano complicato, ma più realistico delle sanzioni secondarie previste da Washington. In questo caso, le terze parti sono i partner occidentali degli Stati Uniti piuttosto che governi non occidentali meno cooperativi o addirittura ostili.
I sistemi Patriot si sono dimostrati tra le armi di intercettazione più efficaci contro i vari missili di grandi dimensioni della Russia. La domanda è quindi elevata a Kyiv, dove si spera che la difesa aerea ucraina possa presto disporre di un maggior numero di sistemi Patriot. Quante di queste e quali altre armi statunitensi andranno ora all’Ucraina sembra dipendere in gran parte dai loro acquirenti, principalmente dell’Europa occidentale. È difficile stabilire con precisione quali armi arriveranno in Ucraina, in che quantità e in quale arco di tempo. Il governo tedesco, inoltre, ha deciso di non fornire più informazioni dettagliate in anticipo sulle consegne di armi.
L’eterogeneità delle sanzioni e dei programmi di sostegno di Trump è dovuta al fatto che essi hanno origine dalla sua preoccupazione per gli affari interni piuttosto che per quelli internazionali. In particolare, la sua approvazione delle forniture di armi a pagamento all’Ucraina è principalmente una politica America First piuttosto che una nuova strategia geopolitica. Peggio ancora, il suo approccio transazionale in materia di sicurezza mina la credibilità e la fiducia negli Stati Uniti come partner internazionale.
La storia precedente dell’attuale stallo degli aiuti militari americani all’Ucraina è istruttiva. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’90, gli Stati Uniti sono stati fortemente coinvolti nel disarmo strategico dell’Ucraina. Seguendo interessi di sicurezza strettamente nazionali, Washington non solo ha fatto pressione su Kyiv affinché cedesse le testate nucleari che il nuovo Stato ucraino aveva ereditato dall’URSS. L’accordo promosso dagli Stati Uniti all’epoca, associato principalmente al famigerato Memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza del 1994, riguardava anche i sistemi di lancio di queste testate. L’Ucraina ha dovuto sbarazzarsi anche dei suoi aerei da bombardamento di epoca sovietica, dei missili da crociera e di vari razzi, ovvero armi convenzionali che oggi sarebbero molto utili all’Ucraina.
Questi e altri accordi internazionali delle precedenti amministrazioni statunitensi sono ormai storia passata per Trump & Co. Oggi Washington sta invece cercando di trarre profitto dalla triste situazione di Kyiv e dai crescenti timori dell’Europa. Il fatto che Trump insista ora affinché l’aiuto militare statunitense alla lotta per la sopravvivenza dell’Ucraina sia pagato è più che un tradimento americano degli ucraini che, nel 1994, hanno preso sul serio le garanzie di sicurezza di Washington in cambio del disarmo dell’Ucraina.
La nuova strategia dell’amministrazione Trump è anche in contrasto con la logica del regime mondiale di non proliferazione nucleare. In particolare, contraddice la responsabilità speciale che i cinque Stati ufficialmente dotati di armi nucleari – Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Francia – hanno per la salvaguardia dell’ordine internazionale. L’approccio transazionale di Trump alla protezione delle regole fondamentali delle relazioni interstatali post-1945, come l’inviolabilità dei confini e l’inammissibilità del genocidio, sta indebolendo un sistema internazionale che gli Stati Uniti stessi hanno creato e dal quale traggono vantaggio ormai da 80 anni.
A prima vista, far pagare agli altri il prezzo dell’indebolimento quotidiano dell’Ucraina, nemico storico della Russia da decenni, può sembrare una mossa intelligente. Tuttavia, rispetto all’intero bilancio della difesa degli Stati Uniti, i costi del recente sostegno militare gratuito fornito dall’America all’Ucraina sono stati bassi. Al contrario, gli effetti distruttivi delle armi statunitensi nelle mani dell’Ucraina, sull’esercito e sull’economia della Russia, sono stati elevati. Esse hanno continuamente ridotto la capacità di Mosca di attaccare uno Stato membro della NATO che gli Stati Uniti sarebbero obbligati a sostenere, ai sensi dell’articolo 5 del Trattato di Washington del 1949. L’amministrazione Trump sta ora volontariamente facendo un passo indietro rispetto a questo vantaggio strategico e ignorando stranamente le sue ripercussioni positive per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
In ogni caso, la recente svolta retorica di Trump nei confronti di Putin è comunque da accogliere con favore. La domanda è se Washington abbia davvero intenzione e, in tal caso, sia effettivamente disposta a mettere in pratica le sue nuove dichiarazioni. Finora, l’amministrazione Trump non ha abbandonato la sua visione generalmente miope degli interessi nazionali statunitensi e la sua disponibilità a definirli con l’aiuto di slogan populisti, se non demagogici. La nuova amministrazione continua a ignorare le profonde implicazioni della posizione americana nei confronti della guerra russo-ucraina per l’ordine mondiale, la cui stabilità e legittimità dovrebbero preoccupare gli americani tanto quanto la maggior parte delle altre nazioni.
Sanzioni europee alla Russia: gli effetti in Finlandia
L’ultimo pacchetto di sanzioni dell’UE contro la Russia impone restrizioni sempre più severe sulle merci, con l’aggiunta di molti nuovi codici merceologici all’elenco dei prodotti vietati all’esportazione. L’elenco include prodotti che possono essere considerati utili alla capacità industriale della Russia. Inoltre, l’UE vieta l’importazione da paesi terzi di prodotti petroliferi estratti dal greggio russo. Anche le sanzioni contro la Bielorussia vengono inasprite, allineandole a quelle contro la Russia.
L’elenco dei beni vietati all’esportazione si amplia di oltre 180 codici merceologici. Tra i beni vietati all’esportazione figurano, ad esempio, vari prodotti in metallo e una varietà di utensili e dispositivi di misurazione.
Il divieto di transito riguarderà anche i trattori per semirimorchi a gasolio, nonché i rimorchi e i semirimorchi destinati al trasporto di merci. Inoltre, il divieto di transito viene esteso ad alcuni beni già vietati all’esportazione, come le macchine utensili a scarica elettrica e a getto d’acqua. Il 18° pacchetto di sanzioni introduce inoltre controlli più severi sulle esportazioni volti a prevenire l’elusione delle sanzioni.
Nell’applicazione delle sanzioni, la Tulli, la dogana finlandese, ha rilevato oltre 30.000 anomalie nel traffico merci e condotto oltre 4.000 controlli mirati. Dall’inizio della guerra in Ucraina, la dogana ha avviato oltre 900 indagini su reati normativi correlati alla violazione delle sanzioni. Circa 130 di questi casi sono oggetto di indagine come reati normativi aggravati. Prima dell’attacco russo all’Ucraina, la dogana indagava in media da due a dieci reati normativi all’anno. Quasi senza eccezioni, le indagini penali relative alle sanzioni richiedono un’ampia cooperazione internazionale.
“Le autorità doganali hanno affrontato attivamente i fenomeni legati alle sanzioni. Sulla base delle nostre attività di contrasto, abbiamo osservato tentativi di elusione delle sanzioni, ad esempio attraverso paesi extra-UE. Abbiamo contrastato questo fenomeno con diverse misure di contrasto. Collaboriamo inoltre strettamente, ad esempio, con Europol, la nostra agenzia di contrasto, e con l’OLAF, l’Ufficio europeo per la lotta antifrode, al fine di garantire un’applicazione uniforme ed efficiente delle sanzioni in tutta l’UE”, dichiara Petri Lounatmaa , Direttore dell’Area di Controllo di Tulli. Gli importatori non sono tenuti a presentare certificati di origine del greggio per quanto riguarda i paesi partner, determinati separatamente, di Canada, Norvegia, Stati Uniti, Regno Unito e Svizzera. Gli elenchi delle merci vietate all’esportazione e delle merci in transito vengono ampliati e i controlli sulle esportazioni vengono rafforzati.
Il 30 giugno 2025, il Consiglio dell’Unione europea ha deciso di prorogare la validità delle misure settoriali nei confronti della Russia (regolamento (UE) 833/2014) fino al 31 gennaio 2026. Le nuove sanzioni sono state pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea sabato 19 luglio 2024. I pacchetti di sanzioni entrano in vigore a mezzanotte di domenica 20 luglio 2025.
Non c’è pace per la Banca Centrale Europea
La fiammata inflazionistica sperimentata in seguito all’invasione russa dell’Ucraina — e a alla ripartenza economica post-Covid — ha obbligato la Banca Centrale Europea (BCE) a modificare in maniera drastica la politica monetaria ultra-espansiva avviata sotto la Presidenza Draghi.
In tal senso, fra il 2022 e il 2023, l’istituto di Francoforte, al fine di perseguire il primario obiettivo della stabilità dei prezzi, ha proceduto a vari innalzamenti dei tassi di interesse, portando il costo del denaro su livelli che non si vedevano da inizio millennio. Tale restrizione monetaria ha sì contribuito a un rallentamento del ciclo economico ma, già nel 2024, grazie anche all’abbassamento del costo dell’energia, ha permesso di riportare il tasso di inflazione in prossimità dell’obiettivo del 2%.
Alla luce di ciò, a partire dalla metà dell’anno passato, i tassi hanno cominciato progressivamente a scendere, per tornare nelle ultime settimane su valori affini a quelli di fine 2022. In condizioni “normali”, con un livello di inflazione stabilizzatosi intorno all’obiettivo statutario, sarebbe naturale aspettarsi una politica monetaria che, sostanzialmente, rimane ferma. A fronte della presenza di Trump alla Casa Bianca, e della guerra commerciale da lui avviata, possiamo però tranquillamente affermare come queste non siano condizioni normali e che, conseguentemente, la BCE non possa godersi alcun tipo di riposo. I dazi di Trump possono infatti condizionare il lavoro della Banca Centrale Europea in maniera diversa a seconda della risposta che le istituzioni euro-unitarie sceglieranno di dare all’innalzamento delle tariffe deciso dal tycoon.
Nel caso in cui l’Unione Europea dovesse optare per una reazione “dura” — prevedendo un significativo innalzamento dei dazi verso gli USA — si rischierebbe di assistere a un aumento del livello dei prezzi che porrebbe la BCE davanti a un complicato scenario di natura simil-stagflattiva. Invero, il possibile aumento dell’inflazione spingerebbe Francoforte a una nuova restrizione monetaria; tuttavia, il probabile rallentamento del ciclo economico che potrebbe derivare da una vasta guerra commerciale renderebbe tale operazione particolarmente dolorosa, visto il rischio di aggravare ulteriormente uno scenario economico già in affanno.
Nel caso in cui l’UE decidesse invece di adottare un approccio “morbido” — evitando un rilevante innalzamento delle tariffe sulle importazioni americane — il rischio di assistere a un aumento dei prezzi sarebbe ridotto e, anzi, si paleserebbe la possibilità di fronteggiare una condizione di quasi-deflazione. In questo scenario, la contrazione delle esportazioni verso gli Stati Uniti che potrebbe ingenerarsi nei prossimi mesi rischierebbe infatti di portare a una riduzione del PIL e a un conseguente raffreddamento del lato della domanda che, inevitabilmente, si rifletterebbe sul livello dei prezzi; la BCE si troverebbe quindi obbligata a operare (in maniera tempestiva) ulteriori riduzioni dei tassi, in modo da sostenere la fiducia degli operatori economici ed evitare una caduta dell’inflazione in terreno negativo.
Visto il comportamento finora adottato dalle istituzioni europee, la seconda ipotesi sembra allo stato attuale la più probabile; d’altronde, non alzando in modo significativo le tariffe, l’UE continuerebbe ad avere accesso ad alcune fondamentali materie prime e merci importate dagli Stati Uniti e, al contempo, eviterebbe il sopramenzionato rischio stagflattivo.
Nei mesi passati, diversi economisti avevano inoltre sostenuto che, evitando di imporre rilevanti contro-dazi, il tasso di cambio euro-dollaro avrebbe di fatto bilanciato gli effetti delle tariffe trumpiane. In quest’ottica, con una Federal Reserve “obbligata” a mantenere tassi elevati — a fronte di un’inflazione americana che cresce — e una BCE che invece li riduce — a fronte di un’inflazione europea che cala —, la valuta statunitense si sarebbe apprezzata rispetto a quella del vecchio continente, compensando sostanzialmente l’aumento dei dazi imposto da Trump. Questa previsione era basata su valutazioni economiche più che condivisibili che, in condizioni normali, avrebbero portato al risultato ipotizzato. Come già detto, tuttavia, ora non siamo in condizioni normali.
In tal senso, va infatti rilevato come le due banche centrali abbiano sì operato come previsto (con la Banca Centrale Europea che ha abbassato i tassi e la FED che invece li ha tenuti fermi) ma come il dollaro, invece che apprezzarsi, abbia perso di valore rispetto all’euro: questo è un inaspettato effetto delle “picconate” assestata dalla Casa Bianca alla credibilità dell’economia americana e al ruolo di riserva globale della sua valuta. Un deprezzamento che aggrava ulteriormente gli effetti dei dazi statunitensi.
Nelle passate settimane, esponenti di spicco di alcuni governi nazionali hanno invitato la BCE a procedere speditamente con ulteriori abbassamenti dei tassi. Alla luce di quanto sopra scritto, è ragionevole però affermare come, finora, Francoforte abbia (giustamente) evitato di impegnarsi a procedere in questa direzione, attendendo di capire quale sia lo sviluppo della guerra commerciale in corso: solo una volta compresa la direzione assunta da Consiglio e Commissione Europea sarà infatti possibile determinare la risposta da porre in essere.
In tal contesto, c’è da confidare che queste due istituzioni mantengano un dialogo costante con l’istituto di emissione, al fine di fornire ad esso — e ricevere da esso — informazioni necessarie alla definizione di un’azione tempestiva e ben mirata. Parimenti, è auspicabile che dibattiti palesatesi negli anni passati in merito agli obiettivi attribuiti alla Banca Centrale non tornino ad infiammare il dibattito interno al Consiglio Direttivo e che, in particolare, non riemerga una miope concezione della stabilità dei prezzi (fino a qualche anno fa propugnata da Jens Weidmann, ex-banchiere centrale tedesco) che porterebbe la BCE ad agire in maniera tardiva rispetto al palesarsi di molteplici criticità.
In queste condizioni “anormali”, la Banca Centrale Europea non può quindi che rimanere alla finestra, affilare le armi e prepararsi a una nuova turbolenta fase della sua ancora breve (ma intensa) esistenza.
L’articolo è stato elaborato nell’ambito di “Focus Geofinanza. Osservatorio IAI-Intesa Sanpaolo sulla geofinanza
La posizione europea sui dazi dopo la lettera di Trump
L’Ambasciatore Michele Valensise, Presidente dello IAI, è intervenuto a Spazio Transnazionale, il programma di Radio Radicale condotto da Francesco De Leo. Valensise ha commentato la risposta europea alla lettera inviata dal Presidente Trump all’Unione Europea in merito ai dazi, soffermandosi anche sui tentativi di negoziato attualmente in corso.
La politica di Trump a un anno dal fallito attentato di Butler
Un anno dopo il fallito attentato di Butler, Donald Trump appare sempre più convinto d’essere stato salvato per volontà divina per potere compiere la missione di rendere l’America di nuovo grande.
Dieci anni dalla la stipula dell’accordo JCPOA sul nucleare iraniano
È passato praticamente sotto silenzio il decimo anniversario della stipula, il 14 luglio del 2015, del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’intesa diplomatica che pose fine alla controversia sul nucleare iraniano. Esso è avvenuto in concomitanza con il recente incontro a Washington tra il Presidente Trump e il Primo Ministro Netanyahu, che sono i principali responsabili del suo successivo fallimento.
L’accordo fu inizialmente un vero successo poiché, per una volta, il possibile programma nucleare militare di un paese fu arginato attraverso la diplomazia anziché con l’uso della forza. Un ruolo di rilievo fu svolto dall’Europa con la partecipazione ai negoziati, oltre a Cina, Russia e USA, anche di Francia, Germania e Regno Unito (prima che quest’ultimo abbandonasse l’UE). Gli storici approfondiranno i motivi dell’assenza dal negoziato dell’Italia che era allora il principale partner economico europeo dell’Iran. Un ruolo decisivo fu svolto soprattutto dall’Unione Europea in quanto tale attraverso il suo Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza, un incarico ricoperto allora dall’italiana Federica Mogherini.
L’accordo prevedeva in sostanza che l’Iran avrebbe potuto produrre e detenere solo le quantità e il livello dell’uranio arricchito utili per le sue future esigenze energetiche ma non per scopi militari. L’intero suo programma nucleare venne sottoposto a ferree misure di verifica da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA). In contropartita vennero ritirate le sanzioni in vigore contro l’Iran, ciò che permise al mondo occidentale di avviare una promettente cooperazione politica, economica e finanziaria con Teheran che in tal modo usciva dall’isolamento. Si parlò per l’Italia di commesse per 30 miliardi di Euro.
Tutti questi risultati furono mandati letteralmente all’aria nel 2018, su istigazione di Netanyahu, da Trump che definì il JCPOA il peggiore accordo mai negoziato. Con un suo tratto di penna l’America cessò di attenersi all’accordo e costrinse i suoi alleati e partner a fare altrettanto. L’Iran che lo stava invece rispettando iniziò a sua volta a prenderne le distanze, limitando le ispezioni e ritornando all’accumulo dell’uranio accrescendone il livello di arricchimento.
Il recente rimescolamento delle carte causato dalla crisi di Gaza e l’obiettivo indebolimento dell’Iran che ne è derivato avrebbero potuto offrire a Trump l’occasione per realizzare la sua promessa di un nuovo accordo. Il tentativo negoziale appena da lui iniziato fu sabotato sul nascere da Netanyahu che, proprio in tale occasione, decise un attacco militare contro le installazioni nucleari iraniane cui finirono poi per associarsi gli americani. Anche se vi sono state voci discordanti sul reale esito dell’intervento bellico, non vi è dubbio che le installazioni nucleari abbiano subito danni ingenti ma forse non tali da chiudere una volta per tutte la lunga crisi nucleare iraniana.
Il futuro resta incerto anzitutto a causa della imprevedibilità di Trump. L’Iran per bocca del suo Vice Ministro degli Esteri ha indicato, nonostante l’attacco subito, una preliminare disponibilità a continuare il dialogo con Washington ma al tempo stesso ha richiesto agli ispettori dell’AIEA di lasciare il paese, deprivando l’Agenzia di ogni capacità di verifica. L’Iran aveva in passato minacciato che, in caso di attacco, si sarebbe ritirato dal Trattato di non Proliferazione Nucleare (TNP) analogamente a quanto fatto dalla Corea del Nord prima di procedere ai suoi test nucleari. Non è da escludere che Teheran lo possa fare invocando quella “circostanza straordinaria” che ai sensi dell’articolo 10 gli permetterebbe di ritirarsi dal Trattato che è considerato un pilastro della pace e sicurezza internazionale.
Per sventare tale disastrosa opzione occorre affrontare una volta per tutte i problemi di fondo di questa vicenda che riguardano l’intera comunità internazionale. Fermo restando il “diritto inalienabile” di tutti gli stati all’energia nucleare che è espressamente sancito dal TNP, il vero oggetto del contendere è determinare se tale diritto include anche la possibilità per uno stato di produrre in proprio il combustibile (uranio arricchito o plutonio) che serve per alimentare le centrali nucleari. In realtà il TNP né lo consente, né lo proibisce. L’accordo JCPOA lo consentiva all’Iran ma lo sottoponeva a severe limitazioni e verifiche che se attuate non gli avrebbero permesso di costruirsi la bomba atomica. Tale precedente avrebbe potuto divenire un modello per altri stati desiderosi di intraprendere anch’essi tale pericoloso e costoso percorso.
Il passato insegna che Israele può tollerare la costruzione di centrali nucleari nell’area mediorientale ma cerca di opporsi ad ogni costo alla produzione del combustibile che, come tutti sanno, può servire anche per costruirsi l’arma atomica. La tolleranza israeliana scende a zero quando chi vuole avviarsi su tale strada è un regime come quello iraniano attuale che non riconosce lo Stato di Israele, continua a denominarlo “entità sionista” e persegue l’obiettivo della sua sparizione.
Un ritorno al tavolo negoziale ispirandosi ai principi tecnici del JCPOA avrebbe maggiori possibilità di successo se si arrivasse ad una svolta storica nei rapporti tra Israele e l’Iran analoga a quella, che appariva impossibile, avvenuta nel 1977 tra Israele e l’Egitto dopo la guerra del Kippur. Un “chiarimento esistenziale” tra due stati e due popoli, quello ebraico e quello persiano, che si sono conosciuti e riconosciuti sin dai tempi della Bibbia e che hanno convissuto per secoli. L’Europa, che a differenza degli USA non ha mai interrotto i rapporti diplomatici con l’Iran e che con il popolo ebraico ha un debito indelebile, avrebbe in mano le carte per propiziare un simile approccio.
La “maggioranza Ursula” e l’Europa immaginaria
Del fallito tentativo da parte di un gruppo di deputati di estrema destra di far votare una mozione di censura da parte del Parlamento Europeo contro la Commissione Europea e la sua Presidente Ursula von der Leyen, sappiamo tutto. Non è detto però che il racconto che ce ne è stato fatto, corrisponda alla realtà. In sostanza, quella che ci è stata raccontata è la vicenda di una crisi strisciante che affligge la coalizione che sostiene la Commissione al Parlamento Europeo. Crisi dovuta alla insoddisfazione di tre membri della coalizione, liberali, socialisti e verdi, verso i popolari del PPE, partito di maggioranza relativa a cui appartiene anche von der Leyen. Essi sarebbero infatti colpevoli di due crimini: aver spostato decisamente a destra l’asse dell’UE in alcuni settori e a questo fine di aver coscientemente fatto ricorso in varie occasioni ai voti dei partiti populisti e sovranisti di destra, per definizione “antieuropei”. Prova aggiuntiva, i buoni rapporti che von der Leyen intrattiene con Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio a Roma, ma il cui partito è anche la componente principale di uno dei partiti sovranisti in Europa. Tutto ciò sembra chiaro, ma purtroppo descrive un’Europa che non c’è. Ciò è tanto più pericolosamente distorsivo, perché sembra di facile comprensione per cittadini abituati al funzionamento delle normali democrazie parlamentari.
Il problema è che l’UE non è una federazione e ancor meno funziona come una democrazia parlamentare del tipo da noi conosciuto. È un sistema ibrido, né federale né veramente intergovernativo, che riunisce paesi che restano sovrani ma che condividono all’interno delle istituzioni comuni pezzi della loro sovranità. Come spesso dicono i giuristi, gli Stati restano “padroni dei trattati”. Al centro di questo sistema ibrido c’è un’istituzione, la Commissione, che ha alcune caratteristiche comuni con l’idea del Governo che abbiamo comunemente, ma in misura molto più limitata. La sua legittimità dipende in parte dai governi e in parte dal Parlamento Europeo che vota la sua investitura e che può anche censurarla. Il tutto in un sistema in cui i poteri di decisione sono condivisi fra il Consiglio dei ministri nazionali e il Parlamento Europeo. Condivisione che tuttavia e a causa della natura del sistema, vede un netto predominio dei governi soprattutto nelle materie che sono ai margini dei poteri che i trattati attribuiscono all’UE. Parliamo di materie al cuore della sovranità statale come l’immigrazione o la politica estera e di difesa. Questo sistema, che abbiamo ereditato e con cui viviamo da quasi 80 anni, è certamente criticabile. Tuttavia, nessuno pensa che possa essere modificato nel breve periodo. Una narrativa che suggerisce l’immagine di un sistema di governo dell’UE basato su una maggioranza parlamentare che esprime un governo è quindi gravemente fuorviante.
Di che cosa si accusa von der Leyen? In sostanza di aver “spostato a destra” l’orientamento politico delle proposte della Commissione su molti dei principali problemi che l’UE deve affrontare. Di cosa si tratta? In primo luogo, di una gestione molto restrittiva dell’immigrazione. Poi di una revisione del Green Deal nel senso di dare più peso alle esigenze legate alla crescita e alla competitività. Poi della proposta di considerare il riarmo di fronte alla minaccia russa e all’aggressione all’Ucraina una priorità assoluta dell’UE, anche a scapito di altri obiettivi. Infine, di proporre una risposta non ideologica ma pragmatica e focalizzata sui nostri interessi, al terremoto trumpiano. La svolta è peraltro innegabile, È tuttavia falso che costituisca una scelta autonoma e arbitraria della Commissione e ancor meno un tentativo, in accordo con il PPE, di inseguire la destra sovranista.
Qual è infatti il compito della Commissione, la sua ragion d’essere? In sostanza essa deve fare la sintesi dei problemi che l’UE deve affrontare, interpretarli nell’interesse comune e proporre la strada da seguire. Tuttavia, il fine è raggiungere il consenso. Una difficoltà che la Commissione deve affrontare è che Parlamento e Consiglio non riflettono esattamente gli stessi equilibri politici. Dato l’equilibrio dei poteri già descritto, la Commissione deve prima assicurarsi un certo consenso da parte almeno della maggioranza dei governi per poi negoziare gli opportuni aggiustamenti con il Parlamento. Parlare di una “rottura del patto di maggioranza” alla base della sua elezione, è quindi privo di senso. La famigerata “svolta a destra” operata dalla Commissione sui temi già citati, non fa che riflettere l’attuale orientamento largamente maggioritario dei governi dell’UE. In sostanza, von der Leyen può certamente essere criticata per alcuni aspetti della sua azione, ma nella sua strategia politica fa semplicemente il suo mestiere.
Un altro errore della narrativa corrente è quello di interpretare la dinamica politica dell’UE in termini di scontro fra forze “pro-europee e anti-europee”. Questa distinzione esiste certamente sul piano ideologico, ma nella realtà è molto raro che lo scontro concreto si manifesti in questi termini. È stato certamente il caso nel dibattito britannico su Brexit e per quanto riguarda la particolare posizione attuale dell’Ungheria. È anche vero all’interno del PE per gran parte ma non tutti i gruppi che costituiscono la destra populista. Nella maggior parte del contenzioso permanente che caratterizza i comportamenti dei governi nella la vita quotidiana dell’UE, si può invece affermare che ognuno, caso per caso, è “pro-europeo a modo suo”. Per esempio, non c’è nulla di intrinsecamente anti-europeo nell’avere una visione più o meno ambiziosa del Green Deal.
Con queste premesse, come si spiega il comportamento dei socialisti e dei verdi rispetto a von der Leyen? In un sistema che privilegia il peso dei governi, i verdi ne sono quasi totalmente assenti, mentre quelli a guida socialista sono solo tre, peraltro su posizioni molto diverse sui problemi prioritari già citati. Si può quindi comprendere che alcuni di essi considerino il PE la sola leva di cui dispongono per far valere le loro ragioni. Il comportamento dei liberali è più misterioso, dal momento che la loro componente principale è costituita dai rappresentanti macronisti francesi che quindi dovrebbero in teoria essere vicini alle posizioni del loro governo. Ma questi sono i misteri dell’attuale fase della politica francese.
È possibile che, come alcuni auspicano, questi tre partiti rilancino l’idea di una mozione di censura contro von der Leyen nel prossimo autunno su un terreno politico a loro più congeniale. Sarebbe un grave errore perché condurrebbe con ogni probabilità a un esiziale stallo istituzionale; oppure, dopo un duro confronto, alla nomina di un Presidente ancora più conservatore e probabilmente politicamente più debole. La verità è che il PE è sull’orlo di una grave crisi d’identità. Crisi di cui, è bene dirlo, una certa arroganza del PPE porta una parte di responsabilità. L’origine della crisi è nell’illusione che i cosiddetti “partiti europei” siano molto più che federazioni di partiti nazionali impegnati in una faticosa ricerca di una sintesi.
Questa fase di incertezza identitaria riferita all’Europa attraversa del resto anche la politica dei singoli paesi. In molti casi, la frattura è visibile all’interno delle attuali o potenziali coalizioni di governo. Il caso spagnolo è evidente. Quello francese anche. Il caso più complesso è probabilmente quello italiano, dove sono profondamente divise sia la maggioranza di governo sia l’opposizione. Un problema particolare per Giorgia Meloni che, come governo italiano si situa largamente nelle grandi linee della politica comune dell’UE, mentre in quanto responsabile politico è alla testa di un partito che si vuole sovranista e stenta a trovare una identità stabile all’interno del PE; come dimostrato da numerosi voti recenti.
Mettere ordine in tutto questo è urgente non solo per la gravità dei problemi da affrontare, ma perché siamo obbligati ad inventare strumenti e procedure nuove. È evidente che l’UE non ha la forza né i mezzi per trattare la totalità dei problemi. In un contesto caratterizzato dall’indispensabile ritorno nel gioco europeo del Regno Unito, sarà necessario agire su vari livelli: quello dell’UE, quello della NATO, ma anche in alcuni casi attraverso accordi intergovernativi. Ciò richiederà una notevole immaginazione istituzionale. Con tutti i suoi limiti, la Commissione sembra averlo capito. È bene che lo integrino pienamente tutti i governi, ma soprattutto le forze politiche presenti nel PE. Poi, si tratterà di rendere tutto ciò comprensibile all’opinione pubblica. Compito non facile.
La televisione ucraina in condizioni di guerra totale
Già prima dell’inizio dell’invasione su vasta scala da parte della Russia, il governo ucraino aveva avviato una cosiddetta “deoligarchizzazione” della società ucraina. Questa riforma dei rapporti tra lo Stato ucraino e le grandi imprese aveva lo scopo, secondo le parole di Volodymyr Zelenskyy, di tagliare fuori gli “oligarchi” ucraini dalle “risorse mediatiche concentrate, dall’accesso opaco alle risorse strategiche e dalla loro ‘krysha’ [letteralmente: ‘tetto’, ovvero protezione] nel governo”.
Fino a pochi anni fa, una manciata di grandi gruppi mediatici, che includevano i canali televisivi, le stazioni radio e la stampa più popolari, determinavano l’agenda informativa del Paese. Questi gruppi erano di proprietà di alcuni dei più importanti “oligarchi” ucraini e influenzavano in modo considerevole il dibattito pubblico. Prima del 2022, le cinque più importanti società di mass media e le loro emittenti televisive erano:
- Inter Media Group, che comprendeva i canali televisivi Inter e NTN, di proprietà di Dmytro Firtash e Serhiy Lyovochkin;
- 1+1 media, che comprendeva i canali televisivi 1+1 e Ukraine Today, di proprietà di Ihor Kolomoyskyy;
- Starlight Media, che comprendeva i canali televisivi ICTV, STB e Novyy (Nuovo), di proprietà di Viktor e Olena Pinchuk, genero e figlia dell’ex presidente Leonid Kuchma;
- Media Group “Ukraina”, che comprendeva i canali televisivi Ukraina e Ukraina24, di proprietà di Rinat Akhmetov; e
- le emittenti televisive Priamyy (Direct) e Channel 5, di proprietà dell’ex presidente Petro Poroshenko.
Il politico filorusso Viktor Medvedchuk, la cui figlia è figlioccia di Vladimir Putin, ha iniziato a costruire un gruppo mediatico in Ucraina alcuni anni prima dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina all’inizio del 2014. La holding mediatica di Medvedchuk comprendeva i canali televisivi 112 Ukraina, NewsOne e ZIK, che hanno adottato posizioni filo-russe, a volte aperte, a volte meno. Nel contesto dell’escalation delle tensioni tra Kyiv e Mosca alla fine del 2021, l’informazione politica di questi canali è stata classificata dal Consiglio di sicurezza nazionale e difesa dell’Ucraina come una minaccia alla sicurezza nazionale ucraina e sono stati chiusi.
Sotto la pressione della guerra, le più grandi emittenti televisive, che in precedenza erano di proprietà di vari gruppi mediatici, si sono fuse per formare un unico canale. Dopo aver trasmesso i propri programmi speciali il primo giorno dell’invasione su larga scala, Starlight Media, 1+1 media e Inter Media, nonché l’emittente televisiva del parlamento ucraino, Rada, hanno iniziato a trasmettere il 25 febbraio 2022 il programma di informazione politica e commenti 24 ore su 24 Telemarathon, “Edyni novyny” (Notizie unite). Questo canale televisivo unificato offre spazi alle redazioni delle emittenti associate, che li riempiono con i propri presentatori, programmi e reportage. Anche il gruppo mediatico “Ukraina” e la Compagnia Nazionale Pubblica di Tele-Radio dell’Ucraina, meglio conosciuta come Suspilne movlennia (Emittente Pubblica), hanno aderito al Telemarathon. Tuttavia, il canale di radiotelevisione pubblica ha lasciato il progetto United News nel maggio 2024 e ora opera in parallelo con Telemarathon.
La creazione di Telemarathon è stata inizialmente accolta con favore sia dal pubblico che dalla comunità giornalistica. Nei primi mesi di guerra, la programmazione congiunta delle emittenti precedentemente separate ha svolto un ruolo importante nel preservare la coesione della società ucraina. Inoltre, parallelamente alla Telemarathon in lingua ucraina, dall’agosto 2022 il governo ucraino gestisce anche un canale di informazione in lingua russa 24 ore su 24 chiamato FreeDom (Una casa libera), via satellite e YouTube, che continua i precedenti progetti UATV e Dom (Casa), creati nel 2015. L’esistenza di questo progetto statale ucraino in lingua russa contraddice la narrativa propagandistica del Cremlino secondo cui il “regime di Kyiv” reprime spietatamente la lingua russa. Nonostante la sua esistenza dal 2015, per ignoranza o deliberatamente, l’attività di questo canale in lingua russa è stata per lo più ignorata dalle frequenti critiche straniere sull’evoluzione della situazione linguistica in Ucraina dopo l’inizio della guerra russo-ucraina il 20 febbraio 2014.
Allo stesso tempo, dal febbraio 2022 lo Stato ucraino ha circoscritto lo spazio informativo televisivo. Così, diverse emittenti televisive legate all’opposizione o alla cerchia di Poroshenko – come Channel 5 e Priamyy, nonché Espreso TV – sono state deliberatamente e in modo dimostrativo escluse dal programma congiunto Telemarathon. Inoltre, il 4 aprile 2022 la trasmissione digitale di questi canali è stata interrotta senza spiegazioni. Da allora sono accessibili solo via Internet o via satellite e, in parte, tramite trasmissioni via cavo straniere.
Nel corso del tempo, il Telemarathon è stato oggetto di crescenti critiche. A un anno dall’inizio della guerra, gli esperti dei media ucraini hanno suggerito che il formato United News si fosse esaurito. Dal punto di vista dei critici, uno dei problemi è che lo Stato spende ogni anno ingenti somme per finanziare il Telemarathon. Nel 2024, ad esempio, sono stati stanziati circa 465 milioni di UAH (10,5 milioni di euro) dal bilancio dello Stato. Inoltre, il Telemarathon non è più percepito dai telespettatori come una fonte di informazione obiettiva. Mentre nel 2023 il 69% della popolazione ucraina si fidava di United News, secondo un sondaggio condotto in tutta l’Ucraina dall’Istituto Internazionale di Sociologia di Kyiv, nel 2024 questa percentuale si era quasi dimezzata, scendendo al 36%.
Nel suo rapporto del 2024 sull’allargamento dell’UE, la Commissione europea ha criticato la leadership di Kyiv per quanto riguarda il Telemarathon. L’UE ha sottolineato che l’Ucraina dovrebbe costruire un panorama mediatico pluralistico se vuole diventare membro dell’Unione. Il rapporto della Commissione ha espresso preoccupazione per i finanziamenti governativi e la mancanza di obiettività di United News.
Altri punti di vista sono offerti dai canali televisivi che non fanno parte del Telemarathon e hanno una visione critica del governo. Tra questi figurano Espreso TV e i canali un tempo di proprietà di Poroshenko, che ancora oggi gli sono vicini. Prima dell’invasione del 2022, l’ex presidente aveva cercato di limitare il suo controllo sul suo impero mediatico. Nel novembre 2021 ha venduto i suoi media, tra cui Channel 5 e Priamyy, alla holding Vilni media (Free Media), ma mantiene un’influenza indiretta su di essi.
La guerra non ha colpito solo il mercato televisivo nazionale. Anche i grandi gruppi mediatici si stanno allontanando dalla televisione tradizionale per passare a vari formati digitali, trasmettendo non solo via satellite, ma anche via cavo, attraverso canali video, Internet e live streaming. Utilizzando questi metodi, Starlight Media, ad esempio, ha generato nel 2024 un fatturato di 300 milioni di UAH, pari a circa 7 milioni di euro, dalla distribuzione di contenuti di intrattenimento tramite YouTube. Il reddito totale della divisione digitale dell’azienda è stato di circa mezzo miliardo di grivnie nel 2024, circa tre volte superiore rispetto al 2023. Il gruppo mediatico ha creato e sviluppato più di 100 canali YouTube con quasi 50 milioni di abbonati e ora traduce i suoi contenuti in inglese, spagnolo, portoghese e polacco.
Le funzioni e il funzionamento dei mass media ucraini sono cambiati radicalmente dopo il 24 febbraio 2022. I canali precedentemente controllati dagli oligarchi sono scomparsi e sono stati in parte fusi nel Telemarathon United News, finanziata dallo Stato. Le emittenti indipendenti, le agenzie di stampa, i portali web e i periodici rimasti hanno dovuto reinventarsi e cercare nuovi pubblici, formati di pubblicazione, canali di comunicazione e fonti di finanziamento.
Nonostante queste e altre sfide derivanti dalle condizioni di guerra e dalla legge marziale in vigore dal 2022, il dibattito pubblico ucraino rimane pluralistico. La diversità di opinioni è stata garantita, tra l’altro, dalla diversità dei media online e dal loro finanziamento indipendente, dai numerosi canali di informazione non controllati sui social network, dalla presenza di organizzazioni non governative che monitorano gli organi di stampa e da un dibattito pubblico sostanzialmente libero su questioni controverse.
Diana Dutsyk è docente senior di giornalismo presso l’Accademia Kyiv-Mohyla e membro della Commissione ucraina per l’etica giornalistica.
Terre rare e geopolitica: l’accordo USA-Ucraina che sfida la Cina
L’accordo siglato nei mesi scorsi tra Stati Uniti e Ucraina sulle terre rare rappresenta un passaggio cruciale nella nuova geopolitica delle risorse globali. Concluso a fine aprile 2025, questo partenariato va ben oltre la cooperazione economica: abbraccia sicurezza nazionale, sviluppo tecnologico e competizione globale per il controllo di materie prime essenziali.
Il patto è il risultato di settimane di tensioni e prevede lo sfruttamento congiunto delle risorse naturali ucraine, oltre alla creazione del Fondo di Investimento per la Ricostruzione USA-Ucraina, destinato alla ricostruzione del Paese dopo il conflitto.
Al centro dell’accordo vi sono le cosiddette “terre rare”. La loro crescente importanza geopolitica, insieme ai minerali critici, sta trasformando sempre di più gli equilibri di potere a livello globale e la competizione economica. Con questa espressione si identifica una categoria di 17 metalli che include i quindici lantanidi della tavola periodica, insieme allo scandio e all’ittrio. Il termine “rare” è fuorviante: si tratta in realtà di elementi relativamente comuni nella crosta terrestre. Ciò che risulta problematico è trovare questi elementi in alta concentrazione nei giacimenti, poiché risultano essere diluiti nel terreno. Il processo di estrazione è quindi complesso e dispendioso, dovuto al fatto che nella maggior parte dei casi non si trovano in forma pura, ma quasi sempre legati ad altri elementi.
Le terre rare sono fondamentali in numerosi settori strategici: tecnologia hi-tech ( ad esempio per il funzionamento dei display dei dispositivi elettronici), green technology (es. per la realizzazione di pale eoliche e auto elettriche), industria della difesa (in primis per sistemi radar e sonar), catalizzatori delle auto a benzina, lampade fluorescenti, apparecchiature mediche ed elettronica dei semiconduttori. Un singolo caccia F-35, ad esempio, contiene all’incirca 417 kg di leghe a base di terre rare. Tuttavia, l’uso di questi materiali, pur essendo cruciale per la transizione ecologica, non è esente da impatti ambientali: la raffinazione comporta l’uso di acidi e tecnologie poco sostenibili, con produzione significativa di rifiuti tossici e radioattivi.
USA: dipendenza dalla Cina e urgenza di diversificazionePer gli Stati Uniti, l’accordo con l’Ucraina è un tentativo di ridurre la dipendenza dalla Cina, dalla quale attualmente proviene il 70% delle importazioni statunitensi di terre rare. La Cina, con riserve stimate in 44 milioni di tonnellate metriche, controlla anche circa il 70% della raffinazione globale. Da cui la celebre affermazione nel 1992 di Deng Xiaoping: “Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare”. Tale dominio si è consolidato grazie a costi di manodopera più bassi, normative ambientali meno restrittive e una forte domanda interna di materie prime durante la rapida crescita economica di Pechino. Riprodurre altrove l’efficienza cinese in questo settore è difficile: costruire impianti analoghi, ad esempio negli Stati Uniti, può costare fino a tre volte di più. Proprio per superare questa dipendenza Donald Trump ha inserito le terre rare e i minerali critici tra le priorità della propria agenda politica, aprendo dialoghi con Ucraina, Groenlandia e Arabia Saudita. Accordi simili a quello con Kiev sono in corso con la Repubblica Democratica del Congo (in cambio di supporto militare, sebbene restino dubbi sul luogo di lavorazione dei minerali) e con il Brasile, secondo mercato globale dopo la Cina.
L’Ucraina: potenziale miniera strategica d’EuropaSecondo stime delle Nazioni Unite, l’Ucraina possiede circa il 5% delle riserve mondiali di terre rare. Non solo, secondo il Ministero dell’Economia ucraino, il Paese dispone di 22 dei 34 minerali considerati critici dall’Unione Europea, tra i quali ferroleghe e minerali come litio, grafite, zirconio e titanio. Detiene anche il 7% della produzione globale di titanio e, con riserve di litio stimate in circa 500.000 tonnellate, è il primo in Europa per disponibilità di tale materiale.
L’Ucraina possiede anche circa il 20% delle disponibilità mondiali di grafite (essenziale per la produzione delle batterie elettriche), oltre a notevoli quantità di berillio, manganese, gallio, uranio, apatite e fluorite — tutti elementi chiave per i settori della difesa e dell’elettronica. Il territorio ucraino contiene infine 117 dei 120 metalli e minerali più usati al mondo.
Nonostante queste potenzialità, le informazioni disponibili sulla reale estensione delle risorse di terre rare in Ucraina sono limitate. La mappatura geologica attuale risale all’epoca sovietica (30-60 anni fa) e necessita di una revisione approfondita. Inoltre, l’estrazione su larga scala richiederà ingenti investimenti nelle infrastrutture energetiche, gravemente danneggiate dal conflitto: si stima che il Paese abbia perso circa due terzi della propria capacità di produzione elettrica.
A ciò si aggiunge un ulteriore ostacolo: intorno al 20% del territorio ucraino è attualmente sotto occupazione russa. Le principali risorse minerarie si trovano nelle regioni di Luhansk, Donetsk, Zaporzhizhia, Dnipropetrovsk, Kirovohrad, Poltava e Kharkiv — aree oggi in larga parte controllate da Mosca. Secondo i think tank ucraini We Build Ukraine e l’Istituto Nazionale di Studi Strategici, la Russia controllerebbe circa il 40% delle risorse minerarie ucraine, incluso il più grande giacimento di litio del Paese, situato nel Donetsk.
Per attrarre investimenti sostenibili nel lungo periodo, sono quindi fondamentali condizioni di sicurezza e stabilità, che attualmente non sono presenti nel paese.
Una partnership carica di implicazioni politicheL’accordo concluso tra Kiev e Washington è carico di rilevanza politica. Adottando un linguaggio esplicitamente critico nei confronti della Russia, identificandola come aggressore nel conflitto, afferma “un’allineamento strategico su lungo termine” tra i due stati. Inoltre, gli Stati Uniti “supportano la sicurezza dell’Ucraina, la sua prosperità, ricostruzione e integrazione nel quadro economico globale”. L’accordo lega quindi la stabilità territoriale ucraina agli interessi delle grandi imprese americane.
In conclusione, l’accordo impegna le aziende americane a sviluppare nuovi giacimenti fuori dalle zone occupate, offrendo potenzialmente un’opportunità di crescita economica sostenibile per l’Ucraina, grazie al reinvestimento dei profitti e alla creazione di un solido indotto industriale. Tuttavia, nel testo dell’accordo non vi è alcuna menzione di garanzie di sicurezza — elemento centrale delle richieste di Kyiv. Questa omissione riflette la strategia con cui Washington punta a garantirsi l’accesso alle risorse ucraine senza però farsi carico del peso della difesa dell’Ucraina rispetto all’invasore russo, creando così potenziali tensioni sia con l’Ucraina che con gli alleati europei.
Novità sulla regolamentazione delle attività spaziali
Il 25 giugno, le iniziative sulle regolamentazione dello spazio hanno subito una significativa accelerazione, da un lato con l’entrata in vigore in Italia della Legge 13 giugno 2025, n. 89 “Disposizioni in materia di economia dello spazio” e dall’altra con la pubblicazione, in pari data, della proposta di un’EU Space Act da parte della Commissione europea.
La legge italiana vede la luce a un anno dall’approvazione del Disegno di legge (Ddl) sullo spazio ad opera del Consiglio dei Ministri. Nella seduta del 20 giugno 2024 il Consiglio dei Ministri aveva approvato un ddl contenente Disposizioni in materia di economia dello spazio, da avviare all’iter parlamentare. Esso conteneva previsioni tendenti a fornire un quadro giuridico di riferimento per le attività spaziali, tenuto conto delle evoluzioni del contesto con il sempre maggior coinvolgimento di attori privati e del rilievo del relativo settore economico a livello nazionale.
La legge recentemente approvata mantiene l’impostazione iniziale del ddl con un focus sulla regolamentazione delle attività degli operatori economici nello spazio extra-atmosferico. Include, inoltre, disposizioni sull’ immatricolazione degli oggetti spaziali lanciati nello spazio extra-atmosferico, sulla responsabilità degli operatori spaziali dello Stato, nonché “misure per l’economia dello spazio”.
La proposta di Space Act europeo, giunta contestualmente, è un’iniziativa legislativa elaborata per realizzare obiettivi strategici già individuati dall’Unione nel Competitiveness Compass, nell’ EU Approach for Space Traffic Management e nell’EU Space Strategy for Security and Defence.
All’Unione europea è stata attribuita una competenza condivisa in materia spaziale, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (2009), e la Commissione europea ha adottato una Strategia spaziale europea nell’ottobre 2016.
La finalità dell’EU Space Act è quella di fornire agli stati membri un quadro giuridico stabile e coerente, così da favorire il potenziamento di un mercato interno per le attività spaziali. L’EU Space Act introduce, pertanto, un quadro armonizzato per assicurare la sicurezza, intesa come safety, la resilienza e la sostenibilità ambientale, facilitando al contempo la competitività dell’Unione nel settore spaziale. Tale armonizzazione consente di superare la frammentazione data dalla diversità delle singole legislazioni statali già vigenti, aiutando start-ups e piccole e medie imprese a crescere e operare oltre i confini nazionali nell’ambito di un mercato unificato.
Entrambe le iniziative focalizzano l’attenzione sulla space economy, che, a livello globale, risulta di rilievo crescente, tanto per il progresso tecnologico quanto per il crescente numero di attori interessati al settore spaziale.
L’economia spaziale è chiaramente aumentata in modo considerevole negli ultimi anni, includendo un’ampia gamma di attività, dalle comunicazioni alla geolocalizzazione, dalle previsioni meteorologica ai servizi satellitari, a supporto dell’agricoltura, della protezione dell’ambiente e gestione delle risorse naturali. A ciò si sommano gli interessi per lo sfruttamento delle risorse minerarie o energetiche ivi presenti. È cresciuta la presenza umana, con la proposta di servizi commerciali connessi al turismo spaziale e l’aumento del numero delle stazioni spaziali, oltre a progetti di colonizzazione della Luna o di Marte.
Inoltre, ben lontano dagli albori quando lo spazio era appannaggio delle due Superpotenze, attualmente molti Stati dispongono di interessanti tecnologie spaziali, alcune Organizzazioni internazionali di carattere regionale hanno acquisito competenze nel settore e diversi attori privati investono in tecnologie e attività da condurre in tale area. Space X di Elon Musk e Blue Origin di Jeff Bezos ne sono esempi.
Lo spazio, peraltro, è considerato dalle Forze armate di vari Paesi, tra cui l’Italia un dominio rilevante in relazione al settore sicurezza e difesa, in quanto può esservi un potenziale uso della forza. Tale evoluzione ha richiesto la predisposizione di norme adeguate nel settore.
In tale prospettiva il Titolo V “misure per l’economia dello spazio” appare come la parte più significativa del provvedimento legislativo italiano, in quanto mira a regolamentare le attività degli operatori privati in considerazione del cambiamento epocale descritto, che ha spostato gli interessi sullo spazio dagli attori statali a quelli privati.
Esso introduce il Piano nazionale per l’economia dello spazio, che la Struttura di coordinamento del Comitato interministeriale per le politiche relative allo spazio e alla ricerca aerospaziale (COMINT) è chiamata a elaborare e aggiornare con cadenza biennale, in collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana e sentiti il Ministero delle imprese e del Made in Italy, il Ministero dell’economia e delle finanze e il Ministero dell’Università’ e della Ricerca.
Nel contempo, “lo Stato promuove lo sviluppo dell’attività’ spaziale quale fattore promettente di crescita economica, favorendo, in particolare, la ricerca, la produzione e il commercio in orbita terrestre bassa.” (art. 24) ed assicura un accesso equo e non discriminatorio ai dati, ai servizi e alle risorse delle infrastrutture spaziali nazionali.
Il legislatore esprime un favor per soluzioni di partenariato pubblico-privato specialmente nella gestione dei servizi commerciali forniti dalle infrastrutture spaziali di osservazione della Terra.
Parallelamente, nella coeva proposta dell’EU Space Act, vi è attenzione al ruolo degli operatori economici. Le disposizioni regolano il tracciamento degli oggetti spaziali e la mitigazioni dei detriti spaziali (c.d. space debris), garantiscono il libero accesso allo spazio, introducono criteri di sicurezza, anche cibernetica, per la protezione delle infrastrutture spaziali europee a tutela degli investimenti nel settore.
Si presta attenzione alla sostenibilità ambientale, con la previsione di misure per la valutazione e riduzione dell’impatto ambientale delle attività condotte e la rimozione dei debris.
Le nuove norme europee dovrebbero essere applicabili a tutti gli operatori spaziali operanti nell’UE. Una volta entrato in vigore l’EU Space Act, vi sarà un’esigenze di coordinamento tra le disposizioni della Legge 89/25 e la normativa europea. A una prima osservazione, i principi ispiratori di entrambi i provvedimenti appaiono convergenti, in particolare per quanto riguarda l’attenzione alle problematiche ambientali e lo svolgimento delle attività spaziali in sicurezza, fermo restando il rispetto della ripartizione di competenze, statali e dell’Unione, nel settore.
Anche la Finlandia a Roma alla conferenza Internazionale sulla Ricostruzione dell’Ucraina
Il Primo Ministro finlandese Petteri Orpo rappresenta il suo Paese alla Quarta Conferenza sulla Ricostruzione dell’Ucraina, in programma a Roma giovedì 10 e venerdì 11 luglio. Durante la visita, il Primo Ministro Orpo incontrerà, tra gli altri, il Primo Ministro italiano Giorgia Meloni.
La conferenza ad alto livello riunirà ancora una volta leader e ministri dei paesi che sostengono l’Ucraina, nonché rappresentanti di organizzazioni internazionali, istituzioni finanziarie, comunità imprenditoriale, regioni e organizzazioni della società civile. L’obiettivo è rafforzare e coordinare il sostegno all’Ucraina per tutto il tempo necessario.
“La Finlandia è uno dei sostenitori più importanti dell’Ucraina, considerando le sue dimensioni. Dall’inizio della guerra di aggressione lanciata dalla Russia, abbiamo sostenuto l’Ucraina con oltre 3,8 miliardi di euro”, afferma il Primo Ministro Orpo, che aggiunge come Finlandia e Ucraina abbiano lanciato congiuntamente una coalizione internazionale di protezione civile per finanziare la protezione civile in Ucraina. Orpo invita tutti i Paesi a partecipare e diverse parti hanno già espresso il loro interesse. Alla vigilia di questo importante vertice, Orpo ha sottolineato che ” Finlandia e Ucraina collaborano da tempo in settori quali la difesa, l’istruzione, lo stato di diritto, l’energia e l’ambiente. La nostra cooperazione è anche un modo per sostenere il percorso dell’Ucraina verso l’UE”. La Finlandia incoraggia inoltre le aziende finlandesi a partecipare alla ricostruzione dell’Ucraina: sono oltre una decina le aziende o attori economici finlandesi partecipanti alla conferenza di Roma sulla ricostruzione.
Un anno di Starmer tra successi esteri e tensioni interne
Luca Cinciripini, ricercatore del Programma UE, Politiche e Istituzioni dello IAI, è intervenuto a Spazio transnazionale su Radio Radicale, condotto da Francesco De Leo.
Cinciripini ha commentato il primo anniversario del governo guidato da Keir Starmer, definendolo un anno complesso: nonostante alcuni successi in politica estera, sul fronte interno i risultati sono stati piuttosto deludenti, segnati anche da tensioni e ribellioni interne al partito laburista.
Cinciripini ha inoltre analizzato le posizioni del governo britannico sulla crisi in Medio Oriente, evidenziando il tentativo di prendere le distanze dalle azioni del governo Netanyahu e di criticare alcune scelte di Israele, pur mantenendo una posizione cauta. Sull’Ucraina, ha sottolineato l’adesione del Regno Unito al gruppo dei “volenterosi”, a sostegno di Kyiv.
Infine, Cinciripini ha commentato anche il ruolo di Nigel Farage nel panorama politico britannico, evidenziando il suo tentativo di influenzare il dibattito all’interno del campo conservatore.
Le tensioni globali tra i dazi di Trump, i BRICS e il Medio Oriente
Ettore Greco, vicepresidente vicario dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è stato ospite della trasmissione Spazio Transnazionale su Radio Radicale, condotta da Francesco De Leo.
Greco ha commentato l’annuncio dell’ex presidente Donald Trump riguardo l’introduzione di nuovi dazi, con tariffe comprese tra il 25% e il 40%, la cui entrata in vigore è prevista a partire dal 1° agosto.
Greco ha inoltre analizzato i recenti sviluppi nell’ambito del vertice dei Paesi BRICS, evidenziando la crescente unità di intenti emersa tra i membri nel contrastare le politiche commerciali promosse da Trump.
Infine, l’analisi si è concentrata sulla situazione in Medio Oriente e sul futuro della Striscia di Gaza, anche alla luce del recente incontro con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Luigi Di Maio: diplomazia e tensioni tra Iran, USA e Paesi del Golfo
Intervista realizzata da Radio Radicale in occasione dell’evento organizzato dallo IAI dal titolo “Europe and the gulf: roles in deescalating the Israel-Iran conflict”
Come giudica l’intervento degli Stati Uniti in Iran? Che conseguenze dobbiamo aspettarci nell’area medio orientale?
L’intervento degli Stati Uniti in Iran è stato il risultato della decisione di supportare Israele. Ovviamente anche il Presidente degli Stati Uniti sta chiedendo all’Iran di tornare al tavolo dei negoziati perché, come sappiamo, un intervento militare al massimo può rallentare il programma militare della bomba atomica iraniana. Ma, a mio avviso, l’unico modo per fermarlo potrebbe essere un accordo diplomatico con il quale si rimanderebbero a Teheran i funzionari dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica per poter controllare i livelli di arricchimento. L’Iran ha 400 kg di uranio arricchito al 60% e non c’è nessuna centrale nucleare civile al mondo che usi l’uranio al 60% di arricchimento.
Come hanno reagito i paesi del Golfo alla ritorsione iraniana all’attacco americano, mi riferisco al lancio di missili su basi USA in Qatar?
Beh, con grande preoccupazione. È la prima volta nella storia che dal suolo iraniano parte un attacco verso il suolo dei Paesi della penisola arabica, in particolare dei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo. E comunque, le loro preoccupazioni sono le nostre. Gli europei e i paesi del Golfo hanno le stesse preoccupazioni: radioattività, programma nucleare militare dell’Iran, chiusura delle vie di navigazione come lo Stretto di Hormuz o lo Stretto di Bab el-Mandeb. Quindi tutto quello che riguarda la loro sicurezza, riguarda anche la nostra sicurezza, ed è per questo che dobbiamo lavorare insieme per un nuovo accordo di non proliferazione nucleare con l’Iran.
Secondo lei un possibile cessate il fuoco a Gaza, di cui si parla in queste ore, avvicinerebbe la possibilità che gli accordi di Abramo siano firmati da altri paesi dell’area?
Diciamo che è una condizione necessaria, ma non sufficiente, cioè è una base di partenza. Poi ci saranno le interlocuzioni politiche che porteranno magari paesi arabi ad aderire agli Accordi di Abramo e quindi a normalizzare le loro relazioni con Israele, ma magari ci saranno anche altre richieste, oltre a quella del cessate il fuoco che va al di là di questo negoziato. Ritengo che possano esserci sicuramente buone possibilità dopo un cessate il fuoco a Gaza per estendere gli Accordi di Abramo. Non sono certe al 100%, ma queste possibilità ci sono.
Gli iraniani si dicono preoccupati per gli esiti dell’imminente incontro tra il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump e il premier israeliano Netanyahu a Washington. Temono la ripresa dei bombardamenti verso l’Iran. Quali saranno a suo avviso le scelte immediate delle autorità della Repubblica Islamica?
Mah…a questa domanda possono rispondere soltanto gli iraniani. Quello che posso dire è che leggendo anche le ultime dichiarazioni del Presidente Trump è chiaro che lui sta esercitando una moral suasion per arrivare ad un cessate il fuoco a Gaza. Se sarà possibile lo sarà solo grazie all’interlocuzione degli Stati Uniti con Israele e degli europei con Israele e, dall’altra parte, grazie alla mediazione del Qatar, dell’Egitto, che non dobbiamo dimenticare sono quelli che siedono al tavolo con gli Stati Uniti per raggiungere un accordo e il cessate il fuoco a Gaza. L’Iran, a mio parere, dovrebbe tornare al tavolo dei negoziati e cogliere l’occasione per raggiungere un buon accordo sul nucleare che eviti pienamente – perché questo è il nostro obiettivo – che l’Iran abbia la bomba nucleare.
Integrare l’Ucraina nell’Ue: riforme e ricostruzione
Il terremoto geopolitico generato dall’aggressione russa contro l’Ucraina è stato determinante per la storica decisione dell’Unione Europea di aprire le porte a Kyiv, insieme alla Moldavia e forse anche alla Georgia. Il ritorno della guerra sul continente europeo e la minaccia alla sicurezza europea proveniente da Mosca hanno contribuito a modificare l’approccio dell’Ue all’allargamento e hanno infuso nuovo dinamismo in questo ambito della politica estera europea. Infatti, nelle conclusioni del Consiglio Europeo del dicembre 2023, l’allargamento è stato definito come “un investimento geostrategico nella pace, nella sicurezza, nella stabilità e nella prosperità“.
Tuttavia, sebbene sia l’Ucraina che l’Ue siano determinate a garantire un processo di adesione di successo, il percorso dell’Ucraina verso l’Ue non sarà né semplice né rapido e richiederà un impegno politico costante da entrambe le parti. L’amministrazione ucraina deve dimostrare di essere in grado di attuare le riforme essenziali, in particolare per quanto riguarda le istituzioni democratiche efficaci e un solido Stato di diritto. L’Ue, da parte sua, deve essere in grado di supportare questo processo, attraverso interventi a livello politico, economico e di sicurezza.
Ostacoli all’avvio dei negoziati dei “fondamentali”A seguito della concessione dello status di candidato nel giugno 2022, il Consiglio europeo del dicembre 2023 ha dato il via libera all’avvio dei negoziati di adesione, iniziati nel giugno 2024. Da allora, i negoziati sono progrediti senza intoppi a livello tecnico. L’ultimo Consiglio europeo ha elogiato l’Ucraina per il ritmo delle sue riforme legate all’adesione e ha accolto con favore i significativi progressi compiuti. La Commissione europea ha valutato che il primo cluster di negoziati relativo ai cosiddetti “fondamentali”, e cioè valori condivisi, Stato di diritto, indipendenza della magistratura e diritti umani, è pronto per essere avviato. Tuttavia, l’apertura del cluster è stata bloccata dall’opposizione dell’Ungheria, che denuncia la discriminazione nei confronti delle minoranze nazionali di etnia ungherese in Ucraina, e di recente ha indetto un referendum sull’adesione dell’Ucraina all’Ue, secondo cui il 95% dei cittadini intervistati – circa il 29% dell’elettorato effettivo del paese – sarebbe contrario. Ciò ha bloccato il processo a livello politico, vanificando l’iniziale ottimismo dell’Ue e dell’Ucraina nell’aprire tre dei sei capitoli – relativi a fondamentali, mercato interno e relazioni esterne – entro il primo semestre del 2025, durante la presidenza polacca di turno del Consiglio dell’Ue.
In Ucraina le riforme sono a 360°Dal lato ucraino, sono in corso riforme in diversi ambiti per soddisfare i criteri dell’Ue e far progredire il processo di adesione. Nel settore dello Stato di diritto, gli sforzi si concentrano sul rafforzamento delle istituzioni giudiziarie, sull’ulteriore miglioramento del sistema giudiziario, sull’aumento dell’efficacia delle politiche anticorruzione, sul miglioramento della tutela dei diritti umani e sul rafforzamento della sicurezza e dell’applicazione della legge. Kyiv ha inoltre avviato un’ambiziosa riforma della pubblica amministrazione per un’ulteriore modernizzazione, digitalizzazione e una migliore accessibilità dei servizi pubblici. L’Ucraina si è inoltre adoperata per promuovere la transizione energetica al fine di allinearsi agli standard dell’Ue. Il Piano Nazionale per l’Energia e il Clima (NECP) dell’Ucraina mira a una completa decarbonizzazione entro il 2035. Kyiv ha inoltre finalizzato una Roadmap e dei Piani d’Azione per la ripresa e la trasformazione green dell’industria alimentare ucraina verso un modello più resiliente al clima, competitivo e allineato all’Ue. Ciononostante, il processo di riforma rimane irto di sfide, molte delle quali sono aggravate dalla guerra in corso.
L’Unione Europea può farcela da sola ad aiutare l’Ucraina, ma ci vuole una posizione unitariaGarantire il percorso dell’Ucraina verso l’Ue significa innanzitutto aiutare Kyiv ad affrontare le sue più urgenti esigenze di sicurezza. Con l’inizio della seconda presidenza Trump, l’Ue è sottoposta a pressioni crescenti affinché fornisca un supporto adeguato alla resistenza dell’Ucraina all’invasione russa, in particolare attraverso sanzioni e fornendo equipaggiamento militare. Se l’Ue vuole rimanere un partner credibile per l’Ucraina – nonostante il disimpegno dichiarato degli Stati Uniti – deve mantenere una posizione unitaria. Questa unità è stata finora preservata, nonostante i tentativi di comprometterla provenienti principalmente da Budapest. Infatti, nelle ultime riunioni del Consiglio europeo, le conclusioni sull’Ucraina hanno dovuto essere adottate a 26. E anche se le sanzioni settoriali dell’UE contro la Russia sono state prorogate di altri sei mesi, Ungheria e Slovacchia hanno bloccato l’adozione del 18° pacchetto di misure restrittive, citando il rischio per la loro sicurezza energetica nazionale.
Inoltre, l’Ue deve mobilitare la capacità finanziaria aggiuntiva e collettiva per dotare Kyiv delle armi necessarie a contrastare l’offensiva russa in corso. Da marzo, i contributi europei (guidati dai Paesi nordici e dal Regno Unito) sono riusciti a compensare i mancati aiuti dagli Stati Uniti, ma permangono incertezze sul futuro. Tra le esigenze urgenti figurano, in particolare, la fornitura di sistemi di difesa aerea e anti-drone e di munizioni di grosso calibro.
A medio termine, la sfida più grande per l’Europa sarà quella di garantire la ricostruzione del Paese devastato dalla guerra. Si è calcolato che l’Ucraina avrà bisogno di 486 miliardi di dollari nel prossimo decennio per rimettersi in piedi. E la maggior parte dell’onere dovrebbe essere sostenuto dall’Ue. L’Ue è attualmente il principale donatore dell’Ucraina e si è impegnata a fornire all’Ucraina un sostegno finanziario regolare e prevedibile. Ma questo impegno richiede una mobilitazione di fondi ben oltre la capacità dei governi europei. Un modo per farlo è coinvolgere un’ampia gamma di parti interessate, tra cui organizzazioni internazionali e istituzioni finanziarie, soggetti imprenditoriali e della società civile, e fare affidamento su partenariati pubblico-privati. Questo è l’approccio alla base della Conferenza per la ripresa dell’Ucraina che si terrà a Roma il 10 e 11 luglio 2025.
Il futuro europeo dell’Ucraina è un elemento essenziale per la sicurezza europea. Per realizzarlo, saranno necessari un impegno costante, risorse adeguate e una visione a lungo termine.
Majed al-Ansari: l’attacco iraniano alla base americana in Qatar
Majed al-Ansari, Consigliere del Primo Ministro del Qatar e Portavoce ufficiale del Ministero degli Affari Esteri, è intervenuto a un evento organizzato dallo IAI dal titolo “Europe and the Gulf: Roles in De-Escalating the Israel-Iran Conflict”, in dialogo con Maria Luisa Fantappiè.
Può raccontarci cosa è successo esattamente il giorno dell’attacco iraniano alla base americana in Qatar?
Il Qatar è un piccolo paese con una popolazione di meno di 3 milioni di persone, che non ha mai subito alcun attacco militare grave in tutta la sua storia, né nell’Ottocento, né dagli anni ‘70, quando ottenne l’indipendenza. Quella mattina, abbiamo ricevuto un’allerta di massimo livello per un attacco imminente contro il Qatar. La nostra macchina diplomatica ha iniziato a funzionare immediatamente, e tanto la risposta militare quanto quella politica miravano a garantire che l’attacco non avvenisse. Verso le 7:30, abbiamo ricevuto una comunicazione da parte del settore militare secondo cui il IRGC (Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche) aveva lanciato una prima raffica di sette missili verso la base aerea di Al Udeid Air: tutti erano stati abbattuti in mare; poi una seconda raffica di tredici altri missili, che erano stati tutti abbattuti tranne uno. In quel momento, ero seduto accanto al primo ministro dell’epoca. Alla mia sinistra, c’era il primo ministro. Alla mia destra, c’era il ministro di Stato, il dottor Mohammed AlKhulaifi. Era il nostro capo negoziatore con l’Iran. Ed è in quel momento che abbiamo saputo che il Presidente Trump voleva chiamare Sua Altezza. E la chiamata era fondamentalmente per informare Sua Altezza che ora era possibile grazie al loro coinvolgimento. L’escalation regionale significherebbe una minaccia diretta ai nostri interessi nazionali. E come conseguenza dell’escalation che ha avuto luogo la settimana scorsa, prima dal 23 giugno, il campo di Pars in Iran è stato attaccato, che è l’estremità settentrionale del nostro campo di gas al Nord, che rappresentava una delle più grandi minacce alla nostra sicurezza nazionale. Si trovava a 200 chilometri dalle nostre strutture offshore che ospitano circa 10.000 persone di 80 nazionalità diverse. E ovviamente qualsiasi ulteriore attacco a quel campo avrebbe significato evacuare e fermare la produzione di GNL (Gas Naturale Liquefatto), che sarebbe stato un grosso problema per la nostra economia, ma anche per la nostra reputazione nei mercati dell’energia a livello internazionale. C’è molta speculazione sul fatto che si trattasse di un attacco coordinato. Non lo era. È stato un attacco che abbiamo cercato di evitare, che abbiamo sempre temuto come scenario e contro cui abbiamo sempre elaborato strategie. È stato un attacco di cui non eravamo certi fino a quando non abbiamo avuto il primo avvertimento. In quel momento ero con il primo ministro nella sua casa: è allora che l’attacco è iniziato. Inoltre, non è stato un attacco innocuo. Vorrei chiarire questo punto. Le difese aeree che sono state schierate – circa tre batterie Patriot dislocate in due diverse località, più di 200 missili. Stiamo parlando di un costo enorme dal punto di militare ed economico, perché il nostro spazio aereo è stato chiuso per più di sei ore e la nostra compagnia aerea nazionale ha dovuto deviare i voli. Naturalmente, oltre al danno reputazionale in termini di sicurezza e protezione. Non si è trattato di un attacco innocuo contro il Qatar. Ma ancora una volta abbiamo scelto la pace, perché questo è ciò che tutti noi abbiamo imparato e questo è quello che faremo in futuro. Come siamo arrivati a questo accordo? Gran parte dell’accordo ha avuto a che fare con le manovre intorno a due diversi aspetti della discussione: un aspetto tecnico che riguardava ciò su cui entrambe le parti si sarebbero trovare d’accordo: qual è il linguaggio dell’accordo? Quali sarebbero i parametri del cessate il fuoco? Cosa significherebbe per i militari di entrambe le parti, chi avrebbe sferrato l’ultimo colpo, tutto questo tipo di informazioni tecniche. L’altra questione, che direi è importante quanto la prima, è l’ottica intorno al cessate il fuoco. Non potrò mai sottolineare abbastanza quanto importante sia stato l’elemento dell’orgoglio nazionale per entrambe le parti quando si è trattato di raggiungere un cessate il fuoco tra Iran e Israele. Come la narrazione politica dovesse essere controllata, da entrambe le parti, per assicurarsi che non ci fossero posizioni politiche che avrebbero portato al crollo del cessate il fuoco, e facendo entrambe le cose insieme, attraverso le nostre discussioni con entrambe le parti, in collegamento con gli americani, è ciò che ci ha portato al cessate il fuoco. E noi crediamo che il cessate il fuoco reggerà, finché lo slancio creato dal cessate il fuoco porterà ad altri punti positivi. Abbiamo udito le dichiarazioni positive degli Stati Uniti riguardo ai colloqui con l’Iran e quelle da parte dell’Iran sui colloqui con gli Stati Uniti, e avviare immediatamente quel processo, e assicurarsi che ci siano dei colloqui su questioni più ampie è l’unica salvaguardia contro un’altra escalation. Quando si tratta dei parametri per la de-escalation nella regione nel suo complesso, credo che sia molto importante ricordare sempre che il nucleo dell’escalation nella regione è ciò che sta accadendo a Gaza. La situazione a Gaza non sta solo causando un’escalation tra i palestinesi… L’Iran e gli israeliani, coinvolgendo gli americani in questa escalation, destabilizzando il Libano, la Siria, l’Iraq e lo Yemen, stanno anche provocando un’ondata di radicalizzazione e di sentimenti negativi verso l’Occidente che non dovremmo prendere alla leggera. Non si tratta di una conseguenza che dovrebbe essere controllata da due narrative politiche. Questo è in grande parte il risultato di questa escalation che va avanti ormai da più di due anni e che porterà a problemi per tutti noi, collettivamente nella regione, a meno che non siamo in grado di affrontarla. Per quanto riguarda ciò che possiamo fare insieme. Innanzitutto, permettetemi di dire molto rapidamente riguardo alle varie politiche, e cioè che noi crediamo che l’escalation che ha avuto luogo tra Israele e Iran abbia molto a che fare con la minaccia percepita piuttosto che con la minaccia reale. E quindi abbiamo bisogno di controllare la percezione più che […] la realtà sul campo. Quindi il ruolo degli Stati Uniti è molto importante, perché anche lì c’è una narrazione politica. C’è una questione di posizionamento politico. Non lo sottolineerò più di tanto, finché siamo in registrazione, ma penso che tutti capiscano di cosa sto parlando. Quindi gestire le percezioni, le narrazioni politiche e l’ottica è molto importante per entrambe le parti. Ora, cosa possiamo fare collettivamente? Ho avuto questa discussione non molto tempo fa, prima dell’escalation, a Bruxelles. Penso sia molto importante rendersi conto del nostro ruolo nel mondo di oggi. Stiamo assistendo a un’enorme polarizzazione in atto che, si ripropone ogni giorno. Stiamo assistendo a un’escalation nel Mar Cinese Meridionale, in Medio Oriente e in America Latina. Non si può mettere il dito su un qualsiasi punto della mappa senza vedere un’escalation potenziale che potrebbe verificarsi come risultato della polarizzazione in atto. Il nostro ruolo come medie potenze è quello di fare da cuscinetto tra le grandi potenze, tra i rivali e gli avversari, e la comunità internazionale, e contenere tutte queste forme di escalation che si stanno verificando in tutto il mondo. Uno dei punti salienti è stato il fatto che l’Oman e l’Italia sono stati i mediatori. Erano le forze convocatrici per l’Iran e gli Stati Uniti. E ciò ha dimostrato molto chiaramente che tra l’Europa nel suo complesso e il CCG nel suo insieme, tutti i paesi europei e i paesi del CCG, possiamo fare molto insieme, e so che stiamo facendo molto in Africa e in Medio Oriente, ma dobbiamo fare molto insieme, e deve essere integrato in un processo all’interno delle nostre istituzioni.
Quindi si può dire che questo è un punto di svolta per le relazioni tra Qatar e Iran che, come sappiamo, sono due paesi con relazioni consolidate da tantissimo tempo?
Prima di tutto vorrei dire molto chiaramente che abbiamo sempre mantenuto con l’Iran un rapporto compartimentato in modo da garantirne l’operatività. Abbiamo sempre avuto un buon rapporto di lavoro con gli iraniani; il Qatar non è il principale partner commerciale dell’Iran e del Consiglio, ma è sempre stato in grado di mantenere i contatti con gli iraniani. Ovviamente questo non è un momento facile, abbiamo 19 missili che rischiano di entrare nel nostro spazio aereo e che, se non fosse stato per grazia di Dio e per l’abilità e la competenza delle nostre forze armate, avrebbero potuto colpire sicuramente i nostri obiettivi e uno qualsiasi di questi razzi avrebbe potuto deviare e colpire i civili o causare i danni più gravi. Per fortuna questo non è successo, ma non è successo certo per caso, è successo grazie alla competenza delle nostre forze aeree come ho detto precedentemente.
Cosa significa questo per le relazioni con l’Iran? Prima di tutto abbiamo chiarito molto bene agli iraniani come la pensiamo su questo attacco. Abbiamo espresso una condanna immediata. Quella sera io stesso ero in conferenza stampa e ho lanciato un messaggio molto forte. Sua altezza ha anche ricevuto una telefonata dal Presidente iraniano, al quale ha chiarito che non si tratta di qualcosa che prendiamo alla leggera e che non sarà di certo qualcosa che lascerà il rapporto allo stesso punto in cui era prima. In più, il Primo Ministro ha detto in una conferenza stampa quel giorno che ora c’è una ferita nel rapporto che dobbiamo affrontare. Detto questo noi continuiamo a sostenere la pace, continuiamo a sostenere il dialogo nella regione. Questo è il motivo per cui ci siamo immediatamente attivati pochi minuti dopo la fine dell’attacco, per fungere appunto da mediatori con l’Iran. Continueremo a farlo e ci impegneremo a farlo, quindi questo sicuramente non cambierà.
L’Europa deve cavarsela senza gli Stati Uniti, ma non sa come farlo
La rottura transatlantica in atto ha lasciato i leader europei in grave difficoltà nel capire come costruire una reale autonomia europea. Le guerre in Medio Oriente ne sono la testimonianza più concreta.
I governi dell’Ue stavano finalmente prendendo le distanze dopo un anno e mezzo di complicità con i crimini di guerra del governo israeliano a Gaza. Gli osceni piani di Donald Trump per una “riviera” a Gaza e le presunte iniziative “umanitarie” – anch’esse in violazione dei principi umanitari – avevano spinto i governi europei a definire un proprio approccio. Francia e Arabia Saudita avevano programmato una conferenza sulla soluzione dei due Stati, che avrebbe potuto portare al riconoscimento da parte di Parigi dello Stato palestinese. L’Ue aveva inoltre accettato una revisione dell’accordo di associazione UE-Israele che, alla luce dei crimini di guerra di Israele, avrebbe potuto portare alla sospensione del commercio preferenziale dell’UE con Tel Aviv.
La correlazione tra autonomia europea e l’IranGli attacchi militari di Israele e degli Usa all’Iran hanno sconvolto questo timido sussulto di autonomia europea. Nelle capitali dell’Ue non c’è certo amore per il regime iraniano a causa delle sue violazioni dei diritti umani e della cooperazione militare con la Russia. Inoltre, l’Europa rimane giustamente irremovibile sul fatto che l‘Iran non debba avere armi nucleari ed è tradizionalmente convinta della necessità di risolvere la questione mediante la diplomazia. Per questo motivo, all’inizio degli anni 2000, i negoziatori europei crearono il formato E3/UE che includeva Francia, Germania e Regno Unito insieme all’Alto rappresentante dell’UE per mediare sul dossier nucleare iraniano.
Oggi quel mondo non esiste più. Quando Trump ha avviato un negoziato diretto con l’Iran, l’Europa è stata messa da parte. Con l’assalto militare all’Iran, l’Europa non si è schierata a favore del diritto internazionale, evitando di denunciare i bombardamenti israeliani e statunitensi come violazione della Carta delle Nazioni Unite e del protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra, che vieta gli attacchi contro le strutture nucleari di uno Stato. Sostenere il diritto di Israele (o di qualsiasi altro Stato) all’autodifesa è cosa ben diversa dal legittimare attacchi preventivi.
La politica estera di rottura dagli USA e le conseguenzeQuesta impotenza cronica deriva dal fatto che l’Europa ha tradizionalmente visto il mondo attraverso una lente transatlantica. Per decenni ha lavorato fianco a fianco con Washington, utilizzando gli aiuti, il commercio, la diplomazia, le sanzioni, la difesa e l’allargamento Ue per sostenere gli obiettivi di politica estera degli Stati Uniti, nella convinzione che i valori e gli interessi di fondo fossero condivisi. Solo in rare occasioni i Paesi europei si sono apertamente opposti agli Stati Uniti. Anche in caso di divergenze, l’Europa ha generalmente cercato di influenzare la politica estera americana smussandone le asprezze piuttosto che contrastandola frontalmente. La mediazione sul nucleare iraniano, ad esempio, ha portato al Joint Comprehensive Plan of Action del 2015.
La politica estera di rottura di Trump ha creato un mondo in cui gli europei devono cavarsela da soli. Sull’Ucraina, l’Europa sta imparando la lezione, mantenendo l’assistenza finanziaria e militare a Kyiv e preparandosi a colmare i vuoti lasciati dal disimpegno americano. Ma su qualsiasi altro dossier, l’Europa arranca. Genuflettendosi a Washington sull’ultima guerra in Medio Oriente, l’Europa non si è guadagnata il favore di Trump. Ha inoltre perso ogni credibilità come mediatore con l’Iran. Il rischio è che l’Europa rinunci a sviluppare anche un approccio minimamente più etico nei confronti dei crimini di guerra di Israele a Gaza.
La guerra, il caos e la proliferazione nucleare in Medio Oriente danneggeranno più l’Europa degli Stati Uniti. Finora, la genuflessione europea nei confronti di Trump ci ha reso i peggior nemici di noi stessi.
L’assedio dell’anima: la cultura ucraina in tempo di guerra
L’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia non è solo un’aggressione militare, ma anche un assalto calcolato all’identità e al patrimonio culturale della nazione. Al di là delle ambizioni territoriali, rivela una deliberata strategia di soppressione culturale attuata attraverso attacchi diretti ai siti culturali e la persecuzione degli artisti, la russificazione forzata dei territori ucraini occupati e sofisticate campagne di disinformazione volte a riscrivere la storia per negare una distinta identità ucraina. La Russia strumentalizza la cultura e la storia, inventando rivendicazioni per giustificare l’invasione ed erodere il sostegno internazionale all’Ucraina. Ciò ha avuto un forte impatto sul settore culturale ucraino, come riconosce implicitamente il quarto rapporto RDNA4 (Rapid Damage and Needs Assessment) – un’analisi completa condotta dalla Banca Mondiale, dalla Commissione Europea, dalle Nazioni Unite e dal governo ucraino – sottolineando la necessità di un’informazione accurata e di una promozione culturale. Il rapporto descrive in dettaglio l’impatto devastante dell’assalto: il costo totale dei danni al patrimonio culturale, alle collezioni museali e alle strutture dell’industria culturale e creativa è stimato in 4,1 miliardi di dollari USA, mentre l’impatto economico complessivo dell’invasione sul settore della cultura e del turismo raggiunge i 29,3 miliardi di dollari USA. Come osserva lo storico Serhii Plokhy, tale distruzione è spesso un tentativo deliberato di cancellare la storia e l’identità, una forma di genocidio culturale. Ciò sottolinea un punto chiave: di fronte all’aggressione russa, la cultura non è un lusso ma una pietra miliare per l’Ucraina. La cultura lega la nazione attraverso la condivisione di storia, lingua, arte e memoria. Alimenta la resilienza, promuove il senso di appartenenza e rafforza la coesione. In particolare, fornisce le basi per la ricostruzione di una società radicata nelle sue tradizioni. Tuttavia, la cultura è spesso trascurata nelle discussioni internazionali sulla ripresa post-bellica dell’Ucraina – un difetto che potrebbe compromettere notevolmente i risultati a lungo termine. L’ultima Conferenza sulla ripresa dell’Ucraina 2024, tenutasi a Berlino, ha presentato un panel dedicato al patrimonio culturale, ma non ha delineato un’agenda per la ripresa del settore culturale in generale. L’Appello di Vilnius del 2024 per la ripresa del settore culturale dell’Ucraina e la dichiarazione adottata alla prima conferenza internazionale nell’ambito del “Ramstein culturale” a Uzhhorod (febbraio 2025), pur riaffermando l’impegno dell’Ue per la ripresa della cultura ucraina, non hanno ancora trovato attuazione concreta. Integrare la conservazione della cultura nell’agenda di ripresa dell’Ucraina non è semplicemente una questione di giustizia, ma di garantire stabilità a lungo termine, prosperità e un futuro democratico per l’intero progetto europeo, costruito sul fondamentale riconoscimento del valore della cultura.
Una corsa contro la distruzioneL’invasione ha posto i musei e le istituzioni culturali ucraine di fronte alla sfida senza precedenti di salvaguardare i loro patrimoni, il personale e le collezioni dal pericolo fisico, dalla distruzione e dal saccheggio, costringendoli a una corsa contro il tempo. Questa immensa sfida è ora stimata nel rapporto RDNA4 in 10,5 miliardi di dollari USA necessari nel medio termine per il restauro e la ricostruzione dei siti danneggiati, la conservazione del patrimonio culturale e la promozione delle attività culturali. La risposta dell’Ucraina è stata multiforme, spaziando da evacuazioni su larga scala a interventi di conservazione localizzate. Il Museo Nazionale delle Arti Bohdan e Varvara Khanenko di Kyiv, che custodisce la più grande collezione di arte europea, asiatica e antica dell’Ucraina, è un esempio dell’impegno istituzionale e delle complessità logistiche legate alla protezione di grandi collezioni. Di fronte all’imminente minaccia di un bombardamento, il personale del museo ha rimosso la collezione dall’esposizione pubblica e l’ha trasferita in spazi più sicuri, organizzando oltre dieci mostre a livello internazionale, garantendo la sicurezza degli oggetti e contribuendo alla promozione culturale dell’Ucraina all’estero. Non potendo utilizzare le due opere d’arte principali in patria, il museo si è ripensato come uno spazio per interventi d’arte contemporanea, mostre temporanee, coinvolgimento della comunità, dibattiti professionali ed esperienze curate per i visitatori. Il “vuoto” del museo è diventato una dichiarazione artistica e curatoriale a sé stante e una potente metafora visiva dell’impatto della guerra sulla vita culturale dell’Ucraina. Come osserva Yuliya Vaganova, direttrice del Museo Khanenko, in una recente intervista, questo processo ha richiesto anche un ripensamento fondamentale della strategia museale, passando da un’attenzione esclusiva alla conservazione a una priorità per il coinvolgimento della comunità e per l’accessibilità delle collezioni anche in tempo di guerra. Nel suo famigerato articolo “Sull’unità storica di russi e ucraini”, spesso considerato un manifesto ideologico e una premessa per l’invasione su larga scala del 2022, Vladimir Putin nega esplicitamente l’esistenza di una nazione ucraina sovrana e indipendente, basando le sue conclusioni su affermazioni completamente false e antistoriche. Pertanto, la strategia russa si estende oltre la semplice distruzione di oggetti fisici, fino alla soppressione attiva dell’espressione culturale e dell’identità. Uno dei primi obiettivi delle truppe russe in Ucraina sono state le biblioteche: l’incendio e l’eliminazione dei libri sono stati comuni nelle città e nei villaggi ucraini che hanno subito l’occupazione russa. Altre forme di soppressione culturale nei territori occupati includono il saccheggio delle collezioni museali, la creazione di musei di propaganda e la strumentalizzazione dell’istruzione per indottrinare i giovani. Inoltre, la guerra rappresenta una chiara minaccia per il patrimonio culturale immateriale, in particolare per le comunità che stanno già affrontando la persecuzione, come i tatari di Crimea, una delle popolazioni indigene dell’Ucraina. La tradizione della narrazione dei tatari di Crimea, in particolare la rappresentazione di epopee destane, è un esempio di questa sfida. Queste epopee, interpretate da abili narratori (yırçı), incarnano la storia, i valori e l’identità culturale dei tatari di Crimea. L’annessione illegale della Crimea nel 2014 ha portato a un aumento delle persecuzioni e della censura da parte della Russia, sopprimendo ulteriormente la lingua e la cultura dei tatari di Crimea. Con il pretesto del “restauro”, la Russia avrebbe causato danni irreversibili alla struttura e all’autenticità del Palazzo del Khan di Bakhchysarai, risalente al XVI secolo, ex residenza principale dei monarchi del Khanato di Crimea e importante monumento culturale per i tatari di Crimea e per l’Ucraina. L’invasione su larga scala ha ulteriormente sconvolto questa tradizione, sfollando le comunità e rendendo impossibili le esibizioni pubbliche. Nonostante queste sfide, i centri e le organizzazioni culturali dei tatari di Crimea hanno lavorato attivamente per documentare e rivitalizzare queste tradizioni narrative. Stanno organizzando spettacoli e laboratori online attraverso piattaforme come YouTube e Zoom, mettendo in contatto i bambini tatari di Crimea sfollati con il loro patrimonio e formando una nuova generazione di yırçı. Adattando queste tradizioni alla sfera digitale, garantiscono che queste storie di resilienza e identità culturale continuino a essere tramandate.
Ricostruzione dal bassoLa ripresa post-bellica dell’Ucraina è un’occasione per rimediare il più possibile a questi danni. Deve andare oltre le infrastrutture per rivitalizzare la cultura, richiedendo maggiori finanziamenti alle istituzioni culturali, sostegno alle iniziative di base e promozione internazionale. Mentre gli attori internazionali, in particolare l’Ue attraverso Europa Creativa, gli Stati membri dell’Ue, le fondazioni e i donatori privati, nonché le organizzazioni umanitarie come l’USAID fino alla sua chiusura all’inizio del 2025, hanno lanciato programmi che forniscono assistenza finanziaria, scambi culturali e protezione del patrimonio culturale, i finanziamenti erogati sono inferiori alle esigenze identificate. Questo divario ha alimentato la nascita e la proliferazione di iniziative di base. Queste iniziative rappresentano una forma cruciale di resistenza culturale all’interno della società civile, contrastando direttamente gli sforzi della Russia di controllare la narrazione. Il Museum for Change documenta e archivia storie di sfollamento, perdita e resilienza, catturando il modo in cui la guerra rimodella la società. Concentrandosi sulle esperienze individuali, il progetto non solo preserva la memoria culturale, ma offre anche direttamente alle comunità la possibilità di plasmare le proprie narrazioni di resilienza. I centri culturali gestiti da volontari si sono moltiplicati nei territori liberati e in prima linea come luoghi cruciali per la guarigione della comunità e la rinascita culturale. Non si tratta di semplici spazi ricreativi, ma di strumenti per contrastare direttamente i tentativi russi di russificazione culturale nelle aree occupate, offrendo corsi di lingua ucraina, proiezioni di film ucraini e laboratori di arti e mestieri tradizionali ucraini. Riconoscendo la grave precarietà in cui versano gli artisti e le istituzioni culturali, sono nate iniziative come l’Ukrainian Emergency Art Fund (UEAF) e il Museum Crisis Center, fondato da Olha Honchar, per fornire un sostegno fondamentale. L’UEAF offre sovvenzioni e risorse agli artisti sfollati o il cui lavoro è stato interrotto, consentendo loro di continuare a creare e condividere la propria arte, assicurando così che le voci artistiche ucraine non vengano messe a tacere. Anche la Fondazione ALIPH (International Alliance for the Protection of Heritage in Conflict Areas), una fondazione internazionale con sede a Ginevra, è diventata un importante sostenitore del patrimonio culturale ucraino durante la guerra.
Amplificare le voci, contrastare le narrazioniLe comunicazioni strategiche dell’Ucraina in tempo di guerra cercano di proiettare un’impressione distinta e convincente del Paese, che evochi affinità e fiducia tra le società straniere. Questo complesso compito non può essere pienamente raggiunto senza una diplomazia culturale multiforme allineata agli obiettivi politici. A questo scopo, artisti, intellettuali e organizzazioni ucraine si sono rivolti strategicamente a diversi pubblici in tutto il mondo. Nel suo film The Earth Is Blue as an Orange, premiato al Sundance, la regista e scrittrice Iryna Tsilyk esplora il potere dell’arte in mezzo al conflitto e sottolinea l’umanità che raramente viene mostrata nei notiziari tradizionali. Attingendo a questi temi, gli artisti ucraini stanno attivamente contrastando la strategia di disumanizzazione della Russia attraverso la trasmissione di esperienze intime e personali della guerra. Questo approccio, che sfrutta il potere del cinema per entrare in contatto con un pubblico più ampio a livello emotivo, è un’altra forma di resistenza culturale. Allo stesso modo, lo straziante documentario 20 Days in Mariupol di Mstyslav Chernov, vincitore del premio Oscar, fornisce un resoconto viscerale e senza compromessi dell’assedio, documentando l’inconcepibile tragedia della città morente. A complemento di questa risonanza emotiva, figure come il filosofo Volodymyr Yermolenko e la critica letteraria Tetyana Ogarkova si sono impegnate nella diplomazia pubblica intellettuale, rivolgendosi a un pubblico interessato alle basi filosofiche, storiche e culturali della guerra. Come caporedattore di UkraineWorld, una piattaforma online multilingue che fornisce analisi e traduzioni relative all’Ucraina, Yermolenko esplora prospettive socio-politiche più ampie della guerra, inquadrandola come un profondo scontro tra libertà/democrazia e autoritarismo/colonialismo. Ogarkova facilita la comunicazione tra gli esperti ucraini e i media internazionali e produce podcast sulla cultura e la storia ucraina per il pubblico di Europa, America Latina e Africa. Parallelamente, organizzazioni come PEN Ucraina e il Centro per le Libertà Civili, vincitore del Premio Nobel per la Pace, lavorano per difendere i diritti umani, documentare i crimini di guerra e denunciare l’impatto devastante della guerra sulla cultura ucraina. Questo approccio incentrato sui diritti umani serve a rendere la Russia responsabile delle sue azioni e a mobilitare il sostegno internazionale per la protezione delle persone e del patrimonio culturale. Le attività di PEN Ucraina comprendono la documentazione dei crimini di guerra contro la cultura, il sostegno agli scrittori ucraini colpiti dal conflitto e l’amplificazione delle voci ucraine sulla scena internazionale. Agli sforzi della diplomazia culturale si uniscono anche scrittori e poeti ucraini di spicco, la cui missione va ben oltre la scrittura. Sfruttando la loro vasta base di lettori e le loro connessioni industriali, autori come Serhiy Zhadan (i cui romanzi esplorano i temi della guerra e dell’identità nell’Ucraina orientale) e Oksana Zabuzhko (autrice di Fieldwork in Ukrainian Sex, un’opera fondamentale della letteratura ucraina degli anni Novanta) rappresentano e parlano a nome dell’Ucraina alle fiere del libro, ai festival letterari e ai forum politici internazionali.
Oltre la resilienza: una responsabilità condivisaQuesta notevole azione collettiva testimonia la forza e la resilienza della cultura ucraina. Le sue risorse, tuttavia, non sono affatto infinite e si stanno già assottigliando. Il destino dell’Ucraina non poggia solo sulle spalle del popolo ucraino, ma anche sull’impegno della comunità internazionale. Mentre gli investimenti e l’assistenza finanziaria per le infrastrutture sono fondamentali, la ripresa dell’Ucraina deve anche prevedere una rivitalizzazione consapevole e strategica del suo settore culturale. Questo non dovrebbe limitarsi alla ricostruzione del patrimonio culturale, ma sviluppare un’agenda molto più ampia che includa lo sviluppo e la diffusione di una nuova politica culturale, la riforma dell’educazione artistica, il rafforzamento delle capacità e lo sviluppo delle competenze dei responsabili culturali e degli artisti, l’assistenza alla salute mentale, una remunerazione competitiva per le persone impiegate nella cultura e nelle industrie creative, una maggiore cooperazione culturale interregionale e internazionale, la progettazione di nuove infrastrutture culturali nelle regioni colpite dalla guerra che rispondano alle esigenze della comunità, la reintegrazione degli sfollati, l’aumento della produzione di contenuti culturali di qualità, e molto altro. È quindi essenziale un maggiore sostegno internazionale che dia potere alla società civile, protegga l›espressione artistica, contrasti la disinformazione e rafforzi le istituzioni. Tale sostegno può essere fornito attraverso i programmi di assistenza finanziaria esistenti, come lo Strumento per l›Ucraina da 50 miliardi di euro finanziato dall›Ue (purtroppo, attualmente privo di un pilastro culturale consapevole) o l’ipotizzato Piano Marshall moderno per l’Ucraina guidato dagli Stati Uniti. Gran parte di questo sostegno può essere indirizzato verso le istituzioni culturali di riferimento dell’Ucraina e le agenzie esecutive, come la Fondazione culturale ucraina e l’Istituto ucraino, che sono ben attrezzate per rispondere a specifiche esigenze di recupero, amministrando e distribuendo il sostegno a livello locale e internazionale. Altri partner chiave per i donatori internazionali sono le organizzazioni della società civile ucraina e le fondazioni private con una solida esperienza nel campo della cultura, della visione condivisa e della capacità istituzionale. Investire nella ricostruzione e nella ripresa post-bellica dell’Ucraina non è un semplice atto di carità, ma un investimento strategico per contrastare l’aggressione russa su più fronti, sostenere i valori democratici e garantire all’Ucraina un futuro sicuro, prospero e culturalmente ricco per tutta l’Europa.