Da consumatori a produttori di sicurezza: i Balcani occidentali e l’Europa della difesa
In un panorama di sicurezza in rapida evoluzione, l’autonomia strategica dell’Unione Europea dovrebbe comprendere anche l’integrazione di partner regionali capaci. I Balcani occidentali, considerati negli ultimi anni da molti periferici in termini geopolitici, stanno emergendo come proattivi produttori di sicurezza piuttosto che come passivi consumatori della stessa. Questa trasformazione è particolarmente evidente nella crescente spesa militare, nel rafforzamento delle industrie della difesa locali che si rivelano economicamente vantaggiose, e nella maggiore ambizione di assumersi più responsabilità per la sicurezza del proprio angolo del continente. Oltre al loro contributo operativo alle missioni dell’UE, questi Paesi rappresentano un’opportunità strategica per l’UE per rafforzare la propria prontezza militare, anche in termini di strutture per l’addestramento, e la resilienza industriale.
Spese nella difesa crescenti e procurement anche europeoI Balcani occidentali hanno notevolmente aumentato la propria spesa nella difesa: la media della regione supererà il 2% del PIL nel 2025, con alcuni Paesi come Serbia, Macedonia del Nord e Albania che si avvicinano o hanno già raggiunto la soglia del 2,5%. In particolare, oltre il 20% dei bilanci della difesa è destinato al procurement di equipaggiamenti, rispettando un parametro di riferimento chiave della NATO per una capacità militare credibile. La Macedonia del Nord e il Montenegro, ad esempio, hanno effettuato acquisizioni significativi dagli stati membri dell’UE, quali elicotteri italiani e francesi e veicoli blindati tedeschi. Anche la Serbia, nonostante i suoi complessi allineamenti geopolitici, si è rivolta a fornitori europei per sistemi radar, velivoli e sistemi di difesa aerea. Questo crescente approvvigionamento da fornitori UE sostiene direttamente la base tecnologica e industriale di difesa europea, migliorando al contempo l’interoperabilità.
Mezzo milione di proiettili di artiglieria da una sola azienda bosniacaDa notare come a loro volta i Balcani occidentali abbiano industrie della difesa efficienti e con significativo potenziale. Con oltre 200 aziende, principalmente in Serbia e Bosnia-Erzegovina, la regione produce artiglieria, armi leggere e munizioni, spesso a prezzi più competitivi rispetto alle controparti occidentali. La sola Serbia ha visto 1,2 miliardi di euro di esportazioni militari nel 2021. Con l’inizio della guerra in Ucraina, la regione è riuscita a espandere ulteriormente produzione ed esportazioni: una sola azienda in Bosnia-Erzegovina può produrre fino a 500.000 proiettili di artiglieria all’anno, un quarto dell’obiettivo che l’intera UE cerca di raggiungere. Queste industrie, compatibili con gli standard NATO, sono ben posizionate per soddisfare le urgenti esigenze europee di procurement, in particolare a sostegno dell’Ucraina. Con investimenti minimi, l’UE potrebbe ampliare significativamente questa capacità produttiva nei Balcani occidentali, assicurando una catena di approvvigionamento resiliente, vicina ed economicamente vantaggiosa.
Il rapporto costo-efficacia non è solo una questione economica, è una risorsa strategica. Le difficoltà dell’UE nel rispettare gli impegni in materia di fornitura di munizioni nei confronti dell’Ucraina illustrano i limiti della sua attuale capacità industriale quando si tratta di produzioni di massa di determinati mezzi. L’integrazione dei fornitori dei Balcani occidentali nelle catene di approvvigionamento dell’UE allevierebbe questi vincoli. Inoltre, la vicinanza alla linea del fronte in Ucraina e al fianco orientale della NATO, in particolare rispetto ai fornitori extraeuropei, riduce i problemi logistici e accorcia i tempi di consegna. Con investimenti adeguati e un allineamento normativo, la regione potrebbe anche fare un balzo in avanti verso tecnologie di nuova generazione come droni e sistemi anti-drone, un campo in cui alcuni Paesi, come il Kosovo e l’Albania, stanno già valutando partnership con gli alleati della NATO.
Il contributo dei Balcani occidentali alle missioni UE e NATO…Oltre alle spese nella difesa e alla relativa industria, i Balcani occidentali contribuiscono operativamente alla sicurezza europea. Paesi come Albania, Macedonia del Nord e Montenegro hanno fornito aiuti militari all’Ucraina, inclusi elicotteri, carri armati e veicoli blindati. Sebbene i contributi della Serbia siano stati più discreti, aiuti significativi sono comunque giunti da Belgrado a Kyiv, tramite forniture di armi per oltre 800 milioni di euro passate per stati terzi fino alla metà del 2024.
I paesi dei Balcani occidentali partecipano anche a numerose missioni della Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC) dell’UE, comprese le operazioni in Africa e nella regione del Mediterraneo. I loro contingenti, sebbene di dimensioni modeste, sono altamente specializzati e dimostrano una crescente interoperabilità con le forze dell’UE e della NATO. La Balkan Medical Task Force, un’unità medica militare multinazionale, è un buon esempio al riguardo. I contributi regionali a EUFOR Althea e a missioni NATO come KFOR e Enhanced Forward Presence mostrano il potenziale per una più profonda integrazione.
…e i loro vantaggi geografici per il fianco estLa posizione geografica della regione costituisce un altro valore aggiunto nell’attuale quadro strategico europeo. Posizionati tra il Mediterraneo e l’Ucraina, i Balcani occidentali sono fondamentali per la logistica militare. Progetti infrastrutturali come il Corridoio 8, che collega l’Adriatico e il Mar Nero, estendendosi dall’Italia alla Bulgaria, e strutture come la base aerea NATO di Kuçovë, sono fattori essenziali per la mobilità militare europea. Nonostante ciò, gli investimenti dell’UE nella mobilità militare nella regione rimangono minimi: colmare questa lacuna è diventata una necessità strategica.
Le capacità di addestramento rafforzano anche le credenziali della regione come fornitore di sicurezza. Il poligono di Krivolak ospita regolarmente esercitazioni NATO su larga scala, come quella del 2022 che ha coinvolto 4.600 militari provenienti da otto Paesi, mentre il centro di addestramento per la sicurezza informatica del Kosovo sottolinea l’evoluzione delle capacità della regione nel contesto contemporaneo.
In conclusione, per beneficiare appieno del potenziale della regione, l’UE deve considerare i Balcani occidentali come partner nella difesa, non solo come candidati all’allargamento. Includerli in iniziative di procurement congiunto, facilitare la loro partecipazione ai meccanismi di finanziamento della difesa europea come lo European Defence Indusry Programme (EDIP) e sostenere le industrie locali con investimenti mirati produrrebbe risultati tangibili. Inoltre, tale integrazione fungerebbe da acceleratore politico per l’allargamento dell’UE, allineando gli imperativi strategici e istituzionali.
La trasformazione dei Balcani occidentali da consumatori a produttori di sicurezza è già in corso. Tuttavia, senza un approccio consapevole e strutturato dell’UE all’integrazione della difesa, gran parte di questo potenziale rimarrà inutilizzato. Riconoscere e investire nelle capacità industriali e operative della regione non è più un’opzione facoltativa, è diventato funzionale alla più ampia sicurezza e autonomia strategica dell’Europa. L’UE si trova ad affrontare crescenti sfide alla sua prontezza militare, dai vincoli delle catene di approvvigionamento alle incertezze geopolitiche. I Balcani occidentali offrono non solo un rinforzo, ma anche resilienza. Mentre l’Europa ridefinisce la sua postura complessiva nella difesa, queste nazioni devono essere viste come attori partecipi alla costruzione di un’architettura di sicurezza europea più forte, più autonoma e più preparata per il contesto attuale e futuro.
L’articolo è tratto dal report Europe’s Overlooked Allies: Why the Western Balkans Matter for EU Defence Readiness
Difendere l’Europa dall’Ue: la svolta “europeista” della destra sovranista
Il 2025 si sta rivelando un anno decisivo per l’Europa, con un susseguirsi di appuntamenti elettorali che stanno ridisegnando il panorama politico del continente. Dopo le elezioni tedesche e croate a inizio anno, nell’ultimo mese abbiamo seguito col fiato sospesole presidenziali in Romania e in Polonia. Ancora una volta, la destra sovranista è stata la protagonista del dibattito pubblico, dimostrando come, a prescindere dal risultato elettorale, sia diventata centrale nella politica del continente.
Una delle principali conseguenze di questa ascesa è l’evoluzione della posizione di questi partiti nei confronti dell’Ue. Molti di essi hanno infatti abbandonato il rifiuto del progetto di integrazione europea che li caratterizzava agli esordi. Al contrario, mirano oggi a riproporsi in una chiave più “europeista”, sebbene in un senso del tutto nuovo, connotato da valori di stampo nazionalista, sovranista e identitario. Forti di una presenza crescente nelle istituzioni, le destre sovraniste puntano a ritagliarsi un ruolo sempre più influente sul futuro dell’Unione.
Il linguaggio come strumento strategico: l’Europa dei valoriTradizionalmente, i partiti euroscettici hanno sottolineato l’assenza di un’identità sovranazionale comune alla base del progetto europeo, un fattore che ne comporterebbe l’inevitabile fallimento. Era questa la posizione, ad esempio, di Margaret Thatcher: non esiste un popolo europeo, ma un insieme di nazionalità che possono associarsi solo sulla base di interessi, non di identità condivise.
Negli ultimi anni, tuttavia, si è gradualmente affermata una retorica (almeno in apparenza)diversa: l’estrema destra punta a ‘raccontare’ l’Europa come una famiglia di nazioni sovrane accomunate dalla tradizione storica e dalla religione cristiana (con una sottintesa implicazione razziale).
I partiti di destra sottolineano come questa idea di Europa sia oggi sotto minaccia: il progressismo liberale e cosmopolita promosso dai movimenti europeisti avrebbe tradito i valori tradizionali su cui si fonderebbe la civiltà europea, riducendo la sovranità degli stati-nazione e aprendo i confini ai migranti ‘invasori’, portatori di culture distanti e inassimilabili a quella europea. Il linguaggio di tali partiti ripropone sempre più questo dualismo: da un lato, un’Europa dei valori – tradizionalista, cristiana, e dunque “vera”; dall’altro, l’Ue allo stato attuale, una costruzione tecnocratica ed elitaria, fondata su astratti valori universalistici come il sovranazionalismo, il cosmopolitismo, l’inclusione sociale e il multilateralismo.
La destra sovranista su presenta come la protettrice di una civiltà europea in declino in una strategia discorsiva che mira a ridefinire il significato dell’europeismo tradizionale, che era e resta una visione politica legata al superamento dei nazionalismi in favore di un’integrazione sovranazionale.
Una strategia collaudata: dal PiS polacco e al gruppo ECRUn caso esemplare di questa collaudata strategia, nonché protagonista delle ultime elezioni in Polonia, è il partito Diritto e Giustizia (PiS), sostenitore del candidato vincitore, Karol Nawrocki. Il PiS è noto per le sue passate tensioni con Bruxelles, date dalle frequenti violazioni dello stato di diritto – in particolare riguardo alla ridotta indipendenza della magistratura. L’Europa è stata a lungo il principale bersaglio – insieme all’immigrazione, a cui veniva sempre associata – della retorica belligerante del PiS.
Nei programmi elettorali più recenti, il linguaggio del PiS nei confronti dell’Ue è diventato più ambivalente. Pur mantenendo una distanza critica, il PiS riconosce ufficialmente “l’importanza e i risultati dell’Unione europea”, citando principalmente “la libertà di circolazione, il mercato comune e i sussidi per gli agricoltori”.
Il partito, dunque, non rinnega più il progetto di integrazione – del resto, la sua opposizione all’Ue è sempre stata più performativa che sostanziale; la Polonia ha usufruito di considerevoli trasferimenti fiscali dall’Ue e gli agricoltori polacchi (lo zoccolo duro dell’elettorato del PiS) sono fra i maggiori beneficiari della politica agricola comune. Tuttavia, il PiS subordina la sostenibilità dell’Ue all’esigenza di “riforme che trasformino questa comunità internazionale in una ‘Europa delle patrie”, fondata sulle tradizioni nazionali, il cristianesimo e la piena sovranità degli stati membri. Secondo la retorica del PiS, la crisi europea, prima che politica, è fortemente “morale”, legata alla perdita di valori fondamentali.
L’approccio ambivalente del PiS si inserisce in una più ampia strategia condivisa all’interno del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR) al Parlamento europeo, di cui fanno parte anche Fratelli d’Italia e altri partiti sovranisti. Il manifesto elettorale di ECR per il 2024 riprende lo stesso schema discorsivo: riconoscimento dell’importanza dell’integrazione europea, purché ancorata al rispetto delle tradizioni nazionali e delle comuni radici culturali e religiose. Toni simili si ritrovano anche nel manifesto di Fratelli d’Italia, a conferma di una strategia discorsiva ormai consolidata.
Si delinea così un graduale tentativo di normalizzazione del sovranismo, che mira da qualche anno ad avvicinarsi al centro-destra tradizionale e a costruire un’alternativa legittima all’europeismo liberale. L’obiettivo finale potrebbe essere un nuovo polo conservatore europeo: in altre parole, la fine della politica di esclusione dell’estrema destra dalle maggioranze in Parlamento e Commissione, consentendo a queste forze di influenzare la direzione futura dell’integrazione a propria immagine.
La destra euroscettica gioca una partita sofisticata: non si oppone più frontalmente all’Ue, ma mira a ridefinirne l’identità, proponendo un’Europa alternativa, considerata più giusta e autentica. Lo scontro politico non si gioca solo sul terreno tecnico o economico, ma si sposta su quello culturale e simbolico. Questo nuovo modello, con la sua forza elettorale, ha già dimostrato di poter plasmare i toni del dibattito politico europeo. Non resta dunque che osservare gli appuntamenti elettorali dei prossimi anni, i quali rappresenteranno un vero e proprio referendum sul futuro dell’Europa – soprattutto in paesi con maggioranze europeiste, come la Francia e la Spagna.
La guerra dei dodici giorni frena il dialogo nucleare e complica i rapporti nel Golfo
Maria Luisa Fantappiè, responsabile del Programma Mediterraneo, Medio Oriente e Africa dello IAI, è intervenuta a Spazio transnazionale, trasmissione di Radio Radicale condotta da Francesco De Leo. Fantappiè ha analizzato le conseguenze della “guerra dei dodici giorni” tra Israele e Iran, sottolineando come il conflitto abbia contribuito a un ulteriore irrigidimento del regime della Repubblica Islamica, alimentando un clima che ostacola la ripresa dei negoziati sul dossier nucleare. Fantappiè ha inoltre commentato la posizione dei Paesi del Golfo, in particolare Qatar e Arabia Saudita, evidenziando come le dinamiche del conflitto influenzino le loro relazioni con Teheran.
Majed al-Ansari: L’attacco iraniano in Qatar e le relazioni con Teheran
Majed al-Ansari, Consigliere del Primo Ministro del Qatar e Portavoce ufficiale del Ministero degli Affari Esteri, è intervenuto a un evento organizzato dallo IAI dal titolo “Europe and the Gulf: Roles in De-Escalating the Israel-Iran Conflict”. In dialogo con Maria Luisa Fantappiè, ha approfondito le relazioni tra Iran e Qatar alla luce dell’attacco iraniano contro una base militare statunitense.
La guerra dei 12 giorni e il suo impatto sul dossier iraniano
L’Ambasciatore Michele Valensise, Presidente dello IAI, è stato ospite di Spazio Transnazionale su Radio Radicale, condotto da Francesco De Leo. Valensise ha commentato le operazioni militari condotte da Israele e Stati Uniti in Iran, sottolineando come su di esse persista un alone di incertezza e mistero, tanto sulle origini quanto sugli effetti reali. Non è ancora chiaro, infatti, quale sia stato l’impatto effettivo degli attacchi sui siti nucleari iraniani, né come questa “guerra dei 12 giorni” si inserisca nel contesto del negoziato attualmente in corso con Teheran. Valensise ha inoltre offerto una riflessione sulla politica estera dell’amministrazione Trump.
Il vertice NATO tra la minaccia russa e i nuovi obiettivi di spesa per la difesa
Alessandro Marrone, responsabile del Programma Difesa, Sicurezza e Spazio dello IAI, è intervenuto a Spazio transnazionale su Radio Radicale, condotto da Francesco De Leo. Marrone ha commentato l’esito del vertice NATO appena conclusosi all’Aia, che ha confermato la Russia come una minaccia di lungo periodo per l’area euroatlantica, l’impegno dei Paesi membri a destinare il 3,5% del PIL alla difesa entro il 2035 e la prosecuzione delle donazioni militari all’Ucraina. Marrone ha anche analizzato le prospettive dei rapporti tra i Paesi europei, la NATO e Donald Trump.
Il vertice NATO della pace euro-atlantica
Il vertice dei capi di stato e di governo NATO all’Aia, il primo con Donald Trump rieletto alla Casa Bianca, si può considerare un successo per l’Alleanza, e soprattutto per l’Europa, se lo si misura con l’obiettivo fondamentale di mantenere la pace nella regione euro-atlantica. Gli alleati hanno infatti concordato un’agenda di priorità estremamente ristretta su cui era possibile avere un consenso unanime, e hanno definito dei livelli di spesa equilibrati al fine di dissuadere e contenere la minaccia russa, mantenere gli Stati Uniti impegnati nella difesa collettiva dell’Europa, e risultare fattibili in 10 anni per i bilanci pubblici dei Paesi membri – anche se non facili per Italia e Spagna.
In particolare l’impegno preso a investire il 3,5% del PIL nella difesa vera, e quello separato di conteggiare in un nuovo, ampio e poco definito paniere un altro 1,5% del PIL sostanzialmente già oggi investito dalla grande maggioranza dei Paesi europei in infrastrutture critiche e resilienza civile, servono a continuare a mantenere pace, sicurezza e stabilità nella regione euro-atlantica in un quadro strategico segnato da più di tre anni di invasione russa dell’Ucraina.
Se la pace in Occidente vale un post sui social…Storicamente la NATO ha svolto la duplice funzione strategica di “peace in the West” e “peace of the West”. La prima consiste nel legare Paesi che altrimenti si erano fatti e si potrebbero fare la guerra: non solo coloro che si sono combattuti nelle due Guerre Mondiali, ma Grecia e Turchia perennemente in tensione, o gli stati membri usciti dalle sanguinose guerre civili dell’ex Jugoslavia negli anni ‘90. La pace in Occidente funziona se gli Stati Uniti mantengono una modica presenza militare, sia nucleare che convenzionale, in Europa, che evita il circolo vizioso di ri-nazionalizazione sovranista delle politiche di difesa dei singoli stati, di frammentazione in accordi bilaterali, trilaterali o regionali, di sfiducia reciproca e perfino di riapertura del dibattito su un nucleare militare nazionale. Se per evitare tutto questo, che l’Europa ha vissuto tragicamente – al netto del nucleare – per secoli fino a metà del ‘900, oggi serve un messaggio privato del Segretario Generale NATO al presidente statunitense incredibilmente lusinghiero, ossequioso e servile, come quello di Mark Rutte pubblicato da Donald Trump, tutto sommato questo è un prezzo politico accettabile da pagare.
…evitare un attacco russo vale il 3,5% del PIL nella difesaLa seconda funzione strategica della NATO è quella di “peace of the West”, ovvero di deterrenza e difesa collettiva contro la minaccia da Mosca. Dal 1991 al 2014 questa funzione è rimasta in stand-by, metaforicamente come una polizza di assicurazione rispetto al ritorno della secolare aggressività russa verso il suo vicinato occidentale, ma dal 2022 è tornata il core business e la priorità assoluta per la NATO. Un regime russo ancora solido dopo oltre tre anni di guerra di invasione contro uno stato europeo confinante, nonostante oltre mezzo milione di soldati morti o feriti, che nel 2025 intende portare la percentuale di PIL destinato alle forze armate dal 6% al 9% e arrivare a 1,5 milione di militari in servizio, e che continua a bombardare l’Ucraina invece che negoziare, è una minaccia diretta, grave e immanente per l’Europa.
In questo quadro strategico, Trump ha firmato il comunicato del vertice NATO che riconosce, testualmente, “la minaccia di lungo periodo posta dalla Russia alla sicurezza euro-atlantica”, e lo stesso documento riafferma l’impegno “ferreo” nella difesa collettiva sancito dall’articolo 5 del Trattato di Washington, senza sfumature o interpretazioni o incertezze. Difesa collettiva che si fonda su livelli di spese militari congrui, la priorità numero uno dell’amministrazione Trump.
Durante la Guerra Fredda i Paesi europei allora membri della NATO spendevano circa il 3% del PIL nella difesa, percentuale poi più che dimezzata, in media, negli anni ’90-2000 perché era scomparsa la minaccia del Patto di Varsavia. L’obiettivo del 2% del PIL nella difesa, fissato nel 2014, a oggi è stato mediamente raggiunto dall’Europa, e la nuova soglia del 3,5% entro il 2035 svolge la duplice funzione di dissuadere un attacco russo – e nello scenario peggiore a respingerlo – e di mantenere una certa presenza militare americana in Europa. La spesa pubblica europea così programmata in questo settore è enormemente inferiore ai danni che porterebbe nei Paesi UE e NATO una guerra su larga scala come quella che va avanti dal 2022 in Ucraina, scenario non escludibile a priori se la deterrenza fallisce. E questa spesa prevista è molto inferiore a quanto dovrebbe investire l’Europa per difendersi completamente da sola se gli Stati Uniti si disimpegnassero tout court dalla NATO perché gli alleati europei non vanno verso il 3,5% promesso al Aia. Le circa 100.000 truppe americane ad oggi presenti in Europa, e soprattutto gli assetti militari statunitensi, possono e devono essere in parte sostituiti da risorse europee con questi livelli previsti di spesa, mantenendo così la difesa collettiva, ma sarebbe molto più difficile e costoso rimpiazzarli totalmente – basti solo pensare ad un deterrente atomico in grado di dissuadere la ricorrente minaccia nucleare russa.
Ucraina fuori dalla NATO ma aiutata dai Paesi NATOPer mantenere la “peace of the West” dalla Russia, il vertice dell’Aia ha fatto chiarezza su quali sono i confini della NATO soggetti alla difesa collettiva, escludendo esplicitamente l’Ucraina. La prospettiva di un ingresso nell’Alleanza, richiesto da Kiev nel 2022 dopo l’inizio dell’invasione russa, era stata sostanzialmente abbandonata già nel vertice di Vilnius del 2023, quando l’amministrazione Biden aveva rifiutato di fissare i tempi per l’ingresso rinviando tutto sine die – con la soddisfazione non solo dell’Ungheria ma, in modo più silente, di diversi altri governi in Europa. La stessa presidenza Biden e tutta la NATO avevano però mantenuto una narrazione sempre più staccata dalla realtà, su un futuro percorso di Kiev verso l’adesione definito dal successivo summit di Washington nel 2024 come “irreversibile”.
L’amministrazione Trump ha fatto chiarezza definitiva al riguardo in poche settimane, già lo scorso gennaio, e nel comunicato del vertice dell’Aia non si nomina in nessun modo l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Non a caso, Zelenski è stato ospite come rappresentante di un Paese partner alla cena ufficiale, ma non ha partecipato ai lavori dei capi di stato e di governo degli stati membri.
Lo stesso comunicato afferma però che il costo degli aiuti militari donati dai Paesi NATO all’Ucraina vanno conteggiati nell’obiettivo del 3,5% del PIL destinato alla difesa, e questo è un incentivo per l’Europa e il Canada a continuare concretamente ad aiutare Kiev. Si tratta di una scelta pragmatica e logica, basata sulla ratio che invitare l’Ucraina nella NATO non è una strada percorribile per aiutarla a difendersi dalla Russia, e bisogna seguirne altre. Una lezione anche per l’UE, che nel 2022 aveva invece incautamente aperto la procedura di adesione dell’Ucraina all’Unione, destinata a finire come era prevedibile in un vicolo cieco.
Una NATO regionale e monotematica, sostenibile e (più) europeaLa NATO uscita dal vertice dell’Aia, e che molto probabilmente andrà avanti così per i quattro anni dell’amministrazione Trump, si può riassumere in 4 aggettivi: regionale, monotematica, sostenibile, e (più) europea. Regionale in quanto concentrata sul territorio degli stati membri, dalla Turchia al Canada, con un focus acquisito sul suo fianco est, dalla Scandinavia al Mar Nero passando per l’Europa orientale. Il comunicato dell’Aia non dice nulla sul fianco sud, il Nord Africa o il Medio Oriente, e nemmeno sull’Indo-Pacifico. Ma mentre quest’ultimo è in qualche modo ancora nel radar dell’Alleanza, sebbene sottotraccia e in modi da definire, tanto che il ministro della difesa australiano era presente all’Aia, gli stati del “Mediterraneo allargato” che non sono membri della NATO sono completamente fuori dall’agenda alleata post summit.
La NATO durante l’amministrazione Trump è e sarà anche sostanzialmente monotematica, in quanto dal comunicato del vertice breve quanto una pagina e con solo cinque punti, rispetto a una media di decine di pagine e centinaia di punti dei precedenti summit, sono stati eliminati parole chiave che hanno accompagnato gli scorsi anni della NATO quali: partnership; cooperazione con l’UE; cambiamento climatico; minacce ibride; criminalità organizzata; traffici illeciti; e, elemento più recente, Cina. La NATO non si occupa e molto probabilmente non si occuperà in maniera significativa di tutto ciò.
Certo restano nel comunicato i tre core tasks, i compiti chiave, del Concetto Strategico 2022, dove sicurezza cooperativa e prevenzione e gestione delle crisi sono secondari e strumentali rispetto all’obiettivo primario di deterrenza e difesa collettiva. La NATO continuerà a svolgere missioni importanti per la sicurezza europea in senso ampio, come quella che in Kosovo mantiene la pace tra le etnie serba e kosovara, Sea Guardian che pattuglia il Mediterraneo e la missione di addestramento delle forze irachene in chiave anti-estremismo islamico. Quanto a sicurezza cooperativa, resta per la NATO il tema di una cooperazione con l’UE che porterebbe benefici a entrambi, ma che durante l’amministrazione Trump è più utile non portare al tavolo transatlantico con il presidente americano. E continueranno a esistere i partenariati con i Paesi non-NATO, tra i quali però vi saranno fortissime differenze: quello con l’Ucraina è la priorità per l’Europa; quelli con i Balcani occidentali svolgono una importante funzione regionale di stabilità; i partner dell’Indo-Pacifico sono interlocutori rilevanti in termini politici, militari ed economici – specie Australia, Corea del Sud e Giappone. All’estremo opposto, i partenariati con gli stati del Nord Africa e Medio Oriente, compresi Mediterranean Dialogue e Istanbul Cooperation Initiative, rimarranno nello stato di stallo e de-prioritizzazione in cui si trovano dal 2022.
La scelta di una NATO regionale e monotematica serve sostanzialmente a limitare il confronto con Washington esclusivamente ai temi su cui si può trovare un accordo, in modo da raggiungerlo e mantenerlo, lasciando fuori ciò che è al tempo stesso divisivo e non essenziale per l’Alleanza atlantica e le sue funzioni strategiche di “peace of the West” e “peace in the West”. D’altronde che senso avrebbe discutere una strategia NATO per il Medio Oriente quando Trump cambia la sua ogni mese, Ankara considera Tel Aviv una minaccia, e i Paesi europei faticano persino a decidere in un perimetro molto più omogeneo come l’UE se rivedere o no l’accordo di associazione con Israele? Parlare di Gaza e Iran in ambito NATO farebbero solo danni alla difesa collettiva dell’Europa, mentre il vertice dell’Aia era volto in primo luogo ad evitarli.
Un’Alleanza regionale e monotematica, in cui i Paesi europei si muovono verso il 3,5% del PIL nella difesa e gradualmente rimpiazzano alcune delle forze americane – ma non tutte – è molto più sostenibile nel breve, medio e lungo periodo. Non solo nei rimanenti tre anni e mezzo di amministrazione Trump, ma nel futuro che vedrà gli Stati Uniti limitare comunque il proprio sostegno militare all’Europa al minimo indispensabile, dando la priorità alla sfida posta dalla Cina, all’Indo-Pacifico e a legittime istanze domestiche isolazioniste.
Una NATO più sostenibile è di fatto una NATO più europea di quanto lo sia mai stata, in termini di investimenti, risorse umane, assetti e comandi, oneri e rischi. Già dal 2022, degli otto battaglioni multinazionali dispiegati sul fianco orientale solo uno è a guida americana, in Polonia, e già nell’attuale pianificazione NATO la gran parte delle 200.000 truppe che gli alleati si preparano e si impegnano a inviare sul fianco orientale in caso di escalation da parte russa non sono statunitensi.
Una NATO più europea è il leit motiv dalla Finlandia alla Germania, ed è sostanzialmente quello che da anni sostiene saggiamente l’Italia, compreso il governo Meloni, quando punta a un “pilastro europeo” più forte, solido e coeso, rispetto a una difesa UE che non è decollata neanche dopo oltre tre anni di guerra in Ucraina e cinque mesi di amministrazione Trump. Sulle basi poste dal vertice dell’Aia, è probabilmente il caso di fare un ulteriore passo in avanti e puntare a una “NATO a trazione europea” come soluzione più sostenibile per la deterrenza e difesa dell’Europa di fronte alla minaccia russa. Per ora il summit in Olanda ha dato un contributo importante alla pace, stabilità e sicurezza della regione euro-atlantica, il che non era affatto scontato nei mesi scorsi, e questa è senza dubbio una buona notizia in un periodo storico in cui scarseggiano.
La strana guerra in cui tutti hanno vinto e tutti hanno perso
È indice dell’assurdità dei tempi in cui viviamo che una guerra potenzialmente disastrosa per la sicurezza internazionale si è – per il momento – interrotta con i ringraziamenti di uno dei paesi aggressori, gli Stati Uniti, al paese aggredito, l’Iran.
L’attacco contro una base americana in Qatar, condotto in rappresaglia dall’Iran contro i bombardamenti americani del suo programma nucleare, ha fatto temere che il conflitto potesse aumentare in intensità e allargarsi al Golfo. Invece, può avere raggiunto l’obiettivo cercato dagli iraniani, ovvero usare un attacco preventivamente comunicato a Washington per ristabilire un minimo di deterrenza formale e allo stesso tempo dare agli Stati Uniti la via d’uscita dall’escalation. A questo bizzarro gioco delle parti si è prestato anche Israele, che ha ritenuto di dover assecondare il desiderio del presidente Donald Trump di interrompere le ostilità.
La tregua, in vigore solo da poche ore, è già traballante. Non è possibile pertanto anticipare se seguirà la stessa traiettoria di quella con Hamas, che Israele ha infranto poco più di un mese dopo, oppure di quella con Hezbollah, che invece ha retto, sebbene Israele continui a operare in Libano. È possibile però fare una valutazione istantanea di ciò che hanno ottenuto e di ciò che hanno perso Israele, Stati Uniti e Iran.
Tutti vincitoriIsraele ha buone ragioni per ritenersi soddisfatto. Ha decapitato la leadership delle forze armate regolari e soprattutto delle Guardie rivoluzionarie, paralizzando inizialmente la catena di comando del nemico. Ha ucciso una dozzina di scienziati e pesantemente danneggiato le infrastrutture nucleari dell’Iran, riducendone considerevolmente la capacità di riattivare un programma nucleare su scala industriale. Ha distrutto la quasi totalità delle difese aeree e limitato la letalità del programma balistico intercettando la maggioranza dei missili e distruggendo almeno un terzo dei lanciatori. In generale ha dimostrato non solo netta superiorità militare e tecnologica sull’Iran, ma anche una profonda penetrazione del sistema di sicurezza e di intelligence della Repubblica islamica.
Anche gli Stati Uniti possono dire di aver conseguito risultati. Hanno contribuito a distruggere parte del programma nucleare iraniano e soprattutto a colpire il sito iper-fortificato di Fordow, mostrando l’impressionante capacità di fuoco della bunker buster, la ormai famosa GBU-57. Dimostrandosi pronti all’uso della forza e allo stesso tempo optando per un attacco mirato, hanno intimorito gli iraniani e rassicurato gli israeliani in misura sufficiente da indurli ad accettare una tregua, ponendosi come pacificatori.
Lo stesso Iran può dire di uscire dal conflitto ferito ma non sconfitto. Dopotutto, ha resistito alla pesante aggressione da parte della prima potenza militare della regione e della maggiore potenza del mondo. Ha ristabilito rapidamente la catena di comando avviando la risposta militare contro Israele, sparando missili fino a pochi minuti prima della tregua (e forse dopo). Ha attaccato la più grande base militare americana del Golfo costringendone l’evacuazione anticipata. E la Repubblica islamica sembra essere rimasta in controllo, godendo anzi di un condizionato appoggio popolare nella difesa della nazione.
Quando tutte le parti in causa in un conflitto ritengono di aver ottenuto qualcosa, emergono le condizioni perché una tregua si trasformi in pace duratura. Purtroppo non è necessariamente questo il caso della guerra in questione. Infatti, se è vero che tutti hanno ottenuto qualcosa, è altrettanto vero che nessuno può dirsi pienamente soddisfatto, e questo apre anche a uno scenario di ripresa delle ostilità.
Tutti sconfittiIsraele ha danneggiato ma non distrutto il programma nucleare iraniano. Similmente, ha ridimensionato ma non eliminato la capacità balistica iraniana. Ha mostrato che la sua sfolgorante campagna militare ha problemi di sostenibilità, visti gli immensi costi in termini di mezzi e fondi dello sforzo di difesa antimissile e di bombardamenti a lunga distanza. Nonostante il numero contenuto di vittime civili, ha visto le sue città sotto una pioggia di missili che hanno prodotto ingenti danni materiali. Pur avendo ottenuto la partecipazione americana e portato gli europei ad allinearsi, ha dato un ulteriore colpo alla sua vacillante reputazione per aver aggredito uno stato in assenza di minaccia imminente, e ha alimentato la percezione di aver affrettato un attacco anche per sviare l’attenzione dalla distruzione di Gaza. Soprattutto Israele non ha ottenuto quello che aveva ammesso essere il suo obiettivo, ovvero destabilizzare la Repubblica islamica e favorire le condizioni per un potenziale cambio di regime.
Dal canto suo, l’amministrazione Trump si è fatta cogliere di sorpresa dall’attacco israeliano, e ha dovuto reagire piuttosto che plasmare gli eventi. Per sua stessa ammissione, l’amministrazione non sa che fine abbia fatto l’uranio arricchito che potenzialmente potrebbe trasformarsi in materiale fissile per 8-9 bombe, e che era stato indicato dal governo israeliano come la causa più prossima a giustificazione dell’attacco. Il programma nucleare iraniano è seriamente ridimensionato, ma è anche diventato molto più opaco. Oggi l’Iran ha più motivi per cercare la bomba di quanti ne avesse prima dell’attacco israeliano a cui gli americani si sono uniti. Infine, gli Stati Uniti hanno cercato una tregua, non la resa incondizionata che Trump aveva in precedenza vagheggiato.
Senz’altro sconfitto è anche l’Iran, che non ha saputo proteggere il simbolo dell’orgoglio nazionale e della resistenza antiamericana, quel programma nucleare costato centinaia di miliardi di dollari in costi diretti e molti di più in costi indiretti per effetto delle sanzioni. L’Iran ha subito l’umiliazione di vedere i suoi vertici militari uccisi nelle loro case e la sua organizzazione di intelligence penetrata con facilità da quella israeliana. E per quanto l’attacco israeliano abbia generato un effetto di ricompattamento della popolazione a difesa della nazione, questo supporto non si è trasferito sulla Repubblica islamica. Anzi, l’attacco israeliano ha reciso un altro elemento del patto sociale fra Repubblica islamica e popolazione, ovvero la garanzia di stabilità che il governo iraniano aveva assicurato in un venticinquennio in cui il resto della regione è ripetutamente sprofondato in conflitti.
Futuro incertoNon è da escludere che la tregua riapra la strada alla gestione diplomatica della disputa nucleare tra USA e Iran che l’attacco israeliano ha interrotto. L’Iran dovrebbe offrire massima trasparenza all’agenzia Onu per l’energia atomica e accettare severi limiti a un programma già ridimensionato. In cambio, otterrebbe di mantenere una capacità nucleare autoctona e un forte allentamento delle sanzioni.
Ma è altrettanto verosimile, forse più probabile, che la tregua sia il preludio a una ripresa del conflitto. Se le parti restano su posizioni massimaliste – gli Usa insistendo sullo smantellamento del programma nucleare e sul ridimensionamento di quello balistico, l’Iran refrattario a rinunciare all’arricchimento dell’uranio – la diplomazia non farà strada. Al contrario, servirà solo a dare modo a Israele di preparare un nuovo attacco e all’Iran tempo per ricostituire parte delle sue difese aeree e capacità balistiche.
Al momento di scrivere, Israele già lamenta una presunta violazione iraniana di una tregua che potrebbe durare meno di un giorno. Se così fosse, l’annuncio della tregua da parte di Trump in un tweet con tanto di firma presidenziale non farebbe che dare una tonalità surreale e farsesca al dramma in corso.
La guerra in Medioriente e il vertice Nato
Alessandro Marrone, responsabile del programma Difesa, Sicurezza e Spazio dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuto a Spazio Transnazionale, la trasmissione di Radio Radicale condotta da Francesco De Leo. Marrone ha analizzato gli ultimi sviluppi in Medio Oriente dal punto di vista militare, soffermandosi in particolare sulla risposta iraniana all’attacco statunitense. Ha inoltre affrontato i temi legati alla NATO, con un focus sul vertice dell’Aia, e ha commentato l’aumento delle spese militari in Europa, inclusa la crescita della spesa per la Difesa in Italia.
La risposta iraniana e il cessate il fuoco con Israele
Maria Luisa Fantappiè, responsabile del Programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuta a Spazio Transnazionale, la trasmissione di Radio Radicale condotta da Francesco De Leo. Fantappiè ha commentato gli ultimi sviluppi in Medio Oriente, soffermandosi in particolare sulla risposta iraniana all’attacco statunitense contro le centrali nucleari del Paese. Una risposta di natura simbolica, rappresentata da un attacco – preannunciato e senza vittime – contro una base americana in Qatar. Fantappiè ha inoltre analizzato i contorni dell’accordo temporaneo di cessate il fuoco tra Israele e Iran.
Attacco USA agli impianti nucleari iraniani e la minaccia iraniana di ritiro dal TNP
Ettore Greco, vicepresidente vicario dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuto a Spazio Transnazionale, la trasmissione di Radio Radicale condotta da Francesco De Leo. Greco ha analizzato l’attacco statunitense contro gli impianti nucleari iraniani e la conseguente minaccia di Teheran di ritirarsi dal Trattato di non proliferazione nucleare (TNP).
L’attacco USA all’Iran e le possibili risposte iraniane
Maria Luisa Fantappiè, responsabile del Programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuta a Spazio Transnazionale, la trasmissione di Radio Radicale condotta da Francesco De Leo. Fantappiè ha definito l’attacco statunitense contro l’Iran una forma di diplomazia coercitiva, volta a spingere Teheran verso una resa totale. Ha poi analizzato le possibili opzioni di risposta iraniana, in un contesto regionale segnato da crescente instabilità.
La mancanza di una cultura della difesa e della sicurezza
È difficile negare che nel nostro Paese si sia sempre lasciata in secondo piano la costruzione di una cultura della difesa e della sicurezza. La reazione alle illusioni indotte dalla faciloneria del regime fascista, che presentava l’Italia come potenza militare (smascherate dalle ripetute sconfitte su tutti i fronti, dall’occupazione tedesca, dai bombardamenti alleati), ha contribuito a spingere nel dopoguerra la nostra opinione pubblica verso altre illusioni: quella di poter vivere in eterno sotto la protezione convenzionale e nucleare dell’alleato americano e in un nuovo mondo in cui le guerre, al massimo, avrebbero continuato a svolgersi in altri continenti.
Questa convinzione è stata ben evidenziata dall’atteggiamento verso la partecipazione italiana alla NATO dei due maggiori partiti di opposizione (a sinistra e a destra): ideologicamente contrari, soprattutto all’inizio, ma sostanzialmente consapevoli che ci si poteva sentire più sicuri dentro che fuori.
Con la fine della Guerra Fredda, per un decennio ha imperato il dibattito sul “dividendo della pace”, anche se, non avendo precedentemente investito nel settore militare, non c’erano profitti, ma solo debiti e carenze da soddisfare. Poi, con l’arrivo delle guerre ibride, la scarsa attenzione della nostra opinione pubblica si è spostata sulle “missioni di pace”, sempre presentate in chiave buonista per non urtare il “pacifismo” così radicato nell’area cattolica, in quella populista e in quella di sinistra (sia storica che movimentista).
Nemmeno la prima vera guerra combattuta, quella in Afghanistan, è riuscita a scalfire l’atteggiamento di serena tranquillità regnante nel nostro Paese. E non lo ha fatto nemmeno l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014.
L’obiettivo del 2% del PIL per a difesaCon l’annessione della Crimea è arrivata la conseguente decisione dell’Alleanza Atlantica nel 2014 di rafforzare le sue capacità di difesa, fissando l’obiettivo di investirvi almeno il 2% del PIL entro dieci anni. Tornati a Roma dopo quel vertice, i nostri governanti se ne sono dimenticati, salvo ribadire il nostro impegno nei dieci vertici successivi da parte dei Presidenti del Consiglio, dei Ministri degli Affari Esteri e della Difesa “pro-tempore”, ma senza poi fare nulla per mettere in pratica questa decisione.
Il “mantra” politico dei 6 Governi che si sono succeduti in questo decennio (Renzi, Conte 1, Conte 2, Gentiloni, Draghi, Meloni) è sempre stato: non ci sono sufficienti risorse finanziarie e, in ogni caso, non si possono trovare a discapito delle spese sociali. Il sottinteso, sempre condiviso, è che, altrimenti, si sarebbe rischiato di perdere consenso elettorale. E, per parere unanime dei nostri decisori politici, non si poteva aumentare il debito pubblico perché si sarebbero sforati i parametri del Patto di Stabilità e Crescita (per altro non imposti da qualche “gnomo” nascosto nell’ombra, ma discussi e approvati dall’Italia nel quadro dell’Unione Europea).
Ne è conseguita una costante richiesta italiana di escluderne le spese militari (in parte, secondo i governi di centro-sinistra, e del tutto, con il governo di centro destra). Ora, avendo la Commissione Europea accettato lo scorporo nell’ambito del programma ReArm Europe, almeno per il prossimo triennio, ci si accorge che in seguito bisognerà, però, rimettere i conti in ordine e che, comunque, un aumento del debito pubblico inciderebbe sul suo tasso di interesse. Di qui la tiepida, se non fredda, iniziale accoglienza italiana.
Il risultato dell’impegno, solennemente sottoscritto in sede NATO e confermato in sede europea, è che se nel 2014 spendevamo (secondo i criteri NATO concordati fra tutti i Paesi alleati) l’1,14%, nel 2024 siamo saliti all’1,49% con un incremento medio annuo dello 0,03%. Con questo ritmo l’obiettivo del 2% verrebbe, quindi, raggiunto intorno al 2041, con soli 17 anni di ritardo.
Una costante della storia italianaNella storia della Repubblica non ci sono state molte scelte bipartisan, ma quella di non investire nelle spese per la difesa e la sicurezza è sicuramente in vetta alla classifica. Nonostante i 68 governi nei 79 anni della Repubblica, con tutti i partiti coinvolti (anche se chi più e chi meno) il copione sul tema è sempre rimasto lo stesso: criticare quando si sta all’opposizione e non fare nulla una volta arrivati al governo.
Non ci si può, quindi, meravigliare se manca nel nostro Paese una cultura della difesa e della sicurezza. Lo dimostrano i risultati di alcuni sondaggi di opinione: lo scorso anno il 75% degli italiani si dichiarava contrario a ogni strategia di riarmo; quest’anno il 34% vorrebbe mantenere l’attuale livello di spesa, il 23% lo vorrebbe abbassare e solo il 33% è favorevole a un aumento degli investimenti in difesa; alla domanda se sarebbero disposti a impugnare le armi per difendere i confini nazionali, il 78% degli intervistati italiani ha risposto negativamente.
Eppure l’attuale Governo, e, in particolare, il Ministro della Difesa Crosetto (col supporto della Presidente del Consiglio Meloni), si sta impegnando come mai in passato nel comunicare alla nostra opinione pubblica che la ricreazione è finita e che lo scenario internazionale sta diventando sempre più pericoloso e minaccia la nostra libertà e autonomia e conseguentemente il nostro modo di vivere e il nostro sviluppo economico e sociale. Ma, purtroppo, questo non basta e, comunque, richiede un tempo che non è compatibile con le scelte che devono essere fatte oggi, non domani e tanto meno dopodomani.
C’è stata un’occasione unica nella nostra recente storia subito dopo l’attacco russo all’Ucraina nel febbraio 2022, ma, purtroppo, la legislatura stava finendo e non si è riusciti a coglierla. La sorpresa e la condanna unanime da parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche hanno portato il 16 marzo 2022 all’approvazione a stragrande maggioranza da parte della Camera dei Deputati di un Ordine del Giorno proposto da un deputato della Lega e co-firmato da parlamentari del M5S, PD, FI, IV e FDI in cui “si impegna il Governo ad avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2 per cento del PIL, dando concretezza a quanto affermato alla Camera dal Presidente del Consiglio il 1° marzo scorso e predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione, a tutela degli interessi nazionali …”.
È quasi incredibile che solo tre anni fa anche quelli che oggi contrastano l’aumento delle spese militari (a livello europeo e nazionale) la pensavano diversamente e che tutti riconoscevano apertamente che fino ad allora avevamo evidentemente dimenticato gli impegni internazionali assunti nel 2014.
Bisogna ancora una volta prendere atto che l’illusione pacifista è così radicata nel nostro Paese da non riconoscere l’evidenza dei fatti, come l’esplodere di nuove guerre nelle aree più vicine all’Europa. Troppi italiani non sembrano voler riconoscere che nella nuova era in cui viviamo gli impegni e i trattati internazionali sembrano essere considerati apertamente carta straccia anche dal nostro alleato americano, oltre che da Russia e Israele (ma vi sono anche altri Paesi che lo hanno fatto senza ammetterlo, fornendo finanziamenti e armi a regimi impresentabili e milizie irregolari).
Le nuove regole sono basate sulla forza (economica e, inevitabilmente, militare) e non sul diritto, come conferma anche la crisi di tutti gli strumenti internazionali costruiti in questi ultimi settantacinque anni per gestire le diverse criticità di un mondo sempre più complesso. È evidente che, in alcuni casi per ragioni ideali e, in altri, per ragioni biecamente elettorali, molte forze politiche cavalcano e stimolano le comprensibili preoccupazioni di un’opinione pubblica disinformata e impreparata.
Una strategia nazionale per formare e informarePer questo sarebbe così importante definire e mettere in campo una forte azione di informazione e formazione della nostra opinione pubblica che coinvolga l’intero Governo e non solo il Ministro della Difesa e, insieme, tutte le Istituzioni dello Stato, compreso il Parlamento e la Presidenza della Repubblica.
In quest’ottica un ruolo importante potrebbe essere svolto dal CASD-Centro Alti Studi per la Difesa e dagli Istituti di studio delle Forze Armate nell’ambito universitario e dalle Accademie nell’ambito delle scuole superiori. Analogamente il Consiglio Supremo di Difesa potrebbe favorire, con la sua autorevolezza, la crescita della consapevolezza in alcuni settori istituzionali, a partire dalle altre Amministrazioni pubbliche che vi sono coinvolte.
Essendo questo un problema nazionale, e solo parzialmente della Difesa, sarebbe opportuno che il coordinamento della definizione e dell’esecuzione di una simile strategia complessiva fosse gestito dalla Presidenza del Consiglio in un’ottica bipartisan, rendendo così evidente l’importanza che le viene attribuita e sfruttando l’autorevolezza di questa Istituzione.
Una particolare attenzione dovrebbe essere dedicata al mondo giovanile (utilizzando anche le modalità e gli strumenti più adatti), al mondo dell’informazione (utilizzando meglio le professionalità già disponibili) e a quello dei Think Tank (che in tutti i Paesi moderni, grazie alla loro “terzietà”, svolgono un importante compito di studio e informazione).
Certo, sarebbe necessaria anche la disponibilità per lo meno della parte più responsabile dell’opposizione nella consapevolezza che, se potesse diventare maggioranza, si troverebbe a dover compiere le stesse scelte che oggi devono necessariamente essere fatte dagli attuali Governo e Parlamento. È un percorso inevitabilmente lungo, ma non vi sono scorciatoie. In futuro una maggiore consapevolezza su questo tema servirà ancora più di oggi.
L’escalation tra Israele e Iran e il ruolo degli Stati Uniti
L’Ambasciatore Michele Valensise, Presidente dello IAI, è intervenuto a Spazio Transnazionale, il programma di Radio Radicale condotto da Francesco De Leo. Valensise ha commentato l’escalation del conflitto tra Israele e Iran, analizzando il ruolo degli Stati Uniti e la posizione del Presidente Trump, sottolineando anche le forti incertezze che gravano sul piano regionale, soprattutto in caso di un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti.
Il nucleare iraniano nel mirino degli attacchi
Ludovica Castelli, ricercatrice del programma Multilateralismo e governance globale dello IAI ed esperta di non proliferazione e disarmo, è intervenuta a Spazio Transnazionale su Radio Radicale, condotto da Francesco De Leo. Castelli ha commentato i recenti sviluppi del programma nucleare iraniano, soffermandosi in particolare sugli attacchi ai siti di arricchimento e sulle implicazioni per la sicurezza internazionale.
Il conflitto Israele-Iran, influenza USA e dinamiche regionali
Maria Luisa Fantappiè, responsabile del programma Mediterraneo, Medio Oriente e Africa dello IAI, è intervenuta a Spazio Transnazionale, programma di Radio Radicale condotto da Francesco De Leo. Fantappiè ha analizzato gli sviluppi del conflitto tra Israele e Iran, approfondendo la strategia militare israeliana e i suoi obiettivi, il ruolo svolto dall’Amministrazione Trump e quello dei Paesi del Golfo. Fantappiè ha inoltre dialogato con il viceministro degli Affari Esteri Edmondo Cirielli.
Il conflitto tra Iran e Israele e il ruolo dell’AIEA
Ettore Greco, vicepresidente vicario dello IAI, è intervenuto a Spazio Transnazionale su Radio Radicale, condotto da Francesco De Leo. Greco ha analizzato gli ultimi sviluppi del conflitto tra Iran e Israele in Medio Oriente, soffermandosi sugli obiettivi dell’azione militare israeliana e sul ruolo dell’AIEA.