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Macedonia del Nord al voto: il centrodestra è favorito, ma con riserve

La Macedonia del Nord torna al voto dopo quattro anni per le elezioni parlamentari del 24 aprile. Il voto arriva dopo le dimissioni di Dimitar Kovacevski, leader dell’Unione Socialdemocratica SDSM e l’insediamento del governo tecnico di Talat Dzaferi, di etnia albanese. Le elezioni, decisive per il piccolo Paese balcanico, si sviluppano principalmente su due temi: l’eliminazione del sistema a quote nell’amministrazione pubblica e le rinnovate tensioni diplomatiche con la Bulgaria.

Il sistema elettorale in Macedonia del Nord: sintesi e differenze rispetto alle elezioni del 2020

La Repubblica di Macedonia del Nord presenta un’unica assemblea parlamentare (la Sobranie), composta da 120 seggi eletti con un voto proporzionale a lista chiusa, ripartito in sei circoscrizioni. In aggiunta a questi 120 deputati, è possibile eleggere altri 3 membri da una sola circoscrizione d’oltremare, con voto proporzionale.

Almeno il 40% dei candidati in ogni lista di partito deve essere occupato da membri del genere meno rappresentato. Se una donna deputata lascia l’incarico prima della fine del suo mandato, sarà sostituita dalla successiva candidata donna della sua lista di partito.

Rispetto alla tornata elettorale precedente, circa 100.000 persone (su un totale di quasi 2 milioni di votanti) rischiavano di vedersi invalidato il voto. Questo perché i documenti di identità riportavano ancora la vecchia dicitura del Paese: Repubblica di Macedonia. Il ritardo nell’emissione dei nuovi documenti personali ha ulteriormente incalzato le richieste, da parte dei cittadini, di maggiori tutele per la salvaguardia del voto. Per questo, il 7 marzo scorso, è stato inserito un emendamento al Codice elettorale che permetterà agli elettori di recarsi alle urne con carte di identità scadute fino a 9 mesi prima.

Sebbene questa misura straordinaria sia stata ben accolta da parte dell’elettorato, una delegazione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (APCE), inviata a vigilare lo status quo pre-elettorale, la ritiene contraria alle raccomandazioni della Commissione di Venezia, oltre ad esprimere dubbi e riserve sul sistema di finanziamento elettorale e alla copertura mediatica per i partiti più forti e storicamente attivi.

Una maggiore polarizzazione su basi etniche

La forza di centrodestra che ha primeggiato nelle elezioni nel 2020, il VMRO-DPMNE (Organizzazione rivoluzionaria macedone interna – Partito democratico per l’unità nazionale macedone), anche se favorita, rischia di ottenere una vittoria a metà.

La corsa alle elezioni si svolge in un contesto completamente differente rispetto a quattro anni fa, quando l’attenzione dei cittadini era focalizzata sul superamento della pandemia COVID-19. Quest’anno, VMRO-DPMNE, così come l’SDSM (Unione Socialdemocratica) devono confrontarsi con una rinnovata spinta nazionalista, che potrebbe mettere in difficoltà la formazione di un governo.

I partiti di ispirazione nazionalista albanese (l’Alleanza per gli Albanesi e l’Unione Democratica per l’Integrazione), espressione anche dell’attuale Primo ministro Talat Dzaferi, spingono per mantere (o meglio, ridefinire) il sistema “a quote” presente nell’amministrazione pubblica, che ritengono una “salvaguardia” per la minoranza albanese nel Paese (che rappresenta quasi il 25% della popolazione). L’UDI ha espresso forti riserve nel sostegno al VMRO-DPMNE in caso di vittoria, perché quest’ultimo, ritenendo il sistema discriminatorio, ha dichiarato di volerlo eliminare.

Sull’asse dei partiti localizzati più a sinistra, l’SDSM è il partito che, negli anni passati, ha condensato la maggior parte delle richieste dell’elettorato. La sua è una politica improntata sull’avvicinamento del Paese all’Unione europea e sulle riforme pubbliche. Tuttavia, dopo oltre sette anni di governo, la diminuzione del benessere dei cittadini, l’inflazione crescente e la corruzione diffusa, gravano sulla riuscita dell’Unione Socialdemocratica in queste elezioni.

La difficile relazione con la Bulgaria

Nonostante i diversi tentativi di stabilizzazione dei rapporti con la Bulgaria a partire dal 2017, negli ultimi anni è incrementato il numero di incidenti diplomatici che hanno nuovamente aumentato la tensione tra Macedonia del Nord e il paese membro dell’Ue.

Il tema cardine resta di tipo identitario e culturale. Da una parte, la Macedonia del Nord accusa la Bulgaria di revisionismo storico per l’intitolazione nell’ottobre 2022 di un centro culturale bulgaro a Ohrid, in Macedonia del Nord, al re Boris III di Bulgaria. Il monarca aveva portato la Bulgaria a fianco delle forze dell’Asse, durante la Seconda guerra mondiale.

Inoltre, le accuse di intromissione nella politica macedone hanno oltrepassato i confini tra i due Stati, arrivando allo scontro diplomatico durante il censimento albanese nel novembre dell’anno scorso. I macedoni sul suolo albanese sostengono che gli estremisti bulgari hanno cercato di convincere, attraverso minacce e ritorsioni, i macedoni a identificarsi come bulgari. Offrendo loro passaporti per entrare più facilmente nel mercato europeo, con la richiesta di rinunciare all’identità macedone.

Di contro, numerose critiche sono sorte da parte della Bulgaria rispetto a una presunta “campagna anti-bulgara” nella Macedonia del Nord. Insistendo anche sul fatto che l’identità e la lingua macedone abbiano origine bulgara, la campagna mette a serio rischio la vita dei cittadini bulgari che risiedono nello Stato.

Il voto e lo scenario europeo

L’annosa questione delle relazioni con la Bulgaria è trasversale a tutti i maggiori partiti in lizza per le elezioni. Tuttavia, il VMRO-DPMNE potrebbe essere avvantaggiato dal fatto che si è più volte opposto alle decisioni del governo socialdemocratico di “scendere a compromessi” con Grecia e Bulgaria per avvicinare il Paese all’Ue.

In particolare, il VMRO-DPMNE ha da sempre criticato gli accordi di Prespa con la Grecia nel 2018. Gli accordi riguardavano la modifica del nome del Paese e l’attuale modifica richiesta dall’Ue per l’inserimento della “popolazione bulgara” nella Costituzione macedone. Eliminando così il blocco bulgaro ai negoziati di adesione all’UE.

Alla luce degli scarsi risultati raggiunti da parte del SDSM nel processo di adesione, il partito di centrodestra sembra mantenga il giusto vantaggio per la vittoria. Ma in linea con il passato, nessun partito di etnia macedone otterrà più della metà dei seggi in Parlamento. Sarà quindi costretto a cercare l’alleanza di uno o più dei partiti nazionalisti albanesi, lasciando aperta la partita sul futuro governo e assetto geopolitico della Macedonia non solo a livello nazionale, ma anche europeo.

articolo a cura di Letizia Storchi

Come e perché sostenere la difesa dell’Ucraina

La recente approvazione da parte della Camera statunitense del pacchetto di aiuti militari all’Ucraina, da 61 miliardi di dollari, segna una svolta fondamentale che si comprende meglio alla luce di questi 26 mesi di conflitto, e rende sostenibile la difesa ucraina a patto che cambi la strategia di Kyiv e che l’Europa faccia la sua parte.

La situazione sul fronte orientale e su quello euro-atlantico

Due anni fa in questo periodo l’Ucraina respingeva le forze di invasione russe alle porte di Kyiv. A fine 2022 gli ucraini liberavano la città occupata di Kherson e l’area intorno a Kharkiv, mentre nel 2023 la controffensiva è purtroppo fallita di fronte alle difese allestite dai russi nei territori occupati. Da più di otto mesi il fronte è relativamente stabile nonostante furiosi combattimenti, con un’avanzata russa di pochi chilometri ad Avdiivka che è costata alte perdite a entrambe le parti.

Rispetto al 23 febbraio 2022, l’Ucraina ha salvato circa l’80% del suo territorio da un’invasione su larga scala, su tre direttrici nord-est-sud, volta a controllare l’intero Paese tramite annessione diretta – poi attuata nell’area intorno al Mar d’Azov – e/o un governo fantoccio al posto di quello democraticamente eletto in uno stato sovrano. La società ucraina a ovest del fronte continua a funzionare nonostante gli enormi sacrifici e i continui bombardamenti aerei, riuscendo anche a esportare i propri prodotti attraverso il Mar Nero.

La Russia prepara una nuova offensiva, facendo leva su un bacino demografico più ampio di quello ucraino e che non ha possibilità di protestare, e su un’economia di guerra che da la priorità alla produzione bellica fino al punto di punire come un crimine il mancato raggiungimento degli obiettivi di produzione. Offensiva da svolgersi questa estate, oppure da giocarsi con una eventuale presidenza Trump decisamente propensa ad abbandonare Kyiv a Mosca, magari in cambio di possibili contro-partite nel suo scontro con la Cina. Per far fronte alla massa russa l’Ucraina ha preso la sofferta decisione di abbassare l’età di reclutamento a 25 anni senza darsi una scadenza temporale rigida per la smobilitazione, dimostrando come una democrazia possa e debba cercare di difendere la propria stessa esistenza da una guerra di invasione rinegoziando il patto sociale alla sua base.

Il pacchetto di aiuti ormai quasi approvato al Congresso prevede 23 miliardi per donare munizioni e mezzi come quelli già dati, 14 miliardi per nuovi sistemi più avanzati, 8 miliardi per pagare il personale militare e civile ucraino, e 11 miliardi per finanziare le attività militari relative alla guerra, dall’addestramento alla fornitura di intelligence. Gli europei potrebbero e, in alcuni casi, vorrebbero donare di più all’Ucraina, ma in molti altri hanno già raschiato il fondo del barile dei propri stock di equipaggiamenti: in più di due anni di guerra non c’è stato un cambio di passo dell’industria europea della difesa, che purtroppo continua a lavorare a ritmi e su volumi da tempo di pace e non per un’economia di emergenza.

Perché è nell’interesse dell’Europa aiutare l’Ucraina

Questo è per sommi capi il difficile quadro strategico in cui molti in Italia si pongono due domande: 1) che interesse ha l’Europa a continuare a sostenere l’Ucraina; 2) come farlo nelle circostanze attuali e prevedibilmente future, che sono parzialmente diverse rispetto sia al 2022 sia al 2023.

La risposta alla prima domanda è che abbandonare l’Ucraina alla Russia molto probabilmente non porterà la pace perché Putin trarrà da una sua eventuale vittoria una lezione molto semplice: che se invade un Paese confinante dopo qualche anno gli occidentali gettano la spugna, ed è quindi giunto il momento di ri-sottomettere prima la piccola e neutrale Moldavia – obiettivo a portata di mano ricongiungendo le truppe russe in Transnistria con quelle occupanti l’Ucraina – e poi i Paesi Baltici, ripristinando così gli agognati confini dell’Unione Sovietica. Poiché le Repubbliche Baltiche sono da 20 anni membri di Nato e Ue, una loro occupazione militare russa, anche parziale, comporta due scenari: o una guerra tra la Russia e tutti o alcuni alleati Nato, oppure la distruzione politica sia dell’Alleanza atlantica che dell’Unione europea, a beneficio dell’influenza russa su un’Europa divisa e con conseguenze negative enormi per l’economia, la sicurezza e la stabilità di tutti gli stati membri – Italia inclusa.

Chi ritiene questi due scenari improbabili o impossibili dovrebbe ricordarsi come nel dibattito pubblico italiano si riteneva un’invasione russa dell’Ucraina improbabile o impossibile fino al 23 febbraio 2022, appena 26 mesi fa. L’attuale leadership a Mosca ha dimostrato di essere così propensa al rischio, così solida, e così in grado di far sopportare alla propria nazione sacrifici impensabili in Europa occidentale, da rendere lo scenario di un attacco ai Paesi Baltici possibile una volta che le truppe di Mosca arrivassero ai confini (ex) ucraini con la Polonia.

Dissuadere un attacco russo a Paesi Ue e Nato è, quindi, il principale motivo per sostenere l’Ucraina, ma ovviamente non l’unico se si attribuisce valore al rispetto del diritto internazionale e soprattutto all’effetto destabilizzante di una vittoria russa su altri quadranti quali l’Indo-Pacifico, dove di fronte alla resa di Kyiv il ragionamento di Pechino sarebbe simile a quello di Mosca: si può invadere Taiwan perché, dopo qualche anno di sanzioni all’invasore e aiuti militari all’invaso, l’Occidente abbandonerà i taiwanesi come fatto con gli ucraini. E così via con un potenziale effetto domino di aggressioni a partire dalla Corea del Nord.

In una prospettiva storica, niente di particolarmente nuovo, piuttosto un ritorno a quella che è stata la normalità in Europa per circa 15 secoli dalla fine dell’impero romano all’istituzione di Nato e Ue – proprio le due istituzioni nel mirino di Putin. Un ritorno al passato contro cui vale la pena fare tutto il possibile.

Come rendere la difesa ucraina sostenibile negli anni

Fare cosa è la seconda domanda chiave sulla quale regna una certa confusione in Italia, specie alla luce delle dichiarazioni francesi dei mesi scorsi su un eventuale invio di forze armate europee in Ucraina. La riflessione su come aiutare al meglio possibile Kyiv deve partire dal realistico presupposto che non è più possibile liberare militarmente i territori oggi occupati, né in Donbas, a Zaporizhzhia o Kherson, né in Crimea.

Ma è possibile proteggere quel 80% di territorio ucraino che il Paese ha salvato a caro prezzo respingendo l’invasione russa nel primo anno di guerra. Occorre, quindi, concentrare tutte le risorse sia ucraine che dei partner internazionali nel fortificare in profondità la linea del fronte meglio difendibile in termini operativi, evacuando se serve centri abitati, allestendo difese stratificate basate su estesi campi minati, bunker, trincee, sistemi di sorveglianza, e tutte le misure adottate con successo, purtroppo, dagli occupanti russi nel 2023. Per difendere il territorio ucraino servono anche e soprattutto sistemi di difesa anti-aerea e anti-missile in grado di proteggere sia le infrastrutture critiche, in primis quelle energetiche, sia la linea del fronte, sia la popolazione civile. E servono artiglieria e missili a lunga gittata per colpire i nodi logistici, i centri di comando e controllo, e in generale le retrovie che alimentano l’offensiva russa al fronte.

Commisurare il livello di ambizione della strategia militare ucraina alle risorse effettivamente disponibili, sia interne che internazionali, è il primo passo per evitare il successo della prossima offensiva russa. Nelle condizioni attuali, lo scenario più positivo per l’Ucraina nel breve termine è una situazione paragonabile alla penisola coreana, con chilometri di confine militarizzato come avviene da decenni sul 38° parallelo. Solo se l’attuale leadership russa non avrà più alcuna speranza o illusione di poter sfondare quel fronte fortificato, allora prenderà in seria considerazione una trattativa diplomatica con l’Ucraina e i suoi alleati. Fino a quando ciò non si verificherà, l’obiettivo di Putin resterà sempre e comunque il controllo diretto o indiretto su tutta l’Ucraina, e quindi uno scenario di minaccia imminente per la Moldova e per i Paesi Baltici membri di Nato e Ue.

Con i 61 miliardi di aiuti militari in dirittura di arrivo gli Stati Uniti stanno facendo la loro parte, sebbene con un ritardo di sei mesi su quanto promesso che è costato vite ucraine sia al fronte che nelle città bombardate dalla Russia. In Europa, invece, mentre alcuni Paesi come la Finlandia aumentano e/o accelerano gli aiuti, molti altri tentennano, come nel caso della Germania. È adesso fondamentale che gli stati europei accelerino, aumentino e programmino in un’ottica pluriennale le forniture militari alla difesa ucraina, specie se vogliono evitare proprio lo scenario prospettato da Macron di un invio di loro truppe in Ucraina domani – o nei Paesi Baltici invasi dalla Russia dopodomani.

L’economia di emergenza in Europa

Realisticamente, e onestamente, aumentare e accelerare i trasferimenti a Kyiv comporta però assottigliare i propri stock vicino, o al di sotto, delle soglie minime per la deterrenza e difesa dei Paesi Nato. Ciò è possibile senza mettere a rischio la sicurezza nazionale solo se vengono immediatamente firmati contratti pluriennali con l’industria europea della difesa per riempire proprio quei magazzini che si stanno svuotando. Quindi non più solo “incentivi”, “coordinamento”, “strategie”, “roadmap” o meccanismi complessi con pochi fondi. Per produrre più artiglieria o più munizioni servono in primo luogo tre elementi: contratti; contratti; contratti. Ovvero degli impegni legalmente vincolanti firmati dai ministeri della difesa degli stati europei che allochino ogni anno per 5-10 anni centinaia di milioni di euro, vincolando così l’industria del settore a raggiungere determinate produzioni. Solo questo può portare grandi e medie imprese a costruire ex novo fabbriche, acquistare nuovi macchinari, componenti e materie prime, assumere e formare manodopera qualificata.

Per permettere tale salto l’Unione Europea dovrebbe fare la sua parte, aumentando gli stanziamenti dal bilancio comunitario per sostenere il passaggio da un’economia di pace ad un’economia di emergenza come è quella in cui dobbiamo abituarci a vivere per lo meno nel breve-medio periodo. Questo significa, fra l’altro: continuare a co-finanziare i programmi di cooperazione europea di ricerca e sviluppo; incentivare la cooperazione europea attraverso l’esenzione fiscale e l’utilizzo dei finanziamenti della Banca Europea degli Investimenti; favorire gli investimenti industriali consentendone il diretto finanziamento pubblico; assumere l’onere e la gestione degli indennizzi nel caso di cancellazione o rinvio di esportazioni a Paesi terzi per far fronte alle esigenze europee; abbattere i costi indiretti provocati dalla mancata integrazione del mercato europeo della difesa; continuare a rimborsare gli stati membri che donano all’Ucraina secondo criteri semplici e stabili. Ma, anche, contribuire a far comprendere all’opinione pubblica che su queste scelte si sta giocando la sopravvivenza di quell’Unione che negli ultimi settant’anni ha consentito agli europei di raggiungere un benessere senza precedenti nella storia e nel mondo.

L’impossibile isolazionismo dell’Europa dall’Ucraina

Se il passaggio da una economia di pace a una economia di emergenza fosse stato avviato due anni fa, oggi se ne vedrebbero già i frutti. Farlo adesso vuol dire meglio tardi che mai, perché le necessità ucraine nel 2024 sono ben maggiori degli aiuti stanziati da Washington e perché gli europei devono prepararsi a sostenere l’Ucraina anche nel caso di un abbandono di Kyiv da parte di una eventuale presidenza Trump. Gli Stati Uniti possono forse permettersi un certo isolazionismo rispetto a una guerra in Europa ponendosi al riparo di due oceani – anche se due guerre mondiali provano il contrario – ma gli stati europei membri di Ue e Nato che confinano direttamente con Russia e Ucraina di certo no e, conseguentemente, nemmeno gli altri – Italia compresa.

Ue, una campagna elettorale con molte polemiche e poche idee

Con un’iniziativa che si proponeva di aprire un dibattito pubblico in vista delle elezioni del Parlamento europeo, qualche mese fa due autorevoli personalità italiane (Marco Buti e Marcello Messori) avevano pubblicato un manifesto sulle cose da fare in Europa e per l’Europa, poi sottoscritto da importanti esponenti europei.

Si trattava di proposte che miravano a rilanciare il mercato interno europeo,  a riformare il bilancio comune dell’Ue per finanziare beni pubblici europei (anche con un nuovo ricorso a prestiti comuni), a realizzare un’autentica politica industriale a livello europeo, a promuovere investimenti pubblici e privati a sostegno delle transizioni energetica e digitale, a completare l’unione bancaria e l’unione dei capitali, a mettere in cantiere una strategia comune per l’istruzione e la formazione come condizione per un’economia più competitiva, e infine a realizzare  un’autentica politica estera e di difesa comune.

Più di recente Enrico Letta ha presentato al Consiglio Europeo un articolato progetto di rilancio del mercato interno europeo. Mario Draghi, invece, ha fornito alcune anticipazioni sul rapporto sul rafforzamento della competitività dell’economia europea, che presenterà dopo le elezioni del Parlamento europeo. Due iniziative in qualche modo complementari e convergenti che si pongono l’obiettivo di individuare una strategia mirata a invertire il declino economico (e politico) dell’Europa e che chiamano in causa le responsabilità di governi nazionali e istituzioni comuni per la definizione di un’agenda per la prossima legislatura dell’Unione europea. Due strategie con obiettivi ambiziosi, la cui attuazione richiederà scelte coraggiose e non necessariamente consensuali.

I temi della campagna elettorale in Italia

Ebbene nessuna (o quasi) di queste idee, o altre misure che pure verosimilmente  saranno oggetto di discussione nel corso della prossima legislatura europea, è finora stata oggetto di attenzione nella campagna elettorale in Italia. Nessuna di quelle proposte sembra aver suscitato un minimo di dibattito nel nostro Paese, al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori o degli specialisti della materia, se si esclude qualche speculazione su un ipotetico futuro di Draghi in Europa.

Il confronto fra le forze politiche si sta quindi sviluppando, secondo un copione già sperimentato, più che sulle sfide per l’Europa, su questioni – e relative polemiche – che poco o nulla hanno a che vedere con il futuro dell’Europa. Da un recupero tardivo della questione morale in politica, a scontri su beghe localistiche, a surreali discussioni sulla composizione delle liste elettorali e su discutibili candidature. O tutt’al più attorno a temi distanti dalle sfide per l’Europa e dalle responsabilità del Parlamento europeo (e dalle sensibilità dei cittadini), come ad esempio la contestata revisione della forma di governo, una divisiva proposta per l’autonomia differenziata, o una controversa riforma della giustizia.

Certo non è un mistero che le elezioni del Parlamento europeo, anche quest’anno come in precedenti occasioni, si giocheranno su un duplice piano. Dovrebbero quindi costituire un’occasione di confronto fra le forze politiche su temi che hanno a che vedere con  l’agenda, le politiche e la collocazione internazionale dell’Ue. Ma saranno inevitabilmente anche un momento di verifica dei rapporti di forza fra i vari partiti nelle rispettive realtà nazionali, ovviamente anche all’interno di maggioranza e opposizione.

Questo perché, non essendo stato finora possibile trovare un accordo su una legge elettorale comune, queste elezioni si svolgeranno in ciascun Paese europeo secondo regole nazionali. E con leggi elettorali che sono generalmente organizzate su base proporzionale, con soglie di sbarramento più o meno alte, e con collegi elettorali più o meno grandi. Con il risultato che questa consultazione sarà l’occasione ideale per misurare il grado di consenso dei vari partiti, come una sorta di grande sondaggio, su scala europea, sulla rappresentatività della singole forze politiche. Di conseguenza la campagna elettorale non esige posizionamenti tattici funzionali rispetto a future ipotetiche coalizioni per governare (o per fare opposizione). Si presenta, anzi, come un’occasione irripetibile per esaltare i rispettivi profili identitari nella ricerca di consensi nei propri potenziali bacini elettorali.

È quindi per certi aspetti comprensibile che lo scontro fra i partiti si sia articolato finora su questioni sostanzialmente estranee ai programmi per il futuro dell’Europa, con dinamiche di contrapposizione che si sviluppano, sia fra maggioranza e opposizioni ma anche e soprattutto all’interno dei rispettivi schieramenti. Con il risultato che l’attenzione dei media e della politica si è concentrata sulla scelta dei candidati e la composizione delle liste o al massimo sulle dinamiche che si potranno sviluppare attorno all’elezione del prossimo presidente della Commissione.

La necessità di una visione del futuro del Paese in Europa e con l’Europa

Eppure mai come in questa congiuntura l’Ue si trova a fronteggiare un contesto interno e internazionale così complicato e sfidante. Mai come nei prossimi anni l’Europa si gioca la prospettiva di una progressiva irrilevanza in un sistema di relazioni internazionali dove sembra prevalere le logica del più forte. Mai come ora l’Europa rischia una strisciante marginalizzazione se non riuscirà a invertire la rotta sulla demografia, sulla competitività, sulla capacità di stare al passo dei suoi concorrenti su ricerca, innovazione e sviluppo di nuove tecnologie. Mai come ora all’Europa si dovrà chiedere di contribuire a una crescita inclusiva e sostenibile con provvedimenti che siano condivisi dai suoi cittadini.

È vero che non è facile mobilitare consensi elettorali su temi che rischiano di essere percepiti come astratti, o proiettati su scenari apparentemente remoti. Ma è proprio in vista di una scadenza di questo tipo che ci si dovrebbe attendere dalla classe politica (senza distinzioni fra maggioranza e opposizioni) la capacità di una visione proiettata sul futuro. La capacità di uscire dalla logica di fin troppo prevedibili polemiche di bottega per mobilitare gli elettori su una visione del futuro del Paese in Europa e con l’Europa.

La contro rappresaglia di Israele in territorio iraniano

“L’attacco israeliano è una contro rappresaglia perché arriva in risposta all’attacco portato la notte del 13 aprile dall’Iran in territorio israeliano”, afferma Riccardo Alcaro, responsabile del programma Attori Globali dello IAI. “A sua volta, l’attacco iraniano era stato portato in rappresaglia contro il bombardamento da parte di Israele del consolato iraniano a Damasco”.

“Per quanto riguarda l’attacco israeliano del 18 aprile, sembra essersi trattato di un attacco molto limitato, effettuato con droni che sono partiti all’interno dello stesso territorio iraniano, e quindi operati da quinte colonne antiregime legate all’intelligence iraniana. Un’altra ipotesi è che i droni siano partiti da aree immediatamente a ridosso ai confini dell’Iran, come per esempio l’Azerbaijan” continua Alcaro. “L’attacco non ha causato né vittime né danni significativi. Se questa è l’intera estensione della contro rappresaglia israeliana e la sua modesta identità indica che la pressione da parte degli Stati Uniti – ma anche degli europei e dei paesi arabi – perché contenesse l’escalation ha avuto un certo effetto sul governo israeliano”.

Giorgia Meloni e l’Ue: tra pragmatismo politico e retorica sovranista

Fino a che punto Giorgia Meloni e il governo da lei presieduto sono un pericolo per l’unità europea? La domanda attraversa legittimamente non solo il dibattito italiano, ma anche quello degli altri paesi dell’UE. Una chiave di lettura utile è quella di distinguere la retorica dalla realtà. Cominciando dalla realtà, si tratta in sostanza di capire fino a che punto la politica del governo italiano si inserisce nel “main stream” delle strategie europee. Ciò implica un costante dialogo costruttivo non solo con la coppia franco-tedesca, ma con molti altri a prescindere dal colore del loro governo.

Le politiche messe in campo dal governo Meloni

La politica estera e di sicurezza

Il primo tema è quello alla politica estera e di sicurezza, in primo luogo rispetto all’aggressione della Russia all’Ucraina. Su questo la politica dell’Italia si è dimostrata impeccabilmente europea e atlantica; si potrebbe dire, non solo sulla perfetta scia del Governo Draghi ma anche di quelli che lo hanno preceduto. È opportuno notare che, pensando per esempio all’aiuto militare concreto all’Ucraina, le parole non sono sempre state seguite dai fatti; l’Italia resta peraltro uno dei paesi dell’UE quello che sono ancora lontani dal raggiungere il 2% sul PIL delle spese destinate alla difesa. È tuttavia legittimo pensare l’attuale opposizione non avrebbe fatto meglio.

La politica economica

Il secondo tema è quello della politica economica che trova il suo punto centrale nel cosiddetto “patto di stabilità”. Dopo un lungo negoziato si è raggiunto a Bruxelles un compromesso. Durante il negoziato le richieste del Governo erano coerenti con la tradizionale posizione italiana.

La transizione climatica

Il terzo tema è quello della transizione climatica e delle politiche necessarie per gestirla. Non c’è dubbio che in questo caso l’atteggiamento del governo Meloni è più riservato di quello di un ipotetico governo di centro-sinistra. C’è tuttavia da notare che il tema, dopo gli entusiasmi iniziali, è attualmente oggetto di molte controversie in tutta l’Europa. Sul “patto verde”, l’ora europea è attualmente al compromesso e al negoziato per tener conto delle reazioni che si manifestano in vari settori della società. Da questo punto di vista, la posizione del governo italiano non è lontana da quella degli altri maggiori partner.

L’immigrazione

Il quarto tema è quello dell’immigrazione. L’Italia ha aderito a un compromesso europeo che, se incarna l’indurimento voluto dalla totalità dei paesi membri, è molto lontano dalle posizioni demagogiche annunciate da Meloni in campagna elettorale. Del resto, il punto centrale del negoziato per l’Italia è stato lo stesso portato avanti dai governi precedenti: la complessa questione delle responsabilità dei paesi di primo ingresso e della ripartizione degli arrivi.

Da tutto ciò è possibile trarre una conclusione. Giorgia Meloni, eletta per “difendere l’interesse nazionale”, ha capito che esso coincide con la volontà del paese di far parte del “main stream” europeo e di contribuire attivamente al suo consolidamento. Ha dunque compreso che l’interesse nazionale coincide con il “vincolo europeo e atlantico” che ha guidato la politica dell’Italia negli ultimi 70 anni. Vincolo che conferma la sua funzione di importante elemento di ancora democratica per la Repubblica italiana. Oltre alla partecipazione attiva ai negoziati che hanno condotto ai compromessi finali, Meloni ha stabilito con discreto successo un rapporto personale con vari leader europei e occidentali, anche se a lei non politicamente vicini, trovandosi peraltro su posizioni distanti da altri a lei teoricamente vicini come l’ungherese Victor Orban. Tra l’altro, molte delle posizioni adottate in fase negoziale erano accompagnate dalla richiesta di maggiore solidarietà, soprattutto sotto forma di finanziamenti comuni. In altri termini, una richiesta di “più Europa”: in fondo, la posizione italiana da sempre.

La retorica del governo Meloni

Se passiamo dalla realtà alla retorica, dobbiamo constatare che ognuna delle scelte illustrate in precedenza è stata invece presentata e difesa di fronte all’opinione pubblica come una totale rottura con le politiche “imbelli e rinunciatarie” dei governi precedenti. Inoltre, mentre in pratica lavora con successo con l’UE quale è, Meloni continua a parlare di una scelta radicale fra un mitologico “leviatano burocratico” e una altrettanto mitologica “Europa delle nazioni”. In sostanza una retorica tipica dei populisti sovranisti che tende a criticare l’Ue non per ciò che fa, ma per ciò che è; o che si pretende che sia. Una simile disconnessione fra realtà e retorica serve a rassicurare un elettorato in parte sensibile alle promesse della campagna elettorale, ma soprattutto a neutralizzare gli attacchi dello scomodo alleato costituito dalla Lega di Matteo Salvini. Serve paradossalmente anche a obbligare l’opposizione ad arrancare per criticare compromessi non molto distanti da quelli che avrebbe verosimilmente accettato se fosse stata al potere.

A questo punto, sorge legittima una domanda: c’è un prevedibile punto d’arrivo per il percorso politico di Giorgia Meloni? Coloro che credono nella sua progressiva trasformazione in una leader “normale” del conservatorismo europeo, probabilmente si sbagliano. La scelta del realismo in Europa è dettata dal buon senso, ma è in gran parte opportunistica. Le radici culturali della retorica sovranista sono invece molto forti. Anche a prescindere dalle vere o presunte nostalgie fasciste, è una cultura impregnata di statalismo e la cui dimestichezza con l’economia di mercato è a dir poco episodica. Dobbiamo quindi rassegnarci a vivere con la disconnessione fra retorica e realtà.

Sorge allora un’altra domanda: quanto è sostenibile quella disconnessione senza che Meloni debba affrontare, all’interno o in Europa, delle scelte politicamente costose? Ci sono alcuni nodi che arriveranno inevitabilmente al pettine per quanto riguarda le implicazioni degli impegni presi dall’Italia a livello europeo, per esempio in materia di bilancio, di politica industriale, o anche d’immigrazione. Inoltre se, come è auspicabile, dovessero maturare alcune proposte dell’Italia e di altri di progredire verso “più Europa”, Meloni dovrebbe spiegare al suo elettorato che nell’Ue ciò comporta sempre e necessariamente qualche condivisione aggiuntiva di sovranità.

Resta infine l’incognita probabilmente maggiore. La scelta italiana di inserirsi nel “main stream” europeo dipende in gran parte dall’equilibrio politico del resto dell’Ue. Una modifica importante a favore di populisti sovranisti nell’equilibrio fra governi comporterebbe per Meloni un serio problema di ridefinizione “dell’interesse nazionale”. Gestire Orban o anche Fico, persone e governi alquanto marginali e i cui interessi sono lontani da quelli italiani, è relativamente facile; in realtà è un compito in cui Meloni può aiutare il “main stream”. Alla fine il vero cigno nero, la questione che potrebbe far saltare gli equilibri e compromettere l’attuale strategia, sarebbe una vittoria di Marine Le Pen alle prossime elezioni francesi. Stiamo però parlando del 2027, data ancora lontana.

Il rapporto di Enrico Letta: un mercato finanziario unico per l’Europa

Nel pieno delle crisi multiple (guerra in Ucraina, Medio Oriente, rivalità strategiche tra gruppi di medie e grandi potenze, concorrenza economica spietata fra le grandi aree produttive) l’Unione Europea cerca il suo “momentum”, il modello di spinta per evitare un indebolimento complessivo della sua posizione nel mondo. La leva che può cambiare le cose, superando lo stanco evoluzionismo istituzionale, si condensa nel trinomio “unione mercato capitali”. È uno dei punti qualificanti del rapporto sul mercato interno dell’Ue che l’ex premier Enrico Letta ha preparato per il Consiglio Europeo. Si affianca al rapporto sulla competitività che sta preparando per giugno (dopo il voto) Mario Draghi. È facile ritenere che la sintonia tra i due estensori sarà pressoché totale.

L’unione del mercato dei capitali è una di quelle visioni comprensibili solo agli addetti ai lavori: in soldoni si tratta di avere un mercato finanziario integrato, senza barriere interne, con regole e vigilanza comuni, in grado di finanziare l’economia europea. Lanciata nel 2015, i progressi sono limitati. Non è andata come per l’unione bancaria: in reazione alla crisi finanziaria originata dagli Usa alla fine del primo decennio del secolo e poi prolungatasi con la crisi del debito sovrano, la vigilanza bancaria nell’area euro è di fatto centralizzata sotto l’egida della BCE, tassello del “federalismo monetario” europeo. Per le banche si è proceduto dall’alto, per i mercati finanziari si è proceduto dal basso con il risultato che restano sostanzialmente nazionali.

L’Europa non può più fare a meno di un mercato finanziario unico

Avere o meno un mercato dei capitali senza barriere fa la differenza per il finanziamento dell’economia e qui il divario tra Ue e Usa è enorme. Per esempio, il finanziamento azionario a fine 2023 rappresentava solo l’84% del Pil dell’area euro contro il 173% negli Stati Uniti. Il fondo venture capital europeo più grande (investimenti in imprese start-up o ad alto potenziale di crescita) è inferiore per importo raccolto al decimo più grande americano. Non avere un mercato finanziario unico priva l’Europa di una risorsa di cui non può più fare a meno. Letta spiega ai capi di stato e di governo, in linea con Draghi, che l’Ue non può permettersi il lusso di non fare nulla. Ricorda nell’Ue ci sono 33 mila miliardi di risparmi privati, che ogni anno circa 300 miliardi lasciano l’Europa per dirigersi negli Usa. Risparmio europeo che torna in Europa sotto forma di investimenti per finanziare lo shopping di importanti imprese europee. Un paradosso.

La leva della finanza europea integrata è decisiva nel momento in cui si accumulano le transizioni epocali: “verde”, digitale, difesa/sicurezza, nuova fase di allargamento dell’Unione europea (Balcani e in prospettiva Ucraina e Georgia), rafforzamento delle coperture sociali (sempre più importante se si vuole mantenere il consenso dei cittadini al Green Deal). In gioco ci sono la difesa del tessuto industriale europeo, la risposta allo spiazzamento nella produzione di pannelli solari, batterie, chip elettronici, intelligenza artificiale, la riduzione della dipendenza da produzioni di punta effettuate altrove e dalle materie prime e rare importate.

Lo sforzo di investimenti necessario è immane, si calcola in diverse centinaia di miliardi di euro per anno per molti anni. Solo per transizione verde e digitale circa 750 all’anno fino al 2030. Sono i conti minimali di un IRA europeo (riferimento all’Inflation Reduction Act che sostiene la svolta industriale e verde negli USA). Non basteranno le casse degli stati, in tempi di debiti pubblici alle stelle, né il canale bancario, che costituisce la principale fonte di finanziamento delle imprese. E neppure le risorse europee attuali: il bilancio Ue vale meno di 1.100 miliardi per 7 anni, se ne aggiungono 800 di Next Generation EU fino al 2026. Certamente, c’è la Banca europea degli investimenti, di cui sono azionisti gli stati Ue, che ha una capacità effettiva di mobilitazione di capitali privati, però dovrebbe essere ricapitalizzata per aumentarne la potenza.

L’opzione proposta da Letta: un “safe asset” unificato

L’azione proposta da Letta implica superare divisioni profonde: un fronte di paesi guidato dal Lussemburgo si oppone alla prospettiva di supervisione centralizzata dei mercati finanziari; un altro fronte spinge per forzare le tappe creando un prodotto di risparmio comune europeo per aggregare l’offerta di capitali, assicurare un buon rendimento ai sottoscrittori e fondi per investire in progetti europei, procedendo anche con un gruppo di volontari. È l’idea francese appoggiata dall’Italia. Il cancelliere Scholz è incline a seguire queste strade, ma il governo tedesco appare diviso. Letta propone di forzare le tappe emettendo entro il 2026 un “safe asset” unificato centralizzando tutte le emissioni di obbligazioni Ue per convogliare i risparmi dei comuni cittadini nel finanziamento dell’economia reale. Non è una strada spianata perché la concorrenza nel mercato delle emissioni è effettiva e nessun governo vuole rischiare spiazzamenti nelle preferenze degli investitori (i bond Ue hanno la massima valutazione delle agenzie di rating). Sarebbe un passo rilevante anche per gli effetti positivi per la trasmissione della politica monetaria unica e per il ruolo globale dell’euro. Economia e ruolo geopolitico si intrecciano.

La leva del mercato dei capitali unificato coronerebbe l’azione più generale per integrare i mercati dell’energia e delle telecomunicazioni, settore quest’ultimo in cui gli operatori sono troppi e l’economia di scala minimale rispetto a Usa e Cina. Sarebbe poi utile per allentare la pressione sugli aiuti pubblici alle imprese: Letta propone più rigore a livello nazionale compensato da più sostegni a livello europeo e immagina un meccanismo che imponga ai paesi di destinare una parte dei loro finanziamenti nazionali alle imprese al sostegno di investimenti paneuropei. Anche su questo la strada non sarà in discesa. Inoltre, lo sblocco del mercato dei capitali potrebbe convincere gli stati “frugali”, Germania in testa, ad accettare emissioni di debito comune, anche questa una prospettiva inevitabile se l’Ue vuole davvero evitare lo spiazzamento competitivo con Stati Uniti e Cina, che sono in grado di sostenere l’industria nazionale con ingenti trasferimenti e impiego di denaro pubblico (nel caso cinese a suon di pratiche sleali di sussidio).

Il confronto tra Iran e Israele entra in una nuova fase

“Fino ad oggi si mantiene ferma l’analisi secondo cui sia Israele sia Iran non vogliono entrare in un conflitto aperto uno contro l’altro. Tuttavia, dopo il 7 ottobre soprattutto dopo l’attacco dell’Iran a Israele, lo scontro latente a bassa intensità tra questi due attori si è trasformando, rischiando sempre più di divenire uno scontro diretto”, afferma Maria Luisa Fantappiè, responsabile del programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dello IAI.

New York, Donald Trump a giudizio

L’America s’avventura in un territorio inesplorato: il processo penale a un ex presidente, mai avvenuto. Dal 15 aprile, Donald Trump è a giudizio a New York: se condannato, magari non andrà in carcere, ma sarà un candidato presidenziale ‘convicted felon’.

Il primo attacco diretto dell’Iran contro Israele. Putin si allinea a Teheran.

In questo podcast vi proponiamo l’intervento del Direttore editoriale di AffarInternazionali Stefano Silvestri, a commento dell’attacco dell’Iran allo Stato di Israele, nella trasmissione di Radio Radicale “Spazio Transnazionale” condotta e curata da Francesco De Leo.

Cosa ha perso e cosa può guadagnare l’Iran dalla rappresaglia contro Israele

A poche ore dall’attacco iraniano contro Israele è possibile fare una prima valutazione preliminare. Come si è arrivati a questa situazione? Cosa ci ha perso l’Iran e cosa ci potrebbe aver guadagnato? Come se ne esce?

L’attacco è il culmine di un ciclo escalatorio durato mesi

L’attacco dell’Iran è una rappresaglia in risposta a una serie di operazioni condotte da Israele a partire da dicembre 2023 contro alti funzionari iraniani in Siria, culminate nell’attacco al consolato iraniano di Damasco, nel quale è rimasto ucciso il generale di più alto grado delle Guardie della rivoluzione islamica operanti in Siria. Questi attacchi, e soprattutto quello di Damasco, hanno messo l’Iran in una posizione quasi impossibile.

Da una parte avrebbe potuto incassare il colpo e continuare a beneficiare indirettamente del crescente isolamento israeliano seguito alla devastazione inflitta a Gaza da Israele stesso. Questo avrebbe comportato un grave indebolimento della capacità di deterrenza iraniana e, di fatto, avrebbe rappresentato un invito a Israele ad alzare ulteriormente la posta. Dall’altra parte, l’Iran aveva l’opzione di rispondere militarmente, nel tentativo di recuperare un po’ della deterrenza perduta, rischiando però di essere trascinato in una guerra che non vuole e in cui il governo israeliano avrebbe fatto di tutto per portare gli Stati Uniti.

Si è optato per una sorta di via di mezzo, un massiccio attacco diretto dal territorio iraniano con droni (tra 130 e 150) e missili balistici e di crociera (circa 150 in tutto). Si è trattato di un attacco di grande impatto politico ma scarso effetto pratico: non ci sono state vittime né danni ingenti. Dopotutto è stato comunicato con largo anticipo per dare a Israele, agli Stati Uniti e ai loro alleati europei e arabi (Regno Unito, Francia, Giordania in testa) il tempo di prepararsi. Ma l’Iran ha ottenuto davvero quello che cercava?

Sconfitta o vittoria strategica per l’Iran?

Per un verso, l’Iran ci ha senz’altro perso in tutta questa storia. Israele sostiene di aver intercettato la quasi totalità dei doni e dei missili e questo avrebbe mostrato i limiti della potenza militare iraniana. Inoltre il fatto che l’attacco sia stato deliberatamente limitato e comunicato in largo anticipo indica chiaramente che l’Iran ha paura di una guerra che non può sostenere.

L’attacco ha anche visto la partecipazione a difesa del territorio israeliano della Giordania, il che avrebbe messo in risalto come la reale linea divisoria in Medio Oriente non sia quella fra arabi e israeliani – come è stato fino agli anni ’80 del Novecento – ma quella fra Israele e i paesi arabi da una parte (con l’eccezione della Siria) e l’Iran all’altra. Ma la cosa più importante è che l’attacco ha spostato il focus internazionale da Gaza, su cui Israele è sulla difensiva, all’Iran, rispetto al quale Israele ha facilmente recuperato il sostegno degli americani e degli europei.

L’Iran ha pertanto perso alcuni dei vantaggi che aveva indirettamente guadagnato dalle critiche internazionali piovute su Israele per la distruzione di Gaza. Tuttavia ci sono alcuni elementi che fanno pensare che potrebbe aver guadagnato qualcosa.

Innanzitutto, ha mostrato una certa capacità militare. È del tutto plausibile che il tasso di intercetti sia inferiore al 99% vantato dagli israeliani. Un attacco in futuro condotto non a scopo politico ma militare avrebbe con ogni probabilità un impatto superiore a quello ‘telegrafato’ della notte del 13-14 aprile.

In secondo luogo, la reputazione dell’Iran nell’opinione pubblica regionale si è probabilmente rafforzata perché ha avuto l’audacia di attaccare Israele nonostante il rischio di una pesantissima contro-rappresaglia da parte israeliana e americana. Considerando che gli unici altri attori regionali che hanno colpito Israele durante le operazioni militari israeliane a Gaza sono alleati dell’Iran (Hezbollah e Houthi), la credibilità dell’‘asse della resistenza’ – il network di alleati iraniani in Siria, Libano, Iraq e Yemen – nella regione è aumentata.

Terzo, l’attacco ha messo una volta di più in risalto l’ipocrisia occidentale, che ha prontamente condannato (giustamente!) l’Iran, ma non ha mai ammonito Israele per avere innescato la spirale escalatoria. Di fatto prima della rappresaglia Stati Uniti ed Europa hanno esortato l’Iran a non agire, senza però fare altrettanto con Israele.

Infine l’attacco iraniano ha palesato agli occhi del Sud globale e di Russia e Cina la codardia occidentale: Stati Uniti, Francia e Regno Unito non hanno esitato a utilizzare le loro forze per difendere lo spazio aereo e il territorio di Israele da una rappresaglia che il Paese stesso ha di fatto provocato. Eppure, si guardano bene dal prendere misure per chiudere lo spazio aereo dell’Ucraina, un Paese innocente aggredito da una potenza imperialista con propositi di conquista – e che peraltro utilizza lo stesso tipo di drone.

Una via d’uscita?

L’Iran considera conclusa la faccenda, come ha detto la sua rappresentanza alle Nazioni Unite. Anche gli Usa sembrano propensi a superare l’incidente. Il presidente Joe Biden ha detto al primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu di “prendersi la vittoria” dell’intercetto di tutti o quasi i missili e droni (vero o meno che sia). Soprattutto, gli ha comunicato che gli Stati Uniti non intendono partecipare a una contro-rappresaglia israeliana. Non sorprenderebbe se la soffiata alla stampa in base alla quale Biden si sarebbe lamentato del fatto che Netanyahu stia facendo di tutto per trascinare gli Stati Uniti in una guerra in Medio Oriente fosse stata una mossa deliberata.

La questione ora è che farà Israele. Finora il governo Netanyahu ha costantemente ignorato le richieste e gli ammonimenti degli americani su Gaza, né si è sentito in dovere di avvertire Washington prima dell’attacco di Damasco che ha innescato la spirale di escalation. Tirerà ancora la corda attaccando l’Iran in modo tale da provocarne una seconda rappresaglia? Se lo farà sarà perché non avrà ricevuto alcuna forma di pressione da parte degli americani e degli europei. Se quindi nelle prossime settimane e mesi ci troveremo un conflitto generalizzato in Medio Oriente, la responsabilità sarà anche di Washington e degli europei.

Iran-Israele e il ruolo della comunità internazionale

Israele e Iran non vogliono entrare in un conflitto aperto. Tuttavia, gli scambi di fuoco delle ultime settimane – prima l’attacco israeliano all’ambasciata di Damasco e poi la rappresaglia iraniana – potrebbero inavvertitamente portarci a questo risultato. L’Europa deve guardare agli stati arabi della regione, e in particolare ai membri del GCC, come alleati per aiutare a sventare questa possibilità. Una condizione necessaria affinché ciò avvenga è che, nelle ore e nei giorni successivi all’attacco, l’Europa non commetta gli stessi errori compiuti dopo il 7 ottobre, parteggiando a favore di una parte contro l’altra, rendendosi quindi vittima della competizione tra due attori, invece che potenziale canale di dialogo.

Il 7 ottobre ha cambiato le regole non scritte di competizione tra Tehran e Tel Aviv, portando entrambe le parti ad alzare l’asticella delle tensioni. Segnali di un cambiamento rispetto al passato sono rappresentati dall’attacco di Israele all’ambasciata iraniana di Damasco e dalla decisione di Tehran di rispondere lanciando un attacco dal proprio territorio a quello israeliano. In passato, Israele si limitava a colpire milizie pro-iraniane in Siria e in Iraq. Dal canto suo, Tehran continuava ad armare una serie di gruppi para-militari suoi alleati dispiegati alle frontiere con Israele. Il conflitto tra i due rimaneva latente ma a bassa intensità. Vi era, inoltre, il ruolo degli Stati Uniti nel porre dei limiti alle operazioni di Israele per evitare una conflagrazione regionale.

Ora entriamo in una nuova fase dove le regole della competizione tra i due attori sono cambiate. Entrambi vogliono dimostrare la propria capacità di colpire e umiliare l’altro. Dopo il 7 ottobre, l’attuale governo israeliano punta non solo allo sradicamento di Hamas, ma sembra determinato anche a costruire un cuscinetto di sicurezza contro tutti gli attori legati a Tehran. L’Iran fa leva sull’offensiva israeliana per consolidare la propria legittimità come unico difensore della causa palestinese e per rafforzare i legami con i gruppi paramilitari suoi alleati in Iraq, Siria e Libano, espandendo così la propria influenza strategica nel mondo arabo.

Il ruolo dell’Europa nella crisi in Medio Oriente

Il ruolo delle grandi potenze è cambiato. La competizione tra Iran e Israele avviene in un contesto dove non vi è una potenza globale a fissare i limiti di questo scontro – gli Stati Uniti dimostrano una diminuita capacità di influenza su Israele – né una potenza regionale capace di controbilanciare e mediare tra questi due attori. L’Arabia Saudita ci ha provato, ma senza successo, sancendo un accordo con Tehran e alludendo, nei giorni prima del 7 ottobre, alla volontà di normalizzazione con Israele.

Le conseguenze di una competizione “senza regole” sono molte per una regione così vicina all’Europa. Il levante arabo (Iraq, Siria, Libano e Giordania) rischia di diventare teatro di confronto tra questi due attori, aggravando le crisi profonde che già attraversano questi paesi. Crisi come quella del Mar Rosso (dove gli Houthi, gruppo yeminita legato a Tehran, lanciano attacchi su imbarcazioni occidentali che cooperano con Israele) rischiano di protrarsi, aggravarsi e moltiplicarsi in altri contesti. Inoltre, il conflitto israelo-palestinese continua ad appronfondirsi, diffondendo instabilità in Medio Oriente e attenuando la polarizzazione globale tra Occidente e Sud globale a favore di Cina e Russia.

L’Europa e gli Stati membri, insieme agli Stati arabi della regione e in particolare ai membri del GCC, hanno tutto l’interesse a collaborare per sventare una crisi regionale e dispongono di alcuni mezzi per farlo. In primo luogo, il dialogo con l’Arabia Saudita è necessario per far avanzare una proposta araba sul conflitto israelo-palestinese in cambio di un ritorno al processo di normalizzazione tra Israele e Riyadh.

Europa e paesi del GCC possono inoltre porsi come canali di dialogo per aiutare Israele e Iran a definire le regole non scritte della competizione in questa nuova fase della storia e evitare uno scontro diretto. Membri del GCC che hanno relazioni di lungo periodo con l’Iran – come l’Oman – possono aiutare a definire in modo più chiaro le intenzioni di Tehran e le conseguenze di ulteriori attacchi lanciati da Israele su obiettivi iraniani.

Gli stati dell’Unione europea con una lunga tradizione di cooperazione con Israele possono fare lo stesso sulla parte israeliana. La diplomazia europea deve quindi diventare canale di dialogo tra le parti in conflitto invece di porsi in modo unilaterale a favore o contro una di esse.

L’aggressione iraniana a Israele e il diritto internazionale

Nella notte tra il 13 e il 14 aprile, l’Iran ha condotto un attacco armato contro Tel Aviv, mediante il lancio di un’ingente quantità di missili balistici e droni. Alcuni di essi sarebbero provenuti anche dal territorio libanese, attribuiti a Hezbollah.

Secondo le prime dichiarazioni dello Stato iraniano, si tratterebbe dell’esercizio del diritto naturale di legittima difesa ai sensi dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite in risposta alle continue aggressioni israeliane, culminate nell’attacco alla sede diplomatica della Repubblica dell’Iran a Damasco, in Siria, e nel “martirio”- secondo quanto riportato – dei consiglieri militari iraniani presenti. Il ministro degli Esteri iraniano evoca anche una responsabilità del suo Stato connessa al suo ruolo funzionale al mantenimento della stabilità nell’area regionale a fronte di Israele, accusato, tra l’altro, di portare avanti un regime di apartheid nei territori occupati e una “campagna genocidaria” nei confronti del popolo palestinese.

Fonti di intelligence avevano preannunciato l’imminente attacco da parte dell’Iran, cui Israele ha risposto efficacemente. Grazie al sistema Iron Dome e al supporto difensivo fornito dagli assetti navali statunitensi presenti nel Mar Rosso, tra cui l’ammiraglia portaerei della marina statunitense USS Eisenhower, gli effetti dell’attacco iraniano non hanno prodotto effetti devastanti.

Numerose le dichiarazioni di supporto manifestate pubblicamente a Israele e di condanna all’aggressione da parte dell’Iran, compresa quella italiana. La prima reazione del Segretario Generale dell’ONU, limitata a un invito all’immediata cessazione delle ostilità per evitare “un’altra guerra”, è stata piuttosto flebile, in linea con l’orientamento scarsamente decisionista dei tempi più recenti. Nella giornata del 14 aprile, è attesa una riunione del Consiglio di Sicurezza, dopo circa 24 ore dall’avvenuto.

L’aggressione iraniana e il punto di vista giuridico

L’azione militare dell’Iran rivolta contro Israele tramite ingenti operazioni aeree pare difficilmente riconducibile a un esercizio della legittima difesa ai sensi dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite a fronte dell’attacco dell’ambasciata iraniana in Siria. In primo luogo, sotto il profilo temporale, essa non segue a un attacco armato attuale o imminente, essendosi concluso da giorni quello richiamato. In secondo luogo, Israele non ha rivendicato questo attacco, ma è stato attribuito allo stesso dall’Iran. Peraltro, esso ha colpito una sede diplomatica iraniana ma sita sul territorio di uno Stato terzo, la Siria.

Per contro, l’azione iraniana condotta il 13 aprile potrebbe avere i caratteri di un’aggressione ai sensi dell’art. 2 par.4 della Carta dell’Onu, in quanto chiaramente e dichiaratamente un massiccio attacco armato è partito dal territorio della Repubblica islamica dell’Iran nei confronti di un altro Stato sovrano. La risposta israeliana sembra, invece, configurabile come un’azione in legittima difesa a fronte di un attacco armato attuale e finalizzata a respingerlo secondo criteri di proporzionalità, in conformità all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Il supporto statunitense o di altri Stati nella difesa pare a sua volta configurabile come un’ipotesi di intervento in legittima difesa collettiva.

Da un punto di vista formale – per quanto sin dalle prime battute del conflitto armato tra Israele e Hamas si sia ipotizzato un coinvolgimento, non dimostrato, della repubblica islamica dell’Iran a supporto di quest’ultimo oppure degli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso -,  si trattava di un appoggio non incontroverso e di natura logistica. Un coinvolgimento indiretto nel conflitto armato, tramite il supporto di gruppi armati, ma senza un intervento diretto, generalmente non è ritenuto idoneo a far qualificare uno Stato come parte dello stesso. Risultava pertanto da escludere un coinvolgimento diretto dell’Iran come parte belligerante di un conflitto armato internazionale. Dal punto di vista giuridico, gli eventi recenti sono invece configurabili come un atto di aggressione, come definito in maniera condivisa a livello internazionale, contro la sovranità di un altro Stato, tale da dare origine a un conflitto armato internazionale. In tal caso, apparirebbe incontrovertibile la sussistenza di un animus bellandi, tale da far qualificare quest’ultimo come “guerra” dal punto di vista giuridico.

I bombardamenti iraniani, pertanto, hanno rappresentato certamente un’esclalation sotto il profilo militare, ma anche un momento di svolta, rendendo chiara e diretta la contrapposizione armata tra Israele e la Repubblica islamica dell’Iran.

Soltanto un’intensa attività diplomatica, in ogni sede, potrebbe attenuare il deterioramento della crisi nell’area mediorientale, che, allo stato attuale, appare destabilizzata in maniera critica, senza dimenticare che c’è il sospetto del possesso dell’arma nucleare tra le parti al conflitto.

Le imminenti riunioni del G7 e del Consiglio di sicurezza dell’ONU, già convocate, unitamente alle reazioni di supporto a Israele provenute da un ampio novero di attori, inclusa la NATO, testimoniano la preoccupazione della Comunità internazionale rispetto alla destabilizzazione dell’area.

Perché la guerra del Donbas non è mai stata “civile”

Il 12 aprile 2014, la guerra russo-ucraina, iniziata con l’occupazione illegale della Crimea da parte della Russia il 20 febbraio 2014, si è trasformata in un grande e violento conflitto armato. Molti degli analisti, oggi solidali con l’Ucraina e attivi nel condannare l’invasione su larga scala della Russia del 24 febbraio 2022, rimangono ambivalenti sulle sue origini: a causa della propaganda russa, di preconcetti teorici, di semplice ingenuità o di altre ragioni, molti di loro continuano infatti a fare una netta distinzione tra i combattimenti in Ucraina prima e dopo questa data.

Il ruolo della Russia nella “ribellione” dell’Ucraina orientale

La guerra del Donbas è stata uno dei diversi risultati di un più ampio tentativo russo di prendere sotto controllo le zone orientali e meridionali dell’Ucraina, in gran parte russofone. Inizialmente, il Cremlino intendeva farlo riducendo al minimo i combattimenti militari. L’evento più noto di questa operazione (per lo più segreta ma già ampiamente organizzata e chiaramente militare) è stato l’annessione della Crimea da parte della Russia tra il 20 febbraio e il 18 marzo 2014.

Il tentativo di catturare quella che i nazionalisti imperiali russi chiamano Novorossiia (Nuova Russia) ha incluso una moltitudine di altre azioni simultanee sovversive, ibride, clandestine volte a minare la coesione sociale, la stabilità politica e la capacità dell’Ucraina orientale e meridionale, e non solo. Tra gli strumenti più importanti della guerra ibrida russa in Ucraina continentale, all’inizio del 2014, c’erano i mass media russi e quelli ucraini sotto l’influenza di attori russi o filorussi. Tuttavia, l’effetto della campagna di demonizzazione di Mosca sull’opinione pubblica dell’Ucraina orientale è rimasto limitato. Non solo i canali di propaganda russi, ma anche i mass media stranieri hanno spesso dipinto le manifestazioni filorusse nel Donbas, all’epoca, come espressione di presunti umori popolari diffusi.

Tuttavia, vari sondaggi d’opinione condotti prima e durante questa fase dipingono un quadro diverso. Nel marzo 2014, ad esempio, ancora solo un terzo dei residenti delle regioni di Donetsk e Luhansk era favorevole alla separazione del Donbas dall’Ucraina, mentre il 56% respingeva questa idea. Molte delle azioni separatiste nelle città dell’Ucraina orientale e meridionale non sono state solo o per nulla avviate a livello locale, ma sono state dirette e finanziate da Mosca.

Il gruppo armato russo di Strelkov e l’escalation di violenza

Mentre la tensione era già alta all’inizio di aprile 2014, gli scontri su larga scala sono iniziati solo nella seconda settimana di aprile. La nuova fase del confronto, a metà aprile, ha visto l’uso di armi da fuoco e l’onnipresenza di cittadini russi. Questa escalation ha costituito l’inizio della guerra del Donbas come sottoconflitto armato della più ampia guerra della Russia contro l’Ucraina, iniziata con i movimenti di truppe russe in Crimea il 20 febbraio 2014 e durata fino ad oggi. La guerra del Donbas è iniziata quando, il 12 aprile, sono stati sequestrati edifici amministrativi a Sloviansk e Kramatorsk dell’Oblast di Donetsk sotto la guida di combattenti russi irregolari. La presa di Sloviansk è stata seguita dai primi combattimenti su larga scala della guerra russo-ucraina.

Gli irregolari anti-ucraini a Sloviansk erano guidati dal cittadino russo, colonnello in pensione ed ex ufficiale dell’FSB Igor Girkin (alias “Strelkov”). Il gruppo armato di Girkin, composto da oltre 50 combattenti irregolari, era appena arrivato in Ucraina attraverso il territorio dalla Crimea già occupata, dove la maggior parte di questi uomini aveva partecipato all’operazione di annessione. Il gruppo ha svolto un ruolo decisivo nella trasformazione del conflitto civile regionale del Donbas in una guerra interstatale delegata tra Russia e Ucraina. In un’intervista rilasciata al settimanale russo di estrema destra Zavtra (Domani) nel novembre 2014, Girkin ha ammesso: “Ho premuto il grilletto della guerra. Se la nostra unità [armata] non avesse attraversato il confine [dalla Russia all’Ucraina], tutto sarebbe andato come è andato a Kharkiv [nell’Ucraina nord-orientale] e a Odesa [nell’Ucraina meridionale]. […] [L’impulso alla guerra, che dura ancora oggi, è stato dato dalla nostra unità [armata]. Abbiamo mescolato tutte le carte che erano sul tavolo. Tutte!”.

I cosiddetti “separatisti” ucraini guidati da Mosca

Il 13 aprile, il presidente ucraino ad interim Oleksandr Turchynov ha annunciato l’inizio della cosiddetta operazione antiterrorismo (ATO). La decisione iniziale del governo ucraino di lanciare l’operazione difensiva come un’operazione antiterroristica piuttosto che militare – nonostante le prove fin dall’inizio di un profondo coinvolgimento russo a Sloviansk e Kramatorsk – viene talvolta interpretata come la prova di un conflitto interno allo Stato piuttosto che internazionale. Tuttavia, questa decisione è stata presa su basi pragmatiche piuttosto che paradigmatiche, soprattutto perché la prevenzione del separatismo rientra nella legislazione ucraina sull’antiterrorismo piuttosto che in quella sulla difesa. Nell’aprile 2014, Kyiv non era disposta ad annunciare la legge marziale prima delle elezioni presidenziali, previste per il maggio 2014 e che sarebbero state annullate con lo stato di emergenza.

Diverse ricerche sull’inizio e l’andamento della guerra del Donbas hanno rivelato le molteplici connessioni tra attori irregolari antiucraini apparentemente indipendenti nell’Ucraina orientale, da un lato, e organi statali russi, a Mosca, Rostov-on-Don, Simferopol o altrove, dall’altro. Lo storico russo con sede in Germania, Nikolay Mitrokhin, è stato tra i primi accademici di spicco a sottolineare, in un articolo intitolato Provocazione transnazionale, il ruolo cruciale non solo degli attori irregolari russi, ma anche dello Stato russo nello scoppio della guerra del Donbas, apparentemente civile. In seguito, il politologo giapponese Sanshiro Hosaka con i suoi articoli, ad esempio Russian Political Technology in the Donbas War, e il ricercatore tedesco Jakob Hauter con il suo libro Russia’s Overlooked Invasion, hanno confermato e sostenuto le prime indicazioni di Mitrokhin.

Già prima della comparsa di indagini empiriche dettagliate sul coinvolgimento della Russia, quest’ultimo fattore appariva come la spiegazione più plausibile per lo scoppio della guerra. Il contesto politico più ampio dell’escalation militare nel Donbas nella primavera del 2014 è stato, fin dall’inizio, suggestivo. Non poteva essere una coincidenza che la guerra fosse in preparazione e alla fine scoppiasse nello stesso periodo in cui le truppe regolari russe stavano conquistando la Crimea e la Russia stava accelerando un attacco ibrido multidirezionale contro l’Ucraina continentale. Un aspetto strano dell’apparente “ribellione” nel Donbas è sempre stato che, dall’inizio alla fine, non ha mai incluso nessun noto leader politico o di altro tipo, né organizzazioni politiche o di altro tipo rilevanti della regione.

L’arrivo delle forze regolari russe nella guerra del Donbas

Fino ad oggi, la Russia nega che le sue truppe regolari siano state attivamente coinvolte nella conduzione della guerra del Donbas. Questo è stato, in effetti, in gran parte vero fino alla fine di agosto 2014. Tuttavia, oltre al ruolo cruciale delle truppe regolari russe nell’annessione della Crimea nel febbraio-marzo 2014, nell’Ucraina orientale si sono verificati diversi casi che indicano la presenza di soldati russi non solo irregolari ma anche regolari.

L’eccezione più tristemente nota è stata l’equipaggio di un sistema missilistico terra-aria semovente Buk TELAR delle forze di difesa aerea russe che nel luglio 2014 è entrato per un paio di giorni nel territorio dell’Ucraina orientale, abbattendo accidentalmente il volo passeggeri MH-17 della Malaysian Airlines che, con 298 civili a bordo, stava sorvolando il Donbas. Nello stesso periodo in cui piccoli distaccamenti regolari russi, come l’unità Buk, sostenevano gli irregolari filorussi che combattevano nel Donbas, l’esercito russo ha iniziato a sparare oltre confine contro le truppe ucraine. Nel mese di luglio 2014, sono stati immortalati in foto e video diversi attacchi con razzi e artiglieria contro le posizioni ucraine dal territorio russo. Il primo di questi attacchi si è verificato l’11 luglio 2014 nei pressi del villaggio di Zelenopillya, nell’Oblast’ di Luhansk, e ha causato la morte di 30 soldati ucraini e guardie di frontiera. In un rapporto pubblicato nel dicembre 2016, il famoso gruppo OSINT Bellingcat ha descritto i bombardamenti russi sull’Ucraina in almeno 149 occasioni distinte.

Nel mese successivo, la Russia ha infine invaso su larga scala l’Ucraina continentale. Il 14 agosto 2014, una grande colonna di almeno due dozzine di mezzi corazzati e altri veicoli dell’esercito russo ha attraversato il confine russo-ucraino. Questa è stata la prima intrusione massiccia di forze regolari russe nell’Ucraina continentale confermata da osservatori indipendenti. Alla fine di agosto 2014, fino a otto cosiddetti “gruppi tattici di battaglioni” (BTG) delle forze armate russe erano stati dispiegati nel territorio dell’Ucraina, con oltre 6.000 effettivi.

Nonostante questi avvenimenti, molti politici, giornalisti, diplomatici e persino alcuni studiosi in tutto il mondo seguono ancora, nel commentare questi eventi, la narrazione propagandistica del Cremlino sulla guerra del Donbas degli ultimi 10 anni. I media, i commentatori politici, accademici e civili dovrebbero assicurarsi di capire bene le origini e la natura della guerra. Politici, diplomatici e altri attori interessati al futuro dell’Ucraina dovrebbero sottolineare in modo esplicito e continuo nelle loro dichiarazioni pubbliche e non, che il conflitto armato nel Donbas nel 2014-2022 è stato una guerra interstatale delegata tra Russia e Ucraina e non una guerra civile interna all’Ucraina.

Julia Kazdobina è Senior Fellow presso il Programma di studi sulla sicurezza del Consiglio di politica estera “Ukrainian Prism” a Kiev, mentre Jakob Hedenskog e Andreas Umland sono analisti presso il Centro di Stoccolma per gli studi sull’Europa orientale dell’Istituto svedese per gli affari internazionali. Questo articolo si basa su un rapporto SCEEUS di prossima pubblicazione: https://sceeus.se/en/publications/.

Europa sovrana in uno scenario di policrisi

Siamo vivendo una fase di radicali cambiamenti nelle relazioni internazionali che sta ridisegnando l’intero assetto dell’economia mondiale e pone all’Unione europea sfide complesse e in larga misura inedite.

In estrema sintesi tre mutamenti si possono citare tra i più rilevanti, in generale e per il loro impatto sull’Europa. Innanzitutto, nelle relazioni internazionali contano ormai più i rapporti di forza tra paesi che le regole e le istituzioni multilaterali del passato. Le condizioni di sicurezza influenzano in misura determinante le scelte economiche dei paesi. In secondo luogo, la fase di transizione ecologica, una vera e propria sfida epocale per la sopravvivenza dell’umanità, ha conosciuto un’accelerazione più di recente ed è strettamente intrecciata, dopo la guerra di Putin, al problema della sicurezza energetica. Infine, si sta consolidando un’accesa competizione industriale e tecnologica tra i maggiori paesi e, in particolare, tra le due superpotenze, Stati Uniti e Cina, diretta ad assumere posizioni di vantaggio in ambito commerciale e strategico.

Per l’Europa questi cambiamenti rappresentano altrettante sfide da fronteggiare. Alcune risposte, anche importanti, sono venute dall’Unione negli anni più recenti, attraverso interventi senza precedenti e la mobilitazione di un significativo ammontare di risorse. È stato così all’epoca della pandemia con l’adozione di un approccio comune negli acquisti, forniture e distribuzione dei vaccini anti Covid-19. E, poi, con il varo del programma Next Generation EU (e RRF), finanziato con debito comune e fondato sulla doppia transizione verde e digitale. Ancora, i paesi dell’Ue hanno adottato rapidamente e all’unanimità pesanti sanzioni nei confronti di Mosca in risposta all’invasione dell’Ucraina, riducendo al contempo in misura drastica la loro dipendenza dal gas russo.

Si è trattato senza dubbio di passi avanti importanti. Ma il mondo è cambiato nel frattempo e ancor più velocemente. Dopo la guerra di Putin ha posto all’Europa sfide nuove e ancor più complesse. Nel nostro libro “Europa sovrana” le analizziamo e suggeriamo varie risposte di policy da parte dell’Unione, adottando un approccio di International Political Economy, una disciplina che guarda all’interazione tra economia e politica nelle scelte dei paesi e che rimane spesso ignorata in Europa. Delineiamo così un percorso in direzione di un assetto dell’Ue che potremmo definire sovrano, sia all’interno chò.e all’esterno, una dimensione quest’ultima che è stata in passato considerata meno rilevante.

In ambito domestico, la sfida in estrema sintesi riguarda il modello di crescita europeo che deve profondamente riconvertirsi per adattarsi al nuovo contesto globale.  E la leva fondamentale è la transizione ambientale e digitale, che rappresenta un grande progetto di trasformazione dell’Ue, al pari di altri nel passato, quali la costruzione del Mercato interno e l’Unificazione monetaria. Ma è una riconversione che si presenta difficile perché deve arrestare ed invertire un processo di deindustrializzazione e arretramento tecnologico in corso da tempo e che sta minacciando pezzi importanti della base manifatturiera europea. Per avere successo l’Ue deve porre mano a un ventaglio di politiche e introdurre strumenti nuovi di intervento di politica industriale e tecnologica che sappiano legare innovazione, tecnologia e competitività.

Un’Europa sovrana significa affrontare anche una seconda sfida rivolta all’esterno, altrettanto importante, per affermare un nuovo e rafforzato ruolo dell’Unione a livello globale. Ha assunto particolare rilevanza nell’attuale contesto globale in cui l’interdipendenza è fonte non solo di opportunità e prosperità economiche, come in passato, ma anche di potenziali vulnerabilità e scontri di sovranità, in grado di innescare una crescente conflittualità tra paesi.

In questo nuovo contesto l’Europa deve arrivare a definire una propria autonomia strategica che le permetta di influire sulle vicende internazionali e contribuire alla definizione di una governance globale. L’Europa è tra i grandi poli quello con il grado di apertura maggiore e per continuare a crescere ha bisogno di una economia mondiale che si mantenga aperta, pur tenuto conto dei nuovi fattori geopolitici e di sicurezza.

E non vi sono dubbi che l’intreccio tra economia e sicurezza rappresenti oggi – come già osservato – una caratteristica fondamentale delle relazioni tra i maggiori paesi. Anche l’Europa ha cominciato a prenderne atto, soprattutto dopo l’invasione dell’Ucraina. Ma molto resta da fare per integrare interessi e fattori economici e geopolitici in una vera e propria strategia europea, unitamente agli strumenti da utilizzare. È un passaggio fondamentale perché l’Unione possa perseguire una propria sovranità e una capacità di ‘resilienza’ ai vari livelli così da agire da protagonista nel nuovo contesto globale.

In ultimo, il rilancio della crescita sostenibile e l’affermazione di un rafforzato ruolo a livello globale potranno realizzarsi solo alla condizione che l’Unione disponga di più risorse e strumenti d’intervento rispetto ad oggi. Il sistema di governance europeo nella attuale struttura non può assolutamente bastare. In altri termini, serve una sua profonda ristrutturazione e rinnovamento. E questa è la terza grande sfida per l’Europa, che condiziona da vicino le altre due.

Al riguardo vanno ipotizzate varie possibili configurazioni del futuro percorso di integrazione dell’Europa. È nostra convinzione che una sua maggiore differenziazione per gruppi di paesi a seconda delle preferenze d’integrazione sia un passaggio che si porrà come ineludibile. Ancor più in vista dell’allargamento dell’Ue all’Ucraina e ai paesi dei Balcani, destinato ad accrescere notevolmente l’eterogeneità all’interno dell’Ue. Pur se forti resistenze di natura politica potrebbero impedire di muoversi in tale direzione.

Il rischio maggiore, tuttavia, è un altro ed è lo status quo dell’Unione. Lo stallo del processo di integrazione finirebbe per accentuare le divisioni tra i paesi europei e aumentare il pericolo di una drammatica marginalizzazione dell’Europa in presenza di un contesto globale in radicale e rapida trasformazione.

Verso una difesa comune europea?

Recentemente la Commissione Europea ha varato una proposta per un programma di rafforzamento dell’industria della difesa comune europea. Sorvolando su tutti i possibili dibattiti che si aprono a livello politico, economico ed etico sulle condizioni generali in cui viene lanciata questa idea, giacché su queste tematiche si è già argomentato a sufficienza da entrambe le parti, si vuole qui, assumendo per ipotesi che sia opportuno procedere in questa direzione, proporre una breve analisi dei punti principali di questo programma.

Innanzitutto sarebbe opportuno sgombrare il campo da due equivoci che potrebbero sorgere leggendo il discorso di Von der Leyen: le istituzioni europee non effettueranno acquisti di armamenti, né in proprio né a nome degli Stati membri; piuttosto si tratterà di creare una serie di uffici, strumenti e prassi allo scopo di incentivare acquisti coordinati da parte dei singoli Stati membri. Inoltre l’obiettivo primario del programma è quello di potenziare l’industria della difesa – processo che a sua volta agevolerebbe il riarmo degli Stati – e non di contribuire direttamente al riarmo.

Il programma per la difesa comune europea

Le principali misure proposte sono:
1) creare un comitato per coordinare gli acquisti di armamenti degli Stati membri;
2) incentivare la cooperazione attraverso l’EDTIB, un programma per il coordinamento della progettazione di armamenti già esistente ma finora poco utilizzato;
3) varare una serie di meccanismi e prassi volti a favorire la formazione di scorte di materie prime e materiali utili all’industria della difesa e la loro condivisione tra gli Stati membri;
4) lanciare progetti di difesa europei da realizzarsi entro il 2035 nei settori difesa antiaerea e antimissile integrata, monitoraggio dei satelliti, difesa cibernetica e difesa marittima;
5) erogare aiuti alle imprese per incrementare la base industriale e la ricerca;
6) inserire considerazioni di difesa nell’elaborazione dei progetti industriali comunitari.

Gli aspetti più positivi del programma sono senz’altro l’attenzione all’aspetto logistico e industriale della produzione di armamenti e l’impegno a valutare dal punto di vista delle implicazioni sulla difesa i futuri programmi industriali europei. Positivo anche il varo di progetti di difesa integrata europea, benché resti da capire cosa si intenda nella documentazione per “risorse di protezione navale e sottomarina”.

Le potenziali criticità del programma

Una seria problematica potrebbe sorgere invece sulle difese anti-missile, qualora si avessero in mente difese ABM strategiche (la proposta non è precisa in merito): queste infatti sono considerate destabilizzanti poiché, riducendo la pericolosità di un attacco nucleare di rappresaglia avversario, potrebbero spingere quest’ultimo a lanciare un attacco preventivo prima che le difese siano completate, considerazione che si inserisce all’interno delle recenti dichiarazioni di Macron sull’assenza di linee rosse nei confronti della Russia e sulla possibilità di inviare truppe in Ucraina.

La maggiore vulnerabilità dell’intero progetto consiste nella sua dipendenza dalla volontà degli Stati membri, che gli estensori della proposta ammettono essere stata finora scarsa; benché essi ritengano che i recenti avvenimenti internazionali abbiano mutato al situazione non è da escludersi che la ritrosia dei Paesi membri faccia naufragare l’intero progetto.

Ci sarebbe infine da riflettere sul fatto che l’aumento della capacità produttiva delle imprese della difesa (private o parzialmente private) dovrà essere ottenuto tramite incentivi pubblici, quando i principali avversari dell’attuale corso politico europeo (Russia e Cina) hanno strumenti più economici per spingere le proprie aziende della difesa ad aumentare la base produttiva disponibile.

In definitiva il programma, benché con alcune potenziali criticità, sembra essere tutto sommato coerente e adeguato per l’obiettivo che si propone, ma costituisce solamente un piccolo passo verso la realizzazione della difesa comune e, come sempre nella storia della comunità europea, le sue sorti dipenderanno in massima parte dalla volontà degli Stati membri.

*Marco Vadrucci studia Scienze Storiche presso l’Università “La Sapienza” di Roma

Il G7 e il sistema bancario: intervista a Giovanni Sabatini, Direttore di Abi

In questo podcast, Giovanni Sabatini, Direttore dell’Associazione Banche Italiane, analizza il ruolo delle banche per sostenere e far fronte alle sfide della transizione verso un’economia sostenibile e della trasformazione digitale, nell’ambito dell’agenda del G7 a guida italiana.

 

Project 2025: alle origini del piano conservatore per cambiare il volto degli USA

di Vittoria Loffi

Con l’avvicinarsi di novembre 2024, quando gli Stati Uniti designeranno il proprio nuovo capo dell’esecutivo nell’ambito delle elezioni presidenziali, ci si interroga con sempre maggiore frequenza sulle possibilità dell’ex Presidente Donald Trump di tornare ad abitare la Casa Bianca e, se così sarà, su quali saranno i connotati di un suo secondo mandato.

Se l’attuale assetto politico americano suggerisce che per rispondere alla prima domanda sia troppo presto, trattandosi di una partita ancora aperta, per quanto concerne la seconda domanda – le caratteristiche di una presidenza Trump 2.0 – è, invece, già tutto scritto: i punti salienti di un mandato presidenziale reazionario, infatti, sono ampiamente illustrati in Mandate For Leadership: The Conservative Promise, un manuale di 900 pagine realizzato grazie alla stretta collaborazione tra Heritage Foundation e altre 100 organizzazioni conservatrici statunitensi.

Meglio conosciuto come Project 2025, il manuale e le organizzazioni che guidano una fortemente reazionaria e conservatrice visione degli Stati Uniti, lavorano da anni per sviluppare centinaia di obiettivi politici afferenti a ogni sfera della vita pubblica.

La loro ragione di azione si inserisce comodamente nel quadro di un eterno conflitto tra il governo centrale e quelli statali: l’infinita lotta in favore di un primato dei diritti degli Stati rispetto al governo federale – le cui aspirazioni liberali non hanno fatto altro che determinare, secondo la destra reazionaria e religiosa americana, un’ingiustificata interferenza nella vita degli individui – ha permesso a diverse organizzazioni di incardinare lotte dalla presidenza Reagan in poi per cambiare il volto degli Stati Uniti.

Al di là di Donald Trump

Project 2025 ha affrontato una lunga marcia prima di individuare in Trump un valido baluardo presidenziale: si tratta di una precisazione importante, perché suggerisce che il progetto di lungo corso è esistito prima di Trump e continuerà a farlo dopo, avendo come principale interlocutore “il prossimo conservatore” che occuperà la Casa Bianca.

Questa lunga sopravvivenza e indipendenza sono possibili grazie alle solide basi su cui poggia Project 2025, nato direttamente dall’esperienza dei Mandates for Leadership, manuali pubblicati sempre dalla Heritage Foundation a partire dal 1981 guardando all’allora amministrazione Reagan come punto di riferimento politico.

Non si tratta dunque, del “piano di Trump per la presidenza” come definito da diverse testate italiane, ma di una strategia di azione multidimensionale, che ha individuato Trump 2024 – e non Trump 2016 – come l’attuale specchio delle proprie politiche.

La macchina reazionaria ha tardato nell’approvare il trumpismo e non si è mobilitata in tempo per fornire personale o il solido corpus di proposte politiche contenute in Project 2025 alla prima presidenza Trump. All’epoca, infatti, il tycoon ricopriva principalmente il ruolo di salvatore, adatto alla narrativa nazionalista cristiana bianca, ma non ancora un valido investimento per il Network Koch – forza trainante nel promuovere il negazionismo climatico negli Stati Uniti – e per Leonard Leo della Federalist Society, oggi principali finanziatori di Project 2025.

In vista delle presidenziali di quest’anno, invece, il rapporto con Trump sembra essere mutato, e Project 2025 è pronto ad abbracciare l’ex Presidente.

Uno storico (e ricco) Network conservatore

Circa due terzi dei gruppi coinvolti in Project 2025 sono finanziati tramite le società filantropiche gestite proprio da Leonard Leo, da anni figura di spicco della destra cattolica statunitense e tra i principali responsabili del percorso di politicizzazione –  e spostamento a destra – della Corte Suprema.

Non sorprende, infatti, il frequente ritrovamento del nome di Leo a fianco di quello di Steven Calabresi (fondatore della Federalist Society), di Robert P. George (autore della Manhattan Declaration) e di quelli dei membri della Heritage Foundation nelle discussioni concernenti lo storico sfruttamento del tema dell’aborto per ottenere l’obiettivo di radicalizzare la suprema istituzione giudiziaria americana.

Molteplici sono le prove di interdipendenza tanto politica quanto economica tra queste figure e realtà: a partire dall’episodio che vide il giudice Clarence Thomas guadagnarsi la nomina nel 1987 presenziando agli incontri della Heritage Foundation (e definendo Roe v. Wadeun colpo di stato contro la Costituzione”) fino ai finanziamenti guidati da uno dei co-autori del manuale, l’economista conservatore Stephen Moore.

Oltre che co-autore del piano reazionario, Moore risulta aver co-fondato la Committee to Unleash Prosperity (CUP), insieme al miliardario Steve Forbes, l’economista Larry Kudlow, e Arthur Laffer, economista e opinionista che ha affiancato tanto Reagan quanto Trump, e al quale quest’ultimo ha conferito la medaglia presidenziale della libertà.

Diversi report hanno provato il flusso di denaro – pari a 1,77 milioni di dollaridiretto verso CUP e proveniente da DonorsTrust, un gruppo di destra che non è tenuto a rivelare i nomi dei suoi donatori, ma con chiari legami con Leonard Leo e il Network Koch – e dunque, con Project 2025.

Un progetto, dunque, che funge da lente d’ingrandimento sulle dinamiche reazionarie che da anni cercano di plasmare la società, l’identità e la storia statunitense puntando alle massime istituzioni – dalla presidenza alla Corte Suprema – e che sembra sempre più vicino a rendere 900 pagine di distopia conservatrice realtà; ma più di tutto, Project 2025 mette in piena luce il ruolo delle associazioni filantropiche e delle organizzazioni braccio armato ed economico della destra americana, come da più di 50 anni è la Heritage Foundation.