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Corte Suprema Usa: Trump eleggibile alle primarie

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha eliminato un potenziale ostacolo alla riconquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump, respingendo all’unanimità la sentenza di un tribunale del Colorado che aveva dichiarato l’ex presidente ineleggibile per le sue azioni durante l’assalto al Campidoglio, stabilendo che uno Stato non può prendere una simile decisione.

La sentenza a favore dell’ex presidente è arrivata alla vigilia delle primarie del Super Tuesday, quando 15 Stati, tra cui il Colorado (nord-ovest), terranno contemporaneamente le primarie per le elezioni presidenziali di novembre, che dovrebbero consolidare la marcia di Trump verso la nomination repubblicana per sfidare il presidente Joe Biden a novembre.

Si è trattato del caso elettorale più importante ascoltato dalla Corte da quando ha bloccato il riconteggio dei voti in Florida nel 2000, con il repubblicano George W. Bush in vantaggio di poco sul democratico Al Gore.

La decisione della Corte Suprema

La questione sottoposta ai nove giudici era se Trump non fosse idoneo a comparire sulla scheda elettorale delle primarie presidenziali repubblicane in Colorado per aver partecipato all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, quando centinaia di suoi sostenitori, infiammati dalle sue infondate accuse di brogli elettorali, hanno preso d’assalto il santuario della democrazia americana, nel tentativo di impedire la certificazione della vittoria del suo avversario democratico, Joe Biden.

Con una decisione di 9-0, la Corte, dominata dai conservatori, ha dichiarato che “la sentenza della Corte Suprema del Colorado… non può essere accettata”, il che significa che Trump può comparire sulla scheda elettorale delle primarie dello Stato. “Tutti i nove membri della Corte sono d’accordo con questo risultato”, si legge nella sentenza, anche se un conservatore e i tre giudici liberali hanno dissentito su alcuni aspetti tecnici. Essi criticano il presidente John Roberts e gli altri quattro conservatori della Corte per essere andati oltre l’ambito del caso, stabilendo anche le condizioni in cui il Congresso potrebbe esercitare il suo potere di squalificare un candidato.

Trump ha salutato la decisione, dichiarando una “Grande vittoria per l’America!” in un post sul suo sito web Truth Social e ha reso omaggio ai nove giudici, tre dei quali sono stati nominati durante il suo mandato, per aver “lavorato così velocemente, così diligentemente e così brillantemente”.

“Questa non è in alcun modo una vittoria per Trump”, ha reagito Noah Bookbinder, presidente del gruppo di cittadini anti-corruzione Crew, che ha avviato il procedimento in Colorado, sottolineando che la Corte Suprema si è pronunciata esclusivamente “su basi tecniche legali” e non sui fatti.

Il 14° emendamento e la responsabilità al Congresso

Il 14° emendamento – citato dalla Corte suprema del Colorado lo scorso dicembre per escludere Trump dalle elezioni dopo l’assalto al Congresso – fu adottato nel 1868 ed era rivolto ai sostenitori della Confederazione separatista, sconfitta nella guerra civile americana (1861-1865), con lo scopo di impedire loro di essere eletti al Congresso o di ricoprire cariche federali. La sezione 3 di tale emendamento escludeva, infatti, dalle più alte cariche pubbliche chiunque avesse compiuto atti di “insurrezione o ribellione” dopo aver giurato di difendere la Costituzione.

Durante le due ore di discussione del mese scorso, i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti, sia conservatori che liberali, hanno espresso preoccupazione per il fatto che siano i singoli Stati a decidere quali candidati possono essere presenti sulla scheda elettorale per le presidenziali di novembre. Da qui, la decisione presa dalla Corte Suprema che, come molti esperti avevano previsto, non si è avventurata nel campo minato della qualificazione delle azioni dell’ex presidente, ma ha affermato che “la responsabilità di applicare la Sezione 3 contro i titolari e i candidati di cariche federali spetta al Congresso e non agli Stati“, e che il principio si applica “in particolare (alla) Presidenza”. Lasciare che ogni Stato decida separatamente la questione potrebbe risultare in una vera e propria “trapunta patchwork”, in cui “un candidato potrebbe essere dichiarato ineleggibile in alcuni Stati e non in altri, sulla base della stessa condotta”, ha osservato la Corte.

Il Segretario di Stato del Colorado, Jena Griswold, si è detta “delusa dalla decisione della Corte Suprema che priva gli Stati” del potere di rimuovere i candidati federali dalle schede elettorali: lo Stato dovrebbe essere in grado di escludere gli insurrezionisti “che rompono il giuramento”.

La sentenza rende di fatto nulle altre sfide statali simili all’apparizione di Trump alle primarie, anche nel Maine, che vota anch’esso il Super Tuesday. Il Segretario di Stato del Maine, Shenna Bellows, ha dichiarato che l’esclusione di Trump dal voto è stata ritirata, scrivendo in un comunicato che i voti espressi per Trump “saranno contati”.

La sua unica rivale rimasta alle primarie repubblicane, l’ex governatrice della Carolina del Sud Nikki Haley, ha dichiarato alla CNN di essere soddisfatta della decisione. “Sto cercando di sconfiggere Donald Trump in modo leale e corretto. Non ho bisogno che lo tolgano dalla scheda elettorale per farlo”, ha detto.

Le altre controversie legali

La Corte Suprema, storicamente restia a farsi coinvolgere in questioni politiche, quest’anno è al centro della scena nella corsa alla Casa Bianca. Oltre al caso del Colorado, l’Alta Corte ha accettato di ascoltare la richiesta di Trump di essere immune da procedimenti penali in quanto ex presidente e di non poter essere processato per le accuse separate di aver cospirato per rovesciare le elezioni del 2020. Trump è stato messo sotto impeachment dalla Camera dei Rappresentanti a maggioranza democratica per aver incitato all’insurrezione, ma è stato assolto grazie al sostegno dei repubblicani al Senato.

Il 25 marzo è previsto il processo a New York con l’accusa di aver coperto il pagamento di denaro sporco a una pornostar in vista delle elezioni del 2016.

In un altro caso, Trump deve affrontare accuse federali in Florida per essersi rifiutato di consegnare documenti top secret dopo aver lasciato la Casa Bianca.

© Agence France-Presse

 

Trump e il Super-Martedì

Negli Usa, nell’imminenza del Super-Martedì, i giudici nominati da Trump sembrano inclini a favorire la strategia della dilazione dei legali del magnate. Il rischio è che l’ex presidente si sottragga con cavilli ad ogni giudizio prima dell’elettronica day il 5 novembre.

La Finlandia e il suo nuovo Presidente, Alexander Stubb

Giovedì 29 febbraio il presidente finlandese Sauli Niinistö ha tenuto la sua ultima conferenza stampa in qualità di Capo di Stato della Finlandia. Il suo mandato presidenziale, durato 12 anni, termina infatti venerdì 1° marzo, con l’insediamento ufficiale del nuovo Presidente della Repubblica, Alexander Stubb.

Proveniente del partito conservatore, il nuovo Presidente – che, per i suoi 56 anni, ha un curriculum sia nazionale che internazionale di tutto rispetto e un’ampia esperienza europea sia politica che professionale – si trova a rappresentare sulla scena mondiale un piccolo Stato con una grande reputazione. Il suo programma elettorale, e presumibilmente quello come Presidente, si basa su tre pilastri: apertura, sicurezza e internazionalizzazione. In qualità di leader, Stubb si impegna a promuovere un dialogo aperto sulla politica estera e a sostenere l’importanza della collaborazione con gli alleati sia nell’Unione Europea che nella Nato.

Inoltre, la Finlandia è una società di benessere aperta, che si fonda su principi di democrazia liberaleeconomia di mercato e globalizzazione. Stubb è orgoglioso del successo del suo Paese nel periodo post-indipendenza e si impegna a preservare le tradizioni che hanno contribuito a costruirlo.

In sintesi, il suo programma si concentra su un’apertura basata su valori democratici, una sicurezza garantita da una forte difesa e una visione internazionale che tiene conto dei cambiamenti globali e delle sfide del mondo moderno.

È probabile che, in linea generale, il nuovo Presidente non si discosterà troppo dalla linea prudente del suo predecessore. Ma la Finlandia di cui Niinistö prese la guida nel 2012 è alquanto cambiata dopo 12 anni: la Russia è stata sempre un vicino ingombrante che, dopo l’aggressione all’Ucraina, è divenuto ancora più temibile e pericoloso, ragione principale per la quale il Paese ha lasciato la sua storica politica di neutralità per aderire alla Nato.

Le sfide della politica estera e l’immutato sostegno all’Ucraina

Il Presidente finlandese uscente Sauli Niinistö, approssimandosi la scadenza del suo incarico, ha confermato il pieno sostegno della Finlandia all’Ucraina e l’impegno ad avere “la capacità e le risorse per sostenere l’Ucraina a lungo termine”, aggiungendo la necessità di provvedere a un rapido aumento della produzione industriale della difesa – dato che evidenzia i timori finlandesi che la Russia rivolga la sua attenzione aggressiva verso i vicini baltici.  Niinistö non sottovaluta l’impegno anche a lavorare per la pace, ribadendo il sostegno “alla formula di pace del presidente Zelenskyj e all’iniziativa per un vertice di pace. L’Ucraina merita una pace giusta e duratura che ne rispetti la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale”.

Sull’immutato sostegno all’Ucraina, è intervenuta anche la ministra finlandese degli Esteri Elina Valtonen, riaffermando la ferma condanna della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, considerata una grave violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite.  Valtonen sottolinea come la Finlandia chieda alla Russia di cessare immediatamente le ostilità e di ritirare le sue truppe dall’Ucraina, condannando l’occupazione e l’annessione illegale della Crimea.

La Finlandia fornisce all’Ucraina un sostegno multiforme, che include materiale di difesa, aiuti materiali, assistenza umanitaria e accoglienza dei profughi. Ad oggi, nei due anni trascorsi, ha investito circa 2,5 miliardi di euro in aiuti militari e civili all’Ucraina, uno sforzo non indifferente per un Paese di meno 6 milioni di abitanti. Inoltre, sostiene l’attuazione e il rafforzamento delle sanzioni dell’Ue contro Russia e Bielorussia, appoggia l’istituzione di un tribunale speciale per il crimine di aggressione contro l’Ucraina e sostiene l’Ucraina nel suo percorso di integrazione nell’Unione Europea e nella Nato.

Le sfide della politica interna

Dal 2012 a oggi, la Finlandia ha affrontato diverse sfide e cambiamenti in termini di situazione sociale, welfare e debito pubblico.

Secondo le previsioni della Banca di Finlandia, il debito pubblico rispetto al PIL si avvicinerà al 75% entro la fine del 2025. Questo richiederà tagli significativi alla spesa e aumenti delle tasse nei prossimi mandati parlamentari. Il Paese ha bisogno di rafforzare le finanze pubbliche per affrontare le sfide future e garantire spazio di manovra per le generazioni successive.

La spesa per la protezione sociale è aumentata costantemente dal 2012 al 2022, raggiungendo circa 63,1 miliardi di euro nel 2023. Nel 2024, sono previsti cambiamenti significativi nel sistema di sicurezza sociale, compresi tagli al welfare e regole più chiare per i costi abitativi. La Finlandia è un Paese guida internazionale nel benessere e nella sostenibilità, ma ci sono ancora sfide da affrontare per garantire un benessere completo e inclusivo.

Inoltre, il Paese si trova ad affrontare cambiamenti demografici, come l’invecchiamento della popolazione, che aumentano la necessità di servizi sanitari e sociali. La disoccupazione a lungo termine rimane un problema, nonostante la crescita economica degli ultimi anni. In sintesi, la Finlandia sta cercando di bilanciare la crescita economica, la spesa pubblica e le sfide sociali per garantire un futuro sostenibile e inclusivo.

Sul problema immigrazione ha accolto un numero significativo di migranti negli ultimi anni, soprattutto dalla Siria e dall’Iraq, il che ha posto sfide all’integrazione dei migranti e al sistema di accoglienza. Il governo ha adottato misure per migliorare l’integrazione dei migranti e contrastare l’immigrazione illegale.

Infine, la Finlandia è uno dei paesi più colpiti dai cambiamenti climatici, con un aumento delle temperature e delle precipitazioni. Il governo ha adottato misure per ridurre le emissioni di gas serra e promuovere l’utilizzo di energie rinnovabili e si è impegnato nella lotta contro i cambiamenti climatici a livello internazionale.

Oltre a queste sfide, la Finlandia ha anche fatto grandi progressi in diversi settori: l’istruzione finlandese è considerata una delle migliori al mondo, è un leader globale nell’innovazione e nella tecnologia ed è un Paese con un elevato tenore di vita e un forte senso di coesione civica.

In definitiva, il nuovo Presidente, sincero europeista, ha energie, competenze e ‘sisu’ (forza e resistenza) per affrontare una nuova fase della storia del suo Paese, anche confidando nella tradizionale coesione dei suoi cittadini.

Lo scenario critico della Repubblica Democratica del Congo

Alle semifinali della Coppa delle Nazioni in Africa a inizio febbraio, i giocatori congolesi hanno usato l’inno nazionale per protestare, coprendosi la bocca con una mano e usando l’altra per imitare una pistola puntata alla testa. L’obiettivo del gesto politico e di protesta era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione di milioni di congolesi colpiti dalle violenze in corso nella parte orientale del Paese.

A febbraio di quest’anno l’escalation di tensioni nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) sta nuovamente mettendo in crisi la sicurezza nella regione orientale del Paese africano, in particolare nelle due province Nord Kivu e Sud Kivu. Le violenze di queste ultime settimane sono gli eventi più recenti di un conflitto che va avanti da decenni,  combattuto principalmente dalle forze armate congolesi (FARDC) e dal gruppo di ribelli M23 (“March 23 Movement”), e di una delle crisi umanitarie più lunghe e complicate del mondo. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per l'”escalation di violenza” dopo che l’M23 ha bombardato l’aeroporto di Goma, capoluogo della provincia Nord Kivu, danneggiando gli aerei militari congolesi.

Il Movimento del 23 Marzo (M23)

I ribelli del movimento M23 prendono il nome dall’accordo di pace del 23 marzo 2009, firmato tra il governo dell’ex presidente Joseph Kabila — figlio del predecessore Laurent-Désiré Kabila — ed il gruppo armato Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP).  I membri del movimento sono congolesi ma appartenenti alla minoranza etnica tutsi e molto legati ai tutsi ruandesi. Infatti, il gruppo opera nella provincia del Nord Kivu al confine con il Ruanda. Gli atti di ribellione sono iniziati nell’aprile 2012, quando i membri si sono ammutinati contro il governo della RDC e il contingente di pace della Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo (MONUSCO). Le ragioni sottostanti sono di carattere etnico, economico e politico. L’M23, infatti, giustifica la propria  esistenza denunciando la scarsa attuazione dell’accordo del 23 marzo 2009 che prevedeva che il CNDP diventasse un partito politico e che i propri  combattenti si integrassero nell’esercito congolese (le FARDC), e sostenendo di difendere gli interessi delle minoranze congolesi di lingua tutsi e kinyarwanda. Dopo il 2013, il gruppo di ribelli è rimasto dormiente per quasi dieci anni finché, dal novembre 2021, si è nuovamente scontrato con l’esercito nazionale nel territorio di Rutshuru nel Nord Kivu, accusando il governo di non rispettare gli accordi di Nairobi del 2013. L‘M23 ha lanciato nuovi attacchi alla fine dello scorso anno e li ha intensificati nelle ultime settimane, minacciando di conquistare la città chiave di Sake, a circa 27 chilometri a ovest di Goma.

Il conflitto latente tra Congo e Rwanda

Kinshasa accusa da tempo Kigali di sostenere i ribelli dell’M23 e così anche le Nazioni Unite. Le accuse si fondano non solo sui recenti avvenimenti ma anche sulla lunga storia conflittuale tra i due Paesi, che ha visto il coinvolgimento degli Stati vicini e di numerosi gruppi di ribelli armati di diverse nazionalità ed etnie. Entrambi i Paesi, dopo l’indipendenza dal Belgio, hanno visto guerre civili, scontri tra tribù, dittature e, nel caso del Ruanda, il genocidio del 1994. Quest’ultima tragedia ha avuto una diretta ripercussione sul vicino Congo-Kinshasa, dove sono scappati circa 2 milioni di Hutu colpevoli (o considerati colpevoli) del genocidio e perseguitati dal governo Tutsi dell’attuale presidente ruandese Paul Kagame. Se negli anni Sessanta il Congo aveva accolto i rifugiati tutsi perseguitati dagli Hutu (favoriti dai belgi) garantendogli la cittadinanza, negli anni Duemilanon è successo lo stesso con gli Hutu ma anzi, questi sono stati accolti come rifugiati nei campi profughi al confine tra i due Paesi.

Nel frattempo tra il 1996 e il 1998 la RDC ha visto due guerre civili in cui sono stati coinvolti diversi Paesi africani, tra tutti il Rwanda. Se durante la prima, risultata nel 1997 con l’assassinio del dittatore Mobuto Sese Seko e l’autoproclamazione del presidente Laurent-Désiré Kabila, Kagame ha appoggiato quest’ultimo e le forze rivoluzionarie, durante la seconda, nel 1998, Kabila e Kagame si sono trovati ad appoggiare forze opposte. Infatti, mentre il presidente ruandese sosteneva le forze ribelli che volevano deporre Kabila (The Rally Congolese Democratic, RCD), Kinshasa per proteggersi armava i rifugiati Hutu nei campi profughi. Nel 1999 e 2002 vengono firmati degli accordi di pace con l’intervento delle Nazioni Unite, che decidono di aprire una missione nella RDC, la MONUSCO, ancora oggi in fase di ritiro delle proprie truppe.

Il presidente Kagame, di origine Tutsi, e le vicende passate rendono facile propendere per la credibilità delle accuse dei congolesi e della comunità internazionale. Ma il passato e l’etnia non sono le uniche ragioni. Infatti, la regione Kivu al confine tra i due Paesi è ricca di diamanti e coltan.

Interessi economici e la crisi umanitaria

La regione del Kivu a nord-est del Congo e confinante con il Ruanda non solo è ricca di risorse minerarie ma da decenni influenza le relazioni commerciali tra questi Paesi e altri, come l’Uganda, giocatore attivo nelle vicende conflittuali tra i due vicini. Per Kigali la RDC orientale è una destinazione chiave per le esportazioni informali e non di materie prime del Ruanda, mentre la RDC esporta verso il Ruanda minerali di contrabbando, che vengono poi riesportati ufficialmente. Questi minerali, in particolare l’oro, rimangono un’importante fonte di valuta estera per un Paese con un notevole deficit commerciale come il Ruanda.

È risaputo e comprovato che le ricchezze naturali del Congo sono una delle cause principali dei conflitti, della povertà, della corruzione interna e della lunga e complicata crisi umanitaria nel Paese. “I combattimenti hanno ulteriormente aggravato una situazione umanitaria già disastrosa”, ha detto Bintou Keita, Rappresentante speciale del Segretario Generale nella RDC e Capo della MONUSCO al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Secondo l’OCHA, nel 2024, più di 25,4 milioni di persone – un quarto della popolazione – avranno bisogno di assistenza. Fino al 31 dicembre 2023, più di 9,6 milioni di persone erano in movimento nella RDC, tra cui 6,5 milioni di sfollati interni, 2,6 milioni di rimpatriati e 527.000 rifugiati, rendendo la crisi degli sfollati nel Paese una delle più grandi al mondo e seconda solo al Sudan. Le epidemie sono notevolmente diffuse, in particolare il colera e il morbillo, e gli shock climatici stanno peggiorando le condizioni di vita delle popolazioni vulnerabili, con forti piogge e inondazioni fluviali che hanno colpito circa 2,1 milioni di congolesi e causato 300 morti, solo tra la metà di novembre 2023 e gennaio 2024.

La crisi umanitaria e il conflitto in corso nella Repubblica democratica del Congo sono lontani dall’essere risolti. Nonostante i decenni di presenza e l’intervento anche militare delle Nazioni Unite, la missione MONUSCO è considerata da molti fallimentare. Il Congo-Kinshasa rimane uno Stato fondamentale per la stabilità della regione centrafricana, per il commercio dei minerali e i flussi migratori nel continente, e queste tensioni potrebbero causare squilibri anche negli altri Paesi.

Draghi e il rapporto sulla competitività: sfide finanziarie e politiche per il futuro dell’Ue

di Antonio Pollio Salimbeni

C’è molta aspettativa per il rapporto sulla competitività che Mario Draghi presenterà a fine giugno e servirà per il prossimo ciclo europeo dopo le elezioni (cioè dal 2025). Con ogni probabilità, è più di quanto si possa chiedere a un lavoro del genere. In cerca di una bussola per distinguere tra le numerose priorità quali sono quelle effettivamente più importanti, la Ue si affida alla credibilità e all’arguzia dell’ex banchiere centrale ed ex premier per definire meglio ciò che è già abbondantemente chiaro si debba fare: come tenere insieme i tanti fili rossi che legano capacità di crescita economica ben oltre gli “zero virgola”; recupero di una posizione competitiva che rifletta effettivamente i livelli di sviluppo tecnico e le dimensioni del mercato europei; raggiungere una “autonomia strategica” – ormai quasi diventato un buzzword del gergo politico – nell’energia, nella fornitura delle materie prime necessarie per realizzare gli obiettivi pro clima e la trasformazione digitale; difendere la dimensione industriale del continente. Più sicurezza e difesa, dimensione che costituisce la vera novità che l’Ue non può più considerare una semplice aggiunta a un lungo elenco.

Il rapporto sul mercato interno di Enrico Letta

Si parla meno del rapporto che sta preparando l’ex premier Enrico Letta sul mercato interno. A metà settembre, negli stessi giorni, ci sono stati l’annuncio della presidente della Commissione von der Leyen che Draghi avrebbe preparato il rapporto sul futuro della competitività europea con l’obiettivo di fare “tutto il necessario, costi quel che costi, per mantenere il proprio vantaggio competitivo” (si ricordi il draghiano whatever it takes dell’estate 2012 che stese la rete di sicurezza sull’euro e bastò solo l’avvertimento); e l’annuncio dell’incarico a Letta dalla presidenza Ue per produrre entro marzo 2024 una relazione di alto livello su mandato del Consiglio Europeo del giugno scorso. Stranezze bruxellesi, al limite della comprensione, riflesso di molta confusione ai piani alti delle istituzioni europee. Perché se c’è una cosa chiara è che “il mercato unico, uno dei più grandi e integrati del mondo, è al cuore della nostra competitività”, come è scritto proprio nelle prime due righe dell’ennesima relazione su mercato interno e competitività Ue pubblicato e metà febbraio proprio dalla Commissione.

Il rapporto sulla competitività europea di Mario Draghi

A Draghi viene chiesto di produrre un’analisi e una valutazione dello stato delle cose presenti, dei rischi che corre la Ue se prevalesse un atteggiamento business as usual. Ormai è molto chiaro che non si tratterà solo di una robusta disamina fattuale dei divari competitivi di cui soffre l’Europa per limiti propri ma anche – occorrerebbe finalmente riconoscerlo – per capacità e non solo per la slealtà degli altri grandi concorrenti globali. D’altra parte, non è che si difetti in analisi, si difetta in chiarezza dell’agenda di lavoro e di effettiva coesione politica tra i governi nel realizzarla. Dunque, il rapporto Draghi si annuncia anche – e soprattutto – come una disamina delle opzioni per uscire dal vago e fissare i paletti di una strategia credibile. Una sveglia alla Ue, il cui suono è già arrivato a governi e parlamento europeo, si vedrà poi con quali risultati.

Le discussioni tra i ministri finanziari della settimana scorsa a Gent e Draghi hanno fatto luce su un aspetto decisivo della questione: la questione dei finanziamenti necessari per realizzare gli obiettivi strategici che sono tanto economici (doppia transizione verde e digitale) quanto politici (sicurezza e difesa). Il capitale pubblico, né quello di ogni singolo paese né quello condiviso a livello Ue, non è sufficiente a finanziare e/o attrarre capitali a fronte di una massa enorme di spese stimabile in diverse centinaia di miliardi di euro all’anno per 10-20 anni. Molti stati sono altamente indebitati e non possono indebitarsi ancora di più, anzi dovranno esserlo meno in un contesto in cui è sempre più difficile gestire le proteste sociali. Neppure basterà il capitale prestato attraverso il sistema bancario, dal quale le società non finanziarie europee restano prevalentemente dipendenti. Paradossale che nessuno rivendichi il valore della riforma delle regole di bilancio appena concordata, segno che per gli investimenti necessari si tratterà di un pannicello caldo.

Finanza e politica: un approccio europeo unificato

Occorre agire sugli investimenti e sul risparmio privato. La Francia prefigura un girone di serie A di paesi che unifica il proprio mercato dei capitali con il consenso volontario di banche e gestori di fondi, sotto supervisione unica, per offrire titoli di debito comuni con trattamento fiscale comune. Immediato il no tedesco. Il ministro francese Le Maire ricorda che il risparmio europeo vale 35 mila miliardi di euro, di cui circa un terzo “dormiente” in banca. L’anno scorso il deflusso finanziario netto dall’area euro è ammontato a circa 250 miliardi circa, il grosso diretto verso gli Stati Uniti, segnala la BCE. Si delinea il vero problema: attrarre il capitale privato nel finanziamento delle politiche europee, che si traducano in progetti di investimento, in spesa nazionale (anche nella difesa), dunque in produzione di beni comuni, in ricerca e innovazione. Cose che in Europa si fanno, ma adesso è la scala che cambia la natura delle cose.

La sfida della finanza diventa sfida politica e viceversa ed è proprio su questo intreccio che, con ogni probabilità, Draghi potrà dare indicazioni di lavoro di un certo spessore. Per ora si è limitato a indicare che assicurare denaro pubblico a livello Ue è uno dei fattori che farà la differenza. Ai ministri ha presentato fattualmente delle opzioni non necessariamente alternative: fondo speciale per finanziare investimenti pro competitività; prestito (come Next Generation EU); partnership pubblico/privato centrate sulla Banca Europea degli Investimenti. Evidente la sua preferenza per “un approccio europeo unificato”. A metà febbraio si è nuovamente pronunciato a favore dell’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti (“amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleggerendo alcune pressioni sui bilanci nazionali”). Da tempo ribadisce come il vero rischio per l’Europa, “se non diventa un’unione più profonda, un’unione capace di esprimere una politica estera e una politica di difesa, oltre alla politica economica, non sopravviverà se non come mercato unico”. Che ve ne siano le condizioni politiche attualmente è un altro discorso. Dipenderà anche dall’aggravarsi o meno del contesto globale (guerre in corso, chi andrà alla Casa Bianca, relazioni con la Cina) e se si opterà per soluzioni “coraggiose”, termine ripetuto varie volte a Gent o a Bruxell es, ma non da tutti.

L’Ue in un mondo complesso e contestato

di Francesca Metsovitis e Leo Goretti 

Nel mutevole e complesso panorama delle relazioni internazionali contemporanee, l’Unione Europea si trova ad affrontare una varietà di sfide sul piano della politica estera e di sicurezza, che rappresentano un banco di prova fondamentale per le ambizioni europee ad ergersi ad attore globale. Tre fattori rendono particolarmente problematica la formulazione di una politica estera efficace a livello europeo: la contestazione interna derivante dalla mancanza di unità di vedute tra gli stati membri, la frammentazione a livello regionale e statuale nelle aree caratterizzate da conflitto e gli elevati livelli di competizione multipolare. Questi ostacoli sono al centro della nuova special issue di The International Spectator – la rivista referata in lingua inglese dello IAI – intitolata Re-imagining EU Foreign and Security Policy in a Complex and Contested World, a cura di Riccardo Alcaro e Hylke Dijkstra.

Contrariamente alla narrazione dominante che vede in queste sfide contestuali un freno determinante all’azione Ue, come precisano i curatori nell’articolo introduttivo, lo special issue invita i lettori ad approfondire gli spazi di agency a disposizione di stati e istituzioni comunitarie, testando caso per caso l’effettiva capacità degli attori europei nel mitigare la contestazione interna e le pressioni sistemiche. L’issue comprende infatti otto case-studies, che spaziano geograficamente dal Sudamerica al Mare Meridionale Cinese, soffermandosi sulle politiche europee di fronte ad alcuni dei principali conflitti e crisi degli ultimi quindici anni.

In questo modo, il fascicolo tratteggia un quadro vivido del panorama della politica estera e di sicurezza europea, riconoscendo le situazioni in cui le strategie di adattamento e mitigazione hanno avuto successo e, al contrario, quelle in cui hanno incontrato ostacoli. Nell’analizzare le risposte di governance dell’Ue e dei suoi Stati membri di fronte a contestazione, frammentazione e competizione multipolare, gli articoli nella special issue si soffermano su tre tipologie principali di misure di mitigazione – istituzionali, funzionali e diplomatiche – e sulla loro efficacia nei diversi casi presi in esame.

Superare la contestazione intra-Ue

Pol Bargués, Assem Dandashly, Hylke Dijkstra and Gergana Noutcheva analizzano la posizione europea rispetto alla complessa questione della statualità del Kosovo. In questo caso, è stato cruciale individuare strategie per aggirare l’ostacolo della contestazione intra-UE, in particolare di paesi poco propensi a riconoscere l’indipendenza kosovara per ragioni di politica interna come Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna, delegando il compito di supportare il nascente stato balcanico direttamente alle istituzioni comunitarie.

Quello del Kosovo non è l’unico esempio di successo: nel suo articolo, Riccardo Alcaro analizza il caso delle lunghe negoziazioni sul programma nucleare dell’Iran dai primi anni Duemila fino all’accordo raggiunto nel 2015, in cui le divisioni interne sono state superate grazie alla guida di tre attori fondamentali, ovvero la Francia, la Germania ed il Regno Unito, successivamente affiancati anche dall’Alto rappresentante Ue per la Politica estera e di sicurezza comune.

Risvolti positivi sono stati ottenuti anche nel caso del Venezuela dove, come spiega l’articolo di Anna Ayuso, Tiziano Breda, Elsa Lilja Gunnarsdottir e Marianne Riddervold, le divisioni interne sono state oltrepassate delegando alle istituzioni comunitarie il compito di fornire aiuti umanitari e di svolgere funzioni di monitoraggio elettorale, anche se non si è riusciti a definire una strategia comune di lungo periodo per risolvere la crisi.

La contestazione interna si è invece rivelata estremamente dannosa nel caso di Israele e del conflitto in Palestina. Come spiegano Sinem Akgül-Açıkmeşe e Soli Özel, gli sforzi europei per la risoluzione del conflitto ne sono stati compromessi, in quanto l’Unione, nel tentativo di difendere la propria unità, ha continuato – almeno a livello di facciata – a legare il proprio impegno a soluzioni che risultano datate, come quella dei “due popoli, due Stati”.

La frammentazione regionale e i fallimenti dell’Unione

La seconda sfida per la politica estera e di sicurezza europea, quella della frammentazione regionale, è il focus di altri due articoli inclusi nel fascicolo. Caterina Bedin, Tiffany Guendouz e Agnès Levallois presentano il caso della Siria: a fronte di un iniziale tentativo di mitigare il conflitto, gli accresciuti flussi di rifugiati provenienti dalla regione hanno spinto l’Unione europea a concentrarsi su strategie mirate strettamente all’obiettivo di contenere gli arrivi.

Francesca Caruso e Jesutimilehin O. Akamo si concentrano invece sul conflitto nella regione del Tigrai in Etiopia, evidenziando le difficoltà europee nel cogliere appieno le complesse dinamiche di un conflitto intrastatuale che ha visto il coinvolgimento di una grande varietà di attori interni ed esterni. In entrambi i casi, limitare gli effetti negativi degli elevati livelli di frammentazione regionale è risultato complicato e l’UE ha nel complesso fallito nel tentativo di mitigarne le conseguenze.

La competizione multipolare: storie di coesistenza e trasformazione

La terza sfida contestuale discussa nel fascicolo è quella della competizione multipolare, analizzata attraverso diversi casi di studio. Soffermandosi sulle tensioni nella regione del Mare Cinese Meridionale, Zachary Paikin osserva come l’approccio europeo – centrato sul multilateralismo e sull’ingaggio selettivo di partner locali, l’ASEAN su tutti – possa coesistere con la forte competizione che attraversa oggi la regione.

Kristi Raik, Steven Blockmans, Anna Osypchuk and Anton Suslov analizzano come l’Unione Europea abbia dovuto far fronte a un’accresciuta competizione geopolitica in conseguenza dello scoppio del conflitto in Ucraina. Se prima del febbraio 2022 le risposte europee alle iniziative geopolitiche russe erano apparse insufficienti, l’invasione russa ha spinto l’Unione e gli stati membri a un’azione ferma a tutela dell’integrità ucraina, che ha spaziato dalla dimensione politica a quella finanziaria e militare, portando l’Ue a trasformarsi essa stessa in un attore geopolitico.

Difesa europea: il ruolo della Nato e il percorso verso l’autonomia

L’accumularsi di eventi drammatici in concomitanza con la conferenza annuale di Monaco sulla sicurezza in Europa non ha consentito di approfondire le implicazioni delle recenti esternazioni di Trump. L’ex presidente ha rivelato, infatti, di aver in passato minacciato un leader europeo, membro della Nato, affermando che non avrebbe più garantito la protezione del suo paese in caso di attacco, a meno che non avesse aumentato le spese per la difesa. In mancanza di tale aumento, avrebbe incoraggiato la Russia a fare “tutto ciò che diavolo vuole” contro l’innominato paese. Il fatto che tale affermazione sia stata fatta in risposta estemporanea ad una domanda posta nella foga della campagna elettorale non riduce la gravità di tale “sparata” dell’ex presidente.

Le reazioni sono state immediate. Tra i primi, il presidente Biden ha definito “spaventosa e pericolosa” l’intenzione di Trump di “dare a Putin il via libera per ulteriori guerre e violenze in Europa”, mentre il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha affermato che Trump stava minacciando la sicurezza dell’intera alleanza transatlantica.

Le tensioni sulle spese militari europee

La questione delle spese militari degli europei ed il raggiungimento della fatidica quota del 2% del PIL dedicato alla difesa sono stati a lungo motivo di frizione tra le due sponde dell’Atlantico. Ma per Trump rimane una vera e propria ossessione, probabilmente non rendendosi conto che la situazione è profondamente cambiata da quando egli tuonava su questo argomento dalla Casa Bianca. Dopo l’attacco russo contro l’Ucraina, l’obiettivo del 2% non viene più messo in discussione: tale quota, infatti, non solo si ritiene già raggiunta o superata da undici membri della Nato, ma è divenuta il punto di partenza per eventuali ulteriori spese. Trump sfonda quindi una porta aperta.

Più del “mantra” trumpiano, preoccupa la leggerezza ed il linguaggio sprezzante verso l’Europa e la Nato e l’impatto che già oggi questi argomenti hanno sulla credibilità dell’impegno americano a sostegno della sicurezza degli alleati europei. Senza dare per scontata un’eventuale seconda presidenza di Trump, l’Europa deve affrontare con serietà ed urgenza tale situazione.

La necessità di un maggiore impegno autonomo europeo

L’Ue ha concentrato sinora la propria azione sul mantenimento della Pace sotto l’egida dell’ONU, ma per la sua difesa vera e propria essa continua a fare affidamento prevalente sulle strutture della Nato, di cui però non tutti i paesi dell’Unione sono membri e dove è preponderante il ruolo e l’agenda degli Stati Uniti. Non è questo il momento per sganciarsi dalla Nato ma, qualora una furia isolazionista dovesse prevalere a Washington, i meccanismi per un maggiore impegno autonomo europeo già esistono. L’articolo 42 del trattato costituzionale di Lisbona, con un linguaggio simile a quello della Nato, prevede la mutua assistenza in caso di aggressione armata contro il territorio di un paese membro. Viste le difficoltà di adottare per consenso le decisioni sulla difesa/sicurezza, il testo di Lisbona prevede anche la creazione di uno strumento flessibile proprio in tale settore: si tratta delle cosiddette “cooperazioni strutturali permanenti” cui non devono necessariamente partecipare tutti i membri dell’Unione. Con l’adesione alla Nato della Finlandia e quella assai probabile della Svezia crescerà l’omogeneità tra europei nel campo della sicurezza/difesa e potrà non più essere un tabù la possibilità di un coordinamento tra europei anche sulle questioni della Nato e la capacità di esprimersi con una voce più autorevole in seno all’Alleanza.

Qualora l’Europa non potesse più contare sull’ombrello americano, potrebbe tornare di attualità l’idea di una possibile dissuasione nucleare europea che è cominciata a circolare sin dagli anni Cinquanta ma che finora è stata messa da parte vista la fiducia posta nel sostegno americano. Tuttavia, sin dai tempi di Mitterrand, ogni presidente francese, all’inizio del suo mandato, ha lanciato l’idea di una dissuasione nucleare europea condivisa basata su potenziale atomico della Francia. Lo ha fatto da ultimo anche il presidente Macron nel 2020 in occasione del suo discorso strategico alla Scuola Militare di Parigi, senza tuttavia darvi un seguito operativo. Un’altra opzione rischia di essere quella che ciascun paese vada per conto suo senza escludere la possibilità che qualcuno pensi di dotarsi dell’arma atomica individualmente.

È uno scenario preoccupante ma non irrealistico. Potrebbe già avvenire nel contesto asiatico. Di fronte alla minaccia nucleare della Corea del Nord vi sono forze politiche nella Corea del Sud vicine allo stesso attuale Presidente Yoon Suk-yeol che non escludono la possibilità che anche   Seoul segua la strada nucleare del suo pericoloso vicino. Gli americani sono riusciti ad arginare tale propensione coinvolgendo maggiormente il Sud anche nella pianificazione nucleare difensiva secondo schemi non lontani da quelli in vigore nella Nato. È probabile però che, se venisse meno la credibilità del sostegno dissuasivo americano, diverrebbe più forte la propensione di Seoul verso il nucleare militare. Ne avrebbe le capacità.

Sono scenari da incubo che farebbero saltare quello che rimane dell’architettura di sicurezza faticosamente costruita a livello mondiale negli ultimi decenni e che si basa sul Trattato di Non Proliferazione nucleare. L’Europa non può restare con le mani in mano di fronte a tali temibili scenari e deve decidere sin da ora su “cosa vuol fare da grande”.

La nuova legge sull’immigrazione è già morta

di Marco Arvati

“Non c’è alcuna possibilità che riotterremo dei progressi del genere nelle politiche migratorie, servirebbero 60 seggi al Senato, e non succederà”. Sono le parole del Senatore repubblicano del South Dakota John Thune, che evidenziano molto bene le discussioni che ci sono state questo mese sulle frontiere esterne degli Stati Uniti.

Abbiamo assistito al terzo grosso tentativo bipartisan di cambiare le regole sull’immigrazione da parte della politica statunitense. I primi due, datati 2007 e 2014, nascevano nel tentativo di regolarizzare e rendere più facile l’accesso negli Stati Uniti, ma vennero demoliti dall’ala più dura del Partito Repubblicano. Oggi ci troviamo di fronte a uno scenario opposto: il piano, negoziato da James Lankford del Partito Repubblicano, Kyrsten Sinema come indipendente e Chris Murphy per il Partito Democratico, e avallato dai rispettivi leader Mitch McConnell e Chuck Schumer, avrebbe rappresentato un’intensa svolta a destra per gli Stati Uniti.

La tattica di Trump e la legge sull’immigrazione

La bozza prevedeva un limite di 5.000 richiedenti asilo che sarebbero potuti entrare giornalmente, un allargamento del numero di immigrati legali ma con procedure molto più strette per la richiesta e rimpatri molto più immediati. Come ha evidenziato il Senatore Thune, è esattamente quello che il Partito Repubblicano chiede da decenni e che non è mai riuscito a fare. Si sarebbe dunque dovuto profilare una facile approvazione delle due camere; senonchè l’ala più estremista del GOP ha nuovamente bloccato tutto, su ordine del candidato presidente Trump. Ed è paradossale, dato che, usando le parole del giornalista della CBS Camilo Montoya-Galvez, “ci troviamo di fronte a una delle leggi più dure sull’immigrazione nella storia moderna”.

Cosa spinge, quindi, i principali repubblicani alla Camera, come Steny Hoyer ed Elise Stefanik, a dichiarare questa proposta morta ancora prima che possa prendere vita? La lealtà all’ex-presidente Donald Trump. La campagna elettorale è entrata nel vivo e la strategia migliore del tycoon per mettere in difficoltà Biden è puntare sull’insicurezza degli americani, che osservano una situazione sempre peggiore al confine col Messico, un flusso di arrivi sempre più alto e centri per migranti nelle città pieni fino all’orlo. Le rilevazioni sondaggistiche evidenziano che chi sostiene Trump pone questo tra i primi problemi per cui andrà a votare, e Trump non può permettersi che la situazione venga risolta, neppure se con l’accettazione di gran parte delle sue politiche.

Per questo le persone più vicine al leader repubblicano si sono discostate dall’accordo, definendolo troppo di sinistra e dichiarando troppi i 5.000 ingressi consentiti. Allo stesso modo, l’ala più di sinistra dei democratici non ha alcun interesse a votare un accordo che è definito da tutti come “il sogno delle destre”, che farebbe precipitare il discorso pubblico sull’immigrazione indietro di quarant’anni. Questo accordo non lo vogliono i conservatori più intransigenti, non lo vogliono i progressisti e non lo vuole Donald Trump: lo vuole invece il presidente Biden, che continua a chiedere che questa legge gli venga posta sul tavolo in modo da firmarla e renderla esecutiva, e lo vogliono molti repubblicani meno oltranzisti, che sanno di essersi trovati di fronte un insperato regalo della leadership democratica, che dopo le elezioni non sarà più propensa a negoziare partendo da queste posizioni.

Una legge nata morta

L’accordo è saltato ancora prima di essere votato al Senato e quindi non verrà nemmeno preso in considerazione dalla Camera; è una legge nata e morta, senza mai essere votata, nel giro di due settimane. Così facendo non c’è possibilità che si disinneschi la retorica trumpiana sull’inefficacia del presidente Biden nella gestione dei confini, inefficacia che però è frutto proprio delle mosse dei repubblicani più vicini a Trump. È un rischio per i repubblicani, che hanno deciso di non ottenere una grande vittoria politica e culturale, dato che hanno costretto i democratici a discutere di confini ponendo sopra a tutto l’approccio securitario, nel tentativo che questa sconfitta li porti più vicini alla Casa Bianca. E se dovessero farcela, e Trump si reinsediasse a Pennsylvania Avenue, una legge così radicale non passerà mai, dato che i democratici non saranno più inclini a mediare su determinati temi come in un anno elettorale.

Al netto di come la si pensi sui confini e sulle politiche da adottare, se respingenti o accoglienti, demolire una delle proprie proposte politiche più riconoscibili col solo scopo di tornare al potere è l’ennesima sconfitta culturale di un Partito Repubblicano che non ha più alcuna proposta chiara o comunque è disposto ad autosabotarsi pur di tornare alla presidenza.

Trump fa poker nelle primarie repubblicane in South Carolina

Donald Trump fa poker nelle primarie repubblicane in South Carolina e veleggia verso la nomination a Usa 2024. Si sceglie come compagni di viaggio Putin e l’uomo della motosega, il presidente argentino Javier Milei.

Bielorussia alle urne: il declino del pluralismo e l’ascesa del nuovo Politburo

Il 25 febbraio si svolgerà la cosiddetta “giornata di voto unificata” in Bielorussia, dove i cittadini torneranno alle urne per la prima volta dopo le controverse e turbolente elezioni del 2020. In questa occasione, saranno eletti i deputati della Camera dei Rappresentanti dell’Assemblea Nazionale e dei Consigli dei deputati locali. Successivamente, il 4 aprile 2024, si terranno le elezioni per i membri del Consiglio della Repubblica.

L’importanza delle elezioni

L’elezione è cruciale poiché segna un grande passo nella direzione di una Bielorussia sempre più totalitaria. Queste elezioni segneranno una svolta per l’Assemblea Popolare Panbielorussa (ABPA), che da organo puramente consultivo è diventato il “più alto vertice della rappresentanza democratica” del Paese, con la modifica costituzionale del febbraio 2022.

Questa trasformazione ha l’obiettivo di preparare il terreno per un’eventuale sostituzione dell’attuale presidente Aleksandr Lukashenko, al potere da ormai tre decenni, in vista delle elezioni presidenziali del 2025. La modifica dei poteri dell’ABPA, infatti, prevede un cambiamento significativo nella struttura del governo, conferendo a questo organo un controllo esteso su numerose decisioni politiche. Inoltre, tale modifica porterà alla formazione di un gruppo ristretto di alleati fidati di Lukashenko, accentuando l’autoritarismo nel Paese e rafforzando ulteriormente la centralizzazione del sistema governativo.

Il processo elettorale bielorusso, “un rituale senza significato o giustizia”

La Bielorussia è una Repubblica presidenziale, con una struttura di governo che prevede una separazione dei poteri. Il potere legislativo è affidato ad un Parlamento bicamerale noto come “Assemblea Nazionale della Repubblica di Bielorussia”, che si compone della Camera dei Rappresentanti e del Consiglio della Repubblica. Il potere esecutivo è concentrato nelle mani del Consiglio dei ministri, mentre il potere giudiziario è esercitato dalla Corte costituzionale e dalla Corte Suprema.

Nonostante la divisione formale tra i diversi organi, il presidente ha tradizionalmente esercitato un controllo sostanziale su tutte le sfere del governo, limitando l’efficacia sia del potere giudiziario che del potere legislativo. La natura autoritaria del Paese si riflette anche nel suo sistema elettorale che, sebbene la parvenza di democraticità e la garanzia del suffragio universale, equo, diretto o indiretto secondo la Costituzione, è spesso stato oggetto di critiche per irregolarità e presunte frodi elettorali.

Le ultime elezioni presidenziali del 2020 sono state non solo criticate ma contestate formalmente con accuse di falsificazioni diffuse. Analisi indipendenti hanno persino dimostrato come le elezioni siano state in realtà vinte dall’attuale presidente in esilio, Sviatlana Tsikhanouskaya, anziché da Lukashenko. Tuttavia, proprio a causa della natura autoritaria, dal 1994 la Bielorussia ha costantemente e invariabilmente rieletto Lukashenko come presidente, senza lasciare spazio per significativi cambiamenti nel panorama politico, tendenza che si prevede continuerà anche nelle elezioni di quest’anno.

Una stretta al regime bielorusso: un declino del pluralismo politico

La continua e crescente repressione governativa, iniziata a seguito delle proteste avvenute nel 2020, e la conseguente emigrazione di massa dal Paese hanno drasticamente ridotto il pluralismo politico in Bielorussia.

I cittadini e oppositori rimasti si sono trovati ad affrontare forti repressioni. Secondo quanto riportato da Amnesty International nel report sui diritti umani nel mondo (2023), in Bielorussia la libertà di espressione è severamente ristretta, con più di 1500 prigionieri politici e pene detentive che superano anche i 10 anni di reclusione. L’obiettivo della repressione è sopprimere qualsiasi potenziale forza di opposizione. Ai sensi dei requisiti stabiliti dalla Costituzione aggiornata, infatti, non possono candidarsi alle elezioni i cittadini contro i quali sia stata emessa una sentenza di condanna, che abbiano precedenti penali, o che risiedono all’estero.

Queste limitazioni hanno un grande peso su chi può o non può partecipare alle elezioni e, di conseguenza, hanno influito notevolmente sulla presenza dei partiti politici di opposizione. Oltre a controllare i media e reprimere qualsiasi forma di dissenso, le autorità bielorusse hanno influenzato il processo elettorale prendendo di mira ben 12 partiti, tra cui il Partito Civile Unitario, il gruppo di opposizione di lunga data.

Attualmente, sono registrati solo quattro partiti politici: l’attuale partito al governo, Belaya Rus, relativamente centrale; due partiti nominalmente di sinistra, il Partito Comunista di Bielorussia e il Partito Liberal Democratico della Bielorussia; e infine, un partito di destra, il Partito Repubblicano del Lavoro e della Giustizia.

Riforme istituzionali e strategie politiche: il ruolo dell’ABPA e il cosiddetto “pacifismo armato”

Le elezioni di febbraio non segnano un discostamento dal clima creatosi nel Paese a partire dal 2020, ma evidenziano piuttosto un significativo cambiamento nella struttura del governo.

La nuova Assemblea Popolare Panbielorussa, dotata di ampi poteri, avrà autorità su tutti i rami del governo, incluso quello esecutivo e, oltre ad altri compiti, potrà introdurre la legge marziale, avviare le pratiche di impeachment, annullare le elezioni presidenziali, e anche eleggere e rimuovere i giudici delle corti Suprema e Costituzionale.

Dei 1200 rappresentanti che andranno a costituire questo nuovo organo, solo 15 avranno il potere effettivo di dirigerne la politica, creando così una sorta di Politburo personale di Lukashenko. Ai sensi della costituzione aggiornata, sarà il presidente stesso a ricoprire il ruolo di presidente dell’ABPA, mentre gli altri membri formeranno il cerchio dei suoi associati più fidati, da cui potrebbe emergere il suo eventuale successore.

La tornata servirà anche per preparare il terreno per le elezioni presidenziali del 2025. Tra i principali temi della campagna elettorale di Lukashenko vi sono la narrativa populista e l’allineamento con la Russia su questioni legate ai “valori della famiglia” e in materia di diritti LGBT. A questi, si aggiunge anche il concetto di “pacifismo armato”, che mira alla creazione di una Bielorussia pacifica ma militarmente potente.

Un fievole barlume di speranza democratica all’ombra dell’autocrazia

Le elezioni di febbraio in Bielorussia vedranno una concentrazione di potere senza precedenti nelle mani di Lukashenko. Tra il nuovo ruolo dell’Assemblea Popolare Panbielorussia e l’aumento della repressione politica, le prospettive di cambiamento nel futuro immediato sono ben poche.

Allo stesso tempo, le forze democratiche all’estero, costrette all’esilio per sfuggire alla persecuzione, stanno perseverando nel loro impegno per contrastare il regime di Lukashenko. Sebbene rappresentino un’opzione limitata, offrono una speranza in un Paese che ha perso gran parte della sua natura democratica.

Articolo a cura di Sara Pastorello

Rapporto di previsione Ue: rischi e sfide per l’economia dell’euro

di Antonio Pollio Salimbeni

Nell’elenco dei rischi che incombono sulla magra crescita economica dell’area euro, che compare nel rapporto di previsione d’inverno della Commissione Ue, non c’è traccia del possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, con tutte le possibili implicazioni negative per le relazioni Ue-Usa, da quelle sulla sicurezza a quelle commerciali.

Certo, vengono elencati gli ovvii pericoli derivanti dal proseguimento della guerra sotto casa (Ucraina) e dalla possibile estensione del conflitto da Gaza al Medio Oriente. Viene indicato che, acuendosi, queste tensioni geopolitiche fanno “pendere la bilancia dei rischi verso esiti più avversi”. Gli economisti di Bruxelles si riferiscono solo al fatto che il 2024 sarà un anno storicamente rilevante per il grande numero di votanti in tutto il mondo (76 paesi pari al 51% della popolazione) per cui “l’incertezza politica peserà sul sentiment degli investitori”.

Si può comprendere la cautela tanto più che i rapporti di previsione comunitari sono in stile asciutto, analisi fattuali. Il futuro degli Usa è argomento delicato. Si può comprenderla meno se però si sorvola sui rischi interni. Il messaggio generale di Bruxelles è di temperato ottimismo sull’area euro: quest’anno si vivacchia con una crescita del pil dello 0,8% dopo 0,5% nel 2023; si spera nel quasi raddoppio (1,5%) l’anno prossimo. Questa la sintesi: “Ripresa della crescita lenta in un contesto di riduzione più rapida dell’inflazione”. Per Bruxelles i rischi interni di peggiorare o migliorare sono in equilibrio. Eppure dalle cifre e tra le righe del rapporto comunitario emergono diverse indicazioni che segnalano come un problema serio in Europa ci sia e da questo dipenda molto del prossimo futuro. È la lunga frenata dell’economia tedesca: l’anno scorso la Germania era in recessione, quest’anno sarà il paese che nell’area euro crescerà meno, 0,3%.

Dal quadro di Bruxelles emerge intanto che la stagnazione della crescita dell’area euro nel quarto trimestre del 2023 è stata in gran parte determinata proprio dalla contrazione in Germania. Poi che in Germania (e pure in Francia) i fallimenti di imprese hanno superato i livelli pre pandemia; le famiglie hanno perso potere d’acquisto; gli alti costi di costruzione e di finanziamento, oltre alla carenza di manodopera e agli elevati prezzi dell’energia, hanno depresso gli investimenti nei settori dell’edilizia e ad alta intensità energetica; alcuni recenti indicatori delle opinioni sull’economia sono tornati ai livelli più bassi dalla pandemia; l’aumento degli investimenti sarà inferiore ai valori pre 2020; la carenza di manodopera continua a costituire un collo di bottiglia per l’attività; viene giudicata “improbabile” una ripresa trainata dal commercio. Infine, che una politica di bilancio più restrittiva a causa del rispetto del “freno al debito” (tradottosi ormai chiaramente in quella che è stata chiamata una propensione all’autolesionismo) “avrà un impatto frenante sulle prospettive di crescita a breve termine”. Non resta che sperare nella prospettiva di una riduzione dei tassi di interesse, un paradosso per la Germania rigorista in politica monetaria.

Tutto ciò conferma che alcune delle condizioni determinanti che hanno reso dominante quell’economia sono venute meno. Le crisi multiple degli ultimi anni, dal Covid all’interruzione delle catene globali degli approvvigionamenti; dall’invasione dell’Ucraina al rarefarsi delle forniture di gas dalla Russia a basso costo; dal rallentamento del commercio all’esposizione verso la Cina in una fase di ricentramento della globalizzazione per ragioni politiche, che la Germania cerca in tutti i modi di evitare; tutto questo ha messo in discussione la solidità dei fattori di crescita del paese. Si aggiunga il recente sorpasso di Volkswagen da parte di BYD (la casa cinese Build Your Dreams, si chiama proprio così, “costruisci i tuoi sogni”) nelle vendite di auto in Cina, uno shock. Di fronte a tali dati economici negativi (la disoccupazione tuttavia è inchiodata attorno al 3%) il ministro delle finanze Christian Lindner se la cava affermando che il paese ha solo bisogno di “un caffè” per svegliarsi. Per l’economista Marcel Fratzscher (DIW di Berlino) le difficoltà sono invece profonde, dipendono “da una grave crisi politica che ha gettato un’ombra sulle prospettive economiche e sta pesando pesantemente sul sentiment economico”. Non solo: “Il complesso sistema federale tedesco, noto per i suoi solidi controlli ed equilibri, è stato progettato per consolidare i suoi principi democratici e impedire un ritorno all’autoritarismo. Pertanto, dà priorità alla stabilità rispetto alla velocità e alla flessibilità. Questa preferenza sta ora mettendo a dura prova l’economia”.

Qualcosa dovrà cambiare in Germania e non è facile far sterzare un modello economico consolidato nei decenni di cui però sono vacillate le basi e almeno una tra queste, il gas russo, è sulla via dell’esaurimento. Una Germania trimestre dopo trimestre in stagnazione, con una produzione industriale negativa negli ultimi tre mesi del 2023 o a quota zero o sotto, fa paura all’Europa centrale (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia sono vere e proprie piattaforma della manifattura tedesca) e anche a quella rilevante sezione dell’industria italiana intimamente legata alla Germania (per fare solo un esempio, un quinto dei componenti di un’auto tedesca provengono dall’Italia). Batte in testa la crescita “export oriented”. Non è un caso che lo stesso Mario Draghi, pur non nominando la Germania, abbia recentemente indicato che “i modelli di business basati su ampi avanzi commerciali potrebbero non essere più politicamente sostenibili. I paesi che vogliono continuare a esportare beni potrebbero dover essere più disposti a importare altri beni o servizi per guadagnarsi questo diritto, pena l’aumento delle misure di ritorsione”. L’economia leader di un’area integrata ha anche oneri oltreché onori.

Barriere e protezionismo mettono a rischio la pace

di Marco Magnani*

La globalizzazione moderna ha rivelato eccessi, limiti e distorsioni ma anche prodotto enormi benefici, garantendo prosperità, progresso e un buon grado di stabilità e pace a gran parte del mondo. Da qualche tempo tuttavia la globalizzazione sembra aver perso slancio. La ritirata della globalizzazione è metaforicamente rappresentata da quella delle acque del canale di Panama, il cui livello si è abbassato a causa della siccità, in tal modo limitando il passaggio di navi in uno dei punti nevralgici del commercio mondiale.

Il clima nei confronti della globalizzazione è cambiato. In molti paesi è diminuito il sostegno popolare, e quindi anche quello della politica. Gli obiettivi di libera circolazione di merci e servizi, lavoro e capitali, persone e idee, tecnologia e innovazione che hanno caratterizzato la globalizzazione moderna sono entrati in crisi. Ed è in corso un forte ripensamento sui vantaggi della globalizzazione mentre cresce la domanda di protezione in tutti gli ambiti.

È in corso soprattutto un forte ritorno al protezionismo in campo economico. Esigenze di sviluppo locale, tutela dell’occupazione domestica e difesa delle industrie nazionali tendono a prevalere su obiettivi di apertura dei mercati, integrazione economica, concorrenza. Di conseguenza rallentano commercio internazionale e delocalizzazione, si regionalizzano gli scambi e cambiano configurazione le Gvc, aumentano i controlli su movimenti di capitale e investimenti diretti esteri, cresce la regolamentazione del settore dei servizi finanziari. Anche parte della teoria economica sostiene questa tendenza e – con la teoria del commercio strategico ‒ mette in discussione i principi di libero scambio enunciati da Smith e Ricardo.

Il protezionismo è spesso utilizzato dalla politica per rispondere a un malessere economico o sociale. Non è un caso che a seguito della crisi finanziaria del 2008 è iniziato un periodo caratterizzato da barriere, tariffarie e non, ristagno di accordi commerciali multilaterali, aumento di controlli su movimenti di capitali e restrizioni su investimenti diretti esteri.

Il ritorno al protezionismo: alcuni casi

Il capitalismo di stato cinese mostra molte caratteristiche protezioniste. Il piano Made in China 2025, lanciato nel maggio 2015, si propone di sviluppare ulteriormente il settore manifatturiero domestico al fine di ridurre il grado di dipendenza della Cina da fornitori stranieri, soprattutto in ambito tecnologico. E nel 2020, con il lancio della politica della “doppia circolazione”, Pechino ha confermato l’obiettivo di rendere l’economia meno dipendente dall’estero e più concentrata sul proprio mercato interno.

Non molto diverso lo spirito dello slogan populista America First con il quale Trump ha scatenato una guerra doganale nel corso della sua presidenza. E l’Amministrazione Biden ha dato continuità a gran parte delle misure protezionistiche introdotte dal predecessore, seppur con toni più moderati e riducendo le tensioni con gli alleati. Particolarmente significativo il Build Back Better Act del 2021 che, anche in reazione alla crisi prodotta dalla pandemia, contempla investimenti complessivi per circa 1,2 trilioni di dollari e contiene diversi elementi protezionistici. Il piano è diviso in tre parti ‒ Rescue Plan, Jobs Plan, Families Plan – e prevede investimenti in strade e ponti, porti e aeroporti, sistemi idrici e rete elettrica, trasporto pubblico e servizi ferroviari, banda larga, veicoli elettrici e tutela ambientale. Anche il piano strategico per facilitare la transizione energetica ‒ Inflation Reduction Act (IRA) del 2022 – contiene forti elementi protezionisti. Le centinaia di miliardi di dollari di agevolazioni fiscali, sussidi e finanziamenti stanziati hanno l’obiettivo di favorire la transizione energetica ma anche di rilanciare le capacità manifatturiere interne e ridurne la dipendenza dalla Cina di materiali critici.

Nella stessa direzione vanno le recenti decisioni del governo indiano di bloccare le esportazioni di grano (per contrastare l’inflazione interna sui generi alimentari) e limitare quelle di zucchero (per dirottarle alla produzione di etanolo). E con il piano Make in India, New Delhi si pone l’obiettivo di ridurre la dipendenza dei settori manifatturieri dall’estero e stanzia 10 miliardi di dollari per creare un’industria nazionale di semiconduttori. Anche l’Ue cerca di costruire un’“autonomia strategica” e cresce la tentazione di perseguire quella che il Nobel per l’economia Maurice Allais ha definito «préférence européenne»: difendere le aziende europee dall’avanzata di multinazionali americane nel digitale e cinesi nella manifattura.

Il ritorno al protezionismo è un dato di fatto e l’impatto negativo che questo trend può avere non va sottovalutato. Infatti, la storia ci insegna che i rischi vanno ben al di là del costo economico. È importante ricordare quanto accaduto dopo la Grande depressione del 1929, quando ogni paese aveva cercato di uscire dalla propria crisi a spese degli altri innescando un’ondata di protezionismo. L’introduzione nel 1930 dello Smoot-Hawley Tariff Act da parte degli Usa produsse dapprima a una guerra commerciale tra nazioni, con conseguente impoverimento generale, e successivamente a una guerra mondiale.

La speranza è che la storia non si ripeta. Perché, come sosteneva l’economista francese Frederic Bastiat “dove non passano le merci, passeranno gli eserciti”.

 

*Docente di International Economics in Luiss a Roma e Università Cattolica a Milano. Autore de “Il Grande Scollamento. Timori e speranze dopo gli eccessi della globalizzazione”, Bocconi University Press, di Marco Magnani, 260 pagine, €22

Il ruolo della guerra russo-ucraina nel rinnovare le relazioni Ue-Paesi terzi

L’attacco della Russia all’Ucraina nel 2014 e l’invasione su larga scala dal 2022, affiancate ad altri sviluppi in Europa e dintorni, hanno sollevato nuovamente la questione fondamentale degli interessi e valori che le nazioni europee dovrebbero condividere. Gli eventi straordinari successivi all’annessione della Crimea da parte della Russia dieci anni fa e, soprattutto, all’inizio della guerra su larga scala due anni fa, hanno alterato le priorità politiche sia dell’Ue e dei suoi Stati membri, da una parte, sia dei Paesi europei al di fuori dell’Ue, inclusa la Turchia, dall’altra. Alla luce di questi avvenimenti e del continuo dibattito sull’Europa orientale, l’imminente cambiamento nella composizione e nella ristrutturazione delle principali istituzioni dell’Ue nel 2024-2025 ha assunto dimensioni nuove.

Nei precedenti parlamenti, commissioni e consigli dell’Ue, i principali dibattiti e le decisioni politiche vertevano sulla velocità e direzione del progresso dell’integrazione europea, concepita come un progetto normativo ed economico. Attualmente, la posta in gioco per rispondere a queste domande è notevolmente aumentata, spostandosi nella sfera della sicurezza internazionale. Quali implicazioni e ripercussioni pratiche dovrebbe affrontare l’Ue in risposta alla nuova situazione militare, geopolitica e geoeconomica in Europa? Questa la sfida per Bruxelles oggi e negli anni a venire.

Già diverse strutture transnazionali legano tra loro gli Stati membri dell’Ue e i Paesi terzi dell’Europa. Queste comprendono, da un lato, istituzioni più antiche come il Consiglio d’Europa (CdE), l’OSCE, l’AEA o l’Unione doganale UE-Turchia e, dall’altro, innovazioni più recenti come la Sinergia del Mar Nero, il Programma di partenariato orientale (PO) o il Triangolo di Lublino. In passato, la Russia era parte del Consiglio d’Europa, mentre, ancora oggi, fa parte dell’OSCE. Tuttavia, la presenza di queste strutture non è stata sufficienti a prevenire la drammatica escalation della guerra russo-ucraina nel 2022. Una dinamica simile si è manifestata per i recenti scontri militari tra Armenia e Azerbaigian – Paesi che partecipano al CoE, all’OSCE e al PO.

Le relazioni tra Ue e Paesi europei al di fuori dell’Unione

I recenti e decisivi sviluppi in Europa evidenziano la necessità di un sostanziale cambiamento nelle relazioni tra l’Ue e i Paesi europei al di fuori dell’Unione, e ciò per due ragioni fondamentali. In primo luogo, gli approcci e le iniziative di Bruxelles si sono rivelati insufficienti nel mitigare o contrastare le tensioni in Europa orientale che hanno portato alla guerra. Nel 2022 è stato necessario, e continua ad esserlo, riesaminare tali approcci e iniziative, alla luce del loro evidente fallimento nel garantire la pace in Europa. In secondo luogo, la guerra in corso e le sue molteplici ripercussioni globali richiedono nuove prospettive e azioni, mirate a preservare l’integrità dello Stato ucraino e a tutelare l’ordine di sicurezza europeo dalla distruzione. In questo senso, sono già in corso un profondo ripensamento e una riconfigurazione, almeno parziale, delle precedenti politiche dell’Ue nei confronti dei Paesi terzi, soprattutto in Europa.

Il cambiamento più significativo degli ultimi due anni è stato l’ascesa dell’Ucraina e della Moldavia, nel 2022, e delle Georgia e della Bosnia-Erzegovina, nel 2023, a candidati ufficiali per la piena adesione all’Ue. Mentre i Paesi dei Balcani occidentali hanno una prospettiva di adesione all’Ue già da più di 20 anni, il destino del trio di associazione – Ucraina, Moldavia e Georgia – è rimasto incerto dopo l’avvio del Programma di partenariato orientale (PO) nel 2009. Solo in seguito all’aggressione della Russia e alla richiesta di adesione dell’Ucraina nella primavera del 2022, la Commissione europea ha preso l’iniziativa di persuadere gli Stati membri a rivedere il loro atteggiamento non solo nei confronti di Kyiv, ma anche di Chisinau e Tbilisi. Alla fine del 2023, il Consiglio europeo ha approvato l’avvio dei negoziati di adesione con l’Ucraina e la Moldavia e ha accettato la Georgia come Paese candidato all’Ue. In questo modo, Bruxelles ha finalmente chiarito l’obiettivo fino ad allora sfuggito dei tre ampi accordi di associazione e delle relative DCFTA conclusi con questi tre Paesi nel 2014.

Un significativo cambiamento istituzionale in risposta all’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022, è rappresentato dalla creazione della Comunità politica europea, un’iniziativa avviata simbolicamente dal Presidente francese Emmanuel Macron il 9 maggio 2022. Complessivamente, 47 Stati, inclusa la Turchia, hanno aderito alla CPE, delineando così un nuovo quadro europeo per le consultazioni e per il rafforzamento delle relazioni dell’Ue con i Paesi terzi. L’istituzione del CPE riflette un nuovo senso di solidarietà degli interessi nazionali europei nei confronti del feroce assalto russo a una delle nazioni più grandi d’Europa. Questo atto può anche essere interpretato come il segnale di un crescente sentimento di comunità tra le nazioni interne ed esterne all’Ue, che condividono i valori europei e desiderano affrontare la più grande sfida normativa posta da Mosca e dai suoi alleati anti-occidentali.

La prospettiva futura del CPE, in senso più stretto, e l’eventuale impatto delle motivazioni, più ampiamente intese, alla base sua istituzione restano, tuttavia, da verificare. La loro effettiva influenza non dipenderà esclusivamente, ma in modo cruciale, dalla volontà, capacità e successo dell’Ue nel potenziare le relazioni, le associazioni e, in parte, l’integrazione con i Paesi europei attualmente non appartenenti all’Ue. Poiché questi ultimi comprendono un gruppo eterogeneo di Stati, le nuove iniziative generiche come il CPE possono funzionare solo come forum di discussione e networking. Il CPE e le organizzazioni paneuropee consolidate, come il CoE o l’OSCE, possono agevolare la circolazione e la discussione di idee tra le decine di Paesi partecipanti. Tuttavia, le iniziative generali come il CPE avranno un ruolo più marginale nella pianificazione concreta e nell’attuazione pratica dei miglioramenti legali, istituzionali e materiali delle relazioni tra l’Ue, i suoi Stati membri e i Paesi terzi in Europa.

La cooperazione tra le democrazie europee contro le potenze anti-occidentali

L’approfondimento bilaterale e multilaterale della cooperazione nelle relazioni dell’Ue è cruciale non solo per le nazioni europee direttamente colpite o minacciate da un’aggressione militare russa – come Ucraina, Georgia, Moldavia e Armenia –, ma rappresenta una necessità anche nei confronti di altri Paesi europei non appartenenti all’Ue in senso ampio, inclusi Islanda, Regno Unito, Azerbaigian e Turchia. I temi principali di questa collaborazione sono diventati la sicurezza e la resilienza nazionale e transnazionale. La promozione di maggiori scambi, collaborazioni e coesione in vari settori, che riguardano la deterrenza, la prevenzione o, almeno, il contenimento della guerra russa e di altre guerre anti-occidentali in Europa – che siano di natura cinetica, ibrida, psicologica, politica, economica o di altro tipo – ha acquisito una vera e propria dimensione esistenziale. Tale impegno determinerà non solo la qualità ma anche la sopravvivenza delle democrazie europee e delle loro diverse alleanze – soprattutto, ma non solo, dell’Ue.

Inoltre, una cooperazione più ampia e profonda in settori non direttamente legati alla difesa della sicurezza, dell’integrità e della sovranità dell’Europa contribuirà a rafforzare la comunità europea degli Stati. La vasta gamma di settori in cui Bruxelles e le altre capitali dell’Ue possono e devono intraprendere un’azione transeuropea più efficace spazia dalla promozione dell’innovazione industriale alla garanzia di una migliore protezione sociale e ambientale, favorendo una maggiore parità di genere, il progresso scientifico e lo scambio culturale. Sostenere una maggiore collaborazione e integrazione in questi e altri ambiti in tutta Europa non rappresenta solo l’espressione di una preferenza normativa per l’umanesimo transnazionale, l’europeismo e/o il liberalismo. È diventata una questione di autoconservazione.

Se le democrazie europee, all’interno o all’esterno dell’Ue, non si avvicinano e non si aiutano a vicenda per svilupparsi e proteggersi, corrono un grave pericolo. Si può supporre che la Russia e altre potenze anti-occidentali siano alla ricerca di anelli deboli all’interno della comunità di Stati europei. Come Mosca sta facendo con l’Ucraina dal 2014, sceglieranno questi Paesi non solo per attaccare le loro politiche democratiche e le loro società aperte, ma anche per trasformare la loro debolezza militare, istituzionale e/o sociale in sfide fondamentali per tutta l’Europa.

Un antico detto della scienza politica afferma che non solo gli Stati fanno le guerre, ma anche le guerre fanno gli Stati (Charles Tilly: “La guerra ha fatto gli Stati e gli Stati hanno fatto la guerra”). Per l’Europa nel suo complesso, e per l’Ue, è emersa la possibilità di verificare se questa regola si applica abbia anche una trasposizione transnazionale. La guerra russo-ucraina in corso rafforzerà o indebolirà la comunità europea degli Stati? Solo il futuro potrà dirlo.

Striscia di Gaza: questi gli interventi della Corte internazionale di giustizia

Una decisione storica quella adottata dalla Corte internazionale di giustizia con l’ordinanza del 26 gennaio 2024 con la quale la Corte dell’Aja ha accolto, almeno in parte, la richiesta di misure cautelari invocate dal Sudafrica che ha presentato un ricorso per le possibili violazioni da parte di Israele, nella Striscia di Gaza, della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948 (Order).

Prima di tutto, la Corte ha accertato la competenza prima facie sulla controversia tra i due Stati, entrambi parti alla Convenzione. Verificato che sussiste una controversia ai sensi della Convenzione, la Corte è passata a esaminare la necessità di adottare le misure cautelari richieste dal Sudafrica. La Corte ha, in primo luogo, accertato che i palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza possono essere configurati come un gruppo ai sensi della Convenzione e devono, quindi, essere protetti da atti di genocidio perché sussiste un rischio di un pregiudizio irreparabile e imminente che impone l’adozione delle misure cautelari. La popolazione di Gaza – scrive la Corte – si trova in una situazione di estrema vulnerabilità che potrebbe durare per molti mesi come risulta dalle dichiarazioni del Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il quale ha dichiarato che le operazioni a Gaza potrebbero continuare anche nel 2025.

Di conseguenza, poiché c’è il rischio che la catastrofica situazione umanitaria possa peggiorare fino al momento in cui ci sarà la pronuncia di merito, la Corte ha accolto, almeno in parte, la richiesta di misure cautelari (sei). In base all’ordinanza della Corte, Israele è tenuto a prevenire la commissione degli atti vietati dall’articolo 2 della Convenzione e a impedire che i propri militari commettano quegli atti. Inoltre, Tel Aviv deve prevenire e punire l’incitamento al genocidio e adottare misure per garantire l’assistenza umanitaria e preservare le prove. Dal momento dell’adozione dell’ordinanza, Israele deve presentare, entro un mese, un rapporto sull’esecuzione delle misure cautelari che, va ricordato, sono vincolanti. Respinta, invece, la richiesta del cessate in fuoco, mentre la Corte ha chiesto a tutte le parti in conflitto di rispettare il diritto internazionale umanitario. Inoltre, seppure non nella parte del dispositivo, la Corte ha chiesto il rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas.

Qui le dichiarazioni dei giudici Dich. NolteDich. BhandariXUEBarak., e l’unica opinione dissenziente della giudice Sebutinde.

La partita sulle misure cautelari non è ancora chiusa perché il Sudafrica, sulla base dell’articolo 75 del Regolamento della Corte, il 12 febbraio ha così presentato una nuova richiesta alla Corte internazionale di giustizia in cui, a seguito dell’offensiva israeliana nella città di Rafah, ha chiesto nuovamente alla Corte di intervenire con estrema urgenza (Sudafrica). Israele, dal canto suo, ha contestato, con le osservazioni depositate il 15 febbraio (Israele), la richiesta del Sudafrica anche sul piano procedurale. In particolare, secondo Tel Aviv, risulta errato il ricorso all’articolo 75 del Regolamento della Corte che si occupa del diritto della Corte di indicare misure cautelari proprio motu e non su richiesta delle parti. Inoltre, Israele ritiene che proprio la circostanza che la Corte internazionale di giustizia non abbia accolto la richiesta del cessate il fuoco implica un riconoscimento a Israele del diritto di legittima difesa a seguito dell’attacco di Hamas del 7 ottobre.

La Munich Security Conference 2024 raccontata da Nathalie Tocci

“La Conferenza di Sicurezza di Monaco del 2024 è iniziata con toni molto cupi, con la notizia dell’assassinio nel carcere in Siberia del leader dell’opposizione russa Aleksej Naval’ny”, racconta Nathalie Tocci, Direttore dello IAI. “Dietro tutto questo c’è lo sfondo della guerra in Ucraina, con le sue centinaia di migliaia di morti; c’è la guerra in Medio Oriente, sono quasi 30 mila i civili palestinesi uccisi da Israele e oltre 130 gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas; poi c’è uno sfondo più ampio in cui, se vogliamo citare solamente un numero, sono oltre 800 milioni le persone che ogni notte vanno a dormire con fame”, continua Tocci. “Tutto questo a causa di guerre, repressioni e cambiamenti climatici. Quindi è stata una Conferenza che aveva come sfondo questo scenario cupo. E devo dire, non è stata, in realtà, una conferenza che ha rassicurato molto”.

La morte del dissidente russo Aleksej Naval’nyj

In questo podcast vi proponiamo l’intervento di Nona Mikhelidze (Responsabile di ricerca presso l’Istituto Affari Internazionali) sulla morte del dissidente russo Aleksej Naval’nyj in un carcere russo il 16 febbraio 2024, nello speciale di RadioRadicale curato e condotto da Francesco De Leo.

Il leader dell’opposizione russa Alexei Navalny muore in carcere

Il leader dell’opposizione russa Alexei Navalny è morto nella colonia carceraria dell’Artico, dove stava scontando una condanna a 19 anni. Il 47enne era il più importante leader dell’opposizione russa e aveva conquistato un grande seguito con le sue critiche alla corruzione nella Russia di Vladimir Putin.

“Navalny si è sentito male dopo una passeggiata, perdendo quasi subito conoscenza. Il personale medico è arrivato immediatamente ed è stata chiamata un’ambulanza”, ha dichiarato il servizio penitenziario. “Sono state eseguite misure di rianimazione che non hanno dato risultati positivi. I paramedici hanno confermato la morte del detenuto. Le cause del decesso sono in corso di accertamento”. Il Comitato investigativo russo ha dichiarato di aver aperto un’indagine sulla morte.

L’addetta stampa di Navalny, Kira Yarmysh, ha dichiarato che il suo team non è stato informato della morte. “L’avvocato di Alexei sta volando a Kharp, dove si trova la sua colonia carceraria”, ha dichiarato in un post sui social media.

Citando il suo portavoce, le agenzie di stampa russe hanno riferito che Putin era stato informato della morte di Navalny.

Le reazioni dei governi occidentali alla morte di Navalny

I governi occidentali hanno immediatamente attaccato il Cremlino per la morte del più esplicito critico del presidente Vladimir Putin.

L’Unione Europea ha dichiarato di ritenere la Russia del presidente Vladimir Putin l’unica responsabile della morte. “Alexei Navalny ha combattuto per i valori della libertà e della democrazia. Per i suoi ideali ha compiuto l’estremo sacrificio”, ha scritto il presidente del Consiglio europeo Charles Michel su X. “L’Ue ritiene il regime russo l’unico responsabile di questa tragica morte”.

“Alexei Navalny ha pagato con la vita la sua resistenza a un sistema di oppressione”, ha dichiarato il ministro degli Esteri francese Stephane Sejourne. “La sua morte in una colonia penale ci ricorda la realtà del regime di Vladimir Putin”.

Il ministro degli Esteri spagnolo, José Manuel Albares, ha dichiarato di essere “profondamente scioccato dalla morte di Alexei Navalny” e ha affermato che Madrid “esige che vengano chiarite le circostanze” della sua morte. Albares ha sottolineato che la morte è “avvenuta durante la sua ingiusta detenzione per motivi politici” e ha offerto le sue condoglianze ai “suoi cari” e il suo “sostegno a coloro che lavorano per la libertà”.

Anche il primo ministro britannico Rishi Sunak ha deplorato l'”immensa tragedia” che la morte di Navalny rappresenta per il popolo russo. “È una notizia terribile. Il più feroce difensore della democrazia in Russia, Alexei Navalny ha dimostrato un incredibile coraggio per tutta la sua vita”.

Navalny “ha pagato il suo coraggio con la vita”, ha lamentato il cancelliere tedesco Olaf Scholz. “Chiunque si impegni per la democrazia deve temere per la propria sicurezza e per la propria vita, ed è per questo che siamo tutti molto tristi”, ha aggiunto Scholz in una conferenza stampa a Berlino insieme al capo di Stato ucraino Volodymyr Zelensky.

Putin deve “rispondere dei suoi crimini”, ha affermato Zelensky. L’assistente presidenziale ucraino Andriy Yermak ha dichiarato che “Putin è il male supremo che ha paura di qualsiasi competizione. Le vite dei russi non sono nulla per lui”, aggiungendo che “tutti coloro che chiedono negoziati devono rendersi conto che non ci si può fidare di lui. L’unico linguaggio che capisce è quello della forza”.

Infine, si è espresso anche il capo della Nato Jens Stoltenberg: “Sono profondamente rattristato e preoccupato per le notizie che arrivano dalla Russia sulla morte di Alexei Navalny, tutti i fatti devono essere accertati e la Russia ha serie domande a cui rispondere”.

Il ritorno in Russia e l’incarcerazione

Le denunce di Navalny, pubblicate sul suo canale YouTube, hanno accumulato milioni di visualizzazioni e portato decine di migliaia di russi in piazza, nonostante le dure leggi anti-protesta della Russia.

È stato incarcerato all’inizio del 2021 dopo essere tornato in Russia dalla Germania, dove si stava riprendendo da un attacco di avvelenamento quasi mortale con il Novichok, un agente nervino dell’era sovietica. Dopo aver dato al Cremlino la colpa dell’attacco di avvelenamento in Siberia, il suo ritorno in Russia ha segnato il suo destino. “Non ho paura e vi invito a non avere paura”, ha detto in un appello ai sostenitori al momento dell’atterraggio a Mosca, poco prima di essere arrestato per accuse legate a una vecchia condanna per frode. È stato condannato a 19 anni di carcere: gruppi indipendenti per i diritti hanno ampiamente contestato le accuse, viste anche in Occidente come punizione per la sua opposizione al Cremlino.

Il suo arresto ha scatenato alcune delle più grandi manifestazioni che la Russia abbia mai visto negli ultimi decenni, e migliaia di persone sono state trattenute in manifestazioni a livello nazionale per chiedere il suo rilascio.

In carcere, il team di Navalny ha dichiarato di essere stato molestato e ripetutamente spostato in una cella punitiva di isolamento. Le guardie hanno sottoposto lui e altri detenuti alla “tortura di Putin”, facendoli ascoltare i discorsi del presidente. Nonostante ciò, da dietro le sbarre, Navalny è stato un convinto oppositore dell’offensiva militare su larga scala di Mosca contro l’Ucraina. Il Cremlino si è mosso per smantellare la sua organizzazione, rinchiudendo i suoi alleati e mandando in esilio decine di altri.

Alla fine dello scorso anno è stato trasferito in una colonia carceraria artica nella regione russa di Yamalo-Nenets, nella Siberia settentrionale.

© Agence France-Presse

Elezioni municipali in Israele e il nuovo partito arabo-ebraico

Il 31 ottobre scorso dovevano avere luogo in Israele le elezioni per i consigli municipali, un test politico importante nel paese segnato da mesi da un profondo scisma che attraversa e lacera la società, dopo l’insediarsi di un governo frutto di un’alleanza fra il Likud del premier Netanyahu e partiti religioso-fondamentalisti. Proteste massicce e persistenti da parte di vasti settori dell’opinione pubblica contro il degrado antidemocratico del paese e l’ondata di tribalismo intollerante, con modalità senza precedenti nella storia  di Israele fino a forme di quasi “obiezione di coscienza” di reparti della riserva dell’esercito; azioni di disobbedienza civile che dimostrano la gravità della crisi e il pericolo acuto di una disintegrazione della società.

L’attacco terroristico di Hamas a Israele

Il 7 ottobre, terroristi di Hamas, sfruttando l’occasione delle provocazioni di estremisti ebrei, inclusi membri di partiti di governo che predicano l’espulsione dei palestinesi e le presunte minacce all’integrità della Spianata delle Moschee e di Al Aqsa – luogo sacro dell’Islam ma al contempo simbolo di una sovranità rivendicata – hanno perpetrato un efferato eccidio di massa sul territorio di Israele. Hanno colpito e devastato edifici, strade, infrastrutture nelle regioni del sud e del centro del Paese, ucciso e ferito civili, rapito ostaggi: un’esibizione barbara di forza nel reagire contro il nemico Israele mentre l’Autorità palestinese  e  il Fatah, nella retorica fondamentalista di Hamas, restavano inani ed inerti.

Due i vincitori nel breve periodo in questa “faida barbarica” – come la definì anni fa Avishai Margalit, un insigne filosofo israeliano – che attanaglia i due popoli, due vincitori stretti da una malefica, oggettiva alleanza: Hamas, che trionfa nelle simpatie dei palestinesi e nella retorica del mondo musulmano; Benjamin Netanyahu che, premier di un governo fortemente osteggiato da strati corposi dell’opinione pubblica, resta il leader di una “union sacrée” contro il nemico irriducibile. Da allora una guerra devastante è in corso fra Israele e i miliziani di Hamas sul territorio della Striscia di Gaza.

È un regresso profondo dalla filosofia degli accordi Oslo, di cui ricorrono i 30 anni, il cui presupposto era il riconoscimento reciproco dei diritti: quello degli israeliani alla pace e alla sicurezza come specchio di quello dei palestinesi a uno Stato degno di questo nome. Da un lato, è vano affidarsi per Israele alla mera repressione militare della violenza senza offrire un negoziato di pace, anzi esaltando la volontà di costruire nuove case nelle colonie in Cisgiordania, legalizzando retroattivamente altri insediamenti illegali e tollerando con indulgenza le ripetute violenze squadristiche dei coloni stessi contro località palestinesi e i loro abitanti che li spingono ad abbandonare loro terreni e fonti di sostentamento. Dall’altro, l’illusione di Hamas di piegare Israele con la violenza, riscattando l’impotenza dell’Autorità palestinese indebolita nei suoi apparati e fortemente delegittimata nella sua stessa opinione pubblica, resta un’ossessione sciagurata di quel movimento integralista.

Il partito arabo-ebraico Kol Ezracheya alle elezioni municipali

Un piccolo ma significativo spiraglio di luce viene dalla formazione alcuni mesi or sono di un partito arabo-ebraico su base paritaria, chiamato Kol Ezracheya (Tutti i cittadini). Nel suo manifesto fondativo esso afferma: “noi offriamo un’alternativa reale e radicalmente innovativa. Proponiamo una partnership politica sostanziale e profonda tra ebrei e arabi, di tutti i generi, su basi civiche, costituzionali ed egualitarie. Insieme, ebrei e arabi, uomini e donne, costituiamo una rappresentanza politica unica, che rispecchi la piena collaborazione tra i componenti delle due comunità nazionali di Israele”.  L’impulso che anima il partito è quello di un’azione di lungo periodo, politica e culturale, che trasformi la psicologia dominante nel paese dal nazionalismo “etnico” di un Israele “Stato degli ebrei” ad uno “Stato degli israeliani”, con un’identità civile ed egualitaria.

Candidati del nuovo partito corrono nelle elezioni municipali rinviate al 27 febbraio in sei città, piccole e grandi del paese, ma è Gerusalemme l’epicentro della novità. Gerusalemme dove su circa 1 milione di residenti 400.000 sono arabi di cui circa 340.000 con permesso di residenza temporanea nella città e 60.000 cittadini israeliani. Essi, mai rappresentati con alcun seggio nel consiglio municipale, corrono in queste elezioni con diversi candidati ebrei capeggiati da Sundus El Khot, una giovane educatrice palestinese di 33 anni, insegnante di lingua araba in scuole ebraiche e nell’amministrazione pubblica della città.

Una novità significativa dunque per i palestinesi di Gerusalemme est indifesi, oppressi e senza voce. Non vi è pianificazione edilizia in quei quartieri e quindi quasi tutte le case palestinesi di nuova costruzione sono designate come illegali e soggette alla demolizione. Procedono atti di espropriazione di terreni palestinesi e di successiva costruzione di nuovi quartieri ebraici da Silwan, Ras al Amoud, Walaja e in altre parti della città. Il boicottaggio delle elezioni municipali, predicato da sempre dall’OLP e poi dall’Autorità palestinese, come atto di protesta contro l’annessione della parte orientale della città dopo la guerra del 1967 e le successive modifiche del suo status, è stata una pratica autodistruttiva; certamente non ha concorso in alcun modo a difendere i diritti dei palestinesi a Gerusalemme.

L’intervista di Tucker Carlson a Putin

Riccardo Alcaro, responsabile del programma Attori Globali dello IAI, commenta l’intervista rilasciata dal presidente Vladimir Putin a Tucker Carlson. Si tratta della prima intervista concessa a un giornalista occidentale dall’inizio della guerra russa all’Ucraina.