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La presidenza italiana e la credibilità internazionale del Paese

Mai come nel caso del G7 a presidenza italiana, le riunioni previste sono state svolte in un contesto simile a quello attuale, con due conflitti – contro l’Ucraina e in Israele e Palestina – e una crisi straordinaria come quella causata dagli attacchi armati degli Houthi contro il transito delle navi nel Mar Rosso, per citare solo alcuni gravi episodi che accadono in Europa o in aree non lontane.  Quale sarà a giugno l’evoluzione di queste gravi vicende? È auspicabile che si arrivi almeno a un cessate il fuoco, se non addirittura a ipotesi di armistizi. Ma sarà così o si tratta di una spes contra spem?

La principale riunione del G7 si terrà a Borgo Egnazia, in Puglia, dal 13 al 15 giugno, poco dopo l’esito delle elezioni europee che, per l’Italia, si terranno l’8 e 9 giugno, mentre a livello europeo potranno comunque svolgersi tra il 6 e il 9 giugno. Questo contesto non potrà non influenzare i meeting del G7, che si potrebbero anche svolgere “in vitro”. Probabilmente, in quei giorni, si continuerà a discutere sugli esiti elettorali e sulle possibili formazioni dei nuovi organi dell’Unione. Senza citare poi altre vicende internazionali, come la campagna per l’elezione del Presidente degli Usa o l’elezione del Presidente della Russia. Si stima che quasi metà della popolazione globale andrà alle urne quest’anno. Sotto alcuni aspetti, potrebbe anche essere un vantaggio dover svolgere le riunioni del foro nel fuoco di problemi che incidono in corpore vili e, dunque, inducono a fare i conti con realtà tangibili e incombenti.

Il G7 a presidenza italiana dovrebbe ambire alla concretezza

Il programma di tutto il G7 è ambizioso. Con esso, la presidenza italiana gioca anche una carta per la propria credibilità internazionale, ma naturalmente all’aumento delle aspettative scaturenti dai temi in discussione corrisponderà, poi, una rigorosa valutazione dei risultati. Rappresenterebbe già un esito importante poter concludere il meeting di giugno se non con decisioni operative – che sarebbe un’illusione – con almeno impegni che, pur scontando altri numerosi e non facili passaggi, risultino meno distanti dall’attuazione di quanto solitamente accade in tali organismi che finiscono, volens nolens, con il limitare la loro funzione al sostanziale scambio di informazioni.

Naturalmente, non bisogna trascurare gli altri formati di incontri che caratterizzeranno il G7, a partire da quello dei Ministri finanziari, per i contributi che potranno offrire nelle loro aree d’interesse. In materia bancaria e finanziaria, sarebbe importante valutare come raccordare l’azione dei sette con quella delle principali Banche centrali, nel presupposto della reciproca autonomia. La premier Giorgia Meloni ha sottolineato la posizione dell’Italia quale ponte tra l’Atlantico e l’Indopacifico, ponendo in primo piano i temi della cooperazione internazionale e i rapporti con i Paesi in via di sviluppo, con le economie emergenti, soprattutto con l’Africa e, in questo quadro, sottolineando le urgenze per le politiche migratorie.

Energia e cambiamento climatico non potranno non avere un ruolo centrale in tutti gli incontri. Ma saranno in evidenza pure i temi della sicurezza, della finanza e dello sviluppo. La preparazione, come sempre, sarà decisiva anche per la selezione, nei numerosi incontri, dei temi prioritari. È importante, soprattutto nella riunione dei Grandi, concentrarsi sui temi che meritano un’assoluta priorità. Si deve tener conto che, come accennato, il contesto in evoluzione potrà sollecitare a dare la precedenza a nuovi argomenti. La concretezza dovrebbe essere uno degli obiettivi-vincolo.

Anche le linee di fondo non sono meno importanti. Pur con tutti i limiti di rappresentatività del G7  rispetto al G20, e pur con la contezza delle difficoltà del progetto, anche per non incorrere in un mero sforzo di fantasia,  sarebbe una scelta apprezzabile iniziare a definire le linee di un nuovo ordine internazionale (formula molto spesso agitata, senza mai fare, però, i conti con la realtà) o, almeno, sostenere il multilateralismo e introdurre antidoti a chiusure che potrebbero sopravvenire (si pensi a cambi di rotta negli Usa a seguito delle presidenziali o a impatti delle politiche cinesi e dei rapporti con la Russia).

Un’opportunità di rinnovamento per le istituzioni finanziarie ed economiche internazionali

Apprezzabile sarebbe anche un riesame critico della struttura e dell’azione delle istituzioni finanziarie ed economiche internazionali.  Nate in un lontano e un ben diverso contesto internazionale, esse necessitano di una sostanziale revisione istituzionale e organizzativa. A seguito degli attuali eventi bellici, in questa fase della vita dell’Occidente (e non solo) si pongono temi di grande spessore, quali l’adeguatezza, la concretezza, la cogenza del diritto internazionale e umanitario, nonché delle branche ad essi collegate, come il diritto della navigazione, il diritto marittimo e quello del mare.  Ma si pone anche il tema del livello di adesione al diritto stesso e dell’adeguatezza dell’insieme delle Corti con giurisdizione transnazionale.

Ovviamente, non è immaginabile che il G7 affronti il merito di queste complesse tematiche, come di quella della moratoria del debito dell’Africa, che richiama discussioni e impegni sulla remissione del debito dei Paesi poveri in occasione del Giubileo del Duemila. Tuttavia, non è eccessivo sperare che il G7 dia almeno una spinta ad affrontare questi temi straordinari e particolarmente complessi, anche in ragione dei solleciti che provengono dalla giusta esigenza di regole globali per l’epocale fenomeno dell’intelligenza artificiale.

Il quadro internazionale è oggi particolarmente complicato, pur se a vicinanze tra Russia e Cina e tra Russia e Iran potrebbe fare da contrappeso un orientamento per uno scambio telefonico tra Biden e Xi Jinping nel prossimo mese di marzo. Anche se, per ora, si tratta di un accenno e nulla di più. Bisognerà vedere quale sarà la situazione al momento del più importante incontro del programma, qual è il meeting di giugno.

Come accennato, una fase costituente di un nuovo ordine internazionale non è realistica, ma non per questo si deve abbassare la spinta innanzitutto ideale.  Ci si aspettano, come si è prospettato, risultati non epocali ma concreti, anche se delimitati. Perciò, nella preparazione degli incontri più importanti, sarebbe un segnale coinvolgere sin d’ora anche saperi, specialismi ed esperienze pure al di fuori dei canali istituzionali.

Tajani: “Rafforzeremo il G7”

AffarInternazionali ha partecipato lo scorso 17 gennaio 2024 alla conferenza stampa del Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, On. Antonio Tajani, tenutasi alla Farnesina e organizzata per presentare le priorità relative ai filoni di attività del G7 di competenza del Ministero. Vi proponiamo alcuni passaggi tratti dai suoi interventi.

Il G7 a presidenza italiana

“Come sapete, dal primo gennaio l’Italia ha la guida del G7, per la settima volta. Noi vogliamo rafforzare il ruolo di questa organizzazione che è il meccanismo di coordinamento delle grandi democrazie liberali ad economia avanzata, vogliamo che il G7 sia uno strumento di stabilità per fornire risposte coese alla crisi che stiamo vivendo. Abbiamo due guerre e una crisi nel Mar Rosso. L’obiettivo della nostra presidenza sarà quello di rafforzare questa coesione e questa collaborazione”.

Il Medio Oriente

“Priorità della nostra presidenza in politica estera sarà ovviamente la situazione in Medio Oriente e, come sapete, lavoreremo per una de-escalation. Lavoriamo perché la situazione non peggiori assolutamente, siamo contro l’escalation, quindi tutte le nostre iniziative politico-diplomatiche vanno in questa direzione. Ci stiamo muovendo con grande equilibrio. Noi siamo contro il terrorismo. Abbiamo condannato con grande fermezza il disumano attacco di Hamas contro la popolazione civile israeliana, chiediamo con forza la liberazione degli ostaggi, vediamo con favore tutte le iniziative di mediazione, compresa l’ultima che servirà a portare anche medicinali agli ostaggi. Noi, insieme agli altri del G7, abbiamo dato un messaggio chiaro ad Israele di avere reazioni militari proporzionate e di risparmiare la popolazione civile: ci sono troppi morti innocenti. D’altro lato, Hamas ha la grande responsabilità di usare la popolazione civile come scudo umano: molto spesso vengono inviati messaggi di evacuare alcune parti dove ci saranno attacchi militari israeliani e Hamas impedisce alla popolazione civile di abbandonarli.

Quindi Israele deve proporzionare e ridurre assolutamente l’attacco contro la popolazione civile che non ha nessuna colpa. È vero che i terroristi di Hamas sono palestinesi, ma i palestinesi non sono tutti terroristi di Hamas. Questo deve essere molto chiaro. Dal punto di vista del sostegno alla popolazione civile, ribadisco quali sono i nostri impegni e la nostra azione. Sono arrivati due aerei militari carichi di beni da portare alla striscia di Gaza. C’è la nave ospedale militare Vulcano dove si stanno curando bambini palestinesi. Stiamo lavorando con il governo egiziano per installare un ospedale da campo a Rafah, non sappiamo se al di là o al di qua della porta, comunque siamo pronti a farlo, stiamo aspettando le autorizzazioni, siamo in trattativa e siamo pronti a realizzarlo. Cureremo in Italia oltre cento bambini palestinesi con l’azione di coordinamento della nostra unità di crisi. L’Italia sta facendo di tutto per aiutare la popolazione civile palestinese che, ripeto, non ha nulla a che vedere con i criminali terroristi di Hamas. Noi siamo per due popoli due Stati, quindi lo stato di Israele che riconosca lo Stato palestinese e lo Stato palestinese che riconosca Israele.

Per quanto riguarda Israele, fin dal primo giorno mi sono raccomandato sulla reazione a quanto accaduto il 7 ottobre. Sono stato il primo ministro degli Esteri ad arrivare in Israele dopo l’attacco di Hamas. Voglio però ribadire – perché non se ne parla abbastanza, dato che non tutti hanno visto i filmati di ciò che è accaduto – che non è stato un bombardamento, non è stato un attacco ad una caserma, è stata una vera e propria caccia all’uomo, alla donna, al bambino, con una violenza mai vista. Le profanazioni dei cadaveri, la violenza fisica da tutti i punti di vista: non si era mai vista una cosa del genere dall’antichità ai giorni nostri. Chi ha avuto l’opportunità di vedere alcuni video sa cosa è accaduto: la caccia al neonato, la violenza sulle donne vive e morte. È inaccettabile e inaudito anche nel corso di una guerra. Anche questi sono crimini di guerra. Ripeto, siamo contrari a bombardamenti a tappeto che colpiscono la popolazione civile e provocano tanti morti, però bisogna anche denunciare ciò che è accaduto e ciò di cui si parla, secondo me, troppo poco. Lì è stata fatta la caccia all’ebreo casa per casa, prendendosela con un neonato di tre mesi e con i cadaveri: atti di vigliaccheria”.

Il Mar Rosso

“Per quanto riguarda invece la situazione nel Mar Rosso, stiamo lavorando ad una nuova missione europea accanto all’Operazione Atalanta che è nello Stretto di Hormuz, per proteggere i traffici commerciali. L’idea, quella di più facile soluzione, è di allargare questa missione e farla arrivare con competenza fino al Mar Rosso per difendere il traffico marittimo in tutta l’area, visto che oggi con Atlanta difendiamo il traffico marittimo soprattutto nel sud del Mar Rosso. Vorremmo arrivare fino a Suez per garantire il traffico, assicurando la possibilità di difendere, con una presenza militare europea, le navi europee che transitano per quella parte di mondo. Abbiamo condannato fin dall’inizio le aggressioni dei ribelli Houthi ai mercantili.

Siamo di fronte ad un problema economico non secondario: siamo un Paese esportatore –  sapete bene che quasi il 40% del nostro PIL è export – e quindi la riduzione del traffico marittimo attraverso il Canale di Suez ci preoccupa: siamo passati da 400 navi al giorno a 250. Sono aumentati e non di poco i costi assicurativi e si allungano i tempi di percorrenza. Fare il periplo dell’’Africa significa perdere 15 giorni, ne va della competitività dei nostri prodotti, ne va anche della competitività dei nostri porti, penso a quelli di Gioia Tauro, di Taranto, di Brindisi, di Trieste e di Genova. A gennaio abbiamo aderito alla dichiarazione politica con gli Stati Uniti, poi c’è stata una dichiarazione da parte della Presidenza del Consiglio sul sostegno alla difesa dei traffici nel Mar Rosso. Non stiamo operando solo militarmente, ma anche diplomaticamente per salvaguardare la nostra attività di esportazione”.

Esercito europeo

“Noi vogliamo un’Europa più politica. Non si può fare politica estera se non c’è un sistema di difesa europea. Non vogliamo che l’Europa sia un gigante economico e un nano politico.  L’Italia deve essere protagonista in un’Europa che conta, che abbia un rapporto paritario con gli Stati Uniti anche all’interno della Nato. Dobbiamo per questo avere un sistema di difesa europeo che sia competitivo. È partito un percorso, bisogna accelerare, non è sufficiente quello che si è fatto e si sta facendo, ma bisogna avere veramente, come obiettivo finale, un esercito europeo. Ci stiamo lavorando, servono i tempi necessari, ma se vogliamo avere missioni di pace efficaci, se vogliamo intervenire in tempi rapidi e non essere sempre costretti a seguire iniziative di altri, dobbiamo avere uno strumento anche di peacekeeping europeo, quindi che sia operativo in tempi molto rapidi. Questo è ciò in cui credo, penso che sia giusto procedere in questa direzione. Sono stati abbattuti negli ultimi anni molti tabù, ora bisogna andare avanti”.

L’Ucraina

“Siamo convinti che se l’Ucraina dovesse perdere da un punto di vista militare, non ci sarebbe più la possibilità di raggiungere la pace, sarebbe una sconfitta e non una pace. Noi vogliamo che si raggiunga la pace, ma la pace si può raggiungere soltanto quando ci sono due contendenti che si confrontano, non c’è un vincitore e un vinto. Chi ha violato il diritto internazionale? La Russia, e quindi va rispettato il diritto internazionale, va messa l’Ucraina nelle condizioni di poter fare – quando sarà il momento e mi auguro che arrivi il prima possibile – un accordo di pace che sia una pace giusta, come abbiamo sempre detto, con la Russia.

Noi vogliamo che si raggiungano obiettivi di pace ma, ripeto, la pace non può significare lo stravolgimento del diritto internazionale, non può valere la regola, “io sono più forte, decido e invado un paese”. Questo è inaccettabile anche dal punto di vista del diritto internazionale. L’Ucraina sta difendendo la libertà, la sua libertà, quella dell’Europa, quindi noi abbiamo il dovere di sostenerla, non soltanto, attraverso aiuti di tipo militare, ma anche con aiuti alla popolazione civile, soprattutto durante l’inverno”.

Le migrazioni

“Il tema migrazioni, l’ho sempre detto anche quando avevo altre responsabilità, come quella di vicepresidente della Commissione europea o presidente del Parlamento europeo, la questione migratoria deve essere risolta a monte. Non può essere solo un problema di ordine pubblico. Lo è anche, ma soprattutto è un problema che deve essere affrontato in maniera strategica. Nel 2050 avremo due miliardi e mezzo di africani. Se noi vogliamo, come diceva Benedetto XVI, “difendere il diritto a non migrare”, dobbiamo contribuire alla soluzione dei problemi che provocano la migrazione. E questi problemi sono: le guerre, la carestia, il cambiamento climatico, le malattie e la povertà.

Cosa possiamo e dobbiamo fare? Intanto, porre l’attenzione del mondo sul problema, quindi il G7 sarà una delle occasioni, lo abbiamo posto anche nelle occasioni dei vertici Nato. Il Piano Mattei è uno strumento per cercare di dare un contributo determinante, da parte italiana, per risolvere questi problemi con un’ottica non neo-colonizzatrice, ma che guardi all’Africa con lenti africane e non con lenti italiane o europee. E il piano Mattei, che dovrebbe essere a mio giudizio parte di quel piano che ho sempre invocato, un grande piano Marshall europeo per il continente africano, deve essere scritto insieme agli africani, perché sennò non avrebbe senso. Non dobbiamo fare elemosina, dobbiamo avere una strategia politico-economica che deve permettere al continente africano di poter utilizzare tutte le risorse che ha per una sua crescita economica. Possiamo esportare il nostro saper fare, stiamo già lavorando con molti paesi, penso all’Egitto, alla Tunisia, all’Algeria, alla stessa Libia, con tanti paesi africani per cercare di risolvere il problema.

Poi ci sono tutti i problemi politici e militari che riguardano la sicurezza dell’Africa sub-Sahariana. C’è poi il Medio Oriente con i tanti profughi dalla Siria, con la situazione in Libano che rischia di peggiorare ogni giorno, con i tanti profughi che attraverso la rotta balcanica potrebbero presto raggiungere l’Europa. Serve insomma una strategia, investimenti, ma soprattutto una politica di pace”.

Ha collaborato alla redazione dell’articolo Marta Fornacini

Due anni di guerra russa all’Ucraina

A febbraio 2022, la Russia ha invaso l’Ucraina da nord, est e sud al fine di controllare l’intero Paese attraverso un’occupazione militare diretta e/o un governo fantoccio. Mosca si aspettava un rapido collasso o la resa dello stato ucraino ed aveva pianificato una guerra di manovra relativamente veloce, per prendere il controllo delle città principali, in primis Kyiv, Kharkiv e Odesa. L’Ucraina, che si era preparata in una certa misura dal 2014 ad un’invasione russa, ha resistito e ha respinto le forze russe dai principali centri abitati, compreso il capoluogo regionale Kherson, nonostante la sua annessione illegale alla Federazione Russa. Nel corso del 2023, Kyiv ha lanciato una controffensiva mirata a liberare territori a sud di Zaporizhia, ma sfortunatamente le forze russe mantengono la maggior parte del terreno precedentemente conquistato. 

L’evoluzione della guerra russo-ucraina

Il conflitto si è trasformato in una logorante guerra di attrito, con oltre mezzo milione di militari impiegati in totale dalle due parti in lotta, ed è entrato in una situazione di stallo ormai da diversi mesi. Si assiste a continue e indiscriminate campagne di bombardamenti aerei da parte della Russia – con l’uso di bombe, missili e droni–,  raid mirati da parte dell’Ucraina sui territori occupati e nelle acque del Mar Nero, e soprattutto feroci, sanguinose battaglie terrestri lungo una linea del fronte altamente fortificata, con ampia potenza di fuoco e un uso massiccio di droni. Due anni dopo l’inizio dell’invasione, le forze armate russe controllano il corridoio terrestre che collega la penisola di Crimea al Donbas – due aree già direttamente o indirettamente sotto il controllo di Mosca dalla guerra del 2014– e l’intero Mar d’Azov, corrispondente a poco meno del 20% del territorio ucraino. L’Ucraina continua ad avere accesso al Mar Nero e ad esportare i propri beni alimentari. Tale occupazione ha finora comportato decine di migliaia di vittime militari per entrambi i Paesi in guerra, l’uccisione di altre decine di migliaia di civili ucraini, così come un enorme numero di feriti e persone sfollate, oltre alle distruzioni materiali causate dal conflitto.

Un esito ancora incerto

L’inizio della guerra ha sorpreso molti esperti e addetti ai lavori dell’Europa occidentale, l’evoluzione del conflitto è stata difficile da prevedere ed il suo futuro rimane incerto. Una guerra convenzionale su larga scala, ad alta intensità, prolungata, tra la Russia ed il secondo Paese più grande d’Europa, è un fenomeno estremamente complesso non sperimentato nel Vecchio Continente dalla Seconda Guerra Mondiale. In quanto tale presenta diversi elementi significativi, anche se in molti casi peculiari, nei cinque domini operativi – terrestre, aereo, navale, spaziale e cibernetico –, oltre che molteplici implicazioni a livello strategico, coinvolgendo anche la Nato e la difesa europea.

Lo speciale discute gli elementi militari più importanti della guerra tra Russia e Ucraina e le implicazioni per le forze armate dei Paesi europei. Pertanto, non considera né le ragioni della guerra di aggressione di Mosca né i possibili esiti oltre il 2024. La prima parte della pubblicazione esamina il livello operativo del conflitto nei domini aereo, terrestre, navale e spaziale. La seconda parte dello speciale affronta una serie di implicazioni per la Nato e l’Ue, con un focus ulteriore sulla politica industriale della difesa. Gli articoli anticipano alcuni capitoli dello studio IAI redatto da un team di ricerca ad hoc che sarà presentato in una conferenza pubblica a Roma il prossimo 20 febbraio.

La giustizia alimentare al centro del dialogo politico

Se il prossimo G7 a presidenza italiana vorrà avere realmente un focus sull’Africa e l’area Mediterranea – come pare evidente dalle molteplici dichiarazioni istituzionali e dalla Conferenza Italia-Africa –, il tema delle crisi alimentari dovrà avere necessariamente un posto di rilievo nel corso del summit.

Prima ancora di conoscere ufficialmente le priorità del vertice, la società civile italiana – raccolta nel Civil-7 e coordinata dalla GCAP Italia – ha proposto la questione della giustizia alimentare al centro del dialogo politico, che si è svolto lo scorso 18 gennaio a Roma, con diversi esponenti istituzionali di alto livello dei ministeri interessati. Alcune delle considerazioni e raccomandazioni qui espresse rappresentano il portato di un lavoro comune del gruppo del C7 italiano, denominato “Giustizia alimentare e trasformazione dei sistemi alimentari”.

I sistemi alimentari essenziali per il nostro futuro

I sistemi alimentari sono infatti centrali per il benessere sociale e il paradigma del nostro futuro: per la salute degli ecosistemi, la sicurezza alimentare e nutrizionale, la cultura e il paesaggio. Al contempo, pongono sfide cruciali in merito alla riduzione della biodiversità, il consumo idrico, le emissioni di gas serra e l’inquinamento delle falde, con gravi implicazioni per la salute umana. Subiscono il cambiamento climatico e vi contribuiscono.

Occorre quindi un approccio integrato per rispondere ad una questione tanto urgente: l’ultimo Rapporto FAO sullo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo dichiara che l’anno scorso 783 milioni di persone hanno sofferto la fame (122 milioni in più rispetto al 2019), mentre in 3,1 miliardi non hanno accesso a una dieta adeguata e salubre. Uno scenario che rende una chimera l’obiettivo “Fame Zero” entro il 2030, come previsto dell’Agenda Onu per lo sviluppo sostenibile.

Le cause strutturali alla base della fame

In tutto questo, le cause strutturali della fame sono sempre le stesse e non si sono attenuate. Nel post-pandemia, i conflitti e la questione climatica restano i fattori determinanti dello status quo. Causati in buona parte da fattori geopolitici: dal protrarsi del conflitto in Ucraina alla diffusa crisi politica nel Sahel, dai conflitti protratti in Yemen, Somalia e Siria al dramma umanitario che si sta consumando in Africa Orientale. Il caos climatico, che si manifesta con crescente e drammatica frequenza oramai su scala globale, ha infatti proprio nell’Africa e nell’area del cosiddetto Mediterraneo allargato uno dei suoi punti critici.

Assistiamo poi a una speculazione finanziaria sempre più intensa che condiziona l’inflazione, specie se guardiamo agli incrementi ingiustificati dei prezzi dei beni alimentari, aggravata da altri fenomeni, come l’accaparramento della terra in aree sempre più vaste. Un elemento che esacerba diseguaglianze ed è di ostacolo all’accesso al cibo per milioni di persone. A queste si sommano politiche di disincentivo alle riserve strategiche pubbliche di cibo da parte dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), accordi commerciali che aumentano il divario di opportunità e un quadro incoerente di politiche globali ed europee.

Le proposte della società civile per una transizione agro-ecologica

Da questa analisi sulle cause scaturiscono un ampio ventaglio di proposte politiche e di azioni da intraprendere. Ne proponiamo qui alcune che riguardano il processo G7 e pongono la possibilità di realizzare un’inversione di rotta nella direzione di una transizione agro-ecologica. Altre, altrettanto fondamentali, su clima, salute, ruolo delle donne e dei giovani contadini, le proporremo comunque all’attenzione dei governi del G7.

Diritti umani

La centralità del quadro internazionale dei diritti umani nel G7 si estende certamente al tema della giustizia alimentare e alla necessità che i diritti umani siano incorporati nella trasformazione dei sistemi alimentari. Questo approccio deve essere tradotto in priorità, ricordando la necessità di rispettare, proteggere e promuovere i diritti umani, e l’importanza della partecipazione, della trasparenza e della responsabilità dei detentori dei diritti e dei portatori dei doveri e delle terze parti, nella trasformazione dei nostri sistemi alimentari.

Investimenti e commercio

Allo stesso tempo tutti gli investimenti dovrebbero rispettare gli standard ambientali e sui diritti umani, siano essi pubblici o privati. Quando quest’ultimi sono sovvenzionati con fondi pubblici, riteniamo che ci debba essere un’attenzione più forte e marcata ad adottare modelli di business sostenibili e inclusivi, come le cooperative, le imprese sociali e le associazioni dei piccoli produttori, in particolare delle donne, che già integrano il costo della conformità ambientale e sociale.

Occorre anche prestare maggiore attenzione alla necessità di assicurare che gli accordi commerciali multilaterali e bilaterali e gli indirizzi dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) di disincentivo alle riserve strategiche pubbliche del cibo non mettano a rischio o contraddicano gli sforzi volti ad abbandonare un sistema alimentare incompatibile con i limiti del pianeta e con il necessario sostegno agli approcci territoriali.

La governance dei sistemi alimentari

Nei percorsi di dialogo e negoziazione in essere sui sistemi alimentari sostenibili a livello nazionale, europeo e globale occorre infine ovviare a un approccio multi-stakeholder, carente di legittimità democratica, e definire chiare responsabilità, tramite regole utili a mitigare squilibri di potere e conflitti d’interesse, come dimostrato dalle forti limitazioni del summit dei sistemi alimentari dell’Onu nel sostenere percorsi di reale trasformazione dei sistemi alimentari e valorizzare il contributo della società civile. Pertanto, occorre riaffermare il Comitato per la Sicurezza Alimentare Onu (CFS) come la principale piattaforma politica internazionale, multi-attore e intergovernativa sulla sicurezza alimentare e la nutrizione che promuove il coordinamento, la convergenza e la coerenza delle politiche per realizzare il diritto ad un’alimentazione adeguata.

Venti di guerra da Pyongyang

L’11 gennaio 2024 Robert Carlin e Siegfried Hecker, due esperti sulla Repubblica Popolare Democratica di Corea (“Corea nel Nord”) presso il Middlebury Institute of International Studies, hanno pubblicato un articolo per il sito dello Stimson Center 38 North dal titolo Is Kim Jong Un Preparing for War? Nell’articolo, che ha avuto una notevole risonanza sui media internazionali e italiani, i due autori scrivono che “La situazione nella penisola coreana è la più pericolosa dal giugno del 1950 [data di inizio della Guerra di Corea]. Ciò può sembrare eccessivamente allarmistico, ma crediamo che, come suo nonno nel 1950, Kim Jong-un abbia preso la decisione strategica di andare in guerra”.

Carlin e Hecker identificano due tappe dietro questa decisione. La prima sarebbe stata il fallimento del summit di Hanoi tra Kim e l’allora Presidente americano Trump nel 2019, per il quale Kim mise in gioco il proprio prestigio di suryong (“leader”) del paese. La seconda sarebbe stata il convincimento, maturato tra l’estate e l’autunno del 2021, del rapido sgretolarsi della posizione egemonica americana a livello globale dopo il ritiro dall’Afghanistan. L’invasione russa dell’Ucraina avrebbe rafforzato questa convinzione, essendo stata interpretata come prova della possibilità di dominare un’escalation con gli Stati Uniti ed evitare un intervento militare diretto delle forze armate americane tramite la minaccia delle armi nucleari. È importante considerare che questa lettura si posiziona in contrasto con il consenso accademico degli ultimi decenni, che vede nel build-up nucleare di Pyongyang uno strumento volto a garantire la sopravvivenza del regime, a ottenere la cancellazione delle sanzioni internazionali e a vedersi riconosciuto lo status di potenza regionale, piuttosto che un mezzo da usare per imporre la riunificazione (secondo il quadro “un paese, due sistemi” già presente in Cina) a Seoul.

La Repubblica di Corea è “lo stato ostile numero uno”

Il segnale decisivo della decisione di Kim di entrare in guerra, secondo Carlin e Hecker, sarebbe il cambiamento avvenuto nella comunicazione politica del regime durante il 2023. I due esperti sottolineano come già lo scorso agosto Kim abbia menzionato “le preparazioni per la guerra rivoluzionaria”, ma, soprattutto, si concentrano in particolare su una serie di articoli, pubblicati a partire da marzo 2023, dalla fonte più autorevole tra i media locali, il Rodong Sinmun (“Quotidiano dei Lavoratori”), quotidiano del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori della Corea (PLC). Questi articoli hanno introdotto una nuova concettualizzazione della Repubblica di Corea (la “Corea del Sud”), non più come parte integrante della nazione coreana, ma come entità aliena – e quindi come obiettivo legittimo della potenza militare di Pyongyang. Questi articoli hanno a loro volta preparato il terreno per il discorso tenuto da Kim Jong-un durante lo scorso plenum del PLC, lo scorso dicembre. Kim ha dichiarato che la Repubblica di Corea e le sue autorità non devono essere più considerati partner per la riunificazione della nazione coreana, aggiungendo che i rapporti tra Pyongyang e Seoul sono adesso da considerare relazioni “tra due stati belligeranti, non più tra [stati] consanguinei o omogenei”.

Gli sviluppi delle tre settimane successive all’articolo sono degni di nota. Il monumentale Arco della Riunificazione situato all’ingresso di Pyongyang è stato demolito. Soprattutto, Kim ha rilasciato un nuovo discorso durante la decima sessione plenaria della quattordicesima Suprema Assemblea del Popolo il 16 gennaio, durante il quale ha ordinato un emendamento della costituzione, per indicare la Repubblica di Corea come “lo stato ostile numero uno” e lo smantellamento di tutte le istituzioni volte alla riunificazione. Il nuovo discorso ha anche posto le linee rosse del regime in questa nuova era, che si possono estrapolare da due passaggi in particolare. La prima: “Noi non vogliamo la guerra, ma non faremo nulla per evitarla”. La seconda: “occuperemo, soggiogheremo, e reclameremo la Repubblica di Corea, annettendola come territorio della nostra Repubblica, nel caso in cui una guerra scoppiasse nella penisola coreana.”

La natura più aggressiva delle mosse di Pyongyang

Funzionari del governo americano intervistati dal New York Times hanno però affermato di non aver colto segnali di preparazione di un prossimo conflitto a larga scala da parte nordcoreana, inquadrando i recenti sviluppi all’interno del pattern di provocazioni del paese, sebbene riconoscano la natura più aggressiva delle mosse di Pyongyang rispetto al passato. Per un altro esperto di affari nordcoreani, Fyodor Tertitskiy, le recenti dichiarazioni di Kim e della propaganda domestica, ammontano a mosse di natura tattica in riposta all’amministrazione conservatrice di Yoon Suk-yeol, la quale, nei mesi scorsi, ha risposto in maniera estremamente aggressiva ai lanci di satelliti spia nordcoreani.

Quali conclusioni trarre? Carlin e Hecker sostengono che la nuova posizione di Pyongyang sullo status della Corea del Sud e sulla riunificazione siano da interpretare come operazioni volte a creare una coerente motivazione per una nuova guerra volta al pubblico domestico, in contrasto con un coro di voci che vede una continuità con il playbook del recente passato, pur tenendo in considerazione la possibilità di un’azione circoscritta ma particolarmente violenta da parte del regime di Kim. Questa divergenza di interpretazioni tra esperti dimostra l’irrisolvibile difficoltà nel leggere le intenzioni di “scatole nere” quali i regimi autocratici contemporanei, in particolare nel caso di un regime parossisticamente secretivo quale quello nordcoreano. In questi contesti, e in particolare nell’impossibilità di ricerca sul campo, relazioni interpersonali, accesso a dati e fonti, la propaganda e il military signalling diventano gli unici, seppur limitati strumenti, per leggere i movimenti delle “scatole nere”, lasciando molto a desiderare.

Il dominio navale nel conflitto ucraino

La guerra in Ucraina è combattuta prevalentemente sulla terraferma e nei cieli soprastanti. Tuttavia, la componente navale ha fatto da cornice ad alcuni momenti chiave del conflitto, tra cui l’affondamento della nave ammiraglia della flotta del Mar Nero russa, l’incrociatore Moskva. Il Mar Nero rappresenta senza dubbio un teatro operativo di grande importanza nel contesto più generale della guerra. Infatti, una parte considerevole del fronte si trova in prossimità del mare, dal quale le forze navali russe sarebbero in grado – almeno in linea di principio – di lanciare attacchi missilistici contro obiettivi terrestri. Inoltre, nelle fasi iniziali dell’invasione, uno degli obiettivi primari della Russia è stato quello di stabilire un corridoio terrestre tra la terraferma nel sud-est dell’Ucraina e la penisola di Crimea, annessa illegalmente nel 2014. La Crimea stessa è una regione estremamente importante dal punto di vista strategico, in quanto ospita la principale base navale della flotta russa nel Mar Nero a Sebastopoli, che si è dimostrata vulnerabile ad attacchi ucraini.

Un conflitto asimmetrico

Uno degli aspetti più interessanti della guerra navale in Ucraina dal 2022 in poi è la velocità con cui gli ucraini hanno concepito e schierato soluzioni innovative e fortemente asimmetriche rispetto alle forze convenzionali russe. Infatti, all’inizio del 2022 le differenze in termini di numeri, massa e capacità tra le due flotte erano nette; quando la Russia ha occupato la Crimea nel 2014, ha anche preso il controllo della maggior parte della Marina ucraina. In seguito, restò a Kyiv soltanto una piccola flotta di pattugliatori di piccole dimensioni e un’unica fregata, piuttosto obsoleta, affondata di proposito nelle fasi iniziali della guerra per impedire che finisse in mano russa. 

All’inizio dell’invasione le risorse russe nel Mar Nero erano ben superiori e includevano corvette missilistiche, sottomarini convenzionali, fregate e l’incrociatore Moskva. Queste capacità high-end, adatte alla guerra navale ad alta intensità, facevano parte della strategia anti-access/area denial della Russia nei confronti delle forze Nato nel Mar Nero e avrebbero dovuto sbaragliare le controparti ucraine in un combattimento in mare aperto. Ciononostante, la Russia ha subito diverse sconfitte, alcune delle quali sensazionali, come attacco su Novocherkassk e l’affondamento del Moskva. Sebbene ancora avvolto nell’incertezza, secondo fonti ucraine questo episodio sarebbe stato il risultato di un attacco di due missili anti-nave Neptune e avrebbe visto il coinvolgimento di un velivolo senza pilota, il TB-2 Bayraktar turco.

L’avvento degli innovativi sistemi senza pilota

Un altro aspetto chiave dell’adattabilità dell’Ucraina nel dominio navale è il ruolo svolto dalle imbarcazioni senza equipaggio a bordo (Unmanned Surface Vehicles, USV) in diverse operazioni nel Mar Nero e nel Mar d’Azov. A partire da un raid alla fine del 2022, l’Ucraina ha impiegato USV “kamikaze” per attaccare la Marina russa all’interno dei porti o nelle vicinanze. Ad esempio,nell’attacco del 29 ottobre 2022 nove droni sono penetrati nel porto di Sebastopoli e hanno tentato di colpire navi da guerra russe. Anche se sono stati solo leggermente danneggiati una fregata e un dragamine, l’attacco ha costretto le autorità russe a rinforzare significativamente le difese all’ingresso del porto e a limitare le uscite delle proprie navi onde evitare ulteriori attacchi.

Il fatto che USV di dimensioni così ridotte (quelli ucraini sono lunghi 5,5 metri) e relativamente economici siano stati utilizzati con successo per limitare la libertà di movimento della flotta russa è una testimonianza della potenziale efficacia di sciami composti da USV piccoli, manovrabili e difficili da rilevare contro navi da guerra molto più grandi e impreparate a difendersi da questa minaccia.

In assenza di una flotta nemica da braccare o della prospettiva di un’invasione anfibia dopo le ingenti perdite (a partire dal Moskva), negli ultimi mesi la Marina russa si è limitata ad attacchi in profondità verso la terraferma lanciati da navi per mezzo dei missili da crociera Kalibr. Se questa capacità permette alla flotta di Mosca di conservare un potenziale offensivo, il fatto che le navi russe siano costrette a restare in porto le rende vulnerabili agli attacchi missilistici ucraini lanciati da terra o dall’aria, come ad esempio è successo il 13 settembre 2023, quando dei missili Storm Shadow/SCALP, impiegati da aerei da attacco Su-24M ucraini, hanno colpito i cantieri navali di Sebastopoli, danneggiando una nave da operazioni anfibie e distruggendo un sottomarino. Tale situazione ha permesso all’Ucraina di continuare ad esportare grano e altri beni alimentari via mare anche dopo che la Russia è uscita dall’accordo iniziale al riguardo: fino a gennaio 2024, più di 500 navi hanno lasciato i porti ucraini e attraversato il corridoio umanitario nel Mar Nero in relativa sicurezza.

Ciò che emerge dalla situazione attuale è che, grazie a soluzioni innovative e al sostegno occidentale, l’Ucraina è in grado di condurre un’efficace campagna di interdizione contro la flotta russa. Dal punto di vista di Mosca, quindi, il ruolo del mare come zona cuscinetto intorno alla Crimea – che rimane un polo logistico e navale cruciale nello sforzo bellico russo – è stato essenzialmente annullato dalla capacità delle forze ucraine di colpire obiettivi nemici in molteplici modi.

Le implicazioni per l’Italia

Per quanto riguarda l’Italia, la marina ha sempre cercato di mantenere una flotta equilibrata in grado di svolgere operazioni lungo tutto lo spettro, dal combattimento con marine di pari livello alle attività legate alla sicurezza marittima. Tuttavia, le risorse limitate derivanti da un bilancio della difesa stagnante richiedono una certa propensione ai compromessi. Se da una parte la sicurezza marittima dovrà rimanere un ruolo importante per la marina, le tensioni con la Russia e il ritorno di una guerra su larga scala in Europa richiedono un grande sforzo di preparazione alla minaccia di un conflitto ad alta intensità. Per le marine della Nato, inclusa quella italiana, questo significa una maggiore attenzione alla potenza di fuoco e agli stock di munizioni, a partire dai missili antinave e per la difesa aerea e missilistica.

Nel breve termine, la marina deve iniziare ad investire fortemente nell’acquisizione e utilizzo di sistemi senza pilota (aerei, di superficie e subacquei) in modo da integrarli adeguatamente nello strumento aeronavale con l’obiettivo di sfruttarne a pieno le grandi potenzialità. Allo stesso tempo è necessario dotare le navi di sistemi di difesa adeguati dai medesimi sistemi. Un approccio simile va riservato ai missili ipersonici, già testati dalla Russia nella guerra in Ucraina, che assumeranno un ruolo sempre più centrale nella competizione fra le maggiori potenze navali al mondo.

Questo articolo anticipa un capitolo dello studio IAI che sarà presentato in una conferenza pubblica a Roma il prossimo 20 febbraio.

Incubo. Terza guerra mondiale

Entrati con affanno e preoccupazione nel 2024, ci chiediamo come sia possibile uscire indenni dal moltiplicarsi delle crisi e delle guerre nel mondo. Secondo il Crisis Group il numero dei conflitti in corso o potenziali ha raggiunto la preoccupante soglia di 55, di cui almeno dieci sono già definibili come guerra o scontro armato. Ad aggravare questo stato di cose si calcola che il 90% delle vittime sia di incolpevoli civili. Insomma, siamo davvero nel pieno di quella che Papa Bergoglio ha definito come Terza guerra mondiale a pezzi.

Quello che più impressiona è che gli sforzi diplomatici, quando ci sono, non riescono davvero a portare ad una soluzione degli scontri in atto. Solo a seguito di grandi sforzi si ottengono piccoli, anche se importanti, risultati nel campo degli interventi umanitari, come un limitato scambio di prigionieri, la distribuzione temporanea di cibo e medicinali o, come nel caso russo-ucraino, il passaggio nel Mar Nero di navi per portare il grano nei paesi più poveri. Ma la politica non riesce a spingersi oltre. Molti, troppi, leader nazionali preferiscono ricorrere all’uso delle armi per far prevalere i propri interessi.

L’evoluzione dei conflitti dal Secondo dopoguerra

Non che nel passato, dopo la Seconda guerra mondiale, non si siano manifestati conflitti in molte parti del mondo (basti pensare al Vietnam o alla Corea), ma in un modo o nell’altro si riusciva ad arrivare ad un cessate il fuoco e ad un successivo accordo. Vi è stato poi un periodo, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, durante il quale il numero delle guerre è notevolmente calato. Questa fortunata pausa è durata però solo una decina di anni, fino al 2001, con l’attacco terroristico alle due torri e le conseguenti, sproporzionate reazioni di Washington con la guerra in Afghanistan e la successiva, ancora più disgraziata, contro l’Iraq. Sono poi seguite, nel 2011, le cosiddette primavere arabe, che hanno dato origine a rivoluzioni civili in Libia, Egitto, Siria e Yemen.

Da allora è stato un moltiplicarsi di crisi, in gran parte trascinate da quello che il grande politologo americano Samuel Huntington aveva previsto: lo scontro di civiltà. Si spiegano con ciò le lunghe stagioni del terrorismo mediorientale, da Al Qaeda all’Isis, tutte dirette contro l’Occidente cristiano. Oggi questo scenario di confronto culturale/religioso si riproduce con inaudita violenza fra Hamas e Israele e rischia di propagarsi in tutta la regione, con mezzo mondo incapace di trovare una via d’uscita da questa tragedia.

Vi sono diverse ragioni dietro questa impotenza a esercitare un grande e collettivo sforzo per far cessare i conflitti che vanno dall’Ucraina al Medioriente, dal Sudan all’Etiopia, dall’Azerbaijan all’Armenia, per citare quelli più trattati dai mass media. La prima essenziale ragione è che l’organismo deputato per le mediazioni e le soluzioni ai conflitti ha clamorosamente fallito. Le Nazioni Unite, nate a San Francisco nel 1945, non sono mai state in grado di imporre le decisioni necessarie. Neppure ai tempi del confronto ideologico/politico fra Usa e Urss sono riuscite ad entrare nei giochi delle due superpotenze. Solo dall’accordo bipolare fra Washington e Mosca potevano nascere accordi di pacificazione.

Dall’unipolarismo americano ad un sistema mondiale multipolare

Con la scomparsa dell’Urss è toccato all’America erigersi a gendarme del mondo: è il periodo, piuttosto recente, del cosiddetto unipolarismo. Unipolarismo che ha finito per indebolire Washington, come è stato clamorosamente confermato dalla rovinosa uscita dall’Afghanistan dei Talebani. Uno stato di fatto che è anche all’origine della decisione di Vladimir Putin di aggredire l’Ucraina allo scopo di ribadire che la Russia conta ancora e che la sua influenza si estende al di là dei confini nazionali.

Solo che oggi non è possibile ristabilire il vecchio equilibrio fra l’America e la Russia. Il pollaio dei conflitti odierni è infatti affollato di ben altri galli, a cominciare dalla grande e potente Cina, che si è di fatto sostituita alla vecchia Urss nella competizione con Washington. Ma accanto a Pechino sono nati numerosi altri attori che i politologi odierni hanno collocato nel cosiddetto Global South: dalla emergente India al Brasile, dall’Iran all’Arabia Saudita, dalla Turchia al Sud Africa. Quest’ultimo ha addirittura portato Israele di fronte alla Corte Penale Internazionale con l’accusa di genocidio. Anche se poi la sentenza della Corte mantiene tutte le ambiguità di questa guerra con la richiesta ad Israele di evitare atti di genocidio, ma non gli impone di interrompere le azioni militari.

Poiché tutte le crisi e i conflitti, anche più lontani e minori, hanno riflessi internazionali, è abbastanza comprensibile come dal divergere degli interessi degli attori in campo sia quasi impossibile trovare il bandolo di possibili soluzioni negoziali. Insomma, questo mondo ormai multipolare e quasi tutto schierato contro il vecchio Occidente non garantisce un bel nulla ma, anzi, non fa altro che moltiplicare le occasioni di nuovi conflitti.

L’unico punto di speranza per evitare lo scoppio di un terzo conflitto mondiale è che l’interesse delle grandi potenze – Usa, Cina e magari Russia – sia quello di non trascinare le situazioni di tensione fino ad uno scontro diretto fra di loro. Il rischio è però quello di perdere il controllo della situazione e di arrivare alla soglia di un possibile incidente che finisca per condurci a conseguenze fatali. È quindi più che mai necessario ritornare a rifondare un diverso sistema multilaterale che si basi su meccanismi efficaci e democratici di gestione delle crisi, togliendo di torno quell’antistorico diritto di veto che blocca ogni decisione dell’Onu, rendendola fin dalla sua nascita una scatola vuota.

Dopo il vertice Italia-Africa: ci vorrebbe un’Ena per il Mediterraneo

Quale che possa essere il giudizio politico sulle giornate romane del vertice Italia-Africa – sicuramente assai enfatizzato dall’apparato mediatico nazionale, probabilmente meno scintillante nei risultati di quanto raccontato in televisione – va riconosciuto al governo il fatto di aver rivendicato all’Italia un ruolo protagonistico nell’area mediterranea.

Anche l’insistito (e scontornato nella definizione e negli obiettivi) ricorso alla “suggestione Mattei” con il piano passepartout evocato dalla presidente Meloni, può prestarsi ad interpretazioni di continuità con la politica estera italiana che, a partire dalle intuizioni del “presidente partigiano“ dell’Eni, si sono mosse nel solco dell’opzione mediterranea coesistente con la vocazione atlantista ed europeista.

L’Italia, l’Ue e il Mediterraneo meridionale

L’Italia, dunque, può svolgere nel Mediterraneo un ruolo protagonistico non solo per la sua storia e per la sua geografia, ma anche per la sua capacità di interazione con i popoli del continente africano, per la tradizione dialogica imbastita dai governi democratici e dall’impresa italiana con i paesi del Maghreb e non solo, e con le istituzioni culturali dell’intero bacino, in una dimensione che va ben oltre il contenimento dei flussi migratori verso l’Europa, ma si proietta in chiave di promozione dello sviluppo del giovane continente africano.

L’Italia, inoltre, è in grado di svolgere questo ruolo producendo effetti positivi per l’intera Ue, che ha mostrato di non avere adeguata consapevolezza della necessità storica, politica ed economica di una feconda interazione con il Mediterraneo, abdicando ad un ruolo che oggi sembra, per alcuni aspetti, essere svolto dalla Cina e, in via accessoria, persino dalla Turchia e dalla Russia.

Nel suo rapporto con il Mediterraneo meridionale l’Europa ha oscillato sempre tra un approccio assistenzialistico, di predazione e di altrettanto colpevole indifferenza. Pur non avendo, ovviamente, un registro etico comparabile, si tratta di approcci che lasciano i popoli mediterranei incapaci di autodeterminarsi verso lo sviluppo.

Il ruolo cruciale della formazione dei funzionari pubblici nell’Africa contemporanea

In realtà, ciò che manca è un serio, continuativo e strutturale progetto di formazione delle élite. Perché tra i maggiori problemi che affliggono il continente africano, condannandolo ad una condizione di sottosviluppo endemico, c’è l’assoluta mancanza di una classe dirigente, di una dorsale di civil servant in grado di fornire un orizzonte strategico alle nazioni africane. E questa difficoltà, che si riverbera sia nella burocrazia statale che nella rappresentanza politica, non riesce a trovare strumenti interni di superamento a causa dell’insufficienza delle strutture di alta formazione locali.

In particolare si avverte la mancanza di una classe di funzionari pubblici, soprattutto a livello apicale, in grado di garantire la continuità dell’esperienza statuale mettendola a riparo dai bruschi cambi di regime che hanno caratterizzato la vicenda politica ed istituzionale di alcuni paesi del continente africano. Dove, peraltro, esperienze di amministratori pubblici assimilabili alla figura del civil servant non sono estranee alla storia di aree toccate dall’influenza islamica.

Se si conviene, pertanto, che il tema della formazione di una élite di servitori dello Stato rappresenti una questione rilevantissima dal punto di vista delle possibilità di sviluppo equilibrato delle democrazie e delle economie nel bacino del mediterraneo extraeuropeo, sarà utile riflettere sul “come” si potrebbe sovvenire a questa difficoltà costruendo, peraltro, un’interazione favorevole ai rapporti tra paesi dell’Ue e paesi mediterranei fuori dall’Unione.

Probabilmente il modello a cui potrebbe essere fatto riferimento è quello delle scuole europee della Pubblica Amministrazione, come l’ENA francese,che, attraverso un importante percorso di studi basato su rigorosi criteri meritocratici, hanno prodotto classi dirigenti in ambito politico e in ambito burocratico, avendo riguardo anche ad un orizzonte internazionalistico della loro platea.

A quella esperienza è utile guardare per progettare la costituzione di un centro di alta formazione post-universitaria, vocato alla Pubblica Amministrazione, che abbia come fruitori i paesi del mediterraneo meridionale e orientale (compresa, dunque,l’area balcanica non Ue) e che può vedere promotore il nostro paese in un mix tra istituti di alta formazione statale e privati che, lontano da ogni suggestione di egemonia culturale accolga forme di osmosi tra esperienze diverse, avendo a modello, tuttavia, un’idea di amministrazione di tipo europeo. Un’Europa mediterranea e un’Italia consapevole della sua mediterraneità, dunque, in linea di continuità con la visione di Enrico Mattei, l’inventore della politica estera nazionale.

Il Piano Mattei: per l’Africa o con l’Africa?

L’Italia ha inaugurato il suo anno di presidenza del G7 con un evento dalla grande portata simbolica e rappresentativo delle ambizioni dell’esecutivo in carica, il vertice Italia-Africa del 28-29 gennaio a Roma. L’incontro è stato a lungo atteso come primo banco di prova per la strategia di “cooperazione da pari a pari” con l’Africa che Giorgia Meloni ha insistentemente proposto come centrale per la politica estera del suo governo e per misurare la reale portata del cosiddetto Piano Mattei per l’Africa, il progetto con cui Palazzo Chigi intende sostanziare tale strategia ma di cui ancora si attende un documento programmatico ufficiale.

Le aspettative dietro al Vertice

Roma ha scelto di ospitare il Vertice per ottenere alcuni dividendi politici: anzitutto il ritorno d’immagine dato dalla capacità dell’Italia di raccogliere ad un suo tavolo i principali leader del continente e di mostrarsi agli occhi dei partner europei come uno dei possibili capofila, se non il vero e proprio paese motore nei rapporti con i governi del continente. A questo corrisponde un obiettivo speculare di politica interna: dimostrare all’elettorato che il governo intende affrontare in maniera sistemica la questione dell’immigrazione irregolare, cresciuta nell’ultimo triennio in modo massiccio, intervenendo con i paesi d’origine per creare soluzioni di lungo periodo. Infine, una terza direttrice è la ricerca di partnership economiche che coinvolgano anche i privati tramite l’apertura di nuovi canali commerciali con i paesi africani. In quest’ultima linea di azione rientra l’idea, già attivamente promossa dal governo tramite accordi bilaterali, di fare dell’Italia un “hub energetico” nel Mediterraneo per tutta l’Europa. Il Vertice Italia-Africa doveva rappresentare l’occasione per articolare questi obiettivi attorno all’idea, centrale nella narrazione del piano Mattei, di sviluppare un nuovo approccio “non predatorio” al continente africano.

I partecipanti e i primi riscontri

Il Vertice di fine gennaio ha segnato certamente una novità rispetto al recente passato: le precedenti edizioni, inaugurate nel 2017 dal governo Gentiloni, avevano sempre visto una partecipazione limitata ai livelli ministeriali. Quest’anno invece, dei quarantasei paesi partecipanti, ventuno hanno inviato figure apicali come capi di stato (tra cui quelli di Tunisia, Repubblica del Congo, Somalia, Kenya e Mozambico) o di governo (inclusi i premier di Libia, Etiopia e Marocco). Un’altra presenza significativa è stata quella di esponenti di istituzioni e organizzazioni internazionali sia europee, rappresentate da Ursula von der Leyen, Roberta Metsola e Charles Michel, che africane, con il Presidente della Commissione dell’Unione Africana Moussa Faki in testa.

A fare da contraltare a questo successo d’immagine va tuttavia registrata l’assenza di alcuni paesi di grande peso, Nigeria in primis, e l’invio di delegati di livello inferiore da parte di altri stati chiave del continente africano, come il Sudafrica, rappresentato dal viceministro degli esteri. Inoltre, il vertice è stato impostato come incontro di alto livello, tra élite di governo, con un coinvolgimento limitato delle società civili, come osservato da più parti.

A rendere il quadro ancora più complesso è stato l’insieme di reazioni che sono emerse già nel corso dei lavori in Senato. L’intervento di Moussa Faki, in particolare, è stato caratterizzato da toni critici. Nell’affermare che i paesi africani sono “pronti a discutere il progetto”, Faki ha lamentato l’assenza di consultazione, da parte italiana, dell’Unione africana nella fase di definizione del piano, chiedendo poi di passare “dalle parole ai fatti”, dato che i leader del continente non possono accontentarsi “di promesse che spesso non vengono mantenute”. Faki ha infine sottolineato come la “libertà non allineata a un blocco unico” sia un principio cardine delle relazioni internazionali dei paesi africani.

Il Piano è stato accolto con toni più positivi dalle istituzioni europee; la Presidente von der Leyen, in particolare, ha elogiato l’iniziativa come coerente il più ampio Global Gateway europeo, a cui l’Italia ha già rivolto attenzione in più occasioni. L’assenza di rappresentanti di altri stati membri come Francia, Germania e Spagna, tuttavia, ha suscitato interrogativi sulla effettiva possibilità di allargare l’iniziativa a livello europeo, presupposto fondamentale per ampliare il bacino di risorse disponibili a sostegno delle ambizioni del Piano.

Il tema delle risorse

Stando a quanto annunciato da Giorgia Meloni durante il vertice, le risorse attualmente disponibili per il piano Mattei ammontano a cinque miliardi e mezzo di euro. Di questi, una parte consistente proviene dal Fondo italiano per il clima, circa tre miliardi di euro, la restante parte proveniente dai fondi italiani per la cooperazione allo sviluppo. Queste risorse dovrebbero essere utilizzate per iniziative articolate attorno a cinque priorità: acqua, agricoltura, energia, istruzione e formazione, e salute, rispetto a cui sono stati annunciati alcuni “progetti pilota”.

Il confronto con il Global Gateway Ue è una cartina da tornasole per capire la traiettoria del piano Mattei e la sua possibile prosecuzione. Anche se il Global Gateway raccoglie progetti europei già esistenti, la differenza di volume nelle risorse a disposizione è lampante: per quel che riguarda la sola Africa, il Global Gateway prevede circa 150 miliardi di euro di investimenti tra il 2021 e il 2027, con un livello di dettaglio riguardo ai progetti messi in campo al momento non disponibile per il piano Mattei.

Un possibile futuro per il Piano Mattei

A oggi un testo ufficiale del piano Mattei non è ancora stato pubblicato. Rimane quindi lo spazio per adattare questa ambiziosa visione alla luce di quanto emerso nel corso del summit. Le principali criticità riguardano anzitutto le risorse messe a disposizione, ma anche l’effettiva capacità di dar vita a un’interlocuzione virtuosa e improntata realmente alla condivisione con le controparti africane. Queste ultime, peraltro, non possono limitarsi ai rappresentanti di governi più o meno democratici: se l’ambizione del Piano è realmente quella di innescare processi di sviluppo positivi sul medio-lungo termine, è fondamentale che il coinvolgimento sia esteso ai rappresentanti della società civile dei paesi partner. Allo stesso modo, un’integrazione del Piano in una più ampia cornice europea – sia a livello di istituzioni comunitarie, che di stati membri – è un presupposto indispensabile per garantire un supporto adeguato in termini di risorse ed expertise ed evitare di innescare dinamiche di competizione potenzialmente deleterie.

Questi temi verranno affrontati anche in occasione della presentazione dell’edizione 2023 dell’annuale Rapporto sulla politica estera italiana, martedì 6 febbraio, con una tavola rotonda che vedrà la partecipazione di politici, giornalisti ed esperti nazionali.

Nuovi raid Usa-Regno Unito contro gli Houthi

Gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno condotto nuovi attacchi contro gli Houthi, bombardando diversi obiettivi in Yemen, Siria e Iraq. Questa è la risposta congiunta contro i ripetuti attacchi degli Houthi nel Mar Rosso, dopo che il gruppo di ribelli filo-iraniani ha ucciso tre soldati americani in Giordania la scorsa settimana.

Sabato 3 febbraio, i raid aerei congiunti in Yemen hanno seguito un’ondata separata di attacchi unilaterali americani contro obiettivi legati all’Iran in Iraq e in Siria, in risposta all’attacco di un drone che ha ucciso tre soldati statunitensi in Giordania. È stata la terza volta che le forze britanniche e americane hanno preso di mira congiuntamente gli Houthi, i cui attacchi in solidarietà con i palestinesi di Gaza, colpiti dalla guerra, hanno interrotto il commercio globale. Gli Stati Uniti hanno anche effettuato una serie di raid aerei contro i ribelli yemeniti da soli, ma i loro attacchi alla vitale rotta commerciale del Mar Rosso sono continuati.

Gli attacchi di sabato hanno colpito “36 obiettivi houthi in 13 località dello Yemen, in risposta ai continui attacchi degli houthi contro la navigazione internazionale e commerciale e contro le navi militari in transito sul Mar Rosso”, hanno dichiarato in un comunicato gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e gli altri Paesi che hanno fornito supporto all’operazione. Il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, ha dichiarato che gli attacchi “sono destinati a interrompere e degradare ulteriormente le capacità delle milizie houthi sostenute dall’Iran di condurre i loro attacchi sconsiderati e destabilizzanti”.

Né Austin né la dichiarazione congiunta hanno identificato i luoghi specifici che sono stati colpiti, ma il portavoce militare houthi Yahya Saree ha detto che sono state prese di mira la capitale Sanaa e altre aree controllate dai ribelli, per un totale di 48 attacchi aerei. “Questi attacchi non ci dissuaderanno dalla nostra… posizione a sostegno del saldo popolo palestinese nella Striscia di Gaza”, ha affermato Saree. Gli ultimi attacchi “non passeranno senza una risposta e una punizione”, ha aggiunto. Inoltre, gli Houthi dello Yemen hanno dichiarato che gli attacchi aerei statunitensi e britannici “non ci scoraggeranno” e hanno promesso una risposta.

Forze della coalizione colpiscono obiettivi Houthi nello Yemen

Il ministero della Difesa britannico ha dichiarato che gli aerei da guerra Typhoon della Royal Air Force hanno colpito diversi obiettivi, tra cui due stazioni di controllo a terra utilizzate per gestire droni da attacco e da ricognizione. Austin ha dichiarato che “le forze della coalizione hanno preso di mira 13 località associate alle strutture di stoccaggio delle armi profondamente sepolte degli Houthi, ai sistemi missilistici e ai lanciatori, ai sistemi di difesa aerea e ai radar”. Non ci sono state notizie immediate di vittime.

Separatamente, il Comando centrale degli Stati Uniti (CENTCOM) ha dichiarato che le sue forze hanno effettuato un attacco contro un missile antinave Houthi che “si preparava a lanciare contro le navi nel Mar Rosso” nella mattina di domenica 4 febbraio. Il CENTCOM aveva già lanciato attacchi contro altri sei missili antinave Houthi e venerdì l’esercito statunitense ha dichiarato che le sue forze avevano abbattuto otto droni nello Yemen e nelle sue vicinanze.

Gli Houthi hanno iniziato a prendere di mira le navi del Mar Rosso a novembre, affermando di voler colpire le imbarcazioni collegate a Israele a sostegno dei palestinesi di Gaza, governati da un altro gruppo armato sostenuto dall’Iran, Hamas. Le forze statunitensi e britanniche hanno risposto con attacchi contro gli Houthi, che da allora hanno dichiarato che anche gli interessi americani e britannici sono obiettivi legittimi. Il portavoce degli Houthi, Nasr al-Din Amer, ha dichiarato dopo gli attacchi di sabato: “Risponderemo all’escalation con l’escalation”.

Gli attacchi statunitensi in Siria e in Iraq

La rabbia per la devastante campagna israeliana a Gaza – iniziata dopo un attacco senza precedenti di Hamas il 7 ottobre – è cresciuta in tutto il Medio Oriente, alimentando la violenza dei gruppi sostenuti dall’Iran in Libano, Iraq, Siria e Yemen.

Il 28 gennaio, un drone si è abbattuto su una base in Giordania, uccidendo tre soldati statunitensi e ferendone più di 40, un attacco che Washington ha attribuito alle forze allineate a Teheran. Le truppe statunitensi e alleate nella regione sono state attaccate più di 165 volte dalla metà di ottobre, per lo più in Iraq e Siria, ma le morti in Giordania sono state le prime a causa del fuoco ostile durante questo periodo.

Gli Stati Uniti hanno risposto con attacchi contro decine di obiettivi in sette strutture collegate a Teheran in Iraq e Siria, ma non hanno colpito il territorio iraniano. Fonti della sicurezza irachena hanno riferito all’AFP che venerdì scorso sono state colpite postazioni di gruppi armati filo-iraniani nell’Iraq occidentale, in particolare nel settore di Al-Qaim, al confine con la vicina Siria. “È stato preso di mira un quartier generale delle fazioni armate nell’area di Al-Qaim, secondo le informazioni preliminari si trattava di un deposito di armi di piccolo calibro”, ha dichiarato all’AFP un funzionario del ministero degli Interni. Un funzionario dell’Hashed al-Shaabi, una coalizione di ex paramilitari, ha confermato questo attacco e un altro bombardamento che ha colpito una posizione più a sud.

Secondo un nuovo rapporto dell’Osservatorio siriano per i diritti umani (OSDH), almeno 23 combattenti filo-iraniani sono stati uccisi da attacchi aerei statunitensi nella Siria orientale. Secondo il direttore di questa ONG, Rami Abdel Rahman, 10 combattenti filo-iraniani sono stati uccisi nella regione di Deir Ezzor e 13 nella regione di al-Mayadin. Inoltre, sono stati uccisi nove combattenti siriani e sei iracheni, ma non ci sono state vittime civili.

Sia il governo iracheno che quello siriano hanno condannato gli attacchi, mentre Teheran ha dichiarato che “non avranno altro risultato se non quello di intensificare la tensione e l’instabilità”. L’Iraq ha condannato gli attacchi di rappresaglia degli Stati Uniti contro i gruppi armati filo-iraniani sul suo territorio come una “violazione della sovranità irachena”, avvertendo di “conseguenze disastrose” per il Paese e non solo. Gli attacchi di venerdì nell’Iraq occidentale, vicino al confine con la Siria, sono una “violazione della sovranità irachena” e porteranno “conseguenze disastrose per la sicurezza e la stabilità dell’Iraq e della regione”, ha dichiarato in un comunicato il generale Yehia Rasool, portavoce del primo ministro Mohamed Shia al-Sudani. L’Iraq ha inoltre dichiarato che convocherà l’incaricato d’affari statunitense a Baghdad per presentare una protesta ufficiale contro gli attacchi aerei.

Anche l’Iran ha denunciato gli attacchi, con il portavoce del Ministero degli Esteri che ha affermato che “contraddicono” le intenzioni dichiarate da Washington e Londra di evitare un “conflitto più ampio” in Medio Oriente.

Fonti diplomatiche hanno detto che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si riunirà lunedì 5 febbraio, dopo che la Russia ha chiesto una riunione “per la minaccia alla pace e alla sicurezza creata dagli attacchi statunitensi in Siria e in Iraq”. Ma il ministro degli Esteri britannico David Cameron ha affermato che Teheran è il responsabile ultimo delle violenze, dichiarando al Sunday Times che “dobbiamo inviare all’Iran il segnale più chiaro possibile che ciò che stanno facendo attraverso i loro proxy è inaccettabile”. “Li avete creati, li avete sostenuti, li avete finanziati, avete fornito loro armi, e alla fine sarete ritenuti responsabili di ciò che fanno”, ha detto Cameron.

© Agence France-Presse

La missione europea nel Mar Rosso a guida italiana

“La missione navale Aspides nel Mar Rosso è importante per l’Europa e per l’Italia, che sembra ne assumerà il comando opertativo”, afferma Alessandro Marrone, responsabile del programma Difesa dello IAI. “È una missione impegnativa, che segna un passo in avanti per l’Europa della difesa”.

“Il Mar Rosso è la principale arteria che connette il Mediterraneo al Golfo persico, all’Oceano indiano e, quindi, all’Asia”, continua Marrone. “Da lì transita il 12% del commercio internazionale e il 21% del petrolio lavorato che arriva in Europa. Si tratta del 43% del commercio estero italiano trasportato via mare”.

“È fondamentale per gli interessi nazionali italiani ed europei tutelare la libertà di navigazione nel Mar Rosso”, afferma Marrone. “Se questo principio del diritto internazionale viene meno adesso, a causa degli Houthi, si manda il messaggio, a livello globale, che qualsiasi attore può ricattare la comunità internazionale lanciando missili o droni dalle coste verso i mercantili in transito in un certo tratto di mare”.

Il Piano Mattei e le relazioni Italia-Africa

In questo podcast vi proponiamo l’intervento sul Piano Mattei per l’Africa di Leo Goretti (Responsabile del programma Politica estera dell’Italia dell’Istituto Affari Internazionali e direttore di The International Spectator) nella trasmissione di RadioRadicale “Spazio Transnazionale” condotta e curata da Francesco De Leo.

 

Italia-Ue: se il pragmatismo non basta

Nel corso del 2023, il governo guidato da Giorgia Meloni ha perseguito una politica europea nel complesso pragmatica verso i partner europei e le istituzioni Ue. Compatibilmente con le diverse sensibilità interne alla coalizione di governo, che appartengono a tre distinte famiglie politiche europee, il governo ha cercato una sintesi, mettendo al centro la rivendicazione dell’interesse nazionale sui principali dossier europei rilevanti per l’Italia.

I toni euroscettici del periodo trascorso all’opposizione sono stati sostituiti da un atteggiamento più cauto e realista, orientato a trovare di volta in volta un’intesa di compromesso con i tradizionali partner in Europa e con la Commissione europea. Al tempo stesso, questo approccio ‘transazionale’ nei confronti della politica europea ha mostrato chiari limiti, soprattutto nell’ambito del dibattito sul futuro dell’Unione, in particolar modo riguardo a settori chiave come la politica migratoria e la governance economica.

Meno Visegrád, più Germania

Nel corso dell’anno, i rapporti bilaterali hanno seguito spesso direttrici diverse rispetto a quelle che ci si sarebbe attesi guardando al posizionamento dei partiti di maggioranza. L’affinità ideologica con i governi del gruppo di Visegrád si è tradotta in scarsi risultati dal punto di vista della policy. Ciò è risultato particolarmente evidente nel tentativo di dialogo con Ungheria e Polonia riguardo la redistribuzione delle quote di migranti: i governi di Budapest e Varsavia hanno chiuso la porta a possibili mediazioni, specie sulle riforme del regolamento di Dublino.

In parallelo, l’Italia ha rafforzato la cooperazione bilaterale con la Germania. In occasione del Consiglio europeo informale di Granada di inizio ottobre, la mediazione di Roma e Berlino è stata centrale per trovare una soluzione di compromesso. La collaborazione tra i due paesi si è poi strutturata ulteriormente nei settori energetici e delle politiche di difesa. A testimonianza di questa sinergia va segnalato in particolare il Piano di Azione bilaterale siglato il 22 novembre 2023, che copre una varietà di ambiti, tra cui la cooperazione tecnologica e scientifica bilaterale nel contesto europeo, gli investimenti congiunti nelle fonti energetiche rinnovabili e la diplomazia climatica, il settore della difesa, i diritti umani e le migrazioni, e la tutela del patrimonio culturale, i giovani e la cooperazione tra think tank. Il piano bilaterale rappresenta idealmente un complemento al trattato Franco-tedesco di Aquisgrana del 2019 e al Trattato “del Quirinale” del 2021, pur non essendo, a differenza di questi due, un trattato internazionale.

I rapporti con la Francia proseguono su un binario altrettanto indirizzato: l’intesa tra i due paesi è stata confermata dall’incontro tra Meloni e Macron all’Eliseo il 20 giugno 2023, da cui è emersa una strategia condivisa di rimpatri e controllo dei movimenti migratori primari, poi ribadita nell’incontro bilaterale a Palazzo Chigi del 26 settembre. In questo ambito, dunque, l’azione del governo Meloni si è mossa in una sostanziale continuità con il governo Draghi che lo aveva preceduto.

I rapporti con la Commissione

Una certa continuità è visibile anche nella ritrovata intesa con la Commissione europea su alcuni specifici dossier: anche in questo senso sembra lontano il tempo in cui la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen paventava un intervento di Bruxelles in caso di “orbanizzazione” dell’Italia.

In primo luogo, è stata positiva l’interlocuzione del ministro per gli Affari europei sulla revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che ha portato all’erogazione della quarta rata degli stanziamenti messi a disposizione dell’Italia dal programma di ripresa Next Generation EU.

Il secondo esempio di convergenza tra Roma e Bruxelles, anch’esso in continuità con il governo Draghi, riguarda il sostegno dell’Italia a Kyiv e alla politica di allargamento, rivitalizzata dall’invasione russa dell’Ucraina dopo anni di stagnazione. Lo sforzo è culminato nel Consiglio europeo del 14 dicembre, con cui si è deciso di avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina e con la Moldova e, potenzialmente con la Bosnia-Erzegovina, oltre a riconoscere lo status di paese candidato alla Georgia.

Un terzo ambito di dialogo tra Roma e Bruxelles ha riguardato il già citato dossier delle migrazioni: il governo italiano ha infatti contribuito alla chiusura del nuovo Patto su migrazione e asilo, il cui negoziato andava avanti dal 2020 e che adesso attende solo la ratifica da parte del Parlamento europeo. Dal canto suo, la Commissione europea ha sostenuto la strategia di esternalizzazione della gestione della migrazione sostenuta dall’Italia, come testimoniato dalla visita congiunta di Meloni e von der Leyen in Tunisia a luglio, che ha portato alla firma del Memorandum of Understanding tra Unione Europea e Tunisia, e dal sostanziale benestare agli accordi sottoscritti con l’Albania lo scorso novembre.

La prova delle riforme strutturali dell’Ue

Le difficoltà italiane sono invece state più evidenti nell’ambito dei processi di riforma dell’Unione, dove le ambizioni del governo Meloni escono fortemente ridimensionate da una fine dell’anno difficile. Il governo non è riuscito a incidere in modo significativo sul cruciale dossier della riforma del Patto di stabilità e crescita: rispetto alla iniziale proposta della Commissione, si è arrivati a un testo finale rivisto in chiave di minore flessibilità, principalmente per iniziativa tedesca, che rischia di limitare i margini di manovra per i governi italiani negli anni a venire. A poco è servito il veto, prima minacciato e poi attuato dall’Italia, alla ratifica del nuovo trattato sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes) – un atteggiamento con cui Roma ha piuttosto dato prova di inaffidabilità e incoerenza. Di fatto, la posizione dell’Italia è rimasta vittima di una spirale politica interna legata alla competizione tra i vari partiti politici di maggioranza e parte dell’opposizione, poco legata a una discussione nel merito delle implicazioni per il paese dell’adozione di un Mes riformato.

Ulteriore nodo strutturale che resta da sciogliere è quello delle questioni migratorie. Da questo punto di vista l’Italia, come tutti i paesi mediterranei, rischia di rimanere isolata nel tentativo di avanzare le proprie istanze, specie quelle derivanti dalla difficile gestione dei rapporti con la regione del Mediterraneo. L’accordo raggiunto sul Nuovo patto sulla migrazione e asilo, rafforzando i controlli e relativi obblighi degli stati di prima accoglienza, potrebbe infatti finire per penalizzare l’Italia e i paesi di primo approdo.

In vista delle elezioni europee del giugno 2024, il governo Meloni potrebbe dover far fronte a tensioni sia legate alla competizione interna alla coalizione, sia al complesso gioco delle alleanze a livello Ue. Rimangono da valutare gli esiti e le possibili ricadute del tentativo, esplicitato dalla premier anche nella conferenza stampa di fine anno, di creare una coalizione alternativa alla “maggioranza Ursula” attraverso un’alleanza con i popolari europei – anche se Meloni non ha escluso la possibilità di un sostegno italiano alla rielezione di Von der Leyen (se sarà candidata) pure nella ipotesi che si confermi sul suo nome una maggioranza simile a quella che l’aveva eletta nel 2019.

 

Questo articolo è basato sul capitolo “I rapporti con l’Europa” predisposto dagli autori per il Rapporto sulla politica estera italiana 2023 dello IAI, che verrà presentato in Istituto il 6 febbraio p.v. alle 17:30.

Perché l’Italia è interessata all’Africa

Il primo ministro italiano Giorgia Meloni ha dichiarato che l’Italia vuole una nuova partnership con l’Africa con l’obiettivo di rafforzare i legami economici, creare un hub energetico per l’Europa e limitare l’immigrazione. Quanto gioverà al continente questa nuova visione?

Ne ha parlato Leo Goretti in un suo intervento a “Focus on Africa” della BBC. Ascolta qui il podcast completo.

Il 2023 della Difesa italiana

Il 2023 è stato un anno di significativi cambiamenti per la Difesa italiana. Il Documento Programmatico Pluriennale (Dpp) 2023-2025 ha apportato una serie di novità guardando agli anni a venire. A questo, si aggiungono gli sviluppi delle decisioni in sede Nato, innescate nel recente passato e che sembrano orientate a un impatto duraturo oltre l’emergenza immediata.

L’Italia nella nuova Nato

Se il 2022 ha rappresentato per l’Alleanza Atlantica uno spartiacque con l’invasione russa dell’Ucraina e l’adozione del Concetto strategico a Madrid, il 2023 ha avuto un momento fondamentale nel vertice di Vilnius a luglio, a cui hanno partecipato anche i partner dell’Indo-Pacifico: Australia, Giappone, Repubblica di Corea e Nuova Zelanda. Il vertice lituano si è caratterizzato per un rinnovato e prioritario impegno Nato sulla deterrenza e difesa collettiva, una cauta attenzione all’Indo-Pacifico e uno spostamento del baricentro geografico e militare verso nord-est.

In questo contesto, la presidente Meloni ha confermato il ruolo dell’Italia nell’Alleanza, alle cui attività e missioni il paese resta uno dei principali contributori, dopo gli Stati Uniti, sia in termini di personale che di assetti militari. Nel quadro delle missioni alleate, l’Italia ha continuato a fornire un importante supporto nei battlegroup multinazionali Nato in Ungheria, Lettonia e Bulgaria – guidando la presenza Nato a Sofia – nonché nelle operazioni di air policing lungo il fianco est. In totale sono nove le missioni alleate a cui l’Italia partecipa, con una presenza massima di 5.200 unità e un finanziamento di oltre 463 milioni di euro. Da segnalare le 1.120 nuove unità, i 70 mezzi terrestri e i 10 mezzi aerei dispiegati nel 2023 per il potenziamento nell’area sud-est dell’Alleanza, seguiti dalle 120 nuove unità e 27 mezzi terrestri impiegati in Lettonia nella Enhanced Forward Presence. Inoltre, fino a maggio 2023, l’Italia ha guidato l’operazione Nato in Iraq di addestramento delle forze locali.

Il valore di questo impegno è stato riconosciuto dal fatto che il paese ha visto accogliere favorevolmente la candidatura dell’attuale Capo di stato maggiore della Difesa, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, a prossimo Chairman del Comitato militare dell’Alleanza atlantica a partire da gennaio 2025. Un risultato importante che, tuttavia, non deve distogliere l’attenzione dal fatto che l’Italia è sottorappresentata da tempo ai livelli di Secretary General (l’ultimo è stato Manlio Brosio tra il 1964 e il 1971), Deputy Secretary General e Assistant.

L’impegno a fianco di Kyiv

Sul fronte dell’impegno a sostegno dell’Ucraina, a dicembre 2023 era in fase di definizione l’ottavo pacchetto aiuti da parte italiana, che era stato anticipato dal ministro degli Esteri Antonio Tajani durante l’incontro con il presidente Volodymyr Zelenskyy di ottobre. Nonostante le informazioni sull’invio di equipaggiamenti militari italiani all’Ucraina siano secretate ed esposte dal ministro della Difesa soltanto al Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica (Copasir), è ormai noto che l’Italia ha fornito, tra gli altri: equipaggiamenti per la fanteria, mortai, lanciarazzi, mitragliatrici, mezzi blindati per il trasporto truppe Lince, artiglieria trainata e obici semoventi, sistemi anticarro, antiaereo e di difesa antimissile, e il relativo munizionamento. A ciò si aggiungono dispositivi per la protezione civile come generatori e attrezzature per il contrasto alla minaccia nucleare, biologica, chimica e radiologica (Nbcr).

Si tratta comunque, nel complesso, di un contributo molto più modesto in termini di valore assoluto rispetto ad altri paesi europei quali Germania, Regno Unito e Polonia. La volontà politica di sostenere militarmente l’Ucraina rimane ferma, ma deve scontrarsi con alcuni limiti: anzitutto, le risorse a disposizione, rispetto alle quali il ministro della difesa Guido Crosetto ha ricordato come in termini di scorte esistenti “non esista molto ulteriore spazio” per donazioni. Pesano poi la crescente disaffezione dell’opinione pubblica nei confronti di un conflitto che dura da quasi due anni e la persistente mancanza di una cultura della difesa, che in altri Paesi europei costituisce una base per un dibattito più strutturato in materia.

Il documento programmatico pluriennale

Dal punto di vista interno del sistema difesa, il già citato Dpp propone una “incisiva azione di rinnovamento” della struttura del ministero, orientata a una riorganizzazione funzionale che guardi soprattutto al primo compito di legge delle forze armate, la difesa dello stato, rispetto alla gestione delle crisi e alle attività a supporto della sicurezza interna. Logica conseguenza di questa nuova postura della difesa italiana dovrebbe essere un ridimensionamento, se non addirittura la chiusura, dell’operazione Strade sicure, che coinvolge attualmente circa 5.000 unità dell’Esercito in mansioni che rientrano più propriamente nelle competenze di Carabinieri e polizia, danneggiando la preparazione e la prontezza dello strumento militare.

Complessivamente, il rilancio della centralità della difesa dello stato rappresenta un elemento potenzialmente innovativo rispetto allo scorso trentennio, caratterizzato dalla gestione delle crisi in assenza di avversari alla pari, con forti implicazioni di procurement, specie per la componente pesante dell’esercito. Altra novità rilevante è l’istituzionalizzazione di una partnership con Regno Unito e Giappone che va oltre i tradizionali ambiti europeo e transatlantico per affacciarsi in modo strutturale sull’Indo-Pacifico. Quest’ultimo teatro arricchisce, ma non intacca, l’impegno della difesa nei tre cerchi tradizionali della politica estera italiana, segnalando un maggiore livello di ambizione, cui dovranno però corrispondere risorse adeguate.

Questo articolo è basato sul capitolo “La politica di difesa e il ruolo della Nato” predisposto dagli autori per il Rapporto sulla politica estera italiana 2023 dello IAI, che verrà presentato in Istituto il 6 febbraio alle 17:30.

La questione dei finanziamenti all’UNRWA

In questo podcast, Riccardo Bocco, Professore Emerito al Geneva Graduate Institute, si occupa della questione dei finanziamenti all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) alla luce dello scandalo che ha coinvolto alcuni membri dell’organizzazione accusati di aver partecipato al pogrom del 7 ottobre 2023 e che ha portato al blocco dei fondi da parte di molti paesi finanziatori.

Il governo Meloni alla prova della politica estera

Nel 2023 il Governo guidato da Giorgia Meloni ha dovuto fare i conti con un contesto internazionale problematico e sfidante, con una complessa situazione economica, con margini di bilancio limitati e con l’esigenza di garantire la coerenza di una maggioranza composta da tre partiti che appartengono a tre distinte famiglie europee, in competizione fra loro in vista delle elezioni europee.

A dispetto di questi dati, la “performance” in politica estera del governo Meloni è stata complessivamente migliore che su altri temi, grazie al pragmatismo della Presidente del Consiglio, che ha confermato una collocazione internazionale del Paese tutto compreso in continuità con la tradizionale politica estera dell’Italia. E proprio alla politica estera del Governo Meloni è dedicato il Rapporto, che lo IAI pubblica ormai annualmente, e che è redatto da un gruppo di ricercatori dell’Istituto, nel quadro della partnership strategica con la Compagnia di San Paolo.

Il governo Meloni e i principali dossier di politica estera

Sulla guerra in Ucraina la posizione del Governo è stata caratterizzata da piena continuità sulla linea “atlantista” di ferma condanna dell’aggressione russa e di solidarietà con l’Ucraina aggredita, con una scelta che aveva anche l’obiettivo di garantirsi una legittimazione internazionale, di mantenere saldo l’impegno dell’Italia sulla Nato e per la Nato, e di confermare una piena sintonia con l’Amministrazione americana.

Sostanzialmente in linea con i partners occidentali, anche se non particolarmente profilata, è apparsa anche la linea del governo sulla ripresa del conflitto israelo-palestinese. Una posizione che è stata caratterizzata dalla ferma condanna del brutale attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, dalla solidarietà a Israele, ma anche dalla richiesta a Israele di moderazione nella gestione delle operazioni a Gaza e da ripetuti appelli alla ripresa di un dialogo sulla base della formula dei “due popoli e due Stati”.

Il tema dei rapporti con la Cina è stato gestito con saggezza ed equilibrio, con la decisione di non rinnovare il Memorandum of Understanding sulla partecipazione dell’Italia alla Belt and Road Initiative, che è stata preceduta ed accompagnata da una serie di iniziative mirate a ridurne l’impatto e a garantire che le relazioni fra Cina e Italia continuino comunque a svilupparsi in un contesto collaborativo.

I rapporti del governo Meloni con l’Unione europea

Più articolato è invece il giudizio sui rapporti del governo Meloni con l’Unione Europea, con le sue istituzioni e con i tradizionali alleati dell’Italia in Europa. Su questo fronte, Meloni ha cercato di rendere compatibili pregresse prese di posizione marcatamente anti-europee con le esigenze di un pragmatismo imposto dalle responsabilità di Governo. Meloni si è quindi spostata progressivamente da una linea decisamente euro-scettica ad una linea che si potrebbe definire come euro-realista, dando prova di quella che è apparsa una “provvidenziale incoerenza”.

Nei rapporti con i partners europei, Meloni ha ridimensionato certe affinità politiche con governi nazionalisti di Paesi dell’Europa centro-orientale. Con sano realismo, ha proseguito una più realistica interlocuzione con i tradizionali alleati dell’Italia in Europa, al di là della connotazione politica dei rispettivi esecutivi (come dimostrato ad esempio dal Piano di Azione concluso a novembre 2023 con la Germania). Abbandonati i toni da crociata polemica contro l’Europa, Meloni si è impegnata a sostenere nell’Ue, e con l’Ue, una linea assertiva ma costruttiva e coerente con la consapevolezza che la tutela degli interessi nazionali dell’Italia passa anche da una maggiore capacità di farli valere nell’Ue, e non contro l’Ue.

Va valutata positivamente in questo senso la decisione di presentare una legge di bilancio tutto compreso prudente (anche se priva di impegni credibili di riduzione del debito). E soprattutto va valutata positivamente l’interlocuzione avviata con la Commissione europea sull’attuazione del PNRR italiano. Il Governo ha così ottenuto l’approvazione della revisione del Piano e il pagamento della quarta rata degli stanziamenti complessivi messi a disposizione dell’Italia, che ha così ricevuto 102 miliardi di euro.

Sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita – tema politicamente sensibile al centro dell’agenda dell’Ue nel secondo semestre dell’anno – il Governo ha svolto un ruolo tutto compreso marginale. Dopo aver chiesto, senza successo, l’esonero di alcune categorie di investimenti dal calcolo del deficit, ha saggiamente accettato una soluzione di compromesso, concordata fra Francia e Germania, che modifica in peggio la proposta originaria della Commissione con l’introduzione di riduzioni obbligatorie quantificate del debito e del deficit. E ha ottenuto in contropartita una maggiore flessibilità nell’applicazione delle nuove regole nei primi tre anni dall’entrata in vigore del nuovo Patto di Stabilità.

Diverso invece il caso della mancata ratifica del MES. Su questo dossier il Governo, ostaggio delle resistenze della Lega e di certi settori di Fratelli di Italia, ha oscillato tra continui rinvii e il tentativo di collegarla a ipotetici progressi su altri aspetti della riforma della “governance” economica europea. E alla fine la ratifica è stata bocciata dal Parlamento senza che il Governo se ne assumesse chiaramente la responsabilità. E così il MES è caduto, vittima della campagna elettorale e di fuorvianti strumentalizzazioni politiche. La mancata ratifica del MES non ha per il momento provocato conseguenze immediate, ma ha rafforzato presso i nostri partners l’impressione di un Governo e di un Paese poco affidabile.

Sul tema della gestione dei flussi migratori, il governo  – che pure proprio del controllo e del contrasto dell’immigrazione aveva fatto una delle sue bandiere – ha dovuto confrontarsi con un significativo aumento di arrivi irregolari. In Europa, preso atto delle difficoltà di far passare soluzioni ispirate al principio di solidarietà ed una qualche forma di distribuzione obbligatoria di migranti o richiedenti asilo, la Presidente del Consiglio ha  puntato sul tema del rafforzamento delle frontiere esterne e sulla collaborazione con i Paesi terzi, rilanciando l’opzione di una esternalizzazione della gestione del fenomeno. Gli accordi con la Tunisia (sui quali Meloni ha coinvolto anche la Commissione europea) e con l’Albania, ancorché diversi per contenuti e finalità, sono la testimonianza di questo approccio. Il giudizio sul funzionamento di entrambe le intese resta ovviamente sospeso in attesa di verificarne i risultati (e nel caso dell’Accordo con l’Albania della pronuncia della Corte Costituzionale di Tirana).

Contrasto al cambiamento climatico e transizione energetica non sono apparsi fra le priorità del Governo, che pur senza rimettere in discussione gli obiettivi concordati in sede europea e sottoscritti dai precedenti esecutivi, ha preferito concentrarsi più sul tema dei costi sociali ed economici della pur necessaria transizione energetica. Il “mantra”, in questo campo, è stato quello di una transizione energetica “non ideologica”, che tenga conto delle esigenze di sostenibilità sociale ed economica dei processi di de-carbonizzazione.

Infine, resta de segnalare la speciale attenzione che la Presidente del Consiglio ha voluto dedicare al tema dei rapporti l’Africa: un continente che è considerato importante per le straordinarie potenzialità in termini di risorse energetiche e di materie prime, ma anche come partner con cui cooperare per far fronte alla sfida demografica e per la gestione dei flussi migratori. Ma il giudizio sulla effettiva portata di questa iniziativa per l’Africa resta sospeso perché, al momento in cui viene pubblicato  questo rapporto, i contenuti del Piano Mattei, l’ambizioso progetto mirato  al rilancio dei rapporti con il continente africano, non erano stati resi noti.

L’edizione 2023 dell’annuale Rapporto sulla politica estera italiana verrà presentato martedì 6 febbraio, con una tavola rotonda che vedrà la partecipazione di politici, giornalisti ed esperti nazionali.