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I distinguo di Bruxelles

La minaccia diretta agli interessi nazionali, messi a rischio dalle attività degli Houthi contro la libertà di navigazione nel Mar Rosso, ha indotto il nostro governo a farsi parte attiva nel sollecitare una missione militare dell’Unione in quel tratto di mare. Purtroppo, i rituali e i bizantinismi dei procedimenti decisionali dell’Ue hanno consentito l’attivazione della missione con inaccettabili ritardi, se pensiamo che il primo atto ostile si può far risalire all’11 dicembre scorso e che il Consiglio ha approvato la missione il 19 febbraio.

In questo quadro, il nostro Paese ha certamente messo del suo, anche creando situazioni che non è esagerato definire imbarazzanti. Infatti, gli accordi immediatamente presi fra gli Stati maggiori prevedevano l’istituzione di un dispositivo navale al comando tattico di un ammiraglio italiano, che però ha potuto assumerlo solo alcune settimane dopo. Si è trascurato, infatti, il piccolo dettaglio che su questi temi serve un avallo parlamentare, che sarebbe stato certamente opportuno ottenere prima di farsi carico di un impegno operativo. Invece, il dibattito e l’approvazione della missione in Parlamento sono arrivati nella prima settimana di marzo. C’è di che rimanere perplessi.

La definizione di “missione difensiva”

Sugli aspetti tecnici della missione occorre peraltro avere qualche chiarimento, in primis sulla sua postura operativa: si è infatti chiaramente affermato che si tratta di una missione difensiva, ma si esclude qualsiasi attività volta a eliminare le sorgenti della minaccia, cioè le rampe da cui partono missili e droni ostili (come invece attuato dalle unità Usa e britanniche della parallela missione Prosperity Guardian). La politica dell’Unione dunque ignora che, in caso di aggressione, per difendersi esistono diverse possibilità: si possono schivare i colpi, impedire agli ordigni avversari di colpire me o coloro che voglio difendere e anche eliminare le capacità di offendere dell’aggressore, ma in ogni caso sempre di difesa si tratta. Intanto, invece, i paesi europei lasciano ad altri il compito “sporco”, salvo poi lamentarsi se viene fatto loro notare – magari anche rudemente – che per l’ennesima volta hanno fatto pagare ad altri il prezzo per la loro sicurezza. È doveroso anche chiedersi se questo distinguo barocco consentirà lo scambio di dati di intelligence e di informazioni operative tra la missione dell’Unione europea e quella angloamericana oppure se ciò verrà considerato non politicamente corretto.

La cornice tecnico-logistica della missione Aspides

Un altro aspetto di particolare delicatezza riguarda le ‘regole di ingaggio’: nel passato abbiamo purtroppo dovuto osservare che in contingenti multinazionali, in una stessa missione, ciascuna capitale dettava norme di comportamento autonome alle proprie unità. Questo ha creato non pochi mal di testa a coloro che avevano la responsabilità del comando operativo, dovendo affidare uno specifico compito alle unità di diversi paesi. C’è da auspicare che, in questo caso specifico, tali singolarità nazionali siano state superate, al fine di conseguire una totale flessibilità di impiego e che quindi le ‘regole di ingaggio’ siano state concordate in modo assolutamente uniforme per tutte le unità assegnate ad Aspides.

La postura tattica di Aspides deve anche fare i conti con alcuni problemi di carattere logistico-operativo: nave Martinengo dispone di 16 celle verticali di lancio per missili superficie-aria, la HMS Diamond ne ha 48, la tedesca Hessen ne ha 32. È quindi il caso di domandarsi quale sia la sostenibilità operativa in uno scenario dove la disponibilità di mezzi offensivi Houthi non sembra poi così risicata.

Quest’ultima osservazione solleva un altro punto molto delicato. Apparentemente gli Houthi non hanno soverchie disponibilità di rifornimento: i canali sono stati affinati durante tutti gli anni del conflitto interno che li ha impegnati anche contro le azioni di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti e le scorte logistiche appaiono al momento sufficienti per la conduzione dell’aggressione al traffico navale nell’area, tuttavia, sono indubbiamente necessari dei rifornimenti e molti di questi passeranno via mare. È lecito, pertanto, domandarsi se e in quali modi verrà attuata una qualche forma di controllo del naviglio diretto ai porti controllati dagli Houthi. Eminenti esperti di diritto navale si sono già espressi positivamente, ma bisognerà vedere se la volontà politica agirà in tal senso, soprattutto per ridurre il rischio per il personale che viene inviato a operare a difesa non solo dei nostri interessi, ma anche del rispetto delle regole del diritto internazionale.

Una deludente scelta europea

Il Consiglio Affari esteri dell’Ue ha approvato il lancio dell’operazione militare navale Aspides, il cui obiettivo è di assicurare la libertà di navigazione nel Mar Rosso e Golfo Persico e difendere imbarcazioni civili e commerciali dai continui attacchi lanciati dal gruppo yemenita degli Houthi dall’inizio dell’offensiva israeliana a Gaza. Rimane da capire se la missione sia uno strumento efficace per prevenire ulteriori attacchi e assicurare la stabilità di questa importante rotta marittima dalla quale transita circa il 12% del commercio mondiale. 

Gli attacchi Houthi danneggiano il commercio italiano ed europeo

Dopo i messaggi contraddittori delle alte cariche europee in sostegno o critica a Israele e il voto disgiunto dei paesi Ue all’Assemblea delle Nazioni Unite sul cessate il fuoco, con Aspides gli Stati membri sembrano quasi voler affermare che l’Europa è ancora capace di prendere decisioni comuni in materia di politica estera. Con la missione l’Europa tenta poi di mostrare solidarietà e capacità di autonomia strategica agli alleati atlantici. Invece di unirsi alla missione anglo-americana Prosperity Guardian che contrattacca gli Houthi, la missione Aspides ha strettamente carattere difensivo e si propone di proteggere le imbarcazioni europee senza però impegnarsi in controffensive. Riaffermando il carattere difensivo di Aspides, i Ventisette sperano poi di ribadire l’impegno costante dell’Europa nella regione del Golfo ma anche quello volto alla distensione delle tensioni. 

La missione è, infine, un modo per rassicurare le proprie imprese europee il cui commercio dipende dalla stabilità del Mar Rosso e negli stretti di Baab al-Mandab, Hormuz e Suez. Gli attacchi hanno portato a un aumento delle spese assicurative per le imbarcazioni che decidono di transitare nel Mar Rosso, o a un aumento dei costi per quelle che decidono di percorrere rotte marittime alternative. 

Tra i paesi europei l’Italia è tra i più colpiti. È proprio dalla viabilità nel Mar Rosso e dall’utilizzo del Canale di Suez, infatti, che dipende la centralità del Mediterraneo e di molti dei porti italiani. Seconda potenza industriale in Europa, la nostra penisola realizza il 54% delle proprie esportazioni via mare, di cui il 42,7% transita proprio attraverso il Mar Rosso, il Canale di Suez per poi arrivare nei nostri porti. Il volume del commercio estero italiano sta perdendo circa 95 milioni di euro al giorno dal novembre 2023. Tra i porti italiani che soffrono di più c’è sicuramente Trieste, dove arriva da Suez gran parte delle merci che poi vengono distribuite in Europa centrale. Anche i porti di Genova e Gioia Tauro risentono del conflitto. Genova, da cui parte il 30% della tratta con la Cina, rischia di perdere il proprio rilievo in Europa, visto che nelle ultime settimane il costo del nolo medio per il trasporto dei container è più caro in Italia che nel porto di Rotterdam. Gioia Tauro, primo porto italiano dopo il Canale di Suez, sta subendo una diminuzione di traffico, poiché le navi che circumnavigano l’Africa iniziano a fermarsi in Spagna, oppure proseguono verso nord, optando per il trasporto terrestre della merce dal Mare del Nord attraverso l’Europa centrale.   

La missione europea Aspides rischia di essere un fallimento

Ma con il lancio della missione, l’Europa rischia di fallire sia nel proprio intento di risolvere il problema degli attacchi Houthi sulle rotte del Mar Rosso sia in quello di resuscitare la sua credibilità in politica estera. Anche se difensiva, la missione potrebbe non essere percepita come tale. Lanciata in assenza di una posizione europea chiara per il cessate il fuoco a Gaza, o una linea diplomatica per la risoluzione della questione palestinese, la missione rischia di confermare tra gli Houthi e i numerosi attori legati a Teheran, la percezione di un’Europa appiattita sulla posizione americana, parte di un polo occidentale da considerarsi un bersaglio nel suo insieme. L’impegno militare di Stati Uniti, Gran Bretagna ed Europa nel Mar Rosso rischia poi di rafforzare la legittimità del gruppo yemenita come difensori in prima linea della causa palestinese. Di fatto, provoca un effetto a catena che incoraggia gli Houthi e la miriade di gruppi alleati con Teheran a continuare attacchi su diversi fronti costringendo l’Occidente a dispiegare risorse militari, rendendolo parte di una progressiva espansione del conflitto invece che di una soluzione. 

Dai paesi arabi, e più in generale dal sud globale, l’immagine che emerge è quella di un’Europa che delude. I tempi lenti con cui l’operazione Aspides è stata lanciata sono altresì un sintomo dell’impaccio con cui l’Ue si sta muovendo. Piuttosto che duplicare la strategia americana, tagliando in qua e in là gli elementi in contrasto con la propria politica estera, l’Europa avrebbe potuto ispirarsi all’esperienza di molti paesi del Golfo, e in particolare dell’Arabia Saudita, facendo ricorso alla dissuasione militare mantenendo al contempo aperto il canale della diplomazia e del dialogo con i propri avversari. Dopo anni di conflitto in Yemen, è stato il ritorno dell’Arabia Saudita al dialogo con l’Iran e con gli Houthi ad aver portato a una drastica diminuzione degli attacchi sulle sue infrastrutture—risultato che non è stato invece ottenuto in anni di controffensiva militare. 

Aspides può essere un modo per l’Europa di raccontare a se stessa che è ancora capace di fare politica estera. Ma, in realtà, è il sintomo di un’Europa intenta a ricucire le divisioni interne e sempre meno capace di definire il suo ruolo nel conflitto in corso e nell’ordine globale che questo contribuirà a definire.  

Per l’Ue un ruolo di security provider internazionale

Il 19 febbraio, con decisione 2024/632, il Consiglio dell’Unione europea ha avviato l’operazione militare difensiva Eunavfor Aspides, in risposta all’aumento esponenziale degli attacchi lungo le coste dello Yemen alle navi mercantili e civili o della loro arbitraria cattura e detenzione, tale da mettere a repentaglio la sicurezza marittima dell’area compresa tra il Golfo di Aden ed il Mar Rosso, rotta strategica per la navigazione e un’importante via di transito per i traffici commerciali,  che consente di evitare il periplo dell’Africa. 

La risposta dell’Ue nel Mar Rosso

Dall’inizio del conflitto tra Israele ed Hamas, gli attacchi degli Houthi nei confronti delle navi in transito in quest’area hanno assunto un’entità tale da incidere sulla libertà di navigazione e mettere a rischio la vita umana dei marittimi, oltre a pregiudicare i traffici commerciali e impattare sull’economia dei Paesi della regione e dell’Ue. Il 29 gennaio, il Consiglio dell’Ue ha approvato inizialmente un Crisis Management Concept per una possibile operazione per far fronte alla crisi, seguito dalla decisione 2024/583dell’8 febbraio che ha costituito Eunavfor Aspides con l’obiettivo strategico di assicurare una presenza navale dell’Ue a presidio delle principali rotte di comunicazione, in collaborazione con gli altri attori presenti nell’area. 

L’operazione – dispiegata tra lo stretto di Baab al-Mandab e lo stretto di Hormuz, oltre alle acque internazionali nel Mar Rosso, Golfo di Aden, Mar Arabico, Golfo di Oman e Golfo Persico – agirà in coordinamento con l’operazione Eunavfor Atalanta per rafforzare la sicurezza marittima, data l’adiacenza delle rispettive aree di operazione, e si aggiunge ad altre operazioni militari già dispiegate nell’area, quali l’operazione multinazionale Prosperity Guardian a guida statunitense, che include vari Stati membri dell’Ue tra cui Danimarca, Grecia e Paesi Bassi, le cosiddette Combined Maritime Forces e altre operazioni nazionali.

Designati i comandanti ai livelli strategico e operativo, rispettivamente il Commodoro Vasileios Gryparise il Contrammiraglio Stefano Costantino, e individuato l’Operation Headquarter di Larissa in Grecia come sede del Comando, il 14 febbraio, il Comitato politico e di sicurezza ha definito i contenuti del piano operativo e le regole d’ingaggio, da approvare. Il 19 febbraio, l’operazione è stata avviata con il “mandato difensivo”, finalizzato ad ottenere informazioni sulla situazione nell’area, scortare le navi in transito e proteggerle da possibili attacchi. 

Il mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu

In quanto operazione militare difensiva, l’uso della forza non trova spazio in alcuna autorizzazione proveniente dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

La decisione istitutiva fa riferimento alla Risoluzione dell’ONU 2722 del 10 gennaio 2024, adottata dal Consiglio di Sicurezza per condannare gli attacchi degli Houthi alle navi mercantili e richiamare l’importanza della libertà di navigazione di tutti gli Stati nell’area. In tale sede, il Consiglio di sicurezza ha chiesto l’immediata cessazione degli attacchi degli Houthi, richiamando al rispetto del diritto internazionale, e ha preso atto del diritto degli Stati membri di difendere le proprie navi dagli attacchi, inclusi quelli che mettono a rischio le libertà di navigazione. Il mandato è pertanto molto ristretto quanto alla legittimazione all’uso della forza: non è prevista la possibilità di intervento nel mare territoriale, ma esclusivamente nelle acque internazionali e nello stretto.

Nonostante le premesse – che in altri casi avrebbero probabilmente portato a ravvisare una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale – il Consiglio di sicurezza non ha adottato una risoluzione ai sensi del Cap. VII della Carta. Tale posizione si inscrive nella più recente tendenza del Consiglio a constatare circostanze senza adottare provvedimenti incisivi, come già avvenuto in relazione al conflitto russo-ucraino o alla situazione in Libia. Ciò probabilmente rappresenta un ulteriore sintomo della crisi che l’ONU sta attraversando, specialmente per quanto concerne ruolo e funzionamento del Consiglio di Sicurezza.

La missione Aspides nel quadro del diritto europeo

Quanto all’ordinamento giuridico dell’Ue, Eunavfor Aspides rientra nello spettro delle operazioni contemplate dall’Articolo 43 del TUE e si inscrive nel quadro delle iniziative volte a realizzare la strategia sulla sicurezza marittima dell’Ue, rivista nel 2023, unitamente a un piano d’azione. Essa mira a prevenire, deterrere e contrastare “multiple security threats and challenges that affect the oceans and to enhance a rules-based order at sea”, con l’intento di contribuire alla sicurezza globale e di proteggere gli interessi europei, con un ruolo complementare a quello dell’Alleanza Atlantica. Già nel 2022 l’Oceano indiano nordoccidentale era stato designato quale area di interesse strategico dall’Unione ed era stato avviato il meccanismo della Coordinated Maritime Presence, per garantire sinergia e coordinamento tra le azioni, anche militari, condotte nell’area, benché ancora al di fuori di un’operazione europea. Inoltre, la nuova operazione risponde agli  obiettivi dello Strategic Compass for Security and Defense, che ha fissato le linee guida per migliorare l’abilità dell’Unione ad agire prontamente ed efficacemente nelle crisi per la difesa propria e dei suoi cittadini, identificando aree chiave per la sicurezza marittima. 

L’intervento nel Mar Rosso è in linea con i documenti strategici menzionati che riconoscono un rilievo determinante alla sicurezza marittima, poiché correlata a quella di settori come economia e trasporti . Peraltro anche l’operazione Aspides si inscrive nell’approccio integrato delineato dall’European Global Strategy e si coordinerà ad altre iniziative anche di carattere diplomatico o economico. 

L’avvio dell’operazione Aspides, pertanto, da un lato enfatizza il rilievo strategico crescente della dimensione marittima, ben evidenziato anche a livello nazionale nel Piano del mare, dall’altro la sempre più matura capacità dell’Ue di porsi come “security provider” a livello internazionale.

Alle minacce seguiranno i fatti

Ciò che rende preoccupanti le recenti dichiarazioni di Donald Trump sulla Nato e sul ruolo degli Stati Uniti è il fatto che non esiste una “dottrina Trump”. Esiste solo lui, il candidato che spera di vincere le elezioni presidenziali di novembre e di tornare alla Casa Bianca. E di farlo anche contro il partito repubblicano, al quale con ogni probabilità la sua minaccia di uscire dall’Alleanza Atlantica se tutti i membri europei non faranno la loro parte – portando il livello di investimento in difesa al 2% del PIL – deve aver provocato qualche mal di pancia. 

Il “pilastro europeo” dell’Alleanza Atlantica

Al di là dell’incertezza connaturata a qualsiasi elezione e in attesa dunque del risultato, quelle parole e quei toni meritano una riflessione e, ancora di più, una presa di coscienza da parte di tutti i governi europei. In questo senso, i destini politici delle due sponde dell’Atlantico sono legati, oggi più che mai. A giugno si vota per il Parlamento europeo e probabilmente, questa volta, maturerà la consapevolezza di dover dedicare alla politica estera, di sicurezza e difesa comune un’attenzione diversa rispetto al passato. Magari con la nomina di un Commissario alla Difesa o con un “rango” differente da attribuire all’attuale Alto Rappresentante per la politica estera. 

L’atto politico è sempre il più importante. L’operatività e i dettagli arriveranno in un secondo momento. Ad esempio, rimane tuttora improbabile la prospettiva di un esercito unico europeo. Da sempre, gli eserciti si riconoscono nella bandiera degli Stati. Tuttavia, c’è uno spazio enorme per prevedere una catena di comando e controllo comune, per la creazione di brigate multinazionali di reazione rapida alle minacce o per missioni fuori area, per il consolidamento di un comando cibernetico europeo e, soprattutto, per un’industria della difesa che in Europa sa esprimere vere eccellenze ma che soffre di una storica e ormai anacronistrica frammentazione di progetti, programmi, piattaforme e, dunque, investimenti. 

Questa prospettiva rafforzerebbe dunque il cosiddetto “pilastro europeo” della Nato. Quello che Trump – ma non solo lui – vorrebbe vedere più presente e utile, al di là delle sue colorite e controproducenti minacce. 

Gli Stati Uniti chiedono un’Europa strategicamente autonoma

D’altronde il tema del cosiddetto “burden sharing”, di una divisione più equa di ruoli e investimenti tra le due sponde dell’Atlantico, non è nuovo. Negli anni del cosiddetto “dividendo della pace”, dopo la fine della Guerra Fredda, era già una questione ricorrente. Fu l’allora ministro della Difesa italiano, Sergio Mattarella, in un importante discorso tenuto a Budapest nel corso dell’Assemblea parlamentare della Nato, a chiarire come un crescente impegno dello strumento militare europeo servisse a rafforzare la solidarietà atlantica e, dunque, il ruolo della Nato. Il timore paradossale all’epoca era infatti quello di vedere un’Europa più autonoma militarmente e strategicamente e dunque meno vincolata all’alleanza con gli Stati Uniti. Timori, quelli del cosiddetto “decoupling”, su cui anche Washington non nascondeva una certa preoccupazione. 

Oggi, a meno di trent’anni da quell’appuntamento, il tema rimane esattamente lo stesso ma in una prospettiva diversa. Gli Stati Uniti hanno da tempo spostato il loro focus geostrategico verso il Golfo Persico e, soprattutto, l’Asia-Pacifico. Tuttavia, il legame atlantico rimane un architrave essenziale per la sicurezza globale, a maggior ragione in presenza di due guerre, una nel cuore dell’Europa, l’altra nel mezzo del nostro mare comune, il Mediterraneo. 

Ma ormai tutti gli ambienti politici statunitensi sono concordi nell’invocare un maggior impegno e sforzo europeo in materia di sicurezza e difesa. Donald Trump lo fa “da Trump”, minacciando e provocando con toni che non aiutano la discussione e di certo non facilitano la costruzione del consenso politico. Ma se l’intelligence tedesca ha recapitato sulla scrivania del Cancelliere Scholz un corposo dossier sulle conseguenze di un’uscita repentina degli Usa dalla Nato, vuol dire che dobbiamo abituarci a ponderare l’impensabile ma, soprattutto, ad agire rapidamente ed efficacemente. 

Il ruolo della difesa nel processo di integrazione europea

D’altronde sappiamo bene come la costruzione di una casa europea manchi di un pezzo fondamentale. La moneta e la difesa sono i due elementi su cui si fonda la sovranità e la creazione di uno spazio politico integrato. I successi europei in tema di mercati finanziari e unione monetaria sono indubbi. Il pilastro della difesa rimane forse il nostro principale vulnus. È senz’altro un tema di finanziamenti, per cui sarà necessario un impegno crescente in tecnologie e piattaforme civili e militari. Ma è soprattutto un tema di efficienza della spesa e, ancor di più, di volontà politica. 

Sul primo aspetto, quello dell’efficienza, basta osservare i dati. Oggi i Paesi europei hanno in sviluppo almeno tre diverse piattaforme per velivoli militari del futuro, cui si aggiungono programmi multilaterali come il GCAP, cui partecipa anche l’Italia, assieme al Regno Unito e al Giappone. Le capacità nel settore navale sono indiscusse, ma di nuovo frammentate tra programmi nazionali o al massimo di collaborazione tra pochi Stati che non aiutano le economie di scala. Per non parlare delle tecnologie emergenti, legate ad esempio allo spazio cibernetico. Già dal 2008 la Nato ha stabilito a Tallinn il suo comando cibernetico congiunto, dopo il primo attacco su larga scala portato ai sistemi critici in Estonia. Da allora sono passati sedici anni, quasi un’era geologica per la rapidità di cambiamento ed evoluzione del cyberspazio, nel quale i Paesi dell’Unione europea hanno indubbiamente accresciuto le rispettive capacità – difensive e offensive – ma, di nuovo, in maniera frammentata. 

Due elezioni, quelle europee e quelle americane, fortemente intrecciate dunque. Ed è meglio, guardando a cosa accadrà negli Stati Uniti, stare lontani dalla tentazione di pensare che alle minacce non seguiranno mai e poi mai i fatti. Semplicemente, non possiamo permetterci questa illusione. 

Le politiche migratorie europee e tunisine: una ricetta per fallimento e sofferenza

di Refugees International

Dopo mesi di aumento significativo della migrazione irregolare dalla Tunisia all’Europa, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, insieme ad altri leader dell’Ue, hanno scelto di promuovere quella che ritengono la migliore via per produrre risultati immediati: aumentare la fornitura di denaro, attrezzature e formazione alle forze di sicurezza tunisine (FST) per combattere l’industria crescente dell’immigrazione irregolare.

A fine 2023, la Commissione europea ha annunciato di voler creare accordi su “nuovi partenariati operativi anti-trafficanti” che aumenterebbero i controlli alle frontiere, la cooperazione tra le forze di polizia e il reparto giudiziario e quella con le agenzie dell’Ue (ad esempio, Frontex). Il 28 novembre è stata inoltre convocata a Bruxelles una “conferenza internazionale su un’alleanza globale per contrastare il traffico di migranti”. Come ha affermato un alto funzionario dell’Ue a Tunisi a Refugees International, “c’è un forte desiderio da parte di alcuni in Europa di fornire al governo tunisino e alle forze di sicurezza la massima quantità possibile di risorse il più presto possibile per fermare le barche, ora e in futuro”.

La strategia prevista dall’Ue, tuttavia, sembra destinata al fallimento, non raggiungendo l’obiettivo di controllare l’immigrazione irregolare e mancando i criteri più ampi di adesione agli impegni legali, ai principi dei diritti umani e a un’efficace politica migratoria complessiva. Questo approccio dimostra quattro carenze principali.

Le pratiche abusive e autoritarie del governo Saïed

Innanzitutto, a differenza della Turchia (secondo alcuni leader dell’Ue modello di successo per prevenire l’immigrazione irregolare), la Tunisia è uno Stato più debole e diviso che sta diventando ancora più fragile a causa del crescente autoritarismo del presidente Kaïs Saïed. Nonostante l’urgenza di aiuti finanziari per evitare la bancarotta, Saïed continua a minare gli sforzi per ottenere sostegno dal Fondo Monetario Internazionale.

Allo stesso tempo, Saïed ha ripetutamente minacciato stabilità e capacità dello Stato da quando ha sospeso unilateralmente il Parlamento nel luglio 2021, smantellato le istituzioni locali e utilizzato le forze di sicurezza per reprimere l’opposizione politica e imprigionare importanti dissidenti. Saïed ha sistematicamente ridotto l’indipendenza del sistema giudiziario e attaccato la libertà di associazione e quella di stampa.

Meno apprezzato – ma cruciale per gli obiettivi dell’Ue – è il simultaneo indebolimento del settore della sicurezza del paese: già gravemente diviso prima della presidenza di Saïed, appare ora lacerato da una crescente frammentazione e da conflitti interni. Un importante analista politico tunisino ha osservato a Refugees International che il ministero degli Interni, che controlla polizia, Guardia nazionale e Guardia costiera, sta attraversando un ulteriore collasso centrifugo.

Per quanto riguarda la politica migratoria, il governo di Saïed e le forze di sicurezza tunisine hanno risposto non tanto con una gestione professionale della migrazione, quanto con politiche incoerenti e pratiche abusive come le espulsioni illegali nelle aree desertiche e di confine di migliaia di persone durante l’estate 2023. Ciò ha provocato decine di morti e feriti, nonché centinaia di migranti rimasti bloccati senza aiuti. In un altro riflesso dell’approccio illegale adottato, le autorità tunisine hanno effettuato nuove espulsioni alle frontiere nel settembre 2023 trasportando migranti in autobus verso località note per il traffico di esseri umani. In tal modo, i funzionari ne hanno agevolato l’industria e hanno dimostrato pubblicamente che avrebbero periodicamente facilitato gli imbarchi se e quando lo avessero ritenuto necessario.

In questo contesto di crescente fragilità statale, malgoverno e misure illegali, è improbabile che l’attuale governo tunisino sia in grado di allocare efficacemente nuove risorse al settore della sicurezza, attuando riforme di supervisione e responsabilità necessarie per ridurre partenze e migliorare la gestione umana e ordinata della migrazione. Il risultato più probabile è il rinnovato abuso dei migranti con scarso impatto sulle partenze verso l’Europa.

I profitti legati al traffico di esseri umani

Questa realtà è ulteriormente rafforzata dalla presenza di sempre più elementi delle FST che lucrano sulle operazioni di traffico. L’indagine condotta tra agosto e ottobre 2023 da Refugees International indica che quest’ultimi sono da tempo coinvolti nell’industria del traffico di esseri umani del paese. Attraverso dozzine di interviste, tra cui una con dieci funzionari della sicurezza nel sud della Tunisia, è chiaro che i sostanziali profitti disponibili dall’industria del traffico e il debole controllo statale hanno portato a una maggiore collusione da parte delle FST poiché sempre più migranti, rifugiati e richiedenti asilo transitano per e lasciano la Tunisia – mentre l’economia nelle aree meridionali si contrae.

Sebbene i possibili collegamenti tra tale collusione e la leadership delle FST di livello superiore rimangano poco chiari, vi sono minime evidenze di condanne per tali pratiche. Negli ultimi mesi le operazioni di sicurezza contro trafficanti e migranti hanno portato all’arresto di un funzionario della sicurezza, denunciato pubblicamente. Questa assenza di indagini solleva dubbi significativi su come risorse aggiuntive e formazione per le FST possano aver un impatto sui flussi migratori, soprattutto considerando che rimarrà un forte motivo di profitto. Il maggiore sostegno dell’Ue alla repressione dell’immigrazione, unito a occasionali interventi di sicurezza da Tunisi, produrrà solo “risultati” temporanei. Tuttavia, questo potrebbe aumentare la pressione per nuove ondate di abusi, poiché il governo cerca di dimostrare di avere la situazione degli imbarchi sotto controllo.

La rotta tunisina è meno pericolosa

Il terzo fattore che mina gli sforzi dell’Europa per scoraggiare l’immigrazione irregolare attraverso la Tunisia è che, nonostante l’abusività delle FST, le condizioni rimarranno con ogni probabilità relativamente meno terribili rispetto alle vicine Libia o Algeria, dove l’impunità, le violazioni dei diritti umani e i rischi per i migranti sono assai peggiori. Come ha affermato un migrante guineano arrivato a Sfax dopo le espulsioni di inizio luglio: “Almeno in Tunisia sento ancora l’odore della libertà e dei diritti… E questo basta per andare avanti”.

Le condizioni di partenza spingono le persone a emigrare

Questo aspetto, così come la posizione geografica della Tunisia a cavallo tra diverse isole europee, è collegato a un quarto fattore che indebolisce l’attenzione primaria sulla migrazione irregolare e sul traffico di esseri umani: il numero di persone in fuga da guerre, povertà e instabilità nella regione non diminuirà dato che le condizioni che le spingono sono destinate a peggiorare. Il risultato, quindi, è che continuerà a esserci un gran numero di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in transito proprio attraverso la Tunisia. Come in tanti altri luoghi nel mondo, la domanda costante di servizi di traffico di esseri umani per viaggi pericolosi verso le coste europee sarà molto probabilmente soddisfatta da un’industria sempre più radicata; questo accadrà tanto più che lo stato tunisino vacilla e sempre più funzionari si corrompono.

Ripensare le politiche migratorie in difesa dei diritti umani

L’approccio di breve termine nei confronti della Tunisia, avanzato dal “Team Europe”, è quindi destinato a fallire sia sul piano proprio, non riuscendo a contenere l’immigrazione irregolare, sia sul piano giuridico ed etico, vincolando il sostegno dell’Ue all’inevitabilità di gravi violazioni dei diritti umani da parte delle autorità tunisine. Come è stato ampiamente citato dai difensori di tali diritti, dal Ombudsman dell’Ue e da alcuni funzionari europei, l’incapacità dell’Ue di includere garanzie e controlli significativi per gli abusi dei diritti umani in Tunisia la espone a una condizione di complicità. Ciò è in diretta contraddizione con il diritto e i valori dell’Ue.

Se la migrazione informale verso la Tunisia non può essere controllata in modo significativo dalle politiche dell’Ue e della Tunisia, e se quella irregolare dalla Tunisia non può essere scoraggiata a causa della corruzione delle forze di sicurezza e della debolezza generale dello Stato, quali opzioni restano ai politici dell’Ue? Nell’immediato, l’Ue deve essere disposta a porre ferme condizioni su qualsiasi accordo di gestione della migrazione con Tunisi, anche a rischio di far saltare eventuali trattative. Ciò includerebbe, come minimo: cessare gli abusi sui migranti da parte delle FST, in particolare la pratica di detenzione ed espulsione sommaria dei migranti verso le aree di confine, indagare e condannare gli elementi delle FST coinvolti nel traffico di esseri umani e negli abusi sui migranti e facilitare una maggiore espansione dei servizi di aiuto d’emergenza per i migranti attraverso la Mezzaluna Rossa Tunisina e le organizzazioni umanitarie tunisine e internazionali.

L’attuale urgente necessità dell’Ue nel raggiungere un accordo finisce per concedere a Saïed un’enorme leva negoziale, a scapito di garantire un’intesa che potrebbe essere umana o efficace. Nelle consultazioni con Refugees International, alti funzionari dell’Ue a Tunisi e Bruxelles hanno espresso riluttanza nell’adottare misure significative di supervisione o responsabilità sulla cooperazione migratoria Ue-Tunisia, per paura che il governo tunisino abbandonasse il tavolo. Se così fosse, l’Ue avrebbe già perso la prospettiva di un accordo fattibile. Lo scenario predefinito basato sulle pratiche seguite finora dalla Tunisia è che un nuovo accordo farebbe ben poco per affrontare la corruzione che sta parzialmente consentendo l’impennata dell’immigrazione irregolare, ma potrebbe rafforzare il potere delle forze di sicurezza che sono state responsabili di abusi sistematici. In un simile scenario l’Ue otterrebbe scarsi progressi in materia di migrazione, ma si troverebbe a esporre gravemente la propria reputazione.

Adottare una linea più dura con la Tunisia comporterebbe dei rischi: Saïed potrebbe abbandonare un accordo che prevede una significativa responsabilità per gli abusi e misure per mitigare la collusione con i trafficanti. Ma in entrambi i casi i livelli di emigrazione potrebbero non apparire così diversi. Almeno, sollevando il dibattito sui controlli, l’Ue avrebbe la possibilità di dare potere a voci più responsabili all’interno del sistema tunisino che sono rimaste sconvolte dagli abusi, dalla corruzione e dallo smantellamento dello Stato a cui si è assistito nel 2023.

Nel lungo termine, l’Ue dovrebbe riconsiderare la fattibilità di una politica migratoria basata sulla deterrenza nel Mediterraneo. Quasi un decennio di politiche di deterrenza ed esternalizzazione ha spostato l’immigrazione irregolare verso punti diversi, alimentato la crescita di reti criminali che possono renderla più pericolosa e monetizzare la disperazione dei migranti.

È imperativo che l’Ue esplori e attui percorsi di migrazione legale espansivi e incentrati sugli aspetti umanitari. Questo cambiamento può rappresentare la soluzione più efficace per una politica sostenibile a lungo termine che affronti la migrazione irregolare.

La solitudine geopolitica dell’Africa

Dopo la caduta del Muro di Berlino molti esperti hanno teorizzato la “solitudine geopolitica dell’Africa”, la fine, cioè, della rendita geopolitica della guerra fredda che aveva trasformato il continente in uno scacchiere caldo della contesa tra i due blocchi. In effetti, la guerra fredda ha segnato la storia del continente africano a partire dalla conferenza di Yalta del 1945, spartiacque nella legittimazione internazionale della colonizzazione e nel riconoscimento del principio di autodeterminazione dei popoli – stella polare delle rivendicazioni anticoloniali e per l’indipendenza – la cui realizzazione coerente venne ripresa e rilanciata dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. 

L’Africa sarebbe finita, secondo i teorici della “solitudine geopolitica”, nell’irrilevanza geostrategica con la “fine della storia” (F. Fukuyama) e la vittoria del sistema liberal-capitalista nel mondo intero.  L’Europa e gli Usa si disinteressarono del continente, attratti dai paesi ex comunisti che si aprivano alla democrazia e al capitalismo, alcuni avviando il processo di adesione alla Nato e all’Ue. Inoltre, l’Europa era concentrata nell’attuazione delle politiche di convergenza verso la moneta unica con risorse limitate da dedicare alla sua proiezione estera al di là del Mediterraneo.

Verso un nuovo soggetto globale

In verità, questo ritiro dall’Africa avveniva in un momento di effervescenza e cambiamenti. La fine del sistema dell’apartheid con l’ascesa al potere di Nelson Mandela, i processi di democratizzazione dopo decenni di dittatura sotto i regimi di partito unico, le riforme macroeconomiche, sotto la ferrea imposizione della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, dettate dalle logiche del “Washington consensus”, segnano un decennio di svolta.

Prendeva il via la neo “renaissance africainee l’Occidente decideva di abbandonare il continente al suo destino, distratto da altre priorità. La morsa del debito e il tracollo delle economie africane strozzate facevano temere il rischio di un collasso generalizzato in un contesto segnato da conflitti dentro e fuori dai confini degli stati. il genocidio ruandese e le sue ramificazioni in Congo, le guerre di Somalia, le guerre civili in Angola, Centrafrica, Sudan, Liberia finirono per convincere gli strateghi europei dell’irrimediabilità del caos africano e della relativa marginalità. Europa e Usa non hanno però saputo riconoscere la natura dinamica della storia dell’Africa: Ex Africa semper aliquid novi, scrive Plinio il Vecchio, dall’Africa arriva sempre qualcosa di nuovo.

Le rivoluzioni degli anni Novanta portano dentro lo scenario globale un continente che merita uno sguardo nuovo. Sul piano interno una nuova governance s’impone con una leadership che, allora, appariva innovativa e il continente passa in pochi anni dalla cronica stagnazione economica alla crescita. Si cominciò a parlare di rising Africa, emerging Africa per indicare una parte rilevante del continente che si era attrezzata per entrare nella globalizzazione da protagonista. A parte le riforme macroeconomiche e di governance, i paesi si sono dimostrati attrattivi per gli investimenti esteri per sviluppare infrastrutture intra-statali ma soprattutto di rilievo continentale. I grandi cantieri africani del NEPAD rilanciano un nuovo panafricanesimo, , che cambia la vecchia OUA (Organizzazione dell’Unità Africana) in UA (Unione Africana), con un governo (Commissione) e un Parlamento panafricano con sede a Pretoria. Integrazione, sviluppo economico, pace, stabilità e sicurezza sono al centro della nuova Agenda 2063, che condensa la visione dell’«Africa che vogliamo» proiettata verso la globalizzazione con un progetto afrocentrico in partenariato paritario con le altre aree del mondo. 

Dal punto di vista demografico, secondo le previsioni delle Nazioni Unite, nel 2050 l’Africa avrà quasi 2,5 miliardi di abitanti: più del 25% della popolazione mondiale sarà africana. Anche se la crescita demografica rallenterà, l’Africa rimarrà il principale motore della crescita demografica globale: si prevede che rappresenterà quasi il 40% della popolazione mondiale entro la fine del secolo. 

Sotto l’aspetto economico gli africani rappresenteranno un PIL complessivo di tremila miliardi di dollari e costituiscono, dal 2021, un mercato complessivo di tremila miliardi di dollari e 1,2 miliardi di persone. L’area di libero scambio africano potrebbe sviluppare di oltre il 50% gli scambi intra-africani con una ricaduta importante sugli scambi con il resto del mondo, rispettivamente il 29% delle esportazioni e più del 7% delle importazioni. Si attende un aumento significativo del 10% del PIL reale medio pro capite.

I nuovi attori in azione in Africa

Di fronte alla crescita dell’importanza geopolitica dell’Africa, quali sono i nuovi competitors

La Cina è attualmente il principale partner commerciale, nel quadro della Belt and Road Initiative e grazie alla cooperazione bilaterale con l’Africa subsahariana, ed è inoltre, dall’inizio degli anni Duemila, un importante donatore per i Paesi africani, con prestiti volti principalmente a finanziare progetti di infrastrutture pubbliche. Di conseguenza, la sua quota sul totale del debito pubblico estero dell’Africa subsahariana è passata da meno del 2% prima del 2005 a circa il 17% nel 2021, pur rimanendo relativamente bassa sul totale del debito sovrano, pari solo al 6% circa. Dopo il Covid-19, la Cina sta vivendo un rallentamento economico di proporzioni storiche e significative, un calo sostanziale degli scambi commerciali e una riduzione dei prestiti, facendo dell’Africa la sua prima vittima collaterale.

La Russia estende la sua cooperazione in Africa soprattutto nei settori della sicurezza, con accordi militari in più di 20 stati, delle materie prime e dell’energia, anche se, secondo molti esperti, manca un allineamento circa le priorità e le urgenze. Tale disallineamento è emerso al forum Russia-Africa del 2023, dove le discussioni cruciali sulle pressanti sfide esistenziali dell’Africa sono state assenti: l’agenda non è riuscita ad affrontare le preoccupazioni ambientali, la giustizia sociale e gli effetti redistributivi della crescita. 

Gli Stati Uniti rimangono un attore importante, anche se l’Africa occupa un posto secondario nella loro politica estera da diversi anni. È sicuramente in atto anche una competizione strategica con la Cina nel continente africano. A un anno dal vertice tra Africa e Stati Uniti, la Casa Bianca ha tracciato un primo bilancio dell’incontro, con lo scopo di ravvivare le relazioni nel bel mezzo di una guerra di influenza con la Cina. Il 13 dicembre – segnala Le Point – “l’amministrazione Biden si è congratulata per aver firmato quest’anno accordi commerciali record con l’Africa, per un valore complessivo di 14,2 miliardi di dollari. Ma il continente è corteggiato e gli Stati Uniti sono molto indietro rispetto alla Cina in termini di relazioni commerciali, con un volume di scambi tre volte inferiore in termini di valore”. 

Gli arabi sono attivi principalmente nel Corno d’Africa e nel Sahel, dove perseguono interessi economici e di sicurezza. Sebbene gli Emirati Arabi Uniti (EAU), come le altre monarchie del Golfo, abbiano una relazione di lunga data con il Corno d’Africa e il Nord Africa, in particolare attraverso i flussi migratori, il desiderio di sviluppare una vera e propria politica per l’Africa è nato una quindicina di anni fa a Dubai. Inizialmente si è basata sulle opportunità economiche create dallo sviluppo del continente a partire dalla metà degli anni Duemila, e più in particolare dopo la crisi finanziaria del 2008, che ha portato a un riorientamento della strategia di investimento internazionale degli EAU.  

Molti attori internazionali si sono resi conto che, in termini geopolitici, l’importanza del continente nella politica mondiale crescerà nel corso del XXI secolo, anche in considerazione del crescente bisogno di risorse naturali in esaurimento. La futura cooperazione con le società africane avrà enormi implicazioni per i loro paesi. La maggior parte delle grandi potenze sta quindi elaborando “nuove strategie globali con l’Africa“, avviando programmi volti a riposizionarsi sul continente. 

In questa ricomposizione geopolitica globale e africana, quale posto per l’Europa e l’Occidente? Una cosa è certa: è in atto una deoccidentalizzazione delle società e della politica africane. I fatti del Sahel lo dimostrano. Si respingono secoli di predazione economica, di ingerenze politiche e di presunta superiorità culturale, rivendicando un riconoscimento pieno della soggettiva africana e del suo anelito ad un rapporto paritario, dentro uno scambio economico equo e al servizio dell’afrocapitalismo. L’aspettativa, insomma, è quella di un rapporto rinnovato, di rottura con il passato, tra l’Occidente e le afriche. Una sfida che vale la pena affrontare da parte dell’Europa che rischia l’insignificanza geopolitica dentro la nuova Africa. 

È arrivato il momento di agire

Dopo le parole incendiarie di Donald Trump contro la Nato, l’assassinio del leader dell’opposizione Alexey Navalny da parte della Russia, il blocco del Congresso degli Stati Uniti agli aiuti militari a Kyiv per un valore di 60 miliardi di dollari e il ritiro dell’esercito ucraino da Avdiivka, a causa dell’insufficiente sostegno occidentale – consegnando così alla Russia la sua prima vittoria sul campo di battaglia dalla presa di Bakhmut lo scorso anno – si pensava che i leader europei si sarebbero fatti avanti. La loro partecipazione alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco avrebbe dovuto costituire un’occasione per trasformare l’ansia europea per un possibile ritorno di Trump e per il riconoscimento del deterioramento della sicurezza del continente in un’autentica svolta.

Il disimpegno americano in Europa

I messaggi degli americani presenti a Monaco avrebbero dovuto rafforzare ulteriormente la determinazione europea. Pur sostenendo l’impegno globale e dell’America verso l’Europa e l’Ucraina, la vicepresidente Kamala Harris – in un discorso che sembrava diretto più agli elettori del Michigan che ai presenti a Monaco – non ha nascosto che alcuni (o forse molti) negli Stati Uniti la pensano diversamente, e spingono per il disimpegno, l’isolazionismo e il transazionalismo. I membri repubblicani del Congresso presenti lo hanno confermato. Quando il deputato Pete Ricketts, subito dopo aver ascoltato l’appassionato discorso del presidente Volodymyr Zelensky, ha equiparato i problemi dell’Ucraina con la Russia a quelli degli Stati Uniti al confine con il Messico, l’isolazionismo (per essere gentili) è stato evidente. La traiettoria dell’isolazionismo statunitense è diventata ancora più chiara quando il senatore JD Vance ha avuto l’audacia di affermare che Vladimir Putin non rappresenta una minaccia esistenziale per l’Europa. Spero e credo ancora che il Congresso approverà il pacchetto di aiuti all’Ucraina di quest’anno, ma ogni giorno che passa senza questa approvazione si traduce in vite umane ucraine perse. E anche nell’eventualità che questo venga approvato, il sostegno militare degli Stati Uniti all’Ucraina è una battaglia sempre più in salita. La vittoria dell’Ucraina e la sicurezza europea dipendono sempre più dagli europei.     

Si parla sempre più di difesa europea, ma non è ancora abbastanza

Sul versante europeo, sarebbe ingiusto affermare che non sta accadendo nulla. La Presidente della Commissione Ursula von der Leyen si è espressa con forza a favore della difesa europea. Nel preludio a quella che è diventata la sua candidatura ufficiale per un secondo mandato, ha dichiarato che, se rieletta, la sua Commissione nominerà un commissario per la difesa, che potrebbe essere assegnato a un Paese Est europeo. Anche l’Alto rappresentante dell’Ue Josep Borrell e il primo ministro olandese uscente (e forse prossimo segretario generale della Nato) Mark Rutte hanno lanciato forti appelli per una maggiore difesa europea. E non ci sono solo parole: Francia e Germania hanno recentemente seguito l’esempio del Regno Unito, firmando patti di sicurezza bilaterali con l’Ucraina, e l’Italia li ha seguiti nell’accordo firmato pochi giorni fa a Kyiv tra Zelensky e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. La premier danese Mette Frederiksen ha dichiarato che il suo Paese invierà tutta l’artiglieria di cui dispone all’Ucraina. Il presidente ceco Petr Pavel ha annunciato che Praga può inviare 800.000 munizioni a Kyiv. Oltre ai programmi esistenti per il rimborso degli approvvigionamenti militari e di munizioni, l’Ue dovrebbe avviare un programma da 3 miliardi di euro per potenziare la produzione nel settore della difesa. Aumentando notevolmente il livello di ambizione, il primo ministro estone Kaja Kallas ha proposto un piano di eurobond per la difesa da 100 miliardi di euro, raccogliendo il sostegno di diversi leader europei, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron.

Ma questo non è sufficiente. A Monaco, il cancelliere tedesco Olaf Scholz si è astenuto dall’approvare l’invio di missili da crociera Taurus all’Ucraina. Macron e il primo ministro polacco Donald Tusk non si sono presentati e non sono riusciti, insieme a Germania, Regno Unito, Italia e altri, a trasformare la Conferenza nel loro momento “whatever it takes” per l’Ucraina. Sembra che non ci sia un piano B se gli Stati Uniti dovessero fallire con i 60 miliardi di dollari promessi a Kyiv.

La situazione in Ucraina è disastrosa, forse più di quanto si creda. Avdiivka non ha un’enorme rilevanza strategica, ma è certamente più importante di Bakhmut, persa quasi un anno fa. Si prevede che l’offensiva russa prosegua, minacciando di far retrocedere i modesti guadagni territoriali ottenuti dall’Ucraina nella sua controffensiva. Sebbene non sia necessariamente probabile, non si può escludere un crollo della linea di difesa ucraina.

Gli europei hanno compiuto notevoli progressi e la situazione nel 2025 potrebbe migliorare significativamente, poiché i germogli sulla difesa europea seminati nell’ultimo anno inizieranno a dare i loro frutti. Si tratta di un aspetto di importanza esistenziale, soprattutto se dovesse materializzarsi lo spettro del ritorno di Trump alla Casa Bianca. Ma il 2025 è ancora molto lontano e occorre fare molto di più e con urgenza, attraverso politiche europee e non solo bilaterali, per garantire che l’Ucraina tenga la linea e sia in grado di riconquistare il vantaggio militare.

La guerra in Ucraina può essere persa o vinta, non ci sono vie di mezzo. E dato che la sicurezza dell’Europa passa per Kyiv, spetta agli europei, prima di tutto, garantire che l’Ucraina abbia successo.

Von der Leyen ci riprova

Il congresso straordinario del PPE, svoltosi a Bucarest il 7 Marzo, ha designato Ursula von der Leyen come candidata ufficiale (“spitzenkandidat”) del Partito Popolare europeo per la presidenza della Commissione europea. Una decisione secondo le previsioni anche perché erano note da tempo le aspirazioni dell’attuale Presidente per un secondo mandato. Ha sorpreso, invece, che la decisione sia stata più sofferta del previsto (con 400 voti a favore e ben 89 contrari).

I trattati prevedono che il/la Presidente della Commissione sia designato dal Consiglio europeo (con una decisione a maggioranza qualificata e “tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo”) e successivamente eletto dal Parlamento. Si tratta di una disposizione assai generica, ma che, nel corso degli anni, è stata intrepretata nel senso che alla presidenza della Commissione venga eletto un esponente del partito che alle elezioni del Parlamento europeo risulti il più votato e con il maggior numero di seggi.

Lo scenario post-elettorale

Se i dati dei sondaggi saranno confermati, e malgrado una avanzata generalizzata di partiti appartenenti alle famiglie politiche della destra, il PPE dovrebbe confermarsi come partito di maggioranza relativa nel prossimo Parlamento. Inoltre, almeno per l’elezione del Presidente della Commissione, salvo sorprese, dovrebbe potersi ricostituire (anche se con margini più risicati rispetto all’attuale composizione del PE) una maggioranza composta da PPE, Socialisti e Democratici e liberali di Renew Europe, magari insieme ai Verdi. A questa maggioranza potrebbero aggiungersi i conservatori di ECR, se ce ne saranno le condizioni politiche. Mentre appare da escludere un allargamento ai gruppi di Identità e Democrazia e della Sinistra europea.

Ad oggi quindi von der Leyen resta la candidata più gettonata per la Presidenza della Commissione, anche perché finora non sono emerse candidature alternative credibili. Il percorso potrebbe però rivelarsi più complicato del previsto, anche perché non sono mancate critiche all’operato della Presidente uscente, proprio in occasione della sua designazione come candidata. Per ottenere la rielezione, dovrà assicurarsi il sostegno di un numero di governi che rappresentino almeno la maggioranza nel Consiglio europeo. Successivamente, dovrà trovare il sostegno di una maggioranza che la voti in Parlamento, sulla base di un programma di lavoro che dovrà essere condiviso da forze politiche in alcuni casi caratterizzate da sensibilità e obiettivi programmatici diversi.

In Consiglio europeo von der Leyen in principio non dovrebbe avere problemi a trovare una maggioranza disposta a votarla, anche perché vari capi di governo si sono già pronunciati in questo senso. Ma altri hanno già manifestato riserve (Orban prevedibilmente, ma anche Macron non sembra pienamente convinto). La sua vera forza, al momento, resta comunque la mancanza di alternative spendibili.

Più complessa, ma pur sempre affrontabile, appare la situazione al Parlamento, dove von der Leyen, che dovrebbe poter contare sul sostegno del PPE, dovrà convincere i Socialisti e Democratici e i liberali. E poi decidere, e se quanto, allargare la maggioranza ai conservatori di ECR, e soprattutto a quali condizioni.

L’agenda europea di von der Leyen

Su alcuni temi del suo possibile programma von der Leyen ha già dichiarato di non essere disposta a trattare o a fare concessioni. Certamente sulla linea del sostegno all’Ucraina e dell’isolamento della Russia – su cui ha fortemente scommesso fin dall’inizio del conflitto – e sul rilancio del processo di allargamento dell’Ue, su cui ha ugualmente puntato anche per rafforzare la dimensione geopolitica dell’Unione. Verosimilmente anche sull’impegno ad accelerare lo sviluppo di una dimensione di difesa dell’Ue e, infine, sulla difesa dello stato di diritto e della rule of law, tema che la Presidente uscente ha più volte confermato di considerare una priorità anche in vista di future nuove adesioni.

Su altri temi, se vorrà garantirsi una maggioranza in Parlamento, dovrà probabilmente fare alcune concessioni o prestarsi a qualche esercizio di equilibrismo. È quindi probabile che qualche apertura debba essere annunciata sul tema di tempi, modalità e condizioni della transizione energetica rispetto alle ambizioni originarie del Green Deal. È questo, infatti, un aspetto su cui numerose forze politiche (compreso il PPE) stanno chiedendo alla Commissione un ripensamento e una maggiore presa in considerazione dei costi economici e sociali.

Dovrà poi muoversi con abilità sul tema di una politica industriale comune, che non si limiti a definire standard e regole ma che preveda anche investimenti; sul sostegno a interventi per il rafforzamento della competitività dell’economia europea; e sul finanziamento dei costi della transizione energetica e digitale, o di altri beni pubblici europei, con fondi comuni. Difficile però che possa esporsi troppo sull’ipotesi di replicare il modello del NextGenerationEU, con un nuovo ricorso a fondi da finanziare con debito comune garantito dal bilancio dell’Ue, senza mettere in allarme i governi e i partiti rigoristi.

Infine, dovrà muoversi con grande cautela sul tema della gestione dei flussi migratori, cercando di conciliare le richieste di maggiori controlli delle frontiere esterne e maggiore efficacia nella gestione dei rimpatri di migranti irregolari con le esigenze di un mercato del lavoro che ha bisogno di lavoratori stranieri e di flussi di migranti regolari.

Sono questi solo alcuni dei temi dell’agenda europea sui quali sensibilità di governi e gruppi politici fanno registrare le divergenze più evidenti. E sui quali la candidata Presidente dovrà fornire indicazioni programmatiche per quanto possibile inclusive e tali da garantirle un ampio sostegno in Parlamento, preferibilmente senza cadere in un eccesso di genericità. Nella gestione del mandato che sta per scadere, la Presidente uscente ha dato prova di visione strategica e insospettabili capacità tattiche. Sono doti che dovrebbero consentirle una più che probabile rielezione.

Le relazioni internazionali del Governo Meloni

Nella redazione della rivista AffarInternazionali si è svolto un forum organizzato dal magazine dello IAI sulla politica estera del Governo Meloni, a partire dai temi del Rapporto IAI sulla Politica Estera italiana 2023. Erano presenti Virginia Kirst (Corrispondente da Roma per Welt), Giovanna Reanda (Direttrice di RadioRadicale), Danilo Taino (Editorialista del Corriere della Sera) e Jean-Léonard Touadi (Funzionario FAO e docente di Geografia dello Sviluppo in Africa all’Università degli Studi La Sapienza di Roma). Hanno partecipato l’Ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci (Presidente dell’Istituto Affari Internazionali), Leo Goretti (Responsabile del Programma Politica Estera dell’Italia dello IAI e Direttore di The International Spectator), curatori del Rapporto IAI sulla Politica Estera italiana 2023, e Stefano Silvestri (Direttore Editoriale di AffarInternazionali). Ha moderato Francesco De Leo (Responsabile Comunicazione dello IAI e Direttore responsabile della rivista AffarInternazionali). Riportiamo alcuni passaggi del dibattito che è possibile ascoltare integralmente sul sito della nostra rivista nella sezione Podcast di AI.

A cura di Marta Fornacini. 

Ferdinando Nelli Feroci: “il nostro giudizio complessivo è abbastanza positivo”

“Avevamo come compito quello di analizzare la politica estera del governo Meloni nell’arco dell’anno che si è concluso un mese e mezzo fa. Siamo partiti dalla constatazione che il governo si è confrontato con una situazione particolarmente complessa: un quadro internazionale caratterizzato da due conflitti e altre criticità, una situazione economica che non era delle più felici, e continua a non esserlo, con tassi di crescita molto bassi, e un’inflazione ancora molto alta. Una situazione di bilancio – che cito perché in qualche modo impatta sulla politica estera – che, tutto compreso, consentiva scarsissimi margini di azione al governo. Ultimo fattore, le tensioni all’interno della maggioranza tra tre partiti che, pur essendo solidamente a sostegno del governo, comunque nel corso dell’anno hanno avuto bisogno di rimarcare le rispettive identità, creando qualche tensione anche sul fronte della politica estera. Detto questo, il nostro giudizio complessivo è  abbastanza positivo, partendo dal presupposto che avevamo aspettative molto basse e circoscritte. Abbiamo constatato che in politica estera il governo Meloni ha fatto meglio che su altri temi, più strettamente di politica interna. Lo dico guardando a tre o quattro tematiche fondamentali. Sulla guerra in Ucraina abbiamo potuto osservare una notevole continuità di linea rispetto ai governi precedenti, in particolare al governo Draghi; registriamo un saldo rapporto con l’Amministrazione americana che ha un presidente democratico – e lo dico perché, in passato Meloni, aveva espresso non poche simpatie per Trump. Abbiamo potuto riscontrare un impegno solido nella Nato, per la Nato e con la Nato. Abbiamo verificato, anche sul tema dei rapporti con la Cina, una linea saggia e pragmatica, la rinuncia al Memorandum of Understanding, ampiamente prevedibile e prevista, in un contesto di iniziative e sforzi che avevano come obiettivo soprattutto quello di evitare ricadute sotto forma di rappresaglia, di retaliation da parte cinese, e mi sembra che, tutto compreso, almeno per ora, questo obiettivo sia stato raggiunto.

Sulla ripresa del conflitto israelo-palestinese e sulla crisi a Gaza e in Medio Oriente, il governo ha adottato una linea che si colloca evidentemente nel mainstream della posizione condivisa dai paesi occidentali, non di particolare protagonismo, ma un approccio  che si caratterizza per tre elementi: la condanna, ovviamente, degli attentati terroristici di Hamas, appelli non particolarmente pressanti a Israele perché rispetti un minimo di garanzie di diritto umanitario e internazionale nelle operazioni a Gaza e il rilancio dell’ipotesi di un dialogo politico sulla base del famoso slogan, non so quanto attuabile, dei due popoli, due Stati. 

Riguardo al tema dei rapporti con l’Europa, la vera abilità della Presidente del Consiglio – e con lei, in larga misura, anche del governo – è stata quella di accantonare l’atteggiamento pregiudizialmente ostile e antagonizzante, in nome di un approccio molto più pragmatico che qualcuno ha voluto qualificare come “provvidenziale incoerenza”: aver capito, cioè, che, tutto compreso, conviene stare in Europa e con l’Europa, perché si difendono meglio anche gli interessi nazionali. 

Linea molto più sbiadita e meno protagonista sull’altro grande negoziato che ha caratterizzato l’anno scorso: la revisione del Patto di stabilità. E poi quello che ho definito anche pubblicamente lo scivolone più clamoroso: la mancata ratifica del Meccanismo europeo di stabilità, vittima di una campagna elettorale e di un’incapacità e non volontà della Presidente del Consiglio di far valere un punto di vista ragionevole rispetto alle pulsioni e pressioni che le arrivavano in particolare da un partito della maggioranza, la Lega.

Sul tema dell’immigrazione, abbiamo osservato uno spostamento di accento rispetto alle linee tenute dai governi precedenti, dal tema della solidarietà – e quindi dalla richiesta di meccanismi di burden sharing, di redistribuzione dei migranti e dei richiedenti asilo – a quello  del controllo delle frontiere esterne e della collaborazione con i paesi di transito e di origine, come strumenti di gestione dei flussi migratori. Sono testimonianza di questo soprattutto i due accordi: uno, non solo italiano ma anche europeo, con la Tunisia e l’altro, solo italiano, con l’Albania. Su questi abbiamo sospeso il giudizio, perché li vedremo alla prova dei fatti. 

Sul contrasto al cambiamento climatico e alla transizione energetica, abbiamo constatato un atteggiamento particolarmente prudente, non di rimessa in discussione degli obiettivi concordati in sede europea, ma certamente molta più attenzione al tema della sostenibilità economica e sociale delle misure necessarie per garantire la transizione energetica e sicuramente non un ruolo di leadership sotto questo profilo, in un contesto in cui poi l’Italia non è isolata su questa linea di estrema prudenza rispetto al tema ”.

Leo Goretti: in Europa, un approccio intergovernativo rischia di essere perdente per l’Italia

“Se noi guardiamo la politica estera italiana in un’ottica di lunghissimo periodo possiamo dire che il tema di fondo, dall’unità d’Italia in poi, è sempre stato quello del posizionamento del Paese in uno status intermedio tra la media e la grande potenza, con delle oscillazioni continue e un’ambiguità, per certi versi, risolta su questo status.

Dal 1989 in poi, con la fine della guerra fredda, la tematica di fondo della politica estera italiana è stata fondamentalmente quella della gestione del declino della posizione dell’Italia a livello internazionale, ovviamente  in termini relativi. La perdita di centralità della posizione strategica del Paese, nel periodo post guerra fredda, e l’emergere di altri grandi attori a livello globale destinati sempre più a ritagliarsi il ruolo sul proscenio internazionale, hanno fatto sì che questo diventasse il tema di fondo della politica estera italiana. È un aspetto che è tanto più urgente oggi, bastano alcuni dati oggettivi a ricordarlo. Quello più noto è, forse, il rapporto debito pubblico – PIL: siamo il secondo Paese in Europa con la percentuale più alta, 142% e rotti. Ma ci sono anche altre dinamiche di lungo periodo che pesano sulle possibilità per il Paese di sviluppare politiche, per esempio, di innovazione, di sviluppo e una politica estera più assertiva. Tra queste richiamo il tema demografico: il tasso di dipendenza degli anziani in Italia è il più alto dell’Unione europea, già oggi al 37,5%; di qui al 2050 la popolazione del Paese è destinata a diminuire probabilmente intorno ai 54 milioni. Basta pensare che quella francese aumenterà crescendo oltre i 70 per renderci conto di come queste dinamiche a livello europeo stiano cambiando. Non solo, ma nel 2050 si stima che in Italia ci sarà una persona tra i 15 e i 64 anni (quella che, oggi, è considerata l’età da lavoro) per ogni altra persona over 65 o under 14; il grande blocco sarà quello degli over 65, che saranno circa un terzo degli italiani. 

Tutto questo pesa tantissimo sulle possibilità del governo – ma non solo di questo ovviamente – di sviluppare delle politiche, soprattutto in ambito economico, che incidano anche sugli equilibri complessivi a livello europeo. Qui, secondo me, sta il grande paradosso. Noi adesso abbiamo un governo che è guidato da una formazione che alcuni, secondo me in modo improprio, hanno definito populista: io credo che il termine più corretto per descrivere il retroterra ideologico di Fratelli d’Italia sia quello di un nazionalismo democratico. Il punto di fondo, però, è che questa visione nazionalista che si articola in Europa attorno all’idea di un’Europa delle patrie, quindi con una componente molto più intergovernativa che non comunitaria nel processo di integrazione europea, in realtà è una visione che per l’Italia rischia di essere perdente. Questo proprio per i fattori già accennati: per la traiettoria di lungo periodo, per il livello economico e demografico del paese. Di fatto, se ci si pone in una logica strettamente transazionale di negoziazione, secondo una logica da gioco a somma zero, con gli altri paesi si rischia di perdere”. 

Virginia Kirst: “in Germania siamo stati positivamente sorpresi dal governo Meloni”

“Concordo con la gran parte di quello che il Presidente Feroci ha detto nella sua introduzione: anche noi in Germania siamo stati positivamente sorpresi dal governo Meloni, nel primo anno e mezzo è andato effettivamente meglio di quel che si pensava. Nel mio lavoro ho soprattutto cercato di raccontare alla Germania e ai tedeschi come questo governo stia agendo diversamente rispetto a quello che si poteva pensare all’inizio, e ci abbiamo messo tanto tempo per farlo. Un anno fa, quando il governo era già insediato da vari mesi, in Germania si discuteva ancora sui termini di neofascismo e post-fascismo, ma devo dire che, in questo 2023, siamo finalmente riusciti ad andare oltre. I rapporti tra la Germania e l’Italia sono stati buoni, non tantissimo amichevoli, ma è anche stato firmato il contratto di governo tra Germania e Italia che dovrebbe vedere una più stretta collaborazione tra i due parlamenti nei prossimi anni; in Germania è stato accolto come una buona cosa. 

Se si parla dell’approccio del governo italiano all’Ucraina, anche questo è stato ovviamente visto positivamente in Germania. A volte, però, osservando l’aiuto effettivo che l’Italia sta fornendo all’Ucraina, i tedeschi sono un po’ sorpresi dal fatto che non sappiamo esattamente quali armi il paese stia inviando. Effettivamente, molte di queste cose sono ancora secretate: certo abbiamo letto qualcosa su alcuni giornali italiani, e un po’ se ne è parlato, tuttavia manca una cornice più precisa. In Germania e in Francia si è parlato tantissimo di questo tema, mentre l’Italia è sempre rimasta un po’ fuori da questa discussione, se non nell’ambito della retorica dell’appoggio all’Ucraina.

Se guardiamo poi all’Unione europea, anche in Germania ha sorpreso tantissimo la mancata ratifica del MES e, anche in questo caso, è stato difficile spiegare fuori dall’Italia perché questo non è avvenuto: abbiamo fatto del nostro meglio per mostrare le ragioni politiche interne, l’immagine che ha la troika in Italia e il motivo per il quale è stata una cosa politica non poterlo ratificare, ma anche, secondo me, una dimostrazione di debolezza del governo italiano. 

C’è una terza cosa che volevo dire: anche il modo in cui l’Italia, in generale, si è presentata nell’Unione europea è stato accolto sorprendentemente bene in Germania, perché la Presidente Meloni si è sempre dimostrata aperta al dialogo anche sul tema della migrazione”.

Giovanna Reanda: “Meloni, nel corso di questi 15 mesi, si è creata un’aria di affidabilità”

“Per rispondere alla domanda come vedo la politica estera italiana del governo Meloni: rispetto a quello che ci potevamo aspettare, decisamente bene. Io do un giudizio positivo. È chiaro che, in questo mio intervento – io mi occupo essenzialmente di politica interna, però ho la politica estera come primo amore –, non posso che mettermi gli occhiali della politica interna per guardare i fatti esteri. 

Meloni è una Meloni di lotta e di governo: ha condotto, cioè, una campagna elettorale con la quale poi oggettivamente ha preso tanti voti in Italia, vincendo proprio con la linea nazional-conservatrice. Poi però, più draghiana di Draghi, ha portato tutti i tre partiti della sua maggioranza sotto l’ombrello della Nato e dell’Atlantismo. Questo sicuramente è stato tranquillizzante per i partner europei e, nel corso di questi 15 mesi – certo a momenti alterni e. soprattutto. con relazioni bilaterali probabilmente non sempre tranquillissime –, si è creata un’aria di affidabilità. Anche rispetto, per esempio, al rapporto con Orban: aver fatto passare il concetto di averlo convinto a non mettersi di traverso rispetto agli aiuti all’Ucraina ha determinato nei partner europei un’idea che lei sia oggettivamente un personaggio e un politico affidabile. Non ci dimentichiamo che comunque veniva dopo Draghi ed è chiaro che il confronto rimane per lei non particolarmente facile da superare.  

La vicenda dell’Ucraina è stata centrale sia perché ha rappresentato decisamente un momento di grande sconvolgimento sia da un punto di vista geopolitico, ma anche per le questioni legate all’economia e ai rapporti fra i paesi. Per la sua compagine di maggioranza, Meloni ha dovuto tenere sopito il fatto che ci fosse un filo-putinismo – in alcuni casi strisciante, in altri molto più evidente – che sicuramente avrebbe rappresentato un grossissimo problema se fosse emerso in tutta la sua potenza. 

Tornando al discorso delle prossime elezioni europee, dato che siamo in pienissima campagna elettorale, è un po’ la politica dei due forni: Giorgia Meloni ha iniziato una relazione, stringendo un rapporto anche personale con Ursula von der Leyen. Non ci dimentichiamo che Ursula von der Leyen l’ha accompagnata a Lampedusa e quello è stato sicuramente un momento in cui l’Europa si è affacciata al problema immigrazione. Ricordiamoci, inoltre, quello che Meloni diceva in campagna elettorale e anche negli anni precedenti: penso al blocco navale e a tutte queste idee anche un po’ fantasiose e decisamente poco realizzabili. Ursula von der Leyen è venuta in Emilia Romagna quando c’è stato il problema dell’inondazione; quindi è stata presente. Questa è un po’ una coperta che Meloni si è costruita. Penso che, in realtà, stia giocando la sua partita nella Commissione europea perché lei questa partita è convinta di vincerla e, detto francamente, per come si sta muovendo, potrebbe addirittura riuscirci. Chiudo citando Weber che probabilmente era convinto, nel fare quella apertura, di riuscire a portarla al centro: e se invece Meloni portasse il centro a destra?

Danilo Taino: le elezioni europee e negli Stati Uniti rappresenteranno due momenti delicati per il governo Meloni

“Credo che possiamo sottolineare la continuità del governo Meloni con il governo Draghi.  Questa è una delle note più positive. Credo che il governo andrà incontro – e soprattutto la presidente – a due momenti particolarmente delicati e difficili nel corso di quest’anno. E sono naturalmente entrambi legati alle elezioni: quelle europee e quelle negli Stati Uniti. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, credo che non sarà facile il rapporto con Trump. È vero che in passato Meloni l’ha apprezzato e probabilmente continuerebbe a farlo, se per caso (non ne sono troppo convinto) Trump dovesse vincere. Questo è un primo punto delicato che, secondo me, è abbastanza importante per il governo. Siamo, infatti, in una fase nella quale è richiesto ai paesi europei che fanno parte della Nato di investire di più. Credo che l’Italia dovrebbe spingere, assieme ad altri paesi, per un’integrazione maggiore dei sistemi di difesa europei: il procurement che deve essere rafforzato e reso comune, investimenti per quel che riguarda gli standard comuni che devono essere creati, una ristrutturazione sostanziale del settore della difesa per quel che riguarda l’Europa. Credo che qui l’Italia, che ha una forte presenza nell’industria bellica e della difesa, possa giocare un ruolo. Non sono, in generale, particolarmente favorevole ai piani industriali e agli interventi di stato nell’economia. Tuttavia, nel caso della difesa e in questo momento, con il disordine globale che abbiamo di fronte, credo che questo sia una necessità, per quel che riguarda l’Europa. Soprattutto dopo le dichiarazioni di questi giorni di Trump, credo che non ci possano essere dubbi da questo punto di vista. Mi piacerebbe addirittura un mercato comune della difesa in Europa, se fosse possibile una cosa del genere. 

Il secondo punto che vorrei sottolineare è quello delle elezioni europee che ci saranno fra poco. Credo che questo sarà un passaggio determinante per capire quale sarà il ruolo, la posizione e la capacità di influenza dell’Italia all’interno dell’Unione europea. Non ho grandi speranze per quel che riguarda l’influenza italiana in Europa, o in generale nel mondo, penso però rappresenti un momento decisivo non solo sulla base di come andranno le elezioni, ma anche sulla base di quali scelte farà il governo italiano, e in particolare la Presidente Meloni, per quel che riguarda i voti e la creazione della prossima Commissione europea. Credo sarà importante vedere come l’Italia si colloca e capire se il governo italiano resisterà alla pressione che si creerà in quel momento. 

C’è un ultimo punto che vorrei toccare, che mi sta molto cuore e che credo non sia solamente un problema italiano, seppure qui sia particolarmente forte: la pigrizia con la quale il governo, gli intellettuali e i media stanno affrontando la lettura di quello che sta succedendo nel mondo e di questo disordine internazionale. Credo ci sia una pigrizia che può diventare facilmente nichilismo, nel senso che non si riesce, o non si vuole, spiegare qual è la posta in gioco veramente nel mondo, quali sono gli equilibri e quanto forte possa essere l’impatto dell’aggressione all’Ucraina, dell’aggressione di Hamas e dell’Iran e – direi, complessivamente – dell’aggressione nei confronti delle democrazie, sul nostro paese e sulle democrazie europee. Su questo c’è un’assenza di riflessione e di senso dell’urgenza che, secondo me, anche il governo dovrebbe prendere in considerazione in maniera molto più decisa. C’è una responsabilità collettiva e anche questa va a creare, penso io, la politica estera di un paese”.

Jean-Léonard Touadi: “Il piano Mattei è un testo che andava scritto” 

“Il piano Mattei è un testo che andava scritto. Non sono d’accordo con quelli che dicono che sia un guscio vuoto: intanto qualcuno lo doveva mettere sul tavolo ed è bene che sia stato proposto. Però è un testo da inserire nel  contesto dell’Africa attuale. Si pensava, dopo la caduta del muro di Berlino, a una specie di solitudine geopolitica del continente africano, perché non poteva più vivere della rendita politica della guerra fredda (ma molto calda nel continente) tra i due blocchi. L’Europa, in questo momento, si ritira, secondo me, dal continente africano perché attratta dall’eldorado dell’Europa dell’Est, più vicina, più facile, più simile anche agli europei occidentali, e poi perché impegnata nella sua propria convergenza in vista della moneta unica. Nel frattempo, però, questa solitudine geopolitica dell’Africa è durata poco. Due fatti bisogna notare. Anzitutto, proprio negli anni dopo la caduta del muro di Berlino, l’Africa passa dalla stagnazione alla crescita: anche dal punto di vista politico, l’inizio dei processi di democratizzazione e il pluralismo guidato dal carisma di Nelson Mandela, che a metà degli anni Novanta arriva in sud Africa, portano questa nuova renaissance africaine, rinascita africana, quindi un emerging Africa, come descritto da The Economist, rising Africa, un nuovo protagonismo del continente africano. Questo, però, insieme a un nuovo arrembaggio al continente africano, the new scramble for Africa, simile a quello della rivoluzione industriale: la nuova economia ha bisogno di materie prime, di risorse naturali di cui l’Africa abbonda,  soprattutto nei segmenti più avanzati della New economy, la nuova economia digitale, il cobalto tra gli altri. In questa nuova competizione verso il continente africano due sono i maggiori protagonisti: la Cina, sicuramente, che in pochi anni diventa il primo partner commerciale del continente africano e anche il più grande investitore. Gli Stati africani non guardano più a Bretton Woods, alla Banca Mondiale, al fondo monetario internazionale a causa delle troppe condizionalità, delle procedure troppo lente, delle richieste di riforme economiche e di governance economica. La Cina non chiede, apparentemente, quasi nulla: soldi in abbondanza, a tassi di interesse molto, molto vantaggiosi e soprattutto il pagamento si può fare in natura. Ma, e quello interessava gli africani, promette non ingerenza negli affari interni, quindi nessuna condizionalità democratica, nessuna ricerca di riforme economiche e così via dicendo. Questo porta tutta l’Africa nelle braccia della Cina. Tuttavia, nell’attuale teatro di una gigantesca ricomposizione geopolitica e geostrategica, accanto a Cina e Stati Uniti ci sono anche le mezze potenze, se così si possono chiamare: la Turchia, la Russia, il Giappone, i paesi arabi, che non si raccontano abbastanza. La Turchia si racconta, ma non si fa abbastanza con il protagonismo degli Emirati Arabi Uniti nel continente africano. Il piano Mattei arriva in questo contesto e penso sia un tema davvero fondamentale della proiezione estera dell’Italia. È un piano che, per ora, abbiamo cominciato a veder nascere con il discorso della presidenza del Consiglio davanti ai Capi di Stato che ha riunito qui a Roma. Un successo, comunque, perché erano presenti 38 delegazioni su 54, e nessuno pensava che si potesse raggiungere quella partecipazione. Era presente anche l’Europa ed era molto importante che ci fossero i vertici europei e la presenza dell’Unione Africana”. 

Stefano Silvestri: “ci aspettavamo disastri e non sono avvenuti”

“Il governo Meloni approfitta del fatto che ci aspettavamo disastri e non sono avvenuti, per cui adesso noi ne decantiamo le lodi, ma non esageriamo. Se, come sappiamo, è la politica interna che guida le scelte di politica estera della Meloni, io non sarei molto ottimista. Perché, in politica interna, tutto sommato, questo governo non ha superato completamente i suoi ideologismi, i suoi problemi, per esempio la modifica della Costituzione nel senso del premierato. Non so come e se riuscirà mai a passare, ma è una chiara indicazione ideologica che non ha fondamenta veramente serie e, se passasse, sarebbe un grosso impoverimento del sistema democratico italiano, perché indebolirebbe il sistema di checks and balances. Ora, una visione positiva di quello che ha fatto: è andata sulla continuità, ma direi che è stata molto aiutata dal fatto che, come era ovvio, questo governo sarebbe stato un governo filo-americano, perché era l’aggancio più evidente che poteva avere. Ma è stata aiutata anche dal fatto che il governo americano era guidato da Biden e questo le ha permesso anche di coprire, rispetto ai suoi alleati di governo, una politica più filo-europea, perché Biden è filo-europeo. Se ci fosse un Trump alla Casa Bianca – ipotesi che mi auguro non si realizzi – creerebbe una situazione molto più conflittuale su tutto e, probabilmente, anche con una forte funzione americana di critica ai maggiori Paesi europei e all’Unione Europea. Forse, anche una maggiore spinta protezionista, ma quella già c’è oggi perché in realtà dipende dalle posizioni del Congresso. In quel caso, molto probabilmente, tutto sarebbe aperto: non abbiamo certezze su come si comporterebbe un governo italiano, non solo un governo Meloni per altro. Ci sarebbe da vedere quanto regge l’Unione. Per quanto concerne la Nato, l’Italia è allineata e coperta, ma non se passiamo a una situazione più di polemica con gli Stati Uniti. Perdere l’aggancio con gli Stati Uniti significherebbe, evidentemente, per il governo Meloni perdere un po’ la sua stella polare. Altro punto di possibile preoccupazione: adesso ci avviamo in un periodo molto difficile del conflitto ucraino, perché da un lato bisognerà continuare a sostenere la resistenza ucraina all’attacco russo, ma dall’altro bisognerà prepararsi a una soluzione, perché non c’è una chiara prospettiva di vittoria sulla Russia; nel mentre bisognerebbe cercare di evitare la possibilità di una vittoria russa sull’Ucraina. Da un lato significa mantenere la solidarietà e dall’altro aprire canali di trattativa. E questo non è mai facile, in particolare se dall’altra parte c’è un personaggio così ideologicamente motivato e che si sta giocando il tutto per tutto come Putin. L’altro problema che, secondo me, stiamo cercando di evitare in tutti i modi ma rischia di scoppiarci in faccia è quello del Medio Oriente. La totale assenza di iniziative – non che mi stupisca molto, l’Italia non può fare un granché – maschera, secondo me, un’assenza, un’incertezza di allineamento, non si sa bene che cosa fare”.

Di fronte alle bande, Haiti estende lo stato di emergenza

La situazione ad Haiti continua a peggiorare. Il porto della capitale si è fermato di fronte alla recrudescenza della violenza delle bande che ha costretto le autorità del Paese caraibico a prolungare lo stato di emergenza a Port-au-Prince. Le bande criminali, che controllano la maggior parte della capitale e le strade che conducono al resto del Paese, stanno attaccando da diversi giorni i siti strategici del Paese in assenza del contestato Primo Ministro Ariel Henry, di cui chiedono le dimissioni insieme a una parte della popolazione. Secondo le ultime notizie, Henry è bloccato a Porto Rico.

Il Paese, attualmente senza presidente né parlamento, non tiene elezioni dal 2016 e Ariel Henry, nominato dal presidente Jovenel Moïse poco prima del suo assassinio nel 2021, avrebbe dovuto dimettersi all’inizio di febbraio. Il capo della diplomazia statunitense, Antony Blinken, ha parlato con Henry della “necessità urgente di accelerare la transizione verso un governo più ampio e inclusivo (…) che abbia l’ampiezza necessaria per guidare il Paese attraverso un periodo elettorale”, ha dichiarato un alto funzionario statunitense.

Nel frattempo, le autorità haitiane hanno emesso un “decreto che dichiara lo stato di emergenza di sicurezza in tutto il dipartimento occidentale“, che comprende la capitale, “per un periodo di un mese” e hanno decretato un nuovo coprifuoco notturno fino a lunedì. In contemporanea, Caribbean Port Services S.A., l’operatore del porto della capitale, ha annunciato la sospensione delle sue attività a causa di “disturbi all’ordine pubblico”, citando “atti dolosi di sabotaggio e vandalismo” dal 1° marzo.

Fuga di detenuti e violenza crescente mettono Haiti in ginocchio

Un primo stato di emergenza, accompagnato da un coprifuoco – difficile da far rispettare – era già stato dichiarato domenica 3 marzo, dopo che bande armate avevano attaccato le carceri, provocando la fuga di migliaia di detenuti. Nella serata di sabato 2 marzo, infatti, almeno una dozzina di persone sono state uccise dopo che i membri di una banda hanno attaccato la prigione principale della capitale. “Sono stati contati molti corpi di detenuti”, ha dichiarato all’AFP Pierre Espérance, direttore esecutivo della Rete Nazionale per la Difesa dei Diritti Umani (RNDDH), spiegando che il giorno seguente nel penitenziario nazionale di Port-au-Prince rimanevano solo un centinaio di detenuti su circa 3.800 prima dell’attacco delle bande armate.

Tra le infrastrutture strategiche prese di mira dalla violenza delle bande negli ultimi giorni ci sono anche tribunali e stazioni di polizia. Secondo un conteggio dell’Unione nazionale dei funzionari di polizia di Haiti (Synapoha), dall’inizio degli attacchi coordinati delle bande, 10 edifici della polizia sono stati distrutti e due prigioni civili sono state attaccate e svuotate dei loro detenuti.

Mentre le autorità e le scuole rimangono chiuse, molti residenti stanno cercando di fuggire dalla violenza.

Molte strutture sanitarie “sono chiuse o hanno dovuto ridurre drasticamente le loro attività a causa di una preoccupante carenza di medicinali e dell’assenza di personale medico”, ha avvertito l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA), riferendosi a un sistema sanitario “prossimo al collasso”.

Un influente leader di una gang, Jimmy Chérizier detto “Barbecue”, ha avvertito che se il Primo Ministro Henry non si fosse dimesso e la comunità internazionale avesse continuato a sostenerlo, il Paese di circa 11 milioni di abitanti si sarebbe “diretto verso una guerra civile che avrebbe portato al genocidio”.

Il leader non è potuto tornare ad Haiti, impedito in particolare dalla mancanza di sicurezza intorno all’aeroporto internazionale.

Giovedì mattina Ariel Henry si trovava ancora a Porto Rico, dove era atterrato martedì, ha dichiarato all’AFP un portavoce della polizia di frontiera del territorio caraibico statunitense.

Richiesta urgente di intervento internazionale per fermare il caos

L’associazione Réseau National de Défense des Droits Humains en Haïti (RNDDH) ha denunciato l’inazione dello Stato haitiano, accusandolo di essersi “dimesso”. “Le strade della capitale e dell’intero dipartimento occidentale sono date in mano ai banditi armati. E il popolo haitiano è semplicemente abbandonato al suo destino”, ha scritto.

Per combattere le bande, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato in ottobre l’invio di una missione di sicurezza multinazionale guidata dal Kenya, che intende inviare 1.000 agenti di polizia. Ma il suo invio è stato ritardato dal sistema giudiziario keniota e da una evidente mancanza di fondi. Non è stata fissata alcuna data per l’arrivo della missione.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite è “molto preoccupato per il deterioramento della situazione della sicurezza”, ha dichiarato il suo portavoce. Antonio Guterres “invita il governo di Haiti e gli altri attori politici a concordare rapidamente le misure per far avanzare un processo politico verso il ripristino delle istituzioni democratiche attraverso lo svolgimento di elezioni”, ha aggiunto Stéphane Dujarric, ribadendo l’importanza dell’atteso dispiegamento della missione di sicurezza internazionale guidata dal Kenya per “evitare che il Paese precipiti ulteriormente nel caos”.

“Dobbiamo urgentemente fare di più”, ha dichiarato giovedì l’alto funzionario statunitense Brian Nichols, affermando che la crisi ad Haiti richiedeva “una risposta internazionale, nello stesso modo in cui la comunità internazionale sta rispondendo alle sfide in Ucraina o a Gaza”.

Giovedì 7 marzo, l’ONG Medici senza frontiere ha pubblicato un’indagine sulla mortalità ad Haiti negli ultimi 10 anni, rivelando “livelli estremi di violenza subiti dai residenti della baraccopoli di Cité Soleil a Port-au-Prince”, con “quasi il 41% dei decessi legati alla violenza e un tasso di mortalità grezzo di 0,63 morti per 10.000 persone al giorno” tra agosto 2022 e luglio 2023. “MSF aveva già osservato tassi di mortalità simili nel 2017 nei campi di Raqqa, la città siriana che un tempo era una roccaforte del gruppo Stato Islamico”, secondo l’ONG, che ha annunciato di aver intensificato la sua presenza a Port-au-Prince per far fronte all’afflusso di feriti.

© Agence France-Presse

Biden e il discorso sullo stato dell’Unione

“Non conta l’età, contano le idee: le mie sono giovani e ci uniscono, quelle di Trump sono vecchie e ci dividono”. Nel discorso sullo stato dell’Unione, il presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, spiega all’America perché scegliere lui, e non Trump, alle elezioni presidenziali del 5 novembre; e annuncia la costruzione di un porto a Gaza.

La nuova strategia industriale Ue per la difesa

La European Defence Industrial Strategy pubblicata il 5 marzo rappresenta una novità rilevante nel panorama dell’Europa della difesa, per almeno quattro motivi.

Prontezza industriale per sostenere le forze armate europee

In primo luogo,  alla luce della guerra russa in Ucraina, ci si concentra sulla prontezza (readiness) militare e industriale dell’UE nel proteggere i propri cittadini e territori, sancendo che la capacità di produrre in Europa gli equipaggiamenti per le forze armate europee è una precondizione per la sicurezza e pace dell’Unione. Parlare di prontezza e non di autonomia strategica (termine che non compare mai nel lungo documento) serve anche a superare le divisioni politiche, più o meno ideologiche, su quest’ultimo obiettivo preservandone la sostanza: ovvero la capacità europea di agire militarmente con adeguato supporto industriale per proteggere la propria sicurezza ed i propri interessi.

Tale impostazione dovrebbe anche aiutare a connotare positivamente l’industria dell’aerospazio e difesa rispetto ad altre politiche Ue su temi quali l’ambiente, l’energia, la sostenibilità, la finanza etica, in modo sinergico e realistico rispetto al complesso dell’economia europea e alla sicurezza che ne è precondizione essenziale. Ad esempio, la Strategia invita la Banca Europea per gli Investimenti a cambiare entro il 2024 la propria politica sui prestiti per concederli anche all’industria della difesa.

1,5 miliardi di euro per le acquisizioni congiunte

In secondo luogo, la Strategia è rilevante perché mette sul piatto ulteriori 1,5 miliardi di euro entro il 2027, gia’ stanziati nella revisione di medio termine dell’attuale bilancio settennale UE, nel quadro del nuovo European Defence Industry Programme (EDIP), volto a finanziare acquisizioni congiunte da parte degli stati membri. Lo stanziamento è molto modesto rispetto alle ipotesi a doppia cifra ventilate nei mesi scorsi dai vertici dell’Unione. Tuttavia, come in altri casi nella storia recente delle politiche Ue in questo campo, la Commissione procede gradualmente per definire le normative, testare i meccanismi e preparare il terreno a strumenti più ambiziosi, e la Strategia pone esplicitamente l’obiettivo di un finanziamento EDIP molto più corposo nel prossimo quadro finanziario 2028-2035.

Il bilancio EDIP servirà a finanziare procurement cooperativo tra gli stati membri, che rimarranno gli unici proprietari dei mezzi prodotti: si rispetta così la sovranità  nazionale nel campo della difesa (nessun esercito europeo in vista nei prossimi decenni), ma si istituzionalizza e allarga il superamento del tabù sull’acquisto congiunto con bilancio comunitario di sistemi d’arma, iniziato nel 2023 con le misure emergenziali per comprare proiettili di artiglieria per l’Ucraina.  Dopo i vaccini, il gas naturale e le munizioni, la logica di acquisto congiunto UE viene applicata da questa Strategia al complesso del mercato della difesa.

Strumenti concreti ma non semplici

Il cambio di paradigma avviene tramite una serie di strumenti, non semplici, che nel complesso rappresentano una terza novità concreta per la cooperazione tra gli stati membri: finanziamento ad hoc per costituire extra scorte di prodotti da tenere pronte in caso di crisi, ampliando così la capacità produttiva e le economie di scala; esenzione IVA per prodotti acquistati congiuntamente; rimborso dei costi amministrativi per gli stati membri nel partecipare a programmi cooperativi, a volte un onere burocratico che ostacola la volontà politica di cooperare.

Vi è inoltre una spinta verso il mutuo riconoscimento delle certificazioni nazionali e la standardizzazione dei requisiti, in modo da ridurre la frammentazione dei mercati nazionali sul lato della domanda, e verso un regime europeo per la sicurezza degli approvvigionamenti con una serie di garanzie per gli stati membri se acquistano da fornitori UE.

Infine, la Strategia cerca di porsi in modo sinergico con le varie iniziative europee già lanciate dal 2017 in poi, dalla Permanent Structured Cooperation (PESCO) allo European Defence Fund (EDF), fino alle ultime misure quanto a rimborso di donazioni militari europee all’Ucraina e co-finanziamento di acquisto congiunto di munizioni. Proprio rispetto a Kiev, il documento punta ad una cooperazione tecnologica e industriale nella difesa, in primis sui droni, prevedendo un forum annuale UE-Ucraina a partire dal 2024.

Verso un Commissario europeo alla difesa?

Ultimo ma per importanza, la Strategia segna uno spostamento nell’equilibrio tra stati membri e Commissione, e tra quest’ultima e l’Alto Rappresentante, ovvero tra i livelli intergovernativo e comunitario in questo campo. Il documento è l’ultimo passo nella costruzione di un ruolo autonomo della Commissione nel campo della difesa, rispetto sia all’Alto Rappresentante che alla European Defence Agency (EDA). Non a caso prevede l’istituzione di un “Board” consultivo tra stati membri, Alto Rappresentante e Commissione, che però sarà presieduto solo da quest’ultima quando si tratta di gestire l’EDIP e i suoi finanziamenti. Tra l’altro, la gestione di EDIP da parte del Board comprende anche una nuova funzione di programmazione del procurement, incluse le priorità per i finanziamenti UE, che finora è stata fatta dagli stati membri e condivisa solo limitatamente in ambito EDA.

In altre parole, nella pratica si supera definitivamente la logica del Trattato di Lisbona che, dando alla stessa persona il triplo cappello di Vice Presidente della Commissione Europea, Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza UE e vertice dell’EDA, puntava a far “parlare con una sola voce” l’Unione nel campo della difesa. Questa logica ha retto fino al mandato dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini (2014-2019), ma di fatto negli scorsi 5 anni il Commissario Thierry Breton, responsabile per la Direzione Generale Defence Industry and Space, è stata una voce autonoma, forte e di pari importanza (se non maggiore, visto che gestisce un budget complessivo di decine di miliardi di euro) rispetto a quella dell’attuale Alto Rappresentante Joseph Borrell.

Si tratta di un cambio graduale ma strutturale di equilibri e poteri e favore della Commissione, e di determinati Commissari e/o Direzioni Generali, rispetto al quale si inserisce anche il dibattito su un eventuale Commissario europeo alla difesa nella prossima legislatura, che porti avanti come minimo tutto il portafoglio di politiche industriali UE in questo settore. Una dinamica che l’Italia dovrà tenere ben presente nel formulare e attuare la propria strategia per ottenere delle posizioni apicali UE rilevanti per gli interessi nazionali, in seguito all’elezione del nuovo Parlamento Europeo il prossimo giugno.

Un bicchiere pieno a metà

Se il bicchiere della Strategia UE è mezzo pieno, è anche mezzo vuoto. Da un lato, il ruolo assegnato alle forze armate europee nel definire la domanda del mercato della difesa, in primis tramite l’EDA, è troppo limitato rispetto alla preponderanza del rapporto tra  Commissione e industria, e questo squilibrio rischia di portare conseguenze negative.

Dall’altro lato, l’Alleanza atlantica è appena accennata nella strategia, en passant e in un paragrafetto in penultima pagina, riflettendo uno stato dei rapporti NATO-UE non adeguato rispetto alla minaccia russa e alle ambizioni della dichiarazione congiunta 2023 sulla “partnership strategica” tra i due attori.

In ogni caso, il bicchiere c’è ed è mezzo pieno, cosa non scontata due anni fa, e ora sta agli stati membri e alle istituzioni UE continuare a riempirlo di scelte, azioni e investimenti reali.

Le primarie del Super Martedì confermano la forza di Biden e Trump

Le primarie del Super Martedì confermano la forza di Biden e Trump, ormai quasi certi della nomination, ma anche le loro debolezze. E Nikki Haley, che vince in Vermont, potrebbe covare una candidatura da indipendente.

Elezioni in Iran: vince il boicottaggio del voto

di Enrico la Forgia, vicedirettore Lo Spiegone, e Viola Pacini, caporedattrice MENA

Venerdì 1 marzo si sono svolte in Iran le elezioni valide per l’Assemblea Consultiva Islamica, organo con funzioni legislative, e l’Assemblea degli Esperti dell’Orientamento, con funzioni più religiose e clericali.

Nonostante i risultati siano abbastanza scontati, con i principalisti (ovvero i conservatori) in netto vantaggio rispetto ai riformisti, queste elezioni rimangono un valido termometro politico per interpretare gli umori politici del Paese, soprattutto per quanto riguarda i giovani. Di fatto, queste erano le prime elezioni a svolgersi dopo l’ondata di proteste scatenata dal femminicidio di Jina “Mahsa” Amini, la 23enne curdo-iraniana uccisa dalla polizia morale nel settembre del 2022 per aver “indossato male” il velo.

Il sistema elettorale iraniano per i due organi “democratici”

Gli iraniani sono stati chiamati a votare per i due organi rappresentativi del Paese: l’Assemblea Consultiva Islamica, ovvero il Parlamento, e l’Assemblea degli Esperti dell’Orientamento. Potevano recarsi alle urne tutti i cittadini che hanno compiuto la maggiore età e godono dei diritti politici.

Nel caso del Parlamento, i seggi sono 290, di cui 5 riservati alle minoranze del Paese – ovvero ebrei, cristiani caldei, cristiani assiri, zoroastriani e armeni, che votano i propri rappresentanti in maniera distinta. I restanti 285 seggi sono divisi tra le 196 circoscrizioni, divise in due diverse tipologie collegiali.

I collegi uninominali sono caratterizzati da un sistema maggioritario a doppio turno con voto limitato (un’unica preferenza esprimibile), in cui i candidati devono superare almeno il 25% delle preferenze nel primo turno per venire eletti. I collegi plurinominali prevedono invece un sistema maggioritario con voto illimitato. Ogni elettore ha tanti voti quanti il numero di seggi disponibili, che vengono quindi assegnati ai candidati con più preferenze fino all’esaurimento. Anche in questo caso, è necessario superare la soglia del 25% delle preferenze per venire eletti.

Qualora rimangano dei seggi vacanti per mancato raggiungimento del quorum minimo, viene organizzato un secondo turno di votazioni con il doppio dei candidati rispetto al numero di posizioni da coprire. Quale organo legislativo, l’Assemblea Consultiva Islamica ha il compito di discutere, approvare e respingere le leggi.

L’Assemblea degli Esperti dell’Orientamento

L’Assemblea degli Esperti dell’Orientamento è un organo composto da 88 mujtahid, ovvero figure con alte competenze religiose e legislative autorizzate a interpretare la legge islamica senza doversi basare su sentenze precedenti.

Vista l’età e lo stato di salute dell’attuale ayatollah Ali Khamenei (classe 1939), l’assemblea sembra ricevere più attenzione rispetto al Parlamento, in quanto è anche l’organo che si esprime sulla successione alla carica di Guida Suprema della Repubblica islamica, il capo dello Stato iraniano. I mujtahid vengono nominati per elezione diretta del popolo (votano tutti gli aventi diritto) per un mandato della durata di 8 anni.

Va sottolineato che i candidati all’Assemblea degli Esperti devono essere approvati dal Consiglio dei Guardiani, il quale ha scartato la maggior parte di coloro che si erano presentati quest’anno, approvandone solo 15.200 su circa 50.000. Inoltre, i membri dell’Assemblea degli Esperti che vincono le elezioni devono ricevere il consenso dall’ayatollah prima di entrare pienamente nelle proprie funzioni. Un meccanismo che lascia pochi dubbi sull’indipendenza dei mujtahid.

Un dato importante è che all’ex presidente Hassan Rouhani, definito l’uomo dei liberali moderati, è stato impedito di candidarsi, mentre solo 30 riformisti sono riusciti a strappare l’approvazione del Consiglio dei Guardiani, sintomo di un organo ormai quasi completamente pilotato dal clero, dall’ayatollah stesso e, in generale, dalle frange islamiste più conservatrici del Paese.

L’affluenza alle urne come dato più significativo

Il risultato più significativo è la bassissima affluenza alle urne. Se i vertici di Stato temevano di venire delegittimati con un’affluenza inferiore al 40% – come nelle elezioni precedenti alla Rivoluzione islamica del 1979 -, l’affluenza è comunque andata molto vicina alla fatidica soglia d’epoca monarchica, fermandosi intorno al 41%.

Tuttavia, è da evidenziare come l’affluenza sia in caduta libera dalle elezioni del 2016, quando si superò il 60% di affluenza sulla scia dell’accordo sul nucleare e le concessioni economiche da parte occidentale. Il ritiro degli Usa dall’accordo stesso e la crisi economica fecero poi crollare l’affluenza al 43-44% nel 2020, ed è presumibile che l’ondata di proteste del 2022 e l’acuirsi della crisi abbiano spinto ancora più in basso la partecipazione popolare.

Secondo una raccolta di sondaggi incrociati e analizzati dal Middle East Institute, vi è una spaccatura nella partecipazione tra gli iraniani over 60 e gli under 30 (che costituiscono oltre il 40% della popolazione). Risulta infatti che solo il 24% dei giovani in tale fascia di età avrebbe votato, contro il 34% a livello nazionale e l’oltre 50% degli iraniani over 60.

Le mosse del regime e la risposta popolare

Come da prassi, lo Stato ha annunciato di tenere aperte le urne anche dopo la scadenza del termine per votare. Ufficialmente, questa estensione avrebbe dovuto permettere alle presunte lunghe code fuori dai seggi di esprimersi, ma in realtà è servita per rosicchiare qualche punto percentuale all’affluenza e mantenere un minimo di parvenza di legittimità.

Un altro esempio di manovra tesa a legittimare i candidati è stata l’elezione all’Assemblea degli Esperti di Ebrahim Raisi, l’attuale Presidente del Paese, che si è assicurato per la terza volta un seggio con oltre l’82% dei voti dalla provincia del Khorasan meridionale. Inizialmente non vi erano altri candidati alla medesima posizione, perché il Consiglio dei Guardiani aveva depennato tutti i possibili avversari. Tuttavia, è stato presentato all’ultimo minuto un concorrente fantoccio, il quale ha modificato il proprio distretto di appartenenza per concorrere contro Raisi.

La bassissima affluenza alle urne e i trucchi che il governo ha dovuto adottare per infondere una parvenza di legittimità alle elezioni sono il sintomo di qualcosa di più profondo: una generale sfiducia verso i vertici del potere.

Le frange meno conservatrici della popolazione, in particolare i più giovani, hanno percepito queste elezioni come una misura cosmetica da parte di un regime che ha deluso le aspettative dei propri cittadini, fallendo nei compiti di migliorare le condizioni economiche e lavorative del Paese e garantire le libertà personali. La stessa coalizione del Fronte Riformista non ha presentato candidati, definendo il processo elettivo insensato e ineffettivo. Anche l’ex Presidente Mohammad Khatami, di orientamento riformista, ha boicottato il voto.

Un regime insicuro?

Abas Aslani, ricercatore presso il Centre for Middle East Strategic Studies di Ankara, ha visto in queste elezioni non solo un esempio dell’insoddisfazione dei cittadini, ma anche un sintomo dell’insicurezza da parte del regime. Nonostante abbiano in pugno il Parlamento, l’esecutivo e il sistema giudiziario, i conservatori devono prepararsi alle elezioni presidenziali previste per il prossimo anno, i cui risultati, a questo punto, non possono essere dati per scontati.

La scarsa fiducia nei confronti dell’Assemblea degli Esperti e del clero in generale, inoltre, aggiunge un punto interrogativo in più sulla successione alla carica di ayatollah, viste le condizioni di Ali Khamenei. Quando verrà il momento, l’Assemblea degli Esperti sarà in grado di leggere gli umori del Paese e optare per figure più popolari e “progressiste” o proseguirà sulla linea ultra-conservatrice tracciata dall’attuale Guida Suprema?

Corte Suprema Usa: Trump eleggibile alle primarie

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha eliminato un potenziale ostacolo alla riconquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump, respingendo all’unanimità la sentenza di un tribunale del Colorado che aveva dichiarato l’ex presidente ineleggibile per le sue azioni durante l’assalto al Campidoglio, stabilendo che uno Stato non può prendere una simile decisione.

La sentenza a favore dell’ex presidente è arrivata alla vigilia delle primarie del Super Tuesday, quando 15 Stati, tra cui il Colorado (nord-ovest), terranno contemporaneamente le primarie per le elezioni presidenziali di novembre, che dovrebbero consolidare la marcia di Trump verso la nomination repubblicana per sfidare il presidente Joe Biden a novembre.

Si è trattato del caso elettorale più importante ascoltato dalla Corte da quando ha bloccato il riconteggio dei voti in Florida nel 2000, con il repubblicano George W. Bush in vantaggio di poco sul democratico Al Gore.

La decisione della Corte Suprema

La questione sottoposta ai nove giudici era se Trump non fosse idoneo a comparire sulla scheda elettorale delle primarie presidenziali repubblicane in Colorado per aver partecipato all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, quando centinaia di suoi sostenitori, infiammati dalle sue infondate accuse di brogli elettorali, hanno preso d’assalto il santuario della democrazia americana, nel tentativo di impedire la certificazione della vittoria del suo avversario democratico, Joe Biden.

Con una decisione di 9-0, la Corte, dominata dai conservatori, ha dichiarato che “la sentenza della Corte Suprema del Colorado… non può essere accettata”, il che significa che Trump può comparire sulla scheda elettorale delle primarie dello Stato. “Tutti i nove membri della Corte sono d’accordo con questo risultato”, si legge nella sentenza, anche se un conservatore e i tre giudici liberali hanno dissentito su alcuni aspetti tecnici. Essi criticano il presidente John Roberts e gli altri quattro conservatori della Corte per essere andati oltre l’ambito del caso, stabilendo anche le condizioni in cui il Congresso potrebbe esercitare il suo potere di squalificare un candidato.

Trump ha salutato la decisione, dichiarando una “Grande vittoria per l’America!” in un post sul suo sito web Truth Social e ha reso omaggio ai nove giudici, tre dei quali sono stati nominati durante il suo mandato, per aver “lavorato così velocemente, così diligentemente e così brillantemente”.

“Questa non è in alcun modo una vittoria per Trump”, ha reagito Noah Bookbinder, presidente del gruppo di cittadini anti-corruzione Crew, che ha avviato il procedimento in Colorado, sottolineando che la Corte Suprema si è pronunciata esclusivamente “su basi tecniche legali” e non sui fatti.

Il 14° emendamento e la responsabilità al Congresso

Il 14° emendamento – citato dalla Corte suprema del Colorado lo scorso dicembre per escludere Trump dalle elezioni dopo l’assalto al Congresso – fu adottato nel 1868 ed era rivolto ai sostenitori della Confederazione separatista, sconfitta nella guerra civile americana (1861-1865), con lo scopo di impedire loro di essere eletti al Congresso o di ricoprire cariche federali. La sezione 3 di tale emendamento escludeva, infatti, dalle più alte cariche pubbliche chiunque avesse compiuto atti di “insurrezione o ribellione” dopo aver giurato di difendere la Costituzione.

Durante le due ore di discussione del mese scorso, i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti, sia conservatori che liberali, hanno espresso preoccupazione per il fatto che siano i singoli Stati a decidere quali candidati possono essere presenti sulla scheda elettorale per le presidenziali di novembre. Da qui, la decisione presa dalla Corte Suprema che, come molti esperti avevano previsto, non si è avventurata nel campo minato della qualificazione delle azioni dell’ex presidente, ma ha affermato che “la responsabilità di applicare la Sezione 3 contro i titolari e i candidati di cariche federali spetta al Congresso e non agli Stati“, e che il principio si applica “in particolare (alla) Presidenza”. Lasciare che ogni Stato decida separatamente la questione potrebbe risultare in una vera e propria “trapunta patchwork”, in cui “un candidato potrebbe essere dichiarato ineleggibile in alcuni Stati e non in altri, sulla base della stessa condotta”, ha osservato la Corte.

Il Segretario di Stato del Colorado, Jena Griswold, si è detta “delusa dalla decisione della Corte Suprema che priva gli Stati” del potere di rimuovere i candidati federali dalle schede elettorali: lo Stato dovrebbe essere in grado di escludere gli insurrezionisti “che rompono il giuramento”.

La sentenza rende di fatto nulle altre sfide statali simili all’apparizione di Trump alle primarie, anche nel Maine, che vota anch’esso il Super Tuesday. Il Segretario di Stato del Maine, Shenna Bellows, ha dichiarato che l’esclusione di Trump dal voto è stata ritirata, scrivendo in un comunicato che i voti espressi per Trump “saranno contati”.

La sua unica rivale rimasta alle primarie repubblicane, l’ex governatrice della Carolina del Sud Nikki Haley, ha dichiarato alla CNN di essere soddisfatta della decisione. “Sto cercando di sconfiggere Donald Trump in modo leale e corretto. Non ho bisogno che lo tolgano dalla scheda elettorale per farlo”, ha detto.

Le altre controversie legali

La Corte Suprema, storicamente restia a farsi coinvolgere in questioni politiche, quest’anno è al centro della scena nella corsa alla Casa Bianca. Oltre al caso del Colorado, l’Alta Corte ha accettato di ascoltare la richiesta di Trump di essere immune da procedimenti penali in quanto ex presidente e di non poter essere processato per le accuse separate di aver cospirato per rovesciare le elezioni del 2020. Trump è stato messo sotto impeachment dalla Camera dei Rappresentanti a maggioranza democratica per aver incitato all’insurrezione, ma è stato assolto grazie al sostegno dei repubblicani al Senato.

Il 25 marzo è previsto il processo a New York con l’accusa di aver coperto il pagamento di denaro sporco a una pornostar in vista delle elezioni del 2016.

In un altro caso, Trump deve affrontare accuse federali in Florida per essersi rifiutato di consegnare documenti top secret dopo aver lasciato la Casa Bianca.

© Agence France-Presse

 

Trump e il Super-Martedì

Negli Usa, nell’imminenza del Super-Martedì, i giudici nominati da Trump sembrano inclini a favorire la strategia della dilazione dei legali del magnate. Il rischio è che l’ex presidente si sottragga con cavilli ad ogni giudizio prima dell’elettronica day il 5 novembre.

La Finlandia e il suo nuovo Presidente, Alexander Stubb

Giovedì 29 febbraio il presidente finlandese Sauli Niinistö ha tenuto la sua ultima conferenza stampa in qualità di Capo di Stato della Finlandia. Il suo mandato presidenziale, durato 12 anni, termina infatti venerdì 1° marzo, con l’insediamento ufficiale del nuovo Presidente della Repubblica, Alexander Stubb.

Proveniente del partito conservatore, il nuovo Presidente – che, per i suoi 56 anni, ha un curriculum sia nazionale che internazionale di tutto rispetto e un’ampia esperienza europea sia politica che professionale – si trova a rappresentare sulla scena mondiale un piccolo Stato con una grande reputazione. Il suo programma elettorale, e presumibilmente quello come Presidente, si basa su tre pilastri: apertura, sicurezza e internazionalizzazione. In qualità di leader, Stubb si impegna a promuovere un dialogo aperto sulla politica estera e a sostenere l’importanza della collaborazione con gli alleati sia nell’Unione Europea che nella Nato.

Inoltre, la Finlandia è una società di benessere aperta, che si fonda su principi di democrazia liberaleeconomia di mercato e globalizzazione. Stubb è orgoglioso del successo del suo Paese nel periodo post-indipendenza e si impegna a preservare le tradizioni che hanno contribuito a costruirlo.

In sintesi, il suo programma si concentra su un’apertura basata su valori democratici, una sicurezza garantita da una forte difesa e una visione internazionale che tiene conto dei cambiamenti globali e delle sfide del mondo moderno.

È probabile che, in linea generale, il nuovo Presidente non si discosterà troppo dalla linea prudente del suo predecessore. Ma la Finlandia di cui Niinistö prese la guida nel 2012 è alquanto cambiata dopo 12 anni: la Russia è stata sempre un vicino ingombrante che, dopo l’aggressione all’Ucraina, è divenuto ancora più temibile e pericoloso, ragione principale per la quale il Paese ha lasciato la sua storica politica di neutralità per aderire alla Nato.

Le sfide della politica estera e l’immutato sostegno all’Ucraina

Il Presidente finlandese uscente Sauli Niinistö, approssimandosi la scadenza del suo incarico, ha confermato il pieno sostegno della Finlandia all’Ucraina e l’impegno ad avere “la capacità e le risorse per sostenere l’Ucraina a lungo termine”, aggiungendo la necessità di provvedere a un rapido aumento della produzione industriale della difesa – dato che evidenzia i timori finlandesi che la Russia rivolga la sua attenzione aggressiva verso i vicini baltici.  Niinistö non sottovaluta l’impegno anche a lavorare per la pace, ribadendo il sostegno “alla formula di pace del presidente Zelenskyj e all’iniziativa per un vertice di pace. L’Ucraina merita una pace giusta e duratura che ne rispetti la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale”.

Sull’immutato sostegno all’Ucraina, è intervenuta anche la ministra finlandese degli Esteri Elina Valtonen, riaffermando la ferma condanna della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, considerata una grave violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite.  Valtonen sottolinea come la Finlandia chieda alla Russia di cessare immediatamente le ostilità e di ritirare le sue truppe dall’Ucraina, condannando l’occupazione e l’annessione illegale della Crimea.

La Finlandia fornisce all’Ucraina un sostegno multiforme, che include materiale di difesa, aiuti materiali, assistenza umanitaria e accoglienza dei profughi. Ad oggi, nei due anni trascorsi, ha investito circa 2,5 miliardi di euro in aiuti militari e civili all’Ucraina, uno sforzo non indifferente per un Paese di meno 6 milioni di abitanti. Inoltre, sostiene l’attuazione e il rafforzamento delle sanzioni dell’Ue contro Russia e Bielorussia, appoggia l’istituzione di un tribunale speciale per il crimine di aggressione contro l’Ucraina e sostiene l’Ucraina nel suo percorso di integrazione nell’Unione Europea e nella Nato.

Le sfide della politica interna

Dal 2012 a oggi, la Finlandia ha affrontato diverse sfide e cambiamenti in termini di situazione sociale, welfare e debito pubblico.

Secondo le previsioni della Banca di Finlandia, il debito pubblico rispetto al PIL si avvicinerà al 75% entro la fine del 2025. Questo richiederà tagli significativi alla spesa e aumenti delle tasse nei prossimi mandati parlamentari. Il Paese ha bisogno di rafforzare le finanze pubbliche per affrontare le sfide future e garantire spazio di manovra per le generazioni successive.

La spesa per la protezione sociale è aumentata costantemente dal 2012 al 2022, raggiungendo circa 63,1 miliardi di euro nel 2023. Nel 2024, sono previsti cambiamenti significativi nel sistema di sicurezza sociale, compresi tagli al welfare e regole più chiare per i costi abitativi. La Finlandia è un Paese guida internazionale nel benessere e nella sostenibilità, ma ci sono ancora sfide da affrontare per garantire un benessere completo e inclusivo.

Inoltre, il Paese si trova ad affrontare cambiamenti demografici, come l’invecchiamento della popolazione, che aumentano la necessità di servizi sanitari e sociali. La disoccupazione a lungo termine rimane un problema, nonostante la crescita economica degli ultimi anni. In sintesi, la Finlandia sta cercando di bilanciare la crescita economica, la spesa pubblica e le sfide sociali per garantire un futuro sostenibile e inclusivo.

Sul problema immigrazione ha accolto un numero significativo di migranti negli ultimi anni, soprattutto dalla Siria e dall’Iraq, il che ha posto sfide all’integrazione dei migranti e al sistema di accoglienza. Il governo ha adottato misure per migliorare l’integrazione dei migranti e contrastare l’immigrazione illegale.

Infine, la Finlandia è uno dei paesi più colpiti dai cambiamenti climatici, con un aumento delle temperature e delle precipitazioni. Il governo ha adottato misure per ridurre le emissioni di gas serra e promuovere l’utilizzo di energie rinnovabili e si è impegnato nella lotta contro i cambiamenti climatici a livello internazionale.

Oltre a queste sfide, la Finlandia ha anche fatto grandi progressi in diversi settori: l’istruzione finlandese è considerata una delle migliori al mondo, è un leader globale nell’innovazione e nella tecnologia ed è un Paese con un elevato tenore di vita e un forte senso di coesione civica.

In definitiva, il nuovo Presidente, sincero europeista, ha energie, competenze e ‘sisu’ (forza e resistenza) per affrontare una nuova fase della storia del suo Paese, anche confidando nella tradizionale coesione dei suoi cittadini.

Lo scenario critico della Repubblica Democratica del Congo

Alle semifinali della Coppa delle Nazioni in Africa a inizio febbraio, i giocatori congolesi hanno usato l’inno nazionale per protestare, coprendosi la bocca con una mano e usando l’altra per imitare una pistola puntata alla testa. L’obiettivo del gesto politico e di protesta era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione di milioni di congolesi colpiti dalle violenze in corso nella parte orientale del Paese.

A febbraio di quest’anno l’escalation di tensioni nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) sta nuovamente mettendo in crisi la sicurezza nella regione orientale del Paese africano, in particolare nelle due province Nord Kivu e Sud Kivu. Le violenze di queste ultime settimane sono gli eventi più recenti di un conflitto che va avanti da decenni,  combattuto principalmente dalle forze armate congolesi (FARDC) e dal gruppo di ribelli M23 (“March 23 Movement”), e di una delle crisi umanitarie più lunghe e complicate del mondo. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per l'”escalation di violenza” dopo che l’M23 ha bombardato l’aeroporto di Goma, capoluogo della provincia Nord Kivu, danneggiando gli aerei militari congolesi.

Il Movimento del 23 Marzo (M23)

I ribelli del movimento M23 prendono il nome dall’accordo di pace del 23 marzo 2009, firmato tra il governo dell’ex presidente Joseph Kabila — figlio del predecessore Laurent-Désiré Kabila — ed il gruppo armato Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP).  I membri del movimento sono congolesi ma appartenenti alla minoranza etnica tutsi e molto legati ai tutsi ruandesi. Infatti, il gruppo opera nella provincia del Nord Kivu al confine con il Ruanda. Gli atti di ribellione sono iniziati nell’aprile 2012, quando i membri si sono ammutinati contro il governo della RDC e il contingente di pace della Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo (MONUSCO). Le ragioni sottostanti sono di carattere etnico, economico e politico. L’M23, infatti, giustifica la propria  esistenza denunciando la scarsa attuazione dell’accordo del 23 marzo 2009 che prevedeva che il CNDP diventasse un partito politico e che i propri  combattenti si integrassero nell’esercito congolese (le FARDC), e sostenendo di difendere gli interessi delle minoranze congolesi di lingua tutsi e kinyarwanda. Dopo il 2013, il gruppo di ribelli è rimasto dormiente per quasi dieci anni finché, dal novembre 2021, si è nuovamente scontrato con l’esercito nazionale nel territorio di Rutshuru nel Nord Kivu, accusando il governo di non rispettare gli accordi di Nairobi del 2013. L‘M23 ha lanciato nuovi attacchi alla fine dello scorso anno e li ha intensificati nelle ultime settimane, minacciando di conquistare la città chiave di Sake, a circa 27 chilometri a ovest di Goma.

Il conflitto latente tra Congo e Rwanda

Kinshasa accusa da tempo Kigali di sostenere i ribelli dell’M23 e così anche le Nazioni Unite. Le accuse si fondano non solo sui recenti avvenimenti ma anche sulla lunga storia conflittuale tra i due Paesi, che ha visto il coinvolgimento degli Stati vicini e di numerosi gruppi di ribelli armati di diverse nazionalità ed etnie. Entrambi i Paesi, dopo l’indipendenza dal Belgio, hanno visto guerre civili, scontri tra tribù, dittature e, nel caso del Ruanda, il genocidio del 1994. Quest’ultima tragedia ha avuto una diretta ripercussione sul vicino Congo-Kinshasa, dove sono scappati circa 2 milioni di Hutu colpevoli (o considerati colpevoli) del genocidio e perseguitati dal governo Tutsi dell’attuale presidente ruandese Paul Kagame. Se negli anni Sessanta il Congo aveva accolto i rifugiati tutsi perseguitati dagli Hutu (favoriti dai belgi) garantendogli la cittadinanza, negli anni Duemilanon è successo lo stesso con gli Hutu ma anzi, questi sono stati accolti come rifugiati nei campi profughi al confine tra i due Paesi.

Nel frattempo tra il 1996 e il 1998 la RDC ha visto due guerre civili in cui sono stati coinvolti diversi Paesi africani, tra tutti il Rwanda. Se durante la prima, risultata nel 1997 con l’assassinio del dittatore Mobuto Sese Seko e l’autoproclamazione del presidente Laurent-Désiré Kabila, Kagame ha appoggiato quest’ultimo e le forze rivoluzionarie, durante la seconda, nel 1998, Kabila e Kagame si sono trovati ad appoggiare forze opposte. Infatti, mentre il presidente ruandese sosteneva le forze ribelli che volevano deporre Kabila (The Rally Congolese Democratic, RCD), Kinshasa per proteggersi armava i rifugiati Hutu nei campi profughi. Nel 1999 e 2002 vengono firmati degli accordi di pace con l’intervento delle Nazioni Unite, che decidono di aprire una missione nella RDC, la MONUSCO, ancora oggi in fase di ritiro delle proprie truppe.

Il presidente Kagame, di origine Tutsi, e le vicende passate rendono facile propendere per la credibilità delle accuse dei congolesi e della comunità internazionale. Ma il passato e l’etnia non sono le uniche ragioni. Infatti, la regione Kivu al confine tra i due Paesi è ricca di diamanti e coltan.

Interessi economici e la crisi umanitaria

La regione del Kivu a nord-est del Congo e confinante con il Ruanda non solo è ricca di risorse minerarie ma da decenni influenza le relazioni commerciali tra questi Paesi e altri, come l’Uganda, giocatore attivo nelle vicende conflittuali tra i due vicini. Per Kigali la RDC orientale è una destinazione chiave per le esportazioni informali e non di materie prime del Ruanda, mentre la RDC esporta verso il Ruanda minerali di contrabbando, che vengono poi riesportati ufficialmente. Questi minerali, in particolare l’oro, rimangono un’importante fonte di valuta estera per un Paese con un notevole deficit commerciale come il Ruanda.

È risaputo e comprovato che le ricchezze naturali del Congo sono una delle cause principali dei conflitti, della povertà, della corruzione interna e della lunga e complicata crisi umanitaria nel Paese. “I combattimenti hanno ulteriormente aggravato una situazione umanitaria già disastrosa”, ha detto Bintou Keita, Rappresentante speciale del Segretario Generale nella RDC e Capo della MONUSCO al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Secondo l’OCHA, nel 2024, più di 25,4 milioni di persone – un quarto della popolazione – avranno bisogno di assistenza. Fino al 31 dicembre 2023, più di 9,6 milioni di persone erano in movimento nella RDC, tra cui 6,5 milioni di sfollati interni, 2,6 milioni di rimpatriati e 527.000 rifugiati, rendendo la crisi degli sfollati nel Paese una delle più grandi al mondo e seconda solo al Sudan. Le epidemie sono notevolmente diffuse, in particolare il colera e il morbillo, e gli shock climatici stanno peggiorando le condizioni di vita delle popolazioni vulnerabili, con forti piogge e inondazioni fluviali che hanno colpito circa 2,1 milioni di congolesi e causato 300 morti, solo tra la metà di novembre 2023 e gennaio 2024.

La crisi umanitaria e il conflitto in corso nella Repubblica democratica del Congo sono lontani dall’essere risolti. Nonostante i decenni di presenza e l’intervento anche militare delle Nazioni Unite, la missione MONUSCO è considerata da molti fallimentare. Il Congo-Kinshasa rimane uno Stato fondamentale per la stabilità della regione centrafricana, per il commercio dei minerali e i flussi migratori nel continente, e queste tensioni potrebbero causare squilibri anche negli altri Paesi.

Draghi e il rapporto sulla competitività: sfide finanziarie e politiche per il futuro dell’Ue

di Antonio Pollio Salimbeni

C’è molta aspettativa per il rapporto sulla competitività che Mario Draghi presenterà a fine giugno e servirà per il prossimo ciclo europeo dopo le elezioni (cioè dal 2025). Con ogni probabilità, è più di quanto si possa chiedere a un lavoro del genere. In cerca di una bussola per distinguere tra le numerose priorità quali sono quelle effettivamente più importanti, la Ue si affida alla credibilità e all’arguzia dell’ex banchiere centrale ed ex premier per definire meglio ciò che è già abbondantemente chiaro si debba fare: come tenere insieme i tanti fili rossi che legano capacità di crescita economica ben oltre gli “zero virgola”; recupero di una posizione competitiva che rifletta effettivamente i livelli di sviluppo tecnico e le dimensioni del mercato europei; raggiungere una “autonomia strategica” – ormai quasi diventato un buzzword del gergo politico – nell’energia, nella fornitura delle materie prime necessarie per realizzare gli obiettivi pro clima e la trasformazione digitale; difendere la dimensione industriale del continente. Più sicurezza e difesa, dimensione che costituisce la vera novità che l’Ue non può più considerare una semplice aggiunta a un lungo elenco.

Il rapporto sul mercato interno di Enrico Letta

Si parla meno del rapporto che sta preparando l’ex premier Enrico Letta sul mercato interno. A metà settembre, negli stessi giorni, ci sono stati l’annuncio della presidente della Commissione von der Leyen che Draghi avrebbe preparato il rapporto sul futuro della competitività europea con l’obiettivo di fare “tutto il necessario, costi quel che costi, per mantenere il proprio vantaggio competitivo” (si ricordi il draghiano whatever it takes dell’estate 2012 che stese la rete di sicurezza sull’euro e bastò solo l’avvertimento); e l’annuncio dell’incarico a Letta dalla presidenza Ue per produrre entro marzo 2024 una relazione di alto livello su mandato del Consiglio Europeo del giugno scorso. Stranezze bruxellesi, al limite della comprensione, riflesso di molta confusione ai piani alti delle istituzioni europee. Perché se c’è una cosa chiara è che “il mercato unico, uno dei più grandi e integrati del mondo, è al cuore della nostra competitività”, come è scritto proprio nelle prime due righe dell’ennesima relazione su mercato interno e competitività Ue pubblicato e metà febbraio proprio dalla Commissione.

Il rapporto sulla competitività europea di Mario Draghi

A Draghi viene chiesto di produrre un’analisi e una valutazione dello stato delle cose presenti, dei rischi che corre la Ue se prevalesse un atteggiamento business as usual. Ormai è molto chiaro che non si tratterà solo di una robusta disamina fattuale dei divari competitivi di cui soffre l’Europa per limiti propri ma anche – occorrerebbe finalmente riconoscerlo – per capacità e non solo per la slealtà degli altri grandi concorrenti globali. D’altra parte, non è che si difetti in analisi, si difetta in chiarezza dell’agenda di lavoro e di effettiva coesione politica tra i governi nel realizzarla. Dunque, il rapporto Draghi si annuncia anche – e soprattutto – come una disamina delle opzioni per uscire dal vago e fissare i paletti di una strategia credibile. Una sveglia alla Ue, il cui suono è già arrivato a governi e parlamento europeo, si vedrà poi con quali risultati.

Le discussioni tra i ministri finanziari della settimana scorsa a Gent e Draghi hanno fatto luce su un aspetto decisivo della questione: la questione dei finanziamenti necessari per realizzare gli obiettivi strategici che sono tanto economici (doppia transizione verde e digitale) quanto politici (sicurezza e difesa). Il capitale pubblico, né quello di ogni singolo paese né quello condiviso a livello Ue, non è sufficiente a finanziare e/o attrarre capitali a fronte di una massa enorme di spese stimabile in diverse centinaia di miliardi di euro all’anno per 10-20 anni. Molti stati sono altamente indebitati e non possono indebitarsi ancora di più, anzi dovranno esserlo meno in un contesto in cui è sempre più difficile gestire le proteste sociali. Neppure basterà il capitale prestato attraverso il sistema bancario, dal quale le società non finanziarie europee restano prevalentemente dipendenti. Paradossale che nessuno rivendichi il valore della riforma delle regole di bilancio appena concordata, segno che per gli investimenti necessari si tratterà di un pannicello caldo.

Finanza e politica: un approccio europeo unificato

Occorre agire sugli investimenti e sul risparmio privato. La Francia prefigura un girone di serie A di paesi che unifica il proprio mercato dei capitali con il consenso volontario di banche e gestori di fondi, sotto supervisione unica, per offrire titoli di debito comuni con trattamento fiscale comune. Immediato il no tedesco. Il ministro francese Le Maire ricorda che il risparmio europeo vale 35 mila miliardi di euro, di cui circa un terzo “dormiente” in banca. L’anno scorso il deflusso finanziario netto dall’area euro è ammontato a circa 250 miliardi circa, il grosso diretto verso gli Stati Uniti, segnala la BCE. Si delinea il vero problema: attrarre il capitale privato nel finanziamento delle politiche europee, che si traducano in progetti di investimento, in spesa nazionale (anche nella difesa), dunque in produzione di beni comuni, in ricerca e innovazione. Cose che in Europa si fanno, ma adesso è la scala che cambia la natura delle cose.

La sfida della finanza diventa sfida politica e viceversa ed è proprio su questo intreccio che, con ogni probabilità, Draghi potrà dare indicazioni di lavoro di un certo spessore. Per ora si è limitato a indicare che assicurare denaro pubblico a livello Ue è uno dei fattori che farà la differenza. Ai ministri ha presentato fattualmente delle opzioni non necessariamente alternative: fondo speciale per finanziare investimenti pro competitività; prestito (come Next Generation EU); partnership pubblico/privato centrate sulla Banca Europea degli Investimenti. Evidente la sua preferenza per “un approccio europeo unificato”. A metà febbraio si è nuovamente pronunciato a favore dell’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti (“amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleggerendo alcune pressioni sui bilanci nazionali”). Da tempo ribadisce come il vero rischio per l’Europa, “se non diventa un’unione più profonda, un’unione capace di esprimere una politica estera e una politica di difesa, oltre alla politica economica, non sopravviverà se non come mercato unico”. Che ve ne siano le condizioni politiche attualmente è un altro discorso. Dipenderà anche dall’aggravarsi o meno del contesto globale (guerre in corso, chi andrà alla Casa Bianca, relazioni con la Cina) e se si opterà per soluzioni “coraggiose”, termine ripetuto varie volte a Gent o a Bruxell es, ma non da tutti.