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Attacco drone in Giordania: tre soldati Usa uccisi, Biden incolpa i militanti iraniani

L’attacco di un drone a una base in Giordania ha ucciso tre soldati americani, con il presidente Joe Biden che ha incolpato i militanti sostenuti dall’Iran per le prime morti di militari statunitensi nella regione dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas. È infatti la prima volta che soldati americani vengono uccisi in Medio Oriente dall’inizio della guerra: un evento che solleva, ancora una volta, il timore di un’escalation delle tensioni sullo sfondo della guerra latente tra Israele e Iran.

“Mentre stiamo ancora raccogliendo i fatti di questo attacco, sappiamo che è stato condotto da gruppi militanti radicali sostenuti dall’Iran che operano in Siria e in Iraq”, ha dichiarato Biden in un comunicato. “Non abbiate dubbi: chiederemo conto a tutti i responsabili nei tempi e nei modi che sceglieremo”. In visita in South Carolina, il Presidente ha poi chiesto un momento di silenzio dedicato alle vittime: “Ieri sera abbiamo avuto una giornata difficile in Medio Oriente. Abbiamo perso tre anime coraggiose”, ha detto Biden, prima di promettere che gli Stati Uniti “risponderanno”.

Il Comando centrale degli Stati Uniti (CENTCOM) ha dichiarato che nella tarda serata di domenica l’attacco ha colpito la remota base di supporto logistico Tower 22 e che 34 persone sono rimaste ferite, otto delle quali hanno richiesto l’evacuazione. Nella base sono presenti circa 350 membri dell’esercito e dell’aeronautica statunitensi che operano in ruoli di supporto, anche per la coalizione internazionale contro il gruppo jihadista dello Stato Islamico, ha dichiarato il CENTCOM. Il portavoce del governo giordano Muhannad Mubaidin ha condannato l’attacco, così come il Bahrein e l’Egitto.

La risposta di Iran, Giordania e Hamas

L’Iran ha dichiarato di non avere nulla a che fare con l’attacco e ha negato le accuse statunitensi e britanniche di aver sostenuto i gruppi militanti responsabili dell’attacco alla remota base di frontiera nel nord-est della Giordania, vicino ai confini con Iraq e Siria. Il portavoce del governo giordano, Muhannad Mubaidin, ha infatti dichiarato che “l’attacco ha preso di mira la base di Al-Tanf in Siria”, una base strategica per la coalizione anti-jihadista vicino ai confini giordani e iracheni.

L’Iran ha negato qualsiasi legame con l’attacco e il portavoce del ministero degli Esteri Nasser Kanani ha definito le accuse “infondate” e una “proiezione”. “La Repubblica islamica dell’Iran non vede di buon occhio l’espansione del conflitto nella regione”, ha dichiarato Kanani in un comunicato, aggiungendo che Teheran “non è coinvolta nelle decisioni dei gruppi di resistenza”.

Con la regione già tesa a causa dei combattimenti a Gaza, l’attacco solleva anche il timore di un conflitto più ampio che coinvolga direttamente Teheran. Finora non è stata rivendicata la responsabilità dell’attacco, ma il ministro degli Esteri britannico David Cameron ha ribadito l’invito all’Iran a “smorzare le tensioni nella regione”.

Il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha dichiarato che l’attacco della Giordania è “un messaggio all’amministrazione americana”. “La continuazione dell’aggressione americano-sionista a Gaza rischia di provocare un’esplosione regionale”, ha dichiarato Abu Zuhri.

Il ruolo degli Stati Uniti nel conflitto in Medio Oriente

L’escalation del conflitto in Medio Oriente rappresenta una sfida per Biden in un anno di elezioni. I politici repubblicani hanno subito preso di mira Biden per l’attacco mortale, compreso il suo predecessore Donald Trump, che ha descritto la situazione come una “conseguenza della debolezza e della resa di Joe Biden”.

Secondo il Pentagono, dalla metà di ottobre le forze statunitensi e alleate in Iraq e Siria sono state prese di mira in più di 150 attacchi e Washington ha effettuato rappresaglie in entrambi i Paesi. Molti degli attacchi al personale statunitense sono stati rivendicati dalla Resistenza islamica in Iraq, un’alleanza di gruppi armati legati all’Iran che si oppongono al sostegno degli Stati Uniti a Israele nel conflitto di Gaza.

L’ultimo round del conflitto tra Israele e Hamas è iniziato il 7 ottobre, con l’attacco senza precedenti di Hamas a Israele, che ha provocato circa 1.140 morti, per lo più civili, a cui ha fatto seguito l’offensiva militare israeliana che ha ucciso almeno 26.422 persone a Gaza. La rabbia per questa campagna è cresciuta in tutta la regione, con violenze che hanno coinvolto gruppi sostenuti dall’Iran in Libano, Iraq e Siria, oltre che nello Yemen. Ci sono stati scambi di fuoco quasi quotidiani tra Hezbollah e Israele in Libano. Le forze statunitensi sono direttamente coinvolte in Iraq, Siria e Yemen.

Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno entrambi effettuato attacchi contro i ribelli Huthi dello Yemen, sostenuti dall’Iran, che da oltre due mesi attaccano le navi del Mar Rosso a sostegno dei palestinesi di Gaza.

Tuvalu alle urne: sfide e speranze oltre le elezioni

Come le altre colonie britanniche nel Pacifico, anche Tuvalu ha iniziato il suo percorso di autodeterminazione successivamente alla formazione delle Nazioni Unite dopo la Seconda guerra mondiale.

Il percorso si è concluso nel 1978, con la concessione dell’indipendenza da parte del Regno Unito in virtù del Tuvalu Independence Order. Dello stesso anno è anche la Costituzione di Tuvalu, mentre quattro anni prima era stato indetto un referendum per stabilire se le isole Gilbert e le Ellice dovessero avere una propria amministrazione.

Toaripi Lauti è stato il primo Primo ministro di Tuvalu, eletto il 1° ottobre 1978: questa è anche la data celebrata come il Giorno dell’Indipendenza del Paese.

Le elezioni del 26 gennaio

Dopo aver raggiunto l’indipendenza, Tuvalu ha adottato un sistema di democrazia parlamentare.

Il Parlamento, Fale i Fono, è titolare del potere legislativo e si caratterizza per la sua natura unicamerale e non partitica: non esistono partiti politici formali e i candidati concorrono come indipendenti. Ognuna delle otto circoscrizioni dell’isola elegge due parlamentari, per un totale di 16, e le elezioni si tengono ogni quattro anni.

Le elezioni del 26 gennaio 2024 a Tuvalu segnano un momento decisivo per il Primo ministro uscente, Kausea Natano, e il suo governo.

Natano, a capo del Paese dal 2019, ha guidato Tuvalu attraverso sfide significative. In particolare, nel corso del suo mandato, il governo ha implementato politiche per rafforzare il contrasto e la prevenzione dei cambiamenti climatici, come evidenziato dalla collaborazione con la Banca mondiale per lo sviluppo di infrastrutture più resistenti ai disastri.

Le elezioni del 2024 offrono ai cittadini di Tuvalu l’opportunità di valutare soprattutto queste politiche. Uno dei più importanti campi di prova per il governo uscente, in questo senso, è quello relativo al recente accordo stipulato con l’Australia. Noto come “Falepili Union”, esso ha sollevato numerosi interrogativi sulla sovranità di Tuvalu in un passaggio storico molto complicato.

Falepili Union, un aiuto per Tuvalu o un rischio per la sua sovranità?

Il Falepili Union è un accordo tra Tuvalu e l’Australia stipulato nel novembre 2023. Questo trattato è nato come risposta alla minaccia esistenziale posta dal cambiamento climatico a Tuvalu, il cui territorio è particolarmente vulnerabile all’innalzamento del livello del mare. Con la previsione che alcune isole potrebbero essere sommerse nei prossimi decenni, il Falepili Union mira a fornire ai cittadini di Tuvalu opportunità di mobilità climatica e sicurezza economica

Il trattato prevede da una parte la possibilità per i tuvaliani di trasferirsi in Australia in caso di disastri legati ai cambiamenti climatici, dall’altra il supporto per lo sviluppo infrastrutturale e l’assistenza economica a Tuvalu. Tuttavia, il Falepili Union ha sollevato preoccupazioni riguardo alla sovranità di Tuvalu. Ci sono timori che la dipendenza da aiuti esterni e l’apertura alla migrazione possano influenzare l’autonomia decisionale del Paese e la sua identità nazionale.

Questi timori sono stati espressi in particolare dall’ex Primo ministro, Enele Sopoaga, che ha affermato l’intenzione di abrogare il trattato qualora dovesse tornare al governo dopo le elezioni. Sopoaga ha sottolineato l’importanza di preservare la sovranità delle nazioni insulari del Pacifico in un periodo in cui le grandi potenze, come gli Stati Uniti e la Cina, si contendono l’influenza nella regione. Anche l’ex ministro degli Esteri Simon Kofe ha criticato il trattato e si è impegnato a rinegoziarlo con l’Australia.

 L’impegno costituzionale di fronte al cambiamento climatico

Al di là del processo elettorale, un elemento significativo che emerge è il recente cambiamento della costituzione di Tuvalu, il cui secondo articolo ora prevede che “lo Stato di Tuvalu all’interno del suo quadro storico, culturale e giuridico rimarrà in perpetuo in futuro, nonostante gli impatti dei cambiamenti climatici o di altre cause che comportano la perdita del territorio fisico di Tuvalu”. Questa modifica riflette un approccio unico e proattivo alla sfida rappresentata dal cambiamento climatico.

Mentre l’innalzamento del livello del mare continua a minacciare la sua esistenza fisica, Tuvalu ha scelto di rispondere con una riforma che mira a preservare la sua sovranità e identità statale. Questa decisione evidenzia la centralità della sfida ambientale per l’ordinamento e la storia di uno Stato che, molto probabilmente, vivrà dei cambiamenti irreversibili nel prossimo futuro.

Tuvalu oltre le elezioni

La situazione di Tuvalu pone interrogativi, non più prorogabili, all’intera comunità internazionale. Mentre la nazione affronta la concreta possibilità di diventare inabitabile, la sua risposta attraverso la modifica costituzionale solleva domande sulla sovranità e l’identità statuali di fronte alle minacce ambientali, rappresentando anche un caso di studio interessante per le nazioni che si trovano, o potrebbero presto trovarsi, in condizioni analoghe.

Le elezioni del 2024 offrono ai cittadini di Tuvalu un’opportunità per riflettere e decidere sul loro futuro in un contesto di sfide multidimensionali senza precedenti in continua evoluzione. Oltre il risultato delle elezioni, Tuvalu continuerà senza dubbio a essere un punto di riferimento importante nel dibattito globale sul cambiamento climatico e la sovranità statale.

 Articolo a cura di Giulia Romani 

Viaggio verso la nomination: Trump vince le primarie nel New Hampshire

Donald Trump vince anche le primarie del New Hampshire, dopo quelle nello Iowa, e viaggia verso la nomination repubblicana, anche se Nikki Haley, rimasta sua unica rivale, non demorde. Appuntamento decisivo in South Carolina il 24 febbraio. Fra i democratici, Joe Biden evita agevolmente la trappola Phillips.

Un nuovo approccio alla politica energetica italiana tra transizione e sicurezza

Negli ultimi due anni, il mondo, e specialmente l’Europa, è stato travolto dalla prima crisi energetica globale. Tra i paesi europei, l’Italia si è trovata particolarmente esposta all’aumento dei prezzi dell’energia e al rischio di interruzioni a causa dell’eccessiva dipendenza dal gas (50% della generazione elettrica) e in particolare dal gas russo (40% delle importazioni nel 2021).  Come conseguenza, la sicurezza energetica è tornata ad essere una priorità politica, al contrario della decarbonizzazione che sembra essere relegata come una priorità secondaria per il governo. Il nuovo contesto energetico ed internazionale richiede, tuttavia, un ripensamento della politica energetica nazionale, con l’obiettivo di trovare un nuovo approccio e nuovi modi per riconciliare sicurezza energetica ed il raggiungimento dei target climatici.

Di fronte all’aumento dei prezzi dell’energia, il governo ha allocato 92.7 miliardi di euro in misure di sostegno attraverso sussidi universali. Tale approccio non può però essere considerato una strategia perseguibile nel lungo periodo per contrastare la volatilità dei prezzi. Infatti, l’Italia deve fare i conti con le proprie debolezze e limiti fiscali. Sarebbe opportuno, invece, sviluppare una strategia per allocare fondi nel modo più efficiente possibile, proteggendo i gruppi più vulnerabili, ed investire nella transizione. Emerge, dunque, la necessità di creare una strategia relativa agli investimenti necessari per la trasformazione industriale italiana ed europea.

La sfida delle rinnovabili

Nonostante le sfide, la crisi energetica ha permesso alla decarbonizzazione di guadagnare un ruolo importate per l’aumento della sicurezza energetica, riducendo la dipendenza delle importazioni di fonti fossili. Tuttavia, la diffusione delle rinnovabili deve affrontare numerose sfide, a partire dalle procedure burocratiche, che hanno storicamente rallentato la loro diffusione. Alla luce della guerra, però, il governo ha preso alcune misure per ridurre i tempi dei permessi e sbloccare progetti, ottenendo alcuni risultati positivi (+3 GW nel 2022).

I finanziamenti e le infrastrutture rappresentano ulteriori sfide a una rapida diffusione delle rinnovabili, storicamente influenzata anche dalla presenza o meno di generosi sussidi. Le limitate capacità fiscali impongono all’Italia di investire in modo efficiente dal punto di vista dei costi, mentre è necessario garantire una governance adeguata e coordinata per una transizione rapida e giusta. Infine, l’espansione delle reti sarà essenziale: la maggior parte degli impianti rinnovabili proposti, infatti, sono situati principalmente al sud lontane dalle basi di consumo (al nord). Su questo, l’Italia deve superare storici rallentamenti e opposizioni ai diversi progetti infrastrutturali.

In aggiunta, l’Italia si deve muovere in un contesto dove la sicurezza energetica e la diversificazione sono tornate a essere un aspetto cruciale della politica energetica, mentre la riconfigurazione dei flussi energetici, a seguito della guerra, ha ridato centralità ai paesi mediterranei. Quest’ultimi presentano vantaggi comparativi, ma devono ancora affrontare diverse sfide che ostacolano il loro potenziale di esportazione verso l’Italia.

In ogni caso, il governo ha espresso chiaramente l’ambizione di rendere l’Italia un hub energetico e ponte tra l’Europa e l’Africa. Per raggiungere questo obiettivo, il nostro Paese dovrebbe espandere le proprie infrastrutture energetiche sia nazionali che internazionali, tenendo conto anche dell’evoluzione della domanda di gas nell’UE – che è prevista diminuire del 35-52% entro il 2030, a seconda dello scenario, per raggiungere gli ambiziosi impegni climatici europei. L’Italia deve considerare, infine, le preferenze degli altri Paesi europei sulle rotte di importazioni: i Paesi del Nord Europa, come la Germania, hanno costruito e ampliato la loro capacità di rigassificazione del GNL.

Sicurezza energetica e sostenibilità nel settore del gas naturale

Poiché l’Italia punta a conquistare una posizione geopolitica grazie al gas naturale – che rimane cruciale per il mix energetico italiano, come sottolineato dal nuovo Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) – è essenziale sviluppare una strategia per conciliare la sicurezza energetica e gli obiettivi climatici anche in questo campo.

In primo luogo, nella ricerca di gas non russo, si dovrebbe perseguire una flessibilità in termini di infrastrutture e contratti che evitino un’eccessiva rigidità e clausole di destinazione. Questo consentirebbe di reindirizzare i flussi di gas dove è molto più necessario nel lungo periodo per gli obiettivi climatici (ad esempio in Asia per sostituire le centrali elettriche a carbone), evitando i rischi di carbon lock-in e di stranded assets.

Un’altra strategia da perseguire è certamente promuovere la riduzione delle emissioni di metano, poiché comporta un immediato contributo alla lotta al cambiamento climatico e un aumento della liquidità del mercato. Tale strategia può anche contribuire a rendere l’Italia un ponte tra gli obiettivi climatici dell’Europa e gli interessi economici e ambientali del Nord Africa.

Il nuovo regolamento europeo sulle emissioni di metano – che prevede misure sia per il mercato interno sia per le importazioni – fornisce un’importante cornice d’azione. L’Italia potrebbe sfruttare sia le sue relazioni di lunga data sia il suo ruolo di monopsonio per il gas di Algeria e Libia per promuovere standard di metano più elevati in questi Paesi. Ciò sarebbe vantaggioso anche per quest’ultimi, che altrimenti perderebbero quote di mercato nei loro mercati principali. In tal senso, la cooperazione bilaterale e tecnica a diversi livelli è necessaria e possibile.

Promuovere lo sviluppo dell’idrogeno

Infine, l’idrogeno può contribuire alla decarbonizzazione delle molecole e di alcuni settori. L’Italia, e l’UE nel suo complesso, dovrebbero promuovere lo sviluppo dell’idrogeno in modo strategico, dando priorità ai settori in cui altre soluzioni tecnologiche non sono praticabili.

L’idrogeno fornisce anche opportunità di cooperazione nella regione Euromediterranea, che è caratterizzata da una complementarità in termini di scambi commerciali. Ciononostante, permangono alcune sfide allo sviluppo dell’idrogeno (soprattutto per i progetti orientati all’esportazione) nei Paesi del Nord Africa. Queste riguardano principalmente la modesta capacità installata di fonti rinnovabili in questi Paesi e l’assenza di standard e sistemi di certificazione reciprocamente concordati che riflettano le ultime scoperte scientifiche.

L’Italia, insieme all’UE, dovrebbe dunque promuovere un uso sostenibile dell’idrogeno, favorendo e sostenendo innanzitutto la decarbonizzazione dei sistemi energetici nazionali dei Paesi produttori, per poi creare opportunità di esportazione. In questo modo, i Paesi nordafricani potrebbero sviluppare l’idrogeno per decarbonizzare le proprie industrie ad alta intensità energetica, al fine di creare più valore aggiunto, superare le sfide del commercio internazionale, perseguire politiche industriali verdi e ridurre la loro esposizione al Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM) istituito dall’UE.

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La Corea del Nord lancia missili da crociera verso il Mar Giallo

Come dichiarato dall’esercito di Seul, la Corea del Nord ha sparato diversi missili da crociera verso il Mar Giallo: l’ultima di una serie di mosse per aumentare la tensione da parte dello Stato dotato di armi nucleari.

In questi primi mesi del 2024, Pyongyang ha accelerato i test sulle armi, compresi quelli da lui definiti come un “sistema di armi nucleari sottomarine” e un missile balistico ipersonico a propulsione solida. “I nostri militari hanno rilevato diversi missili da crociera lanciati dalla Corea del Nord verso il Mar Giallo intorno alle 7:00 di oggi”, ha dichiarato lo Stato Maggiore della Corea del Sud in un comunicato. “Le specifiche dettagliate sono in corso di attenta analisi da parte delle autorità di intelligence sudcoreane e statunitensi”, ha aggiunto.

A differenza dei loro omologhi balistici, i test dei missili da crociera non sono vietati dalle attuali sanzioni ONU contro Pyongyang. Questi tendono infatti ad avere una propulsione a reazione e a volare a un’altitudine inferiore rispetto ai missili balistici più sofisticati, rendendoli più difficili da individuare e intercettare.

L’ultimo lancio arriva mentre la Corea del Sud sta conducendo un’esercitazione di infiltrazione delle forze speciali al largo della sua costa orientale, “alla luce delle gravi situazioni di sicurezza” con il Nord, che durerà 10 giorni, secondo la marina militare del Sud. “Porteremo a termine la nostra missione d’infiltrarci in profondità nel territorio del nemico e neutralizzarlo completamente in qualsiasi circostanza”, ha dichiarato il comandante dell’esercitazione in un comunicato.

Il deterioramento dei legami tra le due Coree

La scorsa settimana, il leader nordcoreano Kim Jong Un ha dichiarato che il Sud è il “nemico principale” del suo Paese, ha abbandonato le agenzie dedicate alla riunificazione e all’avvicinamento e ha minacciato la guerra per “anche solo 0,001 mm” di violazione territoriale.

Alcune ore dopo il lancio dei missili da parte di Pyongyang, il ministro della Difesa di Seoul ha dichiarato che la Corea del Nord avrebbe affrontato la fine del suo regime se avesse mosso guerra. “Se il regime di Kim Jong Un fa la scelta peggiore di iniziare una guerra, dovete diventare la forza invisibile che protegge la Corea del Sud e… eliminare la leadership del nemico nel più breve tempo possibile e porre fine al suo regime”, ha detto Shin Won-sik. Shin ha fatto queste osservazioni durante la sua visita a una base dell’aeronautica militare che gestisce gli avanzati jet da combattimento stealth del Sud.

Negli ultimi mesi si è assistito a un netto deterioramento dei legami tra le due Coree, con entrambe le parti che hanno abbandonato accordi chiave per ridurre la tensione, intensificando la sicurezza delle frontiere e conducendo esercitazioni a fuoco vivo lungo il confine. Il leader nordcoreano ha anche affermato che Pyongyang non riconoscerà il confine marittimo de facto dei due Paesi, la linea di demarcazione settentrionale, e ha chiesto modifiche costituzionali che permettano al Nord di “occupare” Seul in caso di guerra, ha dichiarato la Korean Central News Agency (KCNA).

A Seul, il presidente Yoon Suk Yeol ha detto al suo gabinetto che se il Nord, dotato di armi nucleari, dovesse compiere una provocazione, la Corea del Sud risponderebbe con una risposta “ancora più forte”, indicando le “capacità di risposta schiaccianti” dell’esercito.

Durante le riunioni politiche di fine anno di Pyongyang, Kim ha minacciato un attacco nucleare contro il Sud e ha chiesto di aumentare l’arsenale militare del suo Paese in vista di un conflitto armato che, ha avvertito, potrebbe “scoppiare in qualsiasi momento”.

All’inizio del mese, il Nord ha lanciato un missile ipersonico a combustibile solido, pochi giorni dopo che Pyongyang ha inscenato esercitazioni a fuoco vivo vicino al teso confine marittimo con la Corea del Sud, che hanno provocato contro esercitazioni e ordini di evacuazione di alcune isole di confine appartenenti al Sud.

Kim ha anche messo in orbita con successo un satellite spia alla fine dello scorso anno, dopo aver ricevuto quello che Seul ha detto essere un aiuto russo, in cambio di trasferimenti di armi per la guerra di Mosca in Ucraina.

© Agence France-Presse

Netanyahu, le proteste a Tel Aviv e la telefonata con Biden

Sabato 20 gennaio, migliaia di israeliani hanno manifestato a Tel Aviv per chiedere la liberazione degli ostaggi detenuti dal 7 ottobre nella Striscia di Gaza e per chiedere l’allontanamento del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, accusato di continuare la guerra per rimanere al potere. I manifestanti hanno marciato attraverso piazza Habima, alcuni portando cartelli che accusavano Netanyahu con slogan come “il volto del male” e chiedendo “elezioni subito”.

Gli ostaggi e le vittime del 7 ottobre

Netanyahu sta affrontando forti pressioni per ottenere la restituzione degli ostaggi rapiti il 7 ottobre durante l’attacco senza precedenti di Hamas sul suolo israeliano e poi portati nella Striscia di Gaza, dove Israele sta conducendo da allora una guerra contro il movimento palestinese.

Delle circa 250 persone rapite, un centinaio sono state rilasciate in base a una tregua alla fine di novembre, mentre 132 sono ancora a Gaza. Di queste, 27 sono morte senza che i loro corpi siano stati restituiti, secondo un rapporto dell’AFP basato su dati israeliani. “Di questo passo, tutti gli ostaggi moriranno. Non è troppo tardi per liberarli”, ha dichiarato sabato Avi Lulu Shamriz, padre di uno degli ostaggi uccisi a Gaza.

Il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari ha dichiarato che le sue truppe hanno trovato un tunnel a Khan Younès (sud) con “prove di ostaggi” al suo interno, tra cui i disegni di un bambino di cinque anni. “Una ventina di ostaggi” sono stati tenuti lì in vari momenti, “in condizioni difficili, senza luce diurna (…) con poco ossigeno e un’umidità spaventosa”, ha continuato Daniel Hagari.

L’attacco del 7 ottobre ha causato la morte di circa 1.140 persone in Israele, la maggior parte delle quali civili, secondo un conteggio dell’AFP basato su dati ufficiali israeliani. A Gaza, quasi 25.000 persone, per la maggior parte donne, bambini e adolescenti, sono state uccise dai bombardamenti e dalle operazioni militari, secondo il Ministero della Sanità di Hamas.

Le proteste contro Netanyahu

Netanyahu ha dichiarato di voler continuare la guerra finché Hamas non sarà “eliminato”.

“Tutti nel Paese, ad eccezione della sua coalizione tossica, sanno che le sue decisioni non sono prese per il bene del Paese, ma che sta solo cercando di rimanere al potere”, ha criticato sabato Yair Katz, 69 anni. “Tutti vogliamo che si dimetta“.

Il Paese è gestito da criminali che non hanno alcun interesse per il popolo”, ha detto Boaz Sadeh, 46 anni. “Non fanno nulla per liberarli”, ha aggiunto.

A Gerusalemme, circa 250 persone si sono riunite davanti alla residenza del Primo Ministro, portando fiori e cartelli con l’immagine degli ostaggi.

La telefonata tra Biden e Netanyahu

Gli Stati Uniti chiedono ad Israele di limitare il numero di vittime civili, mentre la guerra tra Israele e Hamas continua a infuriare nella Striscia di Gaza. Washington ha anche ribadito il suo sostegno alla creazione di uno Stato palestinese.

In una chiamata, infatti, tra il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, avvenuta lo scorso venerdì – la prima volta dopo quasi un mese – Biden ha ribadito il suo sostegno alla futura statualità per i palestinesi. “Il Presidente crede ancora nella promessa e nella possibilità di una soluzione a due Stati. Riconosce che ci vorrà molto lavoro”, ha dichiarato ai giornalisti il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale John Kirby.

Netanyahu ha dichiarato di aver ribadito invece la sua opposizione alla “sovranità palestinese” nella Striscia di Gaza, insistendo sulla “necessità” di sicurezza. Durante la conversazione, “il Primo Ministro Netanyahu ha ribadito la sua politica secondo cui, una volta distrutto Hamas, Israele deve mantenere il controllo della sicurezza a Gaza per garantire che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele, una richiesta che contraddice la richiesta palestinese di sovranità”, ha dichiarato l’ufficio del Primo Ministro.

Il giorno precedente, il presidente israeliano aveva già dichiarato che “Israele deve avere il controllo della sicurezza su tutto il territorio a ovest del fiume Giordano. Questa è una condizione necessaria, che contraddice l’idea di sovranità (palestinese)”.

Tuttavia, al termine della loro conversazione, Biden ha affermato che è ancora possibile che Netanyahu accetti una qualche forma di Stato palestinese.

Da parte sua, Hamas ha respinto i commenti del presidente statunitense sulla possibilità di uno Stato palestinese, definendoli una “illusione” che “non inganna” i palestinesi. Biden è “un partner a tutti gli effetti della guerra genocida e il nostro popolo non si aspetta nulla di buono da lui”, ha commentato Izzat al-Richiq, un leader del movimento islamista, criticando “coloro che si considerano i portavoce ufficiali del popolo palestinese e che vogliono decidere per il popolo palestinese che tipo di Paese gli conviene”.

© Agence France-Presse

Scontri aerei Pakistan-Iran: tensioni in aumento nella regione

I raid aerei transfrontalieri compiuti questa settimana dal Pakistan e dall’Iran contro i militanti presenti sui territori di entrambi i Paesi segnano una fiammata senza precedenti in un momento in cui la regione è già una polveriera di tensioni.

Il Pakistan, dotato di armi nucleari, e il suo vicino occidentale stanno entrambi combattendo contro insurrezioni che ribollono nelle regioni in difficoltà lungo il loro poroso confine di 1.000 chilometri (620 miglia).

Raid aerei tra Pakistan e Iran

Teheran ha dichiarato di aver colpito il “gruppo terroristico iraniano” Jaish al-Adl con droni e missili in Pakistan nella tarda serata di martedì, inducendo così Islamabad a richiamare il proprio ambasciatore e ad allontanare il suo omologo iraniano. “La violazione immotivata e palese della sovranità pakistana da parte dell’Iran, avvenuta la scorsa notte, è una violazione del diritto internazionale e degli scopi e principi della Carta delle Nazioni Unite”, ha dichiarato la portavoce Mumtaz Zahra Baloch in un comunicato.

In risposta, l’esercito pakistano ha dichiarato di aver colpito i separatisti pakistani di etnia Baloch nelle prime ore di giovedì in Iran, dove Islamabad ha affermato che i militanti prosperano in “spazi non governati”. “Questa mattina il Pakistan ha intrapreso una serie di attacchi militari di precisione altamente coordinati e specificamente mirati contro i covi dei terroristi nella provincia iraniana di Siestan-o-Baluchistan”, ha dichiarato il ministero degli Esteri pakistano, aggiungendo che “diversi terroristi sono stati uccisi”.

Il bilancio complessivo è di 11 morti – per lo più donne e bambini – ed entrambe le parti accusano l’altra di non aver affrontato la militanza che si riversa oltre i loro confini.

A prima vista, l’attacco aereo del Pakistan contro l’Iran ha drasticamente inasprito le tensioni con una raffica di razzi e attacchi di droni intorno all’alba di giovedì. Ma “il risultato della nuova situazione è che i due Paesi sono apparentemente e simbolicamente pari”, ha dichiarato Antoine Levesques, dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici. “I rischi di un’ulteriore escalation sono lievi e forse diminuiranno con il tempo”, ha aggiunto.

Sanam Vakil, direttore del think tank Chatham House, ha affermato che la risposta del Pakistan “sembra piuttosto moderata”, rispecchiando l’affermazione dell’Iran secondo cui il Pakistan ha preso di mira solo gruppi militanti nazionali che operano da basi straniere. Alireza Marhamati, vice governatore della provincia di Sistan-Baluchistan, ha dichiarato alla TV di Stato iraniana che “tutte le persone uccise erano di nazionalità pakistana”.

La crisi in Medio Oriente

Gli attacchi transfrontalieri si aggiungono alle molteplici crisi in Medio Oriente da quando Israele ha lanciato una guerra contro Hamas, alleato dell’Iran, a Gaza, in risposta all’attacco senza precedenti di Hamas contro Israele del 7 ottobre.

I ribelli huthi sostenuti dall’Iran nello Yemen hanno attaccato navi commerciali nel Mar Rosso e Israele ha scambiato regolarmente fuoco transfrontaliero con gli Hezbollah libanesi sostenuti dall’Iran.

L’Iran ha anche lanciato attacchi missilistici contro “quartieri generali di spionaggio” e obiettivi “terroristici” in Siria e nella regione autonoma del Kurdistan in Iraq, dove ha affermato di aver colpito il quartier generale dello spionaggio israeliano.

Teheran prevede che le tensioni con Israele “aumenteranno”, con la guerra tra Israele e Hamas destinata a trascinarsi, ha dichiarato Sanam Vakil. “Sta ponendo queste linee rosse per mostrare direttamente a Israele cosa risponderà e cosa no”, ha aggiunto. “L’Iran vuole affermare la propria posizione”, ha detto Wasi, accademico dell’Università di Karachi. “Gli attacchi sono un avvertimento alla comunità internazionale piuttosto che al Pakistan”.

Le reazioni internazionali

Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha espresso preoccupazione dopo che Iran e Pakistan hanno scambiato attacchi aerei sul territorio dell’altro. “Il Segretario generale è profondamente preoccupato per il recente scambio di attacchi militari tra Iran e Pakistan, che avrebbero causato vittime da entrambe le parti”, ha dichiarato Stephane Dujarric, suo portavoce. “Esorta entrambi i Paesi a esercitare la massima moderazione per evitare un’ulteriore escalation delle tensioni”.

Anche la Casa Bianca ha esortato l’Iran e il Pakistan a evitare un’escalation di tensioni. “Stiamo monitorando la situazione molto, molto da vicino. Non vogliamo vedere un’escalation, chiaramente nell’Asia meridionale e centrale, e siamo in contatto con le nostre controparti pakistane, come ci si aspetterebbe”, ha dichiarato ai giornalisti il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale John Kirby.

L’Unione europea, che ha espresso “grave preoccupazione” per “la spirale di violenza in Medio Oriente e oltre”, a seguito delle tensioni tra Pakistan e Iran. “Questi attacchi, in particolare in Pakistan, Iraq e Iran, sono fonte di profonda preoccupazione perché violano la sovranità e l’integrità territoriale dei Paesi interessati e hanno un effetto destabilizzante sulla regione”, ha dichiarato Peter Stano, portavoce del capo della diplomazia dell’UE Josep Borrell.

Infine, anche la Russia ha esortato Islamabad e Teheran a smorzare le tensioni. “Osserviamo con preoccupazione l’escalation della situazione nella zona di confine tra Iran e Pakistan, che si è intensificata negli ultimi giorni. Invitiamo le parti a esercitare la massima moderazione e a risolvere le questioni emergenti esclusivamente con mezzi politici e diplomatici”, ha dichiarato il Ministero degli Esteri Sergej Lavrov.

Fronte interno in Pakistan

Tra tre settimane esatte si terranno le elezioni in Pakistan, in un voto ritardato e già inficiato dalle accuse di brogli preelettorali da parte dei potenti militari.

Secondo gli analisti, il politico più popolare del Paese, Imran Khan, è in carcere e non può candidarsi dopo aver condotto una campagna di sfida contro i militari, mentre il tre volte ex primo ministro Nawaz Sharif è il candidato favorito dall’esercito.

Anche il forte aumento degli attacchi lungo il confine con l’Afghanistan e il deterioramento delle relazioni con il governo talebano hanno causato problemi all’establishment.

“Non bisogna trascurare la spinta politica che l’esercito pakistano potrebbe ricevere da questa rappresaglia contro l’Iran”, ha dichiarato Michael Kugelman, direttore dell’Istituto per l’Asia Meridionale presso il Wilson Center di Washington. “La repressione di Imran Khan e del suo partito ha alimentato la rabbia dell’opinione pubblica contro l’esercito. L’attacco di rappresaglia potrebbe produrre un effetto di raduno attorno alla bandiera, anche se momentaneo”.

© Agence France-Presse

Trump stravince alle primarie repubblicane nello Iowa

Trump stravince nello Iowa, dove s’è aperta la stagione delle primarie repubblicane: supera il 50%, lascia 30 punti indietro DeSantis e Haley. E ora tutti nel New Hampshire, dove si vota il 23. Ma l’ex presidente ha prima un appuntamento in tribunale.

 

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Zelensky e il premier cinese Li sotto i riflettori di Davos

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha fatto la sua prima apparizione di persona al World Economic Forum, l’incontro annuale delle élite globali a Davos, mentre cerca di sostenere il suo Paese nel conflitto con la Russia che dura da quasi due anni. Il Presidente ucraino condividerà i riflettori con il premier cinese Li Qiang, il più alto funzionario di Pechino a partecipare al World Economic Forum dal 2017.

Zelensky chiede di non dimenticare l’Ucraina

Accolto da una standing ovation quando è entrato in una riunione a porte chiuse di “CEO per l’Ucraina” che comprendeva dirigenti di Bank of America, Siemens Energy e altre aziende di primo piano, Zelensky si era già rivolto al WEF in collegamento video nelle precedenti edizioni dell’incontro annuale dei VIP della politica e dell’economia mondiale. Quest’anno, però, Kiev sta cercando di garantire che il sostegno degli alleati non vacilli durante la più grande guerra in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale, mentre l’attenzione del mondo si è spostata sul Medio Oriente, tra i timori di una ricaduta del conflitto a Gaza.

I repubblicani al Congresso degli Stati Uniti stanno bloccando il rinnovo dell’assistenza militare statunitense all’Ucraina e Kiev e i suoi alleati temono una riduzione del sostegno se Donald Trump vincerà le elezioni presidenziali statunitensi nel corso dell’anno. L’inviata degli Stati Uniti per la ripresa economica dell’Ucraina, Penny Pritzker, ha dichiarato che il Paese sta affrontando un “momento difficile” e ha riconosciuto “molta incertezza per quanto riguarda l’assistenza degli Stati Uniti e dell’Ue”. “Voglio rassicurare il popolo ucraino che il popolo americano e l’America sono al vostro fianco, anche se la nostra politica e le nostre democrazie possono essere molto complicate”, ha dichiarato.

Per quanto riguarda l’Unione europea, i leader dei Paesi membri terranno dei colloqui a febbraio, nel tentativo di approvare un pacchetto di aiuti all’Ucraina da 50 miliardi di euro su cui l’Ungheria ha posto il veto a dicembre.

Li Qiang e le elezioni presidenziali a Taiwan

Al World Economic Forum c’è grande attesa anche per il discorso speciale di Li Qiang, a pochi giorni dalle tese elezioni presidenziali del fine settimana a Taiwan, l’isola democratica che Pechino rivendica come parte della Cina. Dopo che il presidente eletto di Taiwan, Lai Ching-te, ha dato il benvenuto a una delegazione americana in seguito alla sua vittoria elettorale, la Cina ha risposto di essere “fermamente contraria” a tutti gli scambi ufficiali tra Stati Uniti e Taiwan.

Li sarà affiancato dal ministro del Commercio cinese Wang Wentao, dal governatore della People’s Bank of China e da alti rappresentanti di altri ministeri, tra cui il vice ministro degli Esteri Ma Zhaoxu. Nel corso della giornata avrà colloqui con la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ma non è ancora chiaro se lui o il vice ministro degli Esteri incontreranno il Segretario di Stato americano, Antony Blinken.

Tutti i partecipati al WEF

Li e Zelensky saranno tra i 60 capi di Stato e di governo presenti a Davos, compresi i leader del Medio Oriente, a cui si aggiungeranno 800 dirigenti di aziende su un totale di 2.800 partecipanti. Nella stessa giornata interverranno anche von der Leyen e il capo della NATO Jens Stoltenberg. Von der Leyen avrà anche colloqui privati con Zelensky, Blinken e il Presidente ungherese Katalin Novak.

Politici e dirigenti d’azienda discuteranno di come creare consenso su una moltitudine di rischi a livello mondiale, tra cui il cambiamento climatico e la crisi del costo della vita. I partecipanti si confronteranno anche su come mantenere il commercio globale dopo che gli attacchi dei ribelli yemeniti nel Mar Rosso hanno interrotto il condotto chiave per il trasporto marittimo Asia-Europa.

Un focus sull’intelligenza artificiale

Anche l’intelligenza artificiale dominerà le discussioni dopo la raffica di esempi dello scorso anno che hanno dimostrato i progressi vertiginosi di questa tecnologia. Nonostante l’entusiasmo, infatti, le minacce poste dall’IA destano preoccupazione. La disinformazione guidata dall’IA in vista delle elezioni in alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti, rappresenta uno dei principali rischi globali di quest’anno e del prossimo, ha dichiarato il WEF .

Il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva, ha dichiarato che l’IA interesserà il 60% dei posti di lavoro nelle economie avanzate.

A Davos si terranno una serie di discussioni, nel corso di eventi formali e informali, con alcuni dei più grandi nomi della tecnologia, tra cui l’amministratore delegato di Microsoft, Satya Nadella, e Sam Altman di OpenAI.

di Raziye Akkoc e Laurent Thomet
© Agence France-Presse

Per il Sudafrica, Israele ha violato la Convenzione sul genocidio: la parola alla Corte internazionale di giustizia

Il Sudafrica ricorre alla Corte internazionale di giustizia per le violazioni da parte di Israele, nella Striscia di Gaza, della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948 (application). Per Pretoria, Israele, nella risposta agli attacchi del gruppo terroristico Hamas del 7 ottobre 2023, avrebbe commesso diversi crimini, inclusi atti configurabili come genocidio (anche sotto il profilo della prevenzione e della punizione) e così ha chiesto alla Corte internazionale di giustizia di intervenire e, in primo luogo, di disporre misure provvisorie nei confronti di Israele proprio al fine di proteggere la popolazione palestinese e di garantire il rispetto degli obblighi convenzionali da parte di Tel Aviv. Per il Sudafrica sono stati compiuti atti, nonché omissioni, con l’intento specifico di distruggere un gruppo di palestinesi, residenti a Gaza, con un rischio di danni irreparabili per il gruppo e di impunità per gli autori di crimini.

Per il Sudafrica, che ha richiamato diverse dichiarazioni rese dalle autorità israeliane dalle quali è emersa una retorica genocidiaria, la competenza della Corte internazionale di giustizia è da rinvenire nell’articolo 36, paragrafo 1 dello Statuto della Corte e nell’articolo IX della Convenzione sul genocidio, ratificata sia da Israele sia dal Sudafrica che, proprio in ragione del fatto di essere vincolato alla Convenzione, ha deciso di rivolgersi alla Corte internazionale di giustizia. Inoltre, il Governo sudafricano ha ricordato che il divieto di genocidio è contenuto in una norma di ius cogens e sussiste un obbligo erga omnes per impedire la realizzazione di atti di genocidio. Questo quadro normativo, per il Sudafrica, giustifica il ricorso alla Corte. Israele, dal canto suo, ha respinto (MFA response to South African appeal to the CIJ) come oltraggiose le accuse di violazione della Convenzione e della commissione di atti di genocidio, sostenendo di aver adottato diverse misure per ridurre il numero di vittime tra i civili (misure, evidentemente, fallimentari, considerando l’alto numero di vittime anche tra bambini).

Le prime udienze si terranno all’Aja l’11 e il 12 gennaio 2024. Resta da vedere se la strategia giudiziaria del Sudafrica potrà avere risultati anche concreti: certo, la richiesta delle misure provvisorie permetterà al Sudafrica di ottenere una pronuncia in tempi rapidi, seppure non di merito, perché la Corte deve unicamente verificare se, prima facie, sussista la propria competenza al fine dell’adozione di queste misure, senza che l’ordinanza su tale richiesta possa pregiudicare la questione della giurisdizione sul merito. Resta poi da vedere se, qualora la Corte dovesse adottare le misure provvisorie, Tel Aviv darà seguito all’ordinanza della Corte. Non si può dire che, in casi analoghi, vi siano stati risultati favorevoli: la Corte internazionale di giustizia ha già adottato misure provvisorie nel caso Ucraina contro Russia, con l’immediata richiesta di cessazione delle operazioni militari rivolta a Mosca (ordinanza del 16 marzo 2023, Ucraina c. Russia), nel caso Gambia contro Myanmar (ordinanza del 23 gennaio 2020, Gambia c. Myanmar), nel caso Armenia c. Azerbaijan (ordinanza del 22 febbraio 2023Armenia c. Azerbaijan): in nessuna di queste vicende gli Stati “sconfitti” hanno eseguito le misure imposte dalla Corte. L’eventuale ordinanza della Corte rischia così di avere un valore puramente simbolico e politico, seppure molto rilevante anche per il posizionamento dell’opinione pubblica e degli Stati che oggi supportano con armi Israele.

Taiwan, William Lai vince le elezioni

Giornata importante per Taiwan: William Lai, candidato del Partito Democratico Progressista, vince le elezioni con il 40,2% dei voti. “La vittoria di William Lai Ching-te, candidato del Partito Democratico Progressista, nelle elezioni presidenziali svoltasi a Taiwan sancisce il proseguimento del fragile modus vivendi che è emerso nelle relazioni tra Pechino e Taipei a partire dalla vittoria del Presidente uscente, Tsai Ing-wen, anch’esso appartenente al partito di Lai nelle elezioni al 2016″, afferma Aurelio Insisa in un suo commento alle elezioni. “Pechino intensificherà probabilmente le azioni di coercizione economica e pressione diplomatica contro Taiwan allo scopo di mostrare il costo della scelta naturale al popolo taiwanese”.

 

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Usa 2024: Iowa, Trump mette nel mirino Nikki Haley

Una tempesta di neve incombe sull’inizio delle primarie, lunedì 15 nello Iowa. E, mentre esce di scena Chris Christie, Donald Trump mette nel mirino Nikki Haley, che gli contende la nomination. Il nuovo podcast di Giampiero Gramaglia. https://www.affarinternazionali.it/wp-content/uploads/2024/01/gpiero.mp3

Stati Uniti e Regno Unito bombardano gli Houthi in Yemen

Nella notte, Stati Uniti e Regno Unito hanno effettuato attacchi aerei contro i ribelli Houthi in Yemen, che da settimane stanno intensificando gli attacchi alle navi nel Mar Rosso in solidarietà con i palestinesi di Gaza, territorio devastato dalla guerra tra Israele e Hamas.

In una dichiarazione congiunta, Washington, Londra e otto loro alleati – tra cui Australia, Canada e Bahrein –  hanno sottolineato che l’operazione, condotta in un contesto di alta tensione regionale, era finalizzata alla “de-escalation” e al “ripristino della stabilità nel Mar Rosso”.

L’operazione è stata condotta “con successo” in “risposta diretta agli attacchi senza precedenti degli Houthi contro la navigazione internazionale nel Mar Rosso”, ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, riferendosi a un’azione “difensiva” per proteggere in particolare il commercio internazionale. Parole che vengono confermate anche dalla NATO: “Questi attacchi erano difensivi e miravano a preservare la libertà di navigazione in una delle rotte marittime più importanti del mondo”, ha infatti dichiarato Dylan White, portavoce dell’Alleanza. “Gli attacchi degli Houthi devono finire”, ha aggiunto.

“Nonostante i ripetuti avvertimenti della comunità internazionale, gli Houthi hanno continuato a compiere attacchi (…) Abbiamo quindi adottato misure limitate, necessarie e proporzionate di autodifesa”, ha dichiarato il primo ministro britannico Rishi Sunak.

Diversi media statunitensi hanno riferito che nell’operazione anglo-americana sono stati utilizzati jet da combattimento e missili Tomahawk, mentre Londra ha dichiarato di aver schierato quattro caccia Typhoon FGR4 per colpire i siti di Bani e Abbs, da cui gli Houthi “lanciano” i droni, con bombe a guida laser. Secondo il portavoce militare degli Houthi gli attacchi hanno preso di mira siti militari nella capitale Sanaa e nei governatorati di Hodeidah, Taiz, Hajjah e Saada: cinque persone sono state uccise e sei ferite tra i ribelli, contando “73 incursioni” del “nemico americano-britannico”.

Gli eventi prima dell’attacco

Poco dopo l’inizio della guerra tra Israele e Hamas il 7 ottobre, i ribelli Houthi – membri dell’”asse della resistenza”, un gruppo di movimenti anti-israeliani fondato dall’Iran, che comprende anche il palestinese Hamas e il libanese Hezbollah – hanno intensificato gli attacchi missilistici e con i droni nel Mar Rosso, costringendo molti armatori a bypassare l’area, registrando costi più elevati e tempi di trasporto più lunghi tra Europa e Asia.

Dal 19 novembre, secondo l’esercito statunitense, gli Houthi – che controllano gran parte dello Yemen – hanno effettuato 27 attacchi con missili e droni vicino allo strategico stretto di Bab el-Mandeb, che separa la penisola araba dall’Africa. Sostengono di prendere di mira navi commerciali legate a Israele, in solidarietà con i palestinesi della Striscia di Gaza.

A dicembre, gli Stati Uniti avevano già dispiegato navi da guerra e creato una coalizione internazionale per proteggere il traffico marittimo nell’area, che gestisce il 12% del commercio mondiale. Lo scorso 9 gennaio, 18 droni e tre missili Houthi sono stati abbattuti da tre cacciatorpediniere americane, una nave britannica e aerei da combattimento dispiegati dalla portaerei americana Dwight D. Eisenhower.

Il capo della diplomazia statunitense, Antony Blinken, in tournée in Medio Oriente questa settimana, aveva già lanciato un avvertimento agli Houthi e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva chiesto la cessazione “immediata” dei loro attacchi. Ma giovedì gli Houthi hanno lanciato un altro missile antinave, spingendo Washington e Londra a rispondere. Il Presidente degli Stati Uniti ha avvertito che “non esiterà” a “ordinare ulteriori azioni” se necessario. “Questi attacchi mirati inviano un chiaro messaggio: gli Stati Uniti e i nostri partner non tollereranno attacchi alle nostre truppe e non permetteranno ad attori ostili di mettere in pericolo la libertà di navigazione”, ha aggiunto Biden.

“Il nostro Paese sta affrontando un attacco massiccio da parte di navi, sottomarini e aerei americani e britannici”, ha reagito il vice ministro degli Esteri Houthi Hussein Al-Ezzi, citato dai media del movimento. “Gli Stati Uniti e il Regno Unito devono essere pronti a pagare un prezzo elevato e a sopportare le pesanti conseguenze di questa aggressione”, ha minacciato.

Gli attacchi americano-britannici contro i ribelli Houthi in Yemen avranno “ripercussioni sulla sicurezza regionale”, ha inoltre affermato il movimento islamista palestinese Hamas in una dichiarazione pubblicata sul suo canale Telegram. “Condanniamo con forza la palese aggressione statunitense-britannica allo Yemen. Li riteniamo responsabili delle ripercussioni sulla sicurezza regionale”, ha aggiunto.

Le reazioni internazionali

Immediata la reazione dell’Iran che ha condannato gli attacchi aerei americani e britannici, definendoli un'”azione arbitraria” e una “flagrante violazione della sovranità dello Yemen”. La condanna è giunta anche dall’Oman e dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ha descritto come “sproporzionata” la risposta americana e britannica. Da parte sua, l’Arabia Saudita ha invece dichiarato di seguire gli sviluppi nel vicino Yemen con “grande preoccupazione”, invitando alla “moderazione e ad evitare un’escalation”.

La Russia ha condannato un’operazione “in escalation” con “obiettivi distruttivi”, un “nuovo esempio di distorsione anglosassone delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU e di totale disprezzo del diritto internazionale”. “Li condanniamo”, ha dichiarato il portavoce presidenziale russo Dmitri Peskov ai giornalisti, assicurando che “dal punto di vista del diritto internazionale sono illegittimi”.

La Cina ha invece espresso “preoccupazione”, esortando “le parti interessate (…) a mostrare moderazione per evitare un’espansione del conflitto”.

Infine, tra i Paesi dell’Ue, la Francia ha dichiarato che gli Houthi hanno “una responsabilità estremamente pesante per l’escalation regionale”, chiedendo la fine degli attacchi. La prossima settimana, gli Stati membri discuteranno un piano per la creazione di una missione navale che aiuti a proteggere il traffico marittimo del Mar Rosso.

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L’ascesa di Gabriel Attal: da Ministro dell’Istruzione a Primo Ministro

“Impeccabile”, “un bravo studente”, “la migliore incarnazione del DNA macronista”: questi gli epiteti che accompagnano il nuovo Primo Ministro francese Gabriel Attal. Già il più giovane membro del governo nel 2018 e, successivamente, il più giovane Ministro dell’Istruzione, Attal è infine divenuto anche il più giovane capo di governo nella storia della Repubblica francese. Insomma, un’ascesa sorprendente per il 34enne che, nelle ultime settimane, è diventato il macronista più popolare.

Nominando Attal primo ministro, il presidente Emmanuel Macron scommette sulla sua giovinezza e sul suo dinamismo per battere l’estrema destra alle elezioni europee, ma anche per dare forma a un futuro dopo il 2027, quando dovrà farsi da parte.

Inoltre, secondo gli analisti politici, Macron spera di sfruttare l’appeal di Attal per rinvigorire il suo secondo mandato poco brillante, dopo sette anni alla guida del Paese. Il giovane primo ministro, infatti, è, secondo i recenti sondaggi, il politico più popolare di Francia, del governo e della maggioranza, convincendo un francese su due, con più di un terzo della popolazione francese che chiedeva la sua nomina a Matignon.

Un’ascesa di successo

Prodotto del movimento Strauss-Kahnita, Attal ha lavorato nell’ufficio del Ministro della Salute di François Hollande, prima di seguire Macron alla fine della campagna elettorale del 2017.

In seguito alla vittoria, è stato eletto deputato in una roccaforte della destra nell’Hauts-de-Seine, entrando così a far parte del governo: messo a capo della Segreteria di Stato per la Gioventù, si è distinto per la sua “capacità di lavoro” e il suo “acume politico”.

Dopo aver ereditato la carica di portavoce del governo, Macron lo ha nominato Ministro del Bilancio. In questo ruolo, la sua abilità mediatica gli ha permesso di essere uno dei pochi ministri inviati in prima linea per difendere l’impopolare riforma delle pensioni.

La ricompensa successiva non si è fatta attendere: il prestigioso Ministero dell’Istruzione, da luglio 2023. Uno “scontro di saperi”, una “scuola dei diritti e dei doveri”, una presa di posizione a favore delle uniformi, i telegiornali che annunciano il divieto dell’abaya nelle scuole: il ministro Attal è onnipresente sui media.

Insomma, dagli studi televisivi alle conferenze stampa, il giovane 34enne ha dato prova di sé, divenendo uno dei pochi membri del governo a farsi notare dall’opinione pubblica e dalla stampa. Accanto alle sue imprese politiche, la coppia che ha formato con Stéphane Séjourné, ora leader del partito presidenziale Renaissance, ha infatti catturato l’attenzione mediatica.

Macron e Attal: una straordinaria somiglianza politica

La promozione di Attal è una mossa inusuale per Macron, che nel 2017, a 39 anni, è diventato il più giovane capo di Stato francese dai tempi di Napoleone. Gli immediati predecessori di Attal – Jean Castex ed Elisabeth Borne – erano figure più tecnocratiche, mentre il nuovo primo ministro è già più popolare di Macron e ha il potenziale per mettere in ombra la sua eredità.

Secondo gli analisti politici, Macron spera di dare alla Francia un nuovo messaggio di ottimismo e di ripetere il successo della sua straordinaria elezione del 2017 promuovendo un politico a sua immagine e somiglianza. “So di poter contare sulla vostra energia e sul vostro impegno”, ha dichiarato Macron, aggiungendo che il nuovo premier agirà in linea con lo spirito di “eccellenza e audacia” del 2017.

Le personalità di tutto lo schieramento politico e i media francesi hanno sottolineato una straordinaria somiglianza tra i due, accomunati da uno stile combattivo e dal gusto sartoriale. Alcuni hanno addirittura affermato che il politico più giovane è il “clone” di Macron.

Di certo, Attal incarna autorità e fermezza, considerate dalla destra e da Macron come valori chiave per affrontare le sfide di una nazione divisa. Macron spera, inoltre, che Attal sia l’uomo giusto per affrontare Jordan Bardella, un altro astro nascente della politica francese di soli 28 anni, che ha preso il posto di Marine Le Pen come leader del RN.

Un possibile successore di Macron?

Secondo molti osservatori, la nomina di Attal ha aperto la corsa alla successione di Macron. Tutti i potenziali candidati alla presidenza, tra cui il ministro dell’Interno Gerald Darmanin, 41 anni, o il ministro delle Finanze Bruno Le Maire, 54 anni, “sembrano improvvisamente molto più vecchi”, ha affermato Gaspard Gantzer, ex consigliere del presidente Francois Hollande ed esperto di comunicazione politica.

La nomina di Attal ha suscitato però anche molti malumori. Macron ha dovuto superare le obiezioni di importanti esponenti del potere, tra cui l’ex primo ministro Edouard Philippe, 53 anni, che ha anche lui un occhio di riguardo per il 2027. Ma gli assistenti del presidente hanno difeso vigorosamente la sua scelta, rifiutandosi di collegare la nomina alle elezioni presidenziali del 2027.

Molti osservatori politici hanno detto che è ancora troppo presto per fare previsioni. Alcuni hanno affermato che un periodo come primo ministro potrebbe ostacolare le ambizioni presidenziali: Edouard Balladur, che è stato primo ministro sotto Francois Mitterrand, si è candidato senza successo alla presidenza nel 1995, perdendo contro Jacques Chirac, eletto presidente dopo essere stato primo ministro nel 1974-76 e nel 1986-88. Come ha sottolineato Gantzer: “A medio termine, tre anni sono un periodo molto lungo, e nessuno è mai passato dal Matignon all’Eliseo nello stesso tempo”.

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Piano Mattei: come lanciare una nuova strategia Italia-Africa

Con la votazione alla Camera dei deputati si è concluso in questi giorni l’iter del decreto legge sul cosiddetto piano Mattei, decreto che istituisce i meccanismi politico-burocratici per la sua gestione. Il piano Mattei è, fino ad oggi, un oggetto piuttosto misterioso, sia nei contenuti che nelle vere e proprie finalità. A chiarirlo, forse, sarà il successivo passaggio a fine mese nel Vertice Italia-Africa, nel corso del quale saranno finalmente svelati, in collaborazione con i partner africani, alcuni obiettivi della futura cooperazione bilaterale.

L’Italia al centro delle relazioni Africa-Europa

Nelle intenzioni del nostro governo, l’iniziativa dovrebbe avere un contenuto strategico, mettendo l’Italia al centro di un sistema complesso di relazioni fra Africa ed Europa: la funzione di “ponte” o “hub” spesso evocata dalla nostra premier Giorgia Meloni. Ponte di cosa? Per il momento si parla essenzialmente del trasporto di idrocarburi dal Nord Africa e dal Caucaso del Sud (l’Azerbaijan) attraverso il nostro paese verso l’Europa centrale. Un hub energetico, appunto, che nasce dall’emergenza seguita all’invasione russa dell’Ucraina e dal conseguente drastico taglio delle forniture di gas da Mosca.

Già Mario Draghi, come è noto, aveva cominciato ad avvicinare i governi del Nord Africa, a cominciare dall’Algeria, allo scopo di aumentare i flussi di idrocarburi attraverso le pipeline già esistenti, nate proprio dalle politiche di Enrico Mattei negli anni ’50. Lui lo faceva per sottrarsi al monopolio delle Sette Sorelle americane, Draghi e poi Meloni per diversificare le fonti energetiche.

Va detto che queste attività hanno avuto un discreto successo riuscendo, in effetti, a diminuire dal 40% al 16% nel 2022 la nostra dipendenza da Vladimir Putin. Tuttavia, è necessario aggiungere che nemmeno i governi algerino e libico (nella sua attuale complessità interna) hanno realmente rispettato gli accordi sottoscritti con l’Eni. Nel caso algerino, ad esempio, rispetto ai promessi 6 miliardi di metri cubi all’anno, siamo a stento arrivati a 3 miliardi. Meglio è andato con l’Azerbaijan attraverso la pipeline Tap e con l’accordo di raddoppiarla entro il 2027.

Per una nuova strategia Italia-Africa

Quindi, da un piano emergenziale si cerca di cogliere l’occasione per lanciare una nuova strategia Italia-Africa. Di qui l’esigenza di una legge che ne codifichi obiettivi e meccanismi di gestione. Per quanto riguarda questi ultimi va sottolineato come il tutto sia strettamente nelle mani del Presidente del Consiglio. È vero che subito sotto questo livello esiste una “cabina di regia”, ma talmente pletorica e numerosa (spaziando dai rappresentanti dei ministeri a quelli delle regioni, dalle università agli enti pubblici e privati e così via) che di regia sarà difficile parlare: semmai ne scaturirà una raccolta di proposte disorganiche e di richieste di vario tipo.

Più efficace sembra la configurazione del successivo livello, il segretariato di coordinamento, composto da 19 membri di supporto alle iniziative della presidenza del consiglio. Anche le dotazioni finanziarie sono estremamente limitate: 500 mila euro per consulenze ad esperti inserite in un budget complessivo di 2.643.949,28 euro. Se davvero si intendono raddoppiare, rinnovare e potenziare le necessarie pipeline, le cifre da mettere in ballo saranno enormemente superiori.

Dove si potranno reperire tali risorse è ancora tutto da immaginare. Sarebbe piuttosto naturale pensare ad un coinvolgimento massiccio dell’UE, ma nel decreto se ne parla assai poco. Anche l’UE, fra il resto, ha da anni un piano strategico Africa-Europa e anch’essa parla di partnership su basi di parità con i paesi africani. È quello che Giorgia Meloni ha definito come un atteggiamento italiano “non predatorio”. Ma per ora legami organici fra l’iniziativa italiana e quella europea non si intravvedono.

Strategie energetiche e geopolitiche nel piano Mattei

È utile, poi, aggiungere un’altra riflessione. Per il momento il piano Mattei pone l’enfasi sulla distribuzione dall’Africa all’Europa di idrocarburi classici, gas e petrolio. Forse sarebbe meglio gettare lo sguardo un po’ più lontano, al di là della contingenza del momento di diversificare le fonti di approvvigionamento. Pensare, cioè, in termini di fonti rinnovabili. Anche su questo tema è oggi attiva l’Unione europea con il suo Repower EU, all’interno del quale sta per nascere un’iniziativa lanciata da Germania e Austria e chiamata SoutH2.

Si tratta, in breve, dell’importazione dall’Africa di idrogeno verde prodotto in quei paesi, attraverso l’utilizzo di pipeline già esistenti o costruendone di nuove che attraversano il nostro paese. Promuovere, in altre parole, un Green Deal euromediterraneo con un triplice vantaggio: aumentare la nostra sicurezza energetica; incentivare l’Agenda climatica dell’UE; rafforzare le relazioni con i paesi produttori fornendoli delle tecnologie appropriate per trasformare sole e vento in idrogeno verde. Sarebbe questo davvero il modo migliore per eliminare qualsiasi sospetto di atteggiamenti predatori attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali, gas e petrolio, dei paesi del Nord Africa e al contempo di fornirli degli strumenti adatti allo sviluppo delle loro economie. Infine, un paio di notazioni conclusive.

Il piano Mattei ha anche un secondo obiettivo dichiarato: disciplinare l’immigrazione nel Mediterraneo attraverso vantaggi economici per i paesi di origine e transito. È questo un argomento da affrontare con grande prudenza. Il pessimo risultato di una politica del genere sperimentato con la Tunisia con l’offerta di denaro (anche comunitario) a fronte del blocco delle partenze è un campanello d’allarme. La parziale soluzione di questo immenso problema sta in una vera e propria politica comune dell’UE (ancora di là da venire) e nei suoi rapporti strategici con l’Africa: pensare di fare da soli non ci porterà molto lontani.

Vi è infine il tema delle alleanze. Se non troviamo un partner o dei partner nell’UE che sostengano le nostre esigenze sarà difficile smuovere più di tanto Bruxelles. Da questo punto di vista non si intravvede nessun approccio verso la Francia, ormai in ritirata dal centro Africa e indebolita anche in Libia dove fino a poco tempo fa ci ha fatto una feroce concorrenza. Un accordo forte con Parigi potrebbe rafforzare la nostra posizione nell’UE e costituire un interessante punto di passaggio per promuovere il piano Mattei al di là dei confini nazionali.

L’Ecuador è sprofondato in un “conflitto armato interno” con le bande della droga

Spari in diretta televisiva, guardie carcerarie e poliziotti presi in ostaggio, scuole e negozi chiusi: secondo il suo presidente, Daniel Noboa, l’Ecuador è sprofondato in un “conflitto armato interno” con bande di narcotrafficanti, che ha già causato almeno 10 morti.

In un decreto emanato ieri, terzo giorno di una crisi di sicurezza senza precedenti, il presidente Noboa ha ordinato “la mobilitazione e l’intervento delle forze armate e della polizia nazionale” per “garantire la sovranità e l’integrità nazionale contro la criminalità organizzata, le organizzazioni terroristiche e i belligeranti non statali”. Dopo aver dichiarato lo stato di emergenza, in seguito alla fuga di un temuto leader di una gang, Noboa ha ordinato la “neutralizzazione” delle bande criminali, di cui ha fornito un elenco esaustivo, sottolineando la necessità che le forze armate agiscano “nel rispetto dei diritti umani”.

L’Ecuador, con una popolazione di 18 milioni di abitanti e un tempo oasi di pace, è devastato dalla violenza dopo essere diventato il principale punto di esportazione della cocaina prodotta nei vicini Perù e Colombia. Gli omicidi di strada sono aumentati dell’800% tra il 2018 e il 2023, passando da 6 a 46 ogni 100.000 abitanti. Nel 2023 sono stati registrati 7.800 omicidi e sono state sequestrate 220 tonnellate di droga.

Adolfo Macias, alias “Fito”, leader dei Choneros – una banda di circa 8.000 uomini secondo gli esperti – è evaso domenica 7 gennaio dal carcere di Guayaquil (sud-ovest). Martedì 9 è evaso anche Fabricio Colon Pico, leader dei Los Lobos, un’altra potente banda.

Le reazioni internazionali

Già domenica sera, il Perù ha annunciato di aver dichiarato lo stato di emergenza lungo oltre 1.400 km di confine con l’Ecuador e di aver intensificato la sorveglianza.

Oggi, la Francia ha consigliato ai suoi cittadini di “rimandare” i viaggi in Ecuador, noto per le isole Galapagos, mentre la Cina ha sospeso le visite pubbliche alla sua ambasciata e al suo consolato in Ecuador. Come dichiarato da Mao Ning, portavoce della diplomazia cinese, si sta “valutando la situazione della sicurezza” in Ecuador, aggiungendo che Pechino “sostiene” gli sforzi delle autorità locali per ripristinare l’ordine.

La Russia ha chiesto ai suoi cittadini di “tenere conto dell’instabilità della situazione quando si considera di viaggiare in Ecuador” e di “evitare di recarsi in luoghi pubblici”. Mosca ha fiducia nelle autorità ecuadoriane affinché ristabiliscano la legge e l’ordine “con i propri mezzi, senza interferenze esterne”, ha aggiunto la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova.

Gli Stati Uniti sono “estremamente preoccupati per la violenza” e “pronti a fornire assistenza”, ha dichiarato Brian Nichols, capo della diplomazia statunitense per l’America Latina. Brasile, Cile, Colombia e Perù hanno espresso il loro sostegno all’Ecuador.

Irruzione armata e ostaggi

Martedì 9 gennaio, alcuni uomini armati hanno fatto irruzione sul set di una stazione televisiva pubblica di Guayaquil, prendendo brevemente in ostaggio giornalisti e personale. Dai primi rilevanti, pare che nessuno sia stato ucciso o ferito nel raid, mentre tredici assalitori sono stati arrestati. “Sono giorni estremamente difficili”, ha ammesso Roberto Izurieta, segretario alle comunicazioni presidenziali, mentre l’esecutivo ha preso “l’importante decisione di combattere a testa alta queste minacce terroristiche”.

Dopo l’evasione di “Fito”, una serie di ammutinamenti e prese di ostaggi da parte delle guardie ha colpito diverse carceri: a raccontarli alcuni video postati sui social, che mostrano prigionieri minacciati da detenuti mascherati e armati di coltelli. Video successivi mostrano anche l’esecuzione di almeno due guardie, tramite fucilazione e impiccagione. L’amministrazione penitenziaria (SNAI) ha riferito che 139 membri del suo personale sono ancora tenuti in ostaggio in cinque carceri del Paese.

Lo stato di emergenza

Lo stato di emergenza dichiarato lunedì 8 gennaio da Noboa – eletto a novembre con la promessa di ripristinare la sicurezza – si estende a tutto il Paese per 60 giorni. L’esercito è autorizzato a mantenere l’ordine nelle strade (con un coprifuoco notturno) e nelle carceri. Tuttavia, sono stati segnalati numerosi incidenti, tra cui il rapimento di sette agenti di polizia.

Nella città portuale di Guayaquil, dove i gruppi criminali sono onnipotenti, la violenza ha causato otto morti e tre feriti, secondo il capo della polizia. Anche due poliziotti sono stati “ferocemente uccisi da criminali armati” a Nobol, vicino a Guayaquil. Immagini di attacchi con molotov, auto date alle fiamme, spari casuali contro gli agenti di polizia, scene di panico circolano sui social, suggerendo che il caos si stia gradualmente affermando in diverse località.

In risposta, a Guayaquil, alcuni alberghi e ristoranti sono stati chiusi e l’esercito sta pattugliando le strade. Anche nella capitale, Quito, attanagliata dalla paura, negozi e centri commerciali hanno chiuso in anticipo. Inoltre, dal Ministero dell’Istruzione è giunto anche l’ordine di chiusura di tutte le scuole del Paese fino a venerdì.

I criminali “hanno commesso atti sanguinosi senza precedenti nella storia del Paese (…) ma questo tentativo fallirà”, ha dichiarato l’ammiraglio Jaime Vela, capo del Comando congiunto delle Forze armate, dopo una riunione del Consiglio di sicurezza a Quito, sotto l’egida del presidente.

a cura di Par Paola Lopez
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La Corte Suprema del Colorado e il destino politico di Trump nel 2024

Una decisione senza precedenti quella assunta dalla Corte Suprema del Colorado per impedire all’ex presidente Donald Trump di partecipare alle primarie. Una decisione che è però stata sospesa in attesa della risoluzione del caso da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha infatti deciso di esaminare il ricorso presentato da Trump lo scorso 5 gennaio.

Il 19 dicembre 2023,  la Corte del Centennial State – lo stato del centenario, così chiamato perché ammesso come trentottesimo stato dal presidente Ulysess Grant nel 1876, esattamente cent’anni dopo la Dichiarazione d’Indipendenza – aveva deciso di escludere l’ex presidente dalle elezioni presidenziali 2024 nel suo territorio, ricorrendo a una clausola del quattordicesimo emendamento della Costituzione Americana, per la prima volta usata contro un candidato alle primarie presidenziali.

La norma risale alla fine della Guerra Civile e venne introdotta per bloccare il rientro nelle cariche elettive federali di figure politiche compromesse con la Confederazione sudista, che potessero destabilizzare il fragile ordine costituito sulle ceneri del conflitto, magari per tentare nuovamente colpi di mano secessionisti. L’esclusione di Trump contenuta nella sentenza della Corte Suprema del Colorado, infatti, è data dal suo riconoscimento quale leader effettivo e in pieno supporto dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, riconosciuto come atto d’insurrezione.

A pochissimi giorni dall’inizio della tornata di elezioni primarie, che porteranno alla scelta dei candidati che si fronteggeranno per la disputa presidenziale di novembre 2024, questo colpo di scena sicuramente lascia aperta la porta a dibattiti, considerazioni e previsioni.

«La Corte Suprema dello Stato del Colorado ha delegittimato Donald Trump a comparire sulla scheda elettorale delle elezioni generali, cioè ad essere candidato alla Presidenza degli Stati Uniti», afferma Alessandro Tapparini, giurista ed esperto di Stati Uniti. «Di conseguenza essa ha stabilito anche che Trump non può partecipare alle primarie Repubblicane».

Vale la pena ricordare che le primarie non sono elezioni che coinvolgono il Partito di riferimento esclusivamente dal punto di vista interno. «A differenza del nostro Paese, negli Stati Uniti le primarie hanno un risvolto pubblico, sono regolate dalla legge e non sono affidate totalmente all’autonomia dei partiti. Hanno, quindi, rilevanza pubblica anche sul piano giuridico normativo», spiega Tapparini. Il Partito Repubblicano, quindi, non può ignorare questa storica decisione.

Attualmente, la Corte Suprema federale è composta da nove giudici, eletti da diversi Presidenti nel corso degli ultimi decenni. Ben sei di questi sono di area Repubblicana, come ci ricorda Tapparini. Tra questi, tre sono stati eletti proprio da Donald Trump (Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett). L’ufficio stampa di Donald Trump aveva fatto sapere, già immediatamente dopo la decisione della Corte Suprema del Colorado, che si sarebbero avvolti dell’appello. «Trump, quando si rivolge alla Corte Suprema degli Stati Uniti, parte dal presupposto di giocare in casa. Questo però non gli dà assolutamente garanzia di sentirsi dare ragione ogni volta. Anzi, in passato è accaduto anche il contrario. Tuttavia, ci sono i presupposti per provarci», afferma Tapparini.

Le domande a questo punto sono molteplici: l’appello di Trump alla Corte Suprema riuscirà a ribaltare veramente la situazione? Quanto questa decisione storica rimarrà puramente simbolica o sarà effettiva a livello giuridico?

Secondo Tapparini non ci sono dubbi, con un’alta probabilità che la Corte Suprema degli Stati Uniti ribalti la sentenza e che questa storia rimanga simbolica. «Non dimentichiamoci che la decisione della Corte del Colorado è stata presa a maggioranza di un solo voto contro tre (4 – 3), che è abbastanza borderline. La maggior parte degli analisti ritiene probabile che la Corte Suprema degli Stati Uniti la cassi», spiega.

Quello che rimarrà, dunque, è «la sensazione che ha provocato, più che un effetto giuridico che potrebbe non arrivare mai a prodursi concretamente», come puntualizza Alessandro Tapparini. Inoltre, il Colorado è da diversi anni un blue state, dove i Repubblicani vengono dati per perdenti: non impatterà perciò moltissimo sulla candidatura alla Casa Bianca. Tutto, dunque, si esaurirebbe sul piano dell’immagine e della reputazione.

Trump, d’altra parte, non è neanche uno che demorde facilmente per vie legali e la sua campagna elettorale potrebbe essere costellata di procedimenti giudiziari nei suoi confronti. Quanto sarà cruciale quindi alle urne elettorali? Come reagiranno i Trumpiani? «Noi italiani sappiamo per esperienza che questo tipo di situazioni non fanno che ringalluzzire lo zoccolo duro dei simpatizzanti del politico sotto procedimenti giudiziari, perché viene visto come un tentativo di fargli lo sgambetto usando una via alternativa al processo democratico del voto, falsando quindi la campagna elettorale», spiega Tapparini. «Ciò renderebbe gli elettori fedeli a Donald Trump più motivati ad esserlo».

Dall’altra parte, coloro che non volevano in partenza votare Trump saranno ancora meno propensi a farlo, mossi dal danno alla reputazione che darà loro ulteriori conferme. «Sullo sfondo, resta da capire se ai suoi avversari Democratici, come Joe Biden, conviene avere Trump candidato oppure no», riflette Tapparini. «Si potrebbe pensare che a Biden giovi avere come avversario Trump: lo stesso Presidente ha recentemente dichiarato pubblicamente che lui non si sarebbe ricandidato per un secondo mandato se Trump non fosse stato lo sfidante principale».

La questione riflette esclusivamente quindi sulla reputazione con cui Trump affronterà la lunga marcia verso le presidenziali del 2024. «Il tema non sta tanto sull’esclusione di Trump dalle elezioni, come stabilito dalla sentenza, ma che ci partecipi con tanto piombo nelle ali, con un ruolo di persona con molti guai giudiziari, non pulita, non affidabile e non corretta», spiega Tapparini.

A cura di Laura Gaspari

Un’ Europa sempre più lontana dall’arte di Jean Monnet

Il secondo semestre del 2023 ha visto lo sgretolarsi delle ambizioni “geopolitiche” dell’Unione europea, annunciate dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen all’inizio del suo mandato. L’Unione ha superato bene le crisi scatenate dalla pandemia e dall’invasione russa dell’Ucraina, a patire dalla militarizzazione dell’energia da parte di Mosca, ma ora pare abbia perso la bussola, dimenticando l’arte di Jean Monnet, padre fondatore dell’Europa unita, di trasformare le crisi in opportunità per una maggiore integrazione.

Internamente, le forze nazionalpopuliste che remano contro il Green deal europeo si fanno più forti, sostenendo che la transizione energetica non sia che una ricetta fatta di lacrime e sangue. Insomma, tutt’altro che la via per un’Europa più sostenibile, prospera e giusta.

Anche la spinta verso una politica industriale europea si è affievolita, con la decisione di eliminare dall’eventuale revisione del bilancio europeo (sempre che a gennaio Victor Orban sia ridotto a più miti consigli) nuove fonti di finanziamento destinate a tali fini. Il rischio è infatti l’opposto: senza finanziamenti comuni e con il costante ricorso agli aiuti di Stato (da parte degli Stati membri che possono permetterselo), c’è la minaccia concreta dell’indebolimento del mercato unico europeo, che certo non gioverà all’industria europea.

Esternamente la situazione è ancora più critica. Nella guerra in Ucraina, mentre la Russia si è ristrutturata in un’economia di guerra, determinata a portare avanti uno scontro perpetuo contro l’Occidente (oggi in Ucraina, domani chissà), le potenze occidentali stanno aprendo gli occhi solamente ora riguardo al fatto che la loro strategia, mirata a non far perdere Kyiv ma non a farla vincere, sia arrivata al capolinea. Ci stiamo svegliando ora – chi più e chi meno – riguardo al fatto che non esiste un magico mondo di negoziati con Mosca frutto di uno “stallo”, ma che questa è una guerra che o si perde o si vince. Se dovessimo perderla per “stanchezza”, le vittime non sarebbero solo gli ucraini ma tutti gli europei. L’Europa sa che l’Ucraina è oramai parte integrante della sicurezza europea e l’avvio dei negoziati di adesione con Kyiv e Chişinău, per quanto l’inizio di un lungo viaggio, ne sono testimonianza. Siamo tuttavia ben lontani dall’agire di conseguenza, specie in materia di difesa.

Al di là del continente europeo, la posizione dell’Unione è ancor più critica. La guerra in Ucraina ha reso evidente sia l’importanza delle opinioni e posizioni del sud globale, sia  la reputazione tutt’altro che positiva dell’Europa in molte parti del mondo . La guerra in Medio Oriente, in cui l’Europa è divisa e debole, a traino di una Casa Bianca strattonata da forze di politica interna e dettata dalla testardaggine di un presidente ottantunenne, non “solo” sta generando un massacro senza precedenti di palestinesi, ma non può che ridurre a medio e lungo termine anche la sicurezza di Israele. Il mondo ci osserva, convinto sempre più della nostra debolezza e ipocrisia.

Tutto questo sarebbe già molto, eppure il 2024 rischia di aggiungere altro al menù delle sfide. A partire dalle elezioni europee che vedono le forze nazionalpopuliste di destra con il vento in poppa. Per non parlare degli Stati Uniti, dove la rielezione di Donald Trump è quanto meno verosimile. E anche se nulla di tutto ciò dovesse accadere in questo nuovo anno, la sola eventualità complicherà enormemente l’agenda politica nel primo semestre, aumentando il rischio di uno stallo sull’agenda climatica, dando manforte a Viktor Orban nel suo tentativo di sabotare l’Europa, riducendo l’ambizione e l’attenzione sull’Ucraina e sulle riforme interne all’Unione, mentre rimaniamo inermi riguardo a una guerra in Medio Oriente sull’orlo della regionalizzazione.

Se andrà tutto bene, il 2024 sarà un anno difficile in cui l’Europa al massimo rimarrà a galla, ma poco più. Una condizione certamente necessaria ma tutt’altro che sufficiente per riscoprire l’arte di Jean Monnet.

“Global South” VS Occidente

Il 2023 è stato un anno difficile che termina con due sanguinosi conflitti internazionali ancora irrisolti e i cui sviluppi influenzeranno pesantemente il futuro del sistema internazionale.

L’anno che si apre è soprattutto un anno elettorale: dalla Russia, dove il risultato dell’elezione del futuro Presidente sembra ad oggi scontato, agli Stati Uniti dove invece la competizione è apertissima, non solo tra i due attuali “front runners”, ma anche per il possibile emergere di uno o più “dark horses”.

Quest’anno vedremo anche l’elezione di un nuovo Parlamento Europeo, in un periodo di relativa debolezza delle grandi famiglie politiche che hanno sinora guidato i destini europei e di crescita di formazioni nazionaliste e populiste.

È difficile che, in un simile scenario, vengano privilegiate visioni di largo respiro o quanto meno lungo periodo e vengano tracciati grandi disegni di ordine e di governo internazionale. Eppure è quello di cui il mondo avrebbe più bisogno.

Nei mesi scorsi abbiamo visto emergere la sfida del cosiddetto “Sud Globale” contro quel che rimane della vecchia leadership occidentale. Ma in realtà questa è più un’immagine propagandistica che una realtà operativa. Il Sud Globale è una sorta di etichetta retorica che ricopre una realtà molto differenziata, ricca di profonde contraddizioni e persino di feroci rivalità.

A capo del Sud Globale si sono posti i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), che quest’anno si allargano ad Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Iran, Etiopia ed Argentina. Altri allargamenti potrebbero avvenire in futuro.

È un Sud molto virtuale, che spazia dal Circolo Polare Artico, con la Russia, all’Antartico con l’Argentina, ma che è, in massima parte, situato ben a Nord dell’equatore (con le sole eccezioni di Brasile, Sud Africa ed Argentina). Ma soprattutto è una realtà politica molto confusa. Questi paesi, a parte rivendicare un maggior ruolo e una maggiore fetta di potere internazionale, non hanno sinora delineato un loro disegno di nuovo sistema internazionale.

Ad oggi, il loro maggior risultato è stato quello di svuotare l’utilità e il ruolo del G20, ridando così fiato e scopo all’alleanza dei paesi occidentali guidati dagli USA e dal G7 (che ha ormai perso definitivamente la Russia, che lo aveva per breve tempo trasformato in G8, e non è riuscito ad includere la Cina).

Il sistema della Nazioni Unite è paralizzato al livello del Consiglio di Sicurezza dai contrasti tra i 5 detentori del diritto di veto sulle guerre in Ucraina e in Medio Oriente ma, in compenso, non sembra avere alternative. La Cina ha apparentemente una qualche ambizione di ridisegnare questo sistema a sua immagine, ma la sua visione sino-centrica non raccoglie ancora grandi consensi. Al contrario, suscita timori e resistenze, in primo luogo nel suo vicinato, in Asia. Principalmente, il disegno cinese ha ancora troppe caratteristiche “imperiali”.

C’è chi vedrebbe con favore la formazione di due blocchi globali contrapposti, nella speranza di rieditare i meccanismi e gli equilibri della vecchia Guerra Fredda, su linee e con protagonisti diversamente aggregati. Ma la situazione sembra troppo incerta. Nel Sud Globale è ancora forte la presenza ideologica del “non allineamento”, che spesso giustifica anche la forza di ambizioni nazionaliste contrapposte. Questi paesi non vogliono essere parte di un blocco integrato, guidato da Pechino. D’altronde, la capacità e la volontà cinese di impegnarsi nella gestione delle crisi internazionali è ancora molto limitata, come abbiamo visto in occasione dell’ultima pandemia, nonché nel prudente assenteismo di fronte alle guerre in Ucraina e Medio Oriente.

L’iniziativa resta perciò ancora nelle mani del vecchio ed indebolito Occidente, che tuttavia non è solo meno potente di ieri, ma anche meno propenso ad esercitare attivamente la sua leadership e a sopportarne i grandi costi. Certo, ha reagito bene all’aggressione russa, ma ora sembra incerto sui futuri sviluppi della guerra: puntare alla sconfitta di Putin o a mantenere una situazione di stallo? Anche in Medio Oriente regna l’incertezza. Americani ed europei vorrebbero mettere fine al conflitto Israelo-palestinese con la creazione di due Stati separati e sovrani: ma questa soluzione non raccoglie consensi sufficienti né in Israele né tra i palestinesi. Può essere imposta dall’esterno? E a quali costi?

Purtroppo, oggi la gestione delle crisi e dei conflitti richiede costosi interventi diretti, dall’esito incerto e politicamente controversi, nonché la cooperazione attiva di numerose, ambiziose e litigiose potenze regionali.

Abbiamo quindi di fronte un anno difficilissimo, durante il quale l’obiettivo minimo è quello di mantenere in vita quel che resta degli equilibri internazionali.

Un ruolo chiave potrebbe essere giocato, a sorpresa, dall’Unione Europea, che è un po’ il “cigno nero” di questa situazione: un’entità da cui nessuno sembra aspettarsi niente di risolutivo, ma che, in realtà, negli ultimi anni, ha sorpreso un po’ tutti per la sua resilienza e per la determinazione con cui è riuscita ad affrontare molte gravissime crisi, interne ed estere. Vorremmo essere nuovamente sorpresi.