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Trump 2, una presidenza nel segno della rivalsa e della vendetta

Il secondo mandato di Donald Trump si caratterizza come una presidenza nel segno della rivalsa e della vendetta: nel mirino, deep State, Università, studi legali, singoli individui.

 

Ecuador al ballottaggio: la sfida tra Noboa e Gonzalez per il futuro del Paese

di Miriam Viscusi

Il 13 aprile, i 13 milioni di cittadini ecuadoriani torneranno alle urne per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Nel primo turno del 9 febbraio infatti nessun candidato ha ottenuto la quantità di voti necessaria (il 50% più uno oppure il 40% con una differenza col secondo candidato di almeno il 10% dei voti).

A sfidarsi al ballottaggio saranno il presidente in carica, l’imprenditore 36enne Daniel Noboa – che a febbraio ha ottenuto il 44,17% dei voti – e Luisa Gonzalez, 47 anni, rappresentante di Revolución Ciudadana, partito di sinistra “neosocialista” fondato dall’ex presidente Rafael Correa. Gonzalez, al primo turno, ha ottenuto il 44% dei voti, a soli 16.000 voti di distanza da Noboa.

La situazione a pochi giorni dal voto

L’esito del voto sarà condizionato da una terza forza politica, quella delle popolazioni e confederazioni indigene, il cui candidato Leonidas Iza (del partito Pachakutik) ha ottenuto oltre il 5% dei voti a febbraio (più di 530.000 consensi). Molte posizioni del suo programma (come quelle relative alla giustizia sociale e alla questione ambientale) sono più vicine a Gonzalez che a Noboa.

Il che ha portato la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie), di cui Pachakutik è il braccio politico, ad annunciare la firma di un accordo programmatico con Revolución Ciudadana. Il patto mira a essere un accordo su singoli temi – in nome dell’“unità contro le destre antidemocratiche” – piuttosto che un vero e proprio endorsement alla figura di Gonzalez.

A pochi giorni dal voto, i sondaggi non offrono risposte chiare. Secondo Telcodata, in testa ci sarebbe Gonzalez con il 50,2% dei voti. A Noboa andrebbe il 49,8%. Secondo l’istituto Comunicaliza, invece, Noboa sarebbe in vantaggio con il 50,3%, mentre Gonzalez si fermerebbe al 49,7%.

L’importanza dell’elezione

Il risultato della sfida determinerà i prossimi quattro anni del Paese. Fino a pochi anni fa, l’Ecuador era escluso dalle dinamiche del narcotraffico. Ora invece si trova al centro delle rotte internazionali del traffico di cocaina, a causa della sua posizione geografica e dell’uso del dollaro come moneta ufficiale.

Tale nuova centralità dell’Ecuador è legata alla fine della collaborazione tra il governo e l’Agenzia statunitense antinarcotici (Dea), oltre che alla diminuzione degli investimenti nelle attività di contrasto al traffico di droga. Ciò ha favorito l’infiltrazione dei cartelli messicani e il coinvolgimento di bande criminali ecuadoriane nella distribuzione di droghe.

L’aumento del narcotraffico ha portato a un incremento degli episodi di violenza armata e dei reati. Nel 2023, ad esempio, durante la campagna elettorale per le elezioni anticipate (indette dall’allora presidente Guillermo Lasso per evitare l’impeachment), un candidato, Fernando Villavicencio, è stato ucciso. In risposta, il presidente Noboa ha implementato a inizio 2024 lo stato d’eccezione e diverse leggi speciali per neutralizzare i “terroristi” delle bande armate.

La politica estera dell’Ecuador: Noboa con gli Usa, Gonzalez con Caracas

Dal punto di vista della politica estera, queste elezioni avranno un impatto su alcuni equilibri regionali.

Noboa, con i suoi forti legami personali e politici con gli Stati Uniti, ha confermato di voler collaborare con Washington. Di cui si è già assicurato il sostegno militare, politico e finanziario, compreso un accordo da 4 miliardi di dollari per 48 mesi con il Fondo monetario internazionale, siglato a maggio 2024. In cambio, Noboa ha offerto agli Stati Uniti la possibilità di stabilire basi militari straniere in Ecuador, una mossa che l’attuale presidente ritiene essenziale nella strategia di contrasto alle organizzazioni criminali.

Gonzalez, da parte sua, vuole distanziarsi dagli Stati Uniti e ha dichiarato che, in caso di vittoria, riconoscerà Nicolas Maduro come legittimo presidente del Venezuela. Si tratterebbe di un’inversione di rotta importante visto che, tra i governi dell’America latina, l’Ecuador è stato uno dei più fermi nel definire illegittima la rielezione di Maduro nel  luglio 2024, definendo il suo governo “dittatoriale” e garantendo ampio appoggio all’opposizione. Un governo Gonzalez potrebbe poi riprendere e riaffermare i rapporti con la Cina, grande investitore nel Paese, soprattutto nel settore delle infrastrutture energetiche.

Le sfide attuali e future: narcotraffico e crisi energetica

A chiunque vincerà le elezioni, spetteranno diversi dossier urgenti e importanti. Il primo, ormai da diversi mesi sul tavolo, è quello sulla sicurezza interna e sul contrasto al narcotraffico.

Noboa ha insistito con una politica di fermezza e repressione. Ha promesso in più occasioni che proseguirà la sua politica del “Nuovo Ecuador” e insisterà con la militarizzazione finché le bande criminali non saranno smantellate. A Gonzalez invece è imputata una presunta collusione con le organizzazioni criminali e una sua vittoria potrebbe rappresentare un cambio di passo sul tema.

A ciò si aggiunge una recessione economica e una dura crisi energetica, in corso da mesi, che ha causato razionamenti delle forniture energetiche su scala nazionale. In parte a causa della poca manutenzione degli impianti, in parte a causa del cambiamento climatico, il Paese si trova da mesi a corto di carburante.

Il governo ha tentato – finora con poco successo – di risolvere la questione, noleggiando e acquistando navi cisterna e portando avanti un negoziato con la Colombia per assicurarsi l’acquisto di energia elettrica. Ma è evidente che il nuovo esecutivo dovrà agire per sanare le radici strutturali del problema.

Trump sospende alcuni dazi, ma non verso Pechino. La Cina risponde con aumenti al 125%

La Cina ha dichiarato che aumenterà i dazi sui beni statunitensi al 125%, in un’ulteriore escalation di una guerra commerciale che minaccia di bloccare le esportazioni tra le due maggiori economie mondiali.

La ritorsione di Pechino ha scatenato una nuova volatilità sui mercati, con le azioni europee che hanno oscillato dopo l’annuncio, mentre Tokyo e Seul hanno chiuso in rosso. A dimostrazione delle preoccupazioni degli investitori per la salute dell’economia statunitense sotto la gestione irregolare del presidente Trump, il dollaro è sceso ai minimi di tre anni contro l’euro e dell’1,3% contro lo yen.

A Pechino, la Commissione per le tariffe del Consiglio di Stato cinese ha dichiarato che sabato entreranno in vigore nuove tariffe del 125% sulle merci statunitensi, che quasi eguaglieranno lo sbalorditivo livello del 145% imposto alle merci cinesi in arrivo in America.

Un portavoce del Ministero del Commercio ha dichiarato che gli Stati Uniti hanno la “piena responsabilità di questo”, deridendo le tariffe di Trump come un “gioco di numeri” che “diventerà una barzelletta”. Il ministero delle Finanze cinese ha dichiarato che le tariffe non aumenteranno ulteriormente perché “non c’è alcuna possibilità di accettazione del mercato per i beni statunitensi esportati in Cina” – un riconoscimento del fatto che quasi nessuna importazione è possibile al nuovo livello.

Pechino ha inoltre dichiarato che presenterà un’azione legale presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio in merito all’ultima tornata di dazi annunciata da Trump. Il presidente cinese Xi Jinping ha condannato il “bullismo unilaterale”. Mentre le superpotenze si scontrano, l’UE ha dichiarato che il suo capo del commercio, Maros Sefcovic, terrà lunedì 14 aprile dei colloqui con le controparti statunitensi a Washington per risolvere la loro controversia sui dazi. Sefcovic sta viaggiando “in buona fede per cercare di trovare soluzioni che possano essere vantaggiose per tutti”, ha dichiarato il portavoce dell’UE per il commercio Olof Gill.

La sospensione di alcuni dazi americani e la guerra commerciale con la Cina

Il 2 aprile Trump ha mandato in tilt i mercati finanziari mondiali annunciando tariffe storiche sui partner commerciali dell’America, tra cui una base del 10% per tutti i beni che entrano negli Stati Uniti. Dopo giorni di crollo dei mercati, mercoledì 9 aprile ha congelato le tariffe più alte, pari o superiori al 20%, imposte ad alleati come l’Unione Europea o il Giappone, ma ha mantenuto una tariffa aggiuntiva del 34% sulla Cina. Da allora Pechino si è vendicata, provocando negli ultimi giorni aumenti a catena che sono culminati nell’ultima mossa di venerdì 11 aprile. Giovedì 10 aprile Trump ha riconosciuto “un costo di transizione e problemi di transizione”, pur insistendo che “alla fine sarà una cosa bellissima”.

Parlando con i giornalisti, ha detto di avere rispetto per Xi e di sperare in un accordo. “È un mio amico da molto tempo. Penso che alla fine riusciremo a trovare un accordo molto positivo per entrambi i Paesi”, ha dichiarato. Gli economisti avvertono che l’interruzione del commercio tra le economie statunitense e cinese, strettamente integrate, minaccia le imprese, aumenterà i prezzi per i consumatori e potrebbe causare una recessione globale. Trump ha definito “molto intelligente” l’Unione Europea che si è astenuta da imposizioni di ritorsione. Ma il capo del blocco dei 27 Paesi, Ursula von der Leyen, ha dichiarato al Financial Times che l’Unione Europea dispone di una “vasta gamma di contromisure” se i negoziati con Trump dovessero fallire. “Ad esempio, si potrebbe imporre una tassa sui ricavi pubblicitari dei servizi digitali”, applicabile a tutto il blocco, ha detto.

La risposta dell’Europa

Durante i colloqui con il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez, i media statali hanno citato Xi che ha affermato che la Cina e l’UE dovrebbero fare squadra sul commercio. “La Cina e l’Europa dovrebbero adempiere alle loro responsabilità internazionali… e resistere congiuntamente alle pratiche unilaterali di bullismo”, ha dichiarato Xi.

Questo, ha sottolineato, non solo “salvaguarderebbe i loro diritti e interessi legittimi, ma anche… l’equità e la giustizia internazionale”. Il prossimo vertice dei funzionari dell’UE si terrà a luglio. Dopo i nuovi cali di giovedì 10 aprile a Wall Street, venerdì 11 i mercati asiatici sono stati nuovamente sotto pressione. Tokyo è crollata del 3% – un giorno dopo essere salita di oltre il 9% – mentre Sydney, Seoul, Singapore e altri hanno subito un calo. I mercati europei hanno aperto in rialzo per poi crollare dopo le ritorsioni della Cina, ma in seguito hanno ridotto le perdite. L’oro, un bene rifugio in tempi di incertezza, ha toccato un nuovo record sopra i 3.200 dollari, mentre gli investitori spaventati dalle politiche di Trump hanno scaricato i Treasury statunitensi, normalmente solidi.

“L’euforia per la pausa tariffaria di Trump sta svanendo rapidamente”, ha dichiarato Stephen Innes di SPI Asset Management. “In conclusione, le due maggiori economie mondiali sono in piena guerra commerciale e non ci sono vincitori”. Ma il Segretario al Commercio statunitense Howard Lutnick si è vantato giovedì sui social media che “l’età dell’oro sta arrivando”. Siamo impegnati a proteggere i nostri interessi, a impegnarci in negoziati globali e a far esplodere la nostra economia”.

© Agence France-Presse

Crisi elettorale in Romania: Un campanello d’allarme per la NATO e l’Europa

Le elezioni presidenziali annullate in Romania rivelano la crescente posta in gioco internazionale della fragilità democratica sul fianco orientale della NATO. Vietare i candidati estremisti può contenere la minaccia, ma non eliminarla alla radice. Senza una resilienza strutturale, gli attori ibridi continueranno a erodere la legittimità, una crisi alla volta.

La posta in gioco globale della crisi elettorale rumena

Il 6 dicembre 2024, la Corte costituzionale della Romania ha annullato le elezioni presidenziali del Paese, citando un rapporto di intelligence declassificato che rivelava un’ampia interferenza straniera. Il principale beneficiario di questa operazione, il candidato di estrema destra Călin Georgescu, aveva inaspettatamente vinto il primo turno. Sebbene legalmente giustificata, la decisione ha messo in luce fragilità istituzionali più profonde e vulnerabilità internazionali che si estendono ben oltre i confini della Romania.

L’annullamento delle elezioni è stato inquadrato come una difesa dell’integrità democratica. Ma le giustificazioni poco trasparenti e la scarsa comunicazione hanno aumentato la sfiducia dell’opinione pubblica. Mentre la Romania si avvia verso la riprogrammazione delle elezioni nel maggio 2025, si trova ad affrontare non solo una crisi politica interna, ma anche una storia di cautela su come le minacce ibride possano distruggere la legittimità elettorale attraverso i confini ed essere amplificate da attori con portata transatlantica.

Guerra ibrida e insurrezione digitale

La campagna di Georgescu ha fatto leva su un sofisticato ecosistema di disinformazione. Distribuita attraverso piattaforme come TikTok, Telegram e YouTube, presentava contenuti emotivi e cospiratori con un’amplificazione riconducibile alle reti russe e iraniane. Il suo obiettivo non era solo la vittoria elettorale, ma l’erosione della fiducia istituzionale e la normalizzazione della retorica anti-sistema.

Secondo l’analisi digitale forense di una ricerca indipendente, questa operazione ibrida, amplificata da attori stranieri ma radicata nelle vulnerabilità interne, è stata progettata per destabilizzare uno dei principali Stati di prima linea della NATO. E ci è riuscita. Non perché Georgescu abbia vinto, ma perché il processo elettorale stesso è stato delegittimato. Le elezioni non sono state solo bloccate, sono state screditate.

Echi oltre Bucarest

La reazione internazionale all’annullamento ha rispecchiato la sua complessità. Funzionari del Cremlino, organi di stampa russi e statunitensi favorevoli a Trump hanno condannato la decisione. Questo allineamento tra Stati Uniti e Russia è sorprendente e inquietante. L’alleato di Trump Elon Musk ha denunciato l’annullamento, mentre il vicepresidente degli Stati Uniti J.D. Vance ha fatto eco alle affermazioni di manipolazione dell’élite. Questa convergenza suggerisce il crescente allineamento delle narrazioni autoritarie attraverso le divisioni geopolitiche.

Le conseguenze hanno già messo a dura prova le relazioni tra Stati Uniti e Romania. I leader rumeni pro-Trump hanno chiesto il ritiro delle truppe americane e l’arresto dell’espansione della NATO nella base aerea di Mihail Kogălniceanu. L’amministrazione Trump ha sospeso l’ingresso della Romania nel Visa Waiver Program, confermato solo di recente dall’amministrazione Biden. Se la Romania venisse abbandonata dal suo più stretto alleato, non si tratterebbe solo di una battuta d’arresto nazionale, ma di una rottura strategica per il fianco orientale della NATO.

Contenimento senza risoluzione

Călin Georgescu è stato formalmente squalificato dalle elezioni del maggio 2025 dall’Ufficio elettorale centrale (BEC), una decisione confermata dalla Corte costituzionale. Le posizioni pubbliche di Georgescu – come l’impegno a bandire i partiti politici e l’elogio del ruolo della Romania nell’Olocausto – sono illegali secondo la legge rumena e costituiscono un attacco all’ordine costituzionale. Ora rischia accuse penali e restrizioni digitali. Ma il suo movimento persiste, con nuovi candidati in lizza per ereditare la sua base.

Il principale è George Simion, leader del partito di estrema destra AUR, ora in testa ai sondaggi del primo turno. Simion fa eco al messaggio anti-sistema di Georgescu e accusa l’establishment rumeno di un “colpo di Stato” orchestrato dall’Occidente. Simion, anch’egli indagato per istigazione pubblica, fa parte di un movimento più ampio che comprende Diana Șoșoacă e Victor Ponta, figure che mescolano populismo, nazionalismo e allineamento filorusso.

Deriva strategica nel centro democratico

I candidati pro-europei come Nicuș o Dan potrebbero essere ben posizionati per vincere il ballottaggio, ma il centro democratico rimane frammentato e reattivo. Il candidato della coalizione di governo, Crin Antonescu, è visto come una scelta di compromesso con scarso entusiasmo da parte dell’opinione pubblica. La campagna dell’USR di Elena Lasconi divide ulteriormente il voto centrista. L’assenza di una narrazione convincente da parte del mainstream ha ceduto spazio agli attori anti-sistema.

Questa deriva riflette carenze strutturali più ampie. La Romania soffre di povertà endemica, analfabetismo digitale e deficit di governance. Un terzo della popolazione è vittima dell’esclusione sociale. La disoccupazione giovanile rurale supera il 30%. Queste condizioni creano un terreno fertile per la disinformazione e l’alienazione. Nonostante ospiti i migliori talenti europei nel campo delle tecnologie dell’informazione, la Romania è ai primi posti nella classifica delle infrastrutture civiche digitali, un paradosso che gli attori ibridi sfruttano.

La fragile linea del fronte

La crisi della Romania ha messo in luce le lacune strategiche delle risposte della NATO e dell’UE alle minacce ibride. Gli strumenti attuali – attribuzione limitata, condivisione frammentata dell’intelligence e protocolli di escalation vaghi – sono insufficienti per le tattiche asimmetriche ora messe in campo dai nemici della NATO. Il caso rumeno non è stato una sorpresa; è stato il culmine di una campagna di lungo termine che si è sviluppata nel dominio digitale.

Ciò che la Romania richiede – e che la NATO e l’UE devono sostenere – non è solo la vigilanza, ma la resilienza. Ciò include investimenti nell’infrastruttura civica digitale, lo sviluppo di istituzioni di vigilanza indipendenti, la regolamentazione dei contenuti distribuiti dai giganti dei social media e la creazione di squadre di risposta rapida multipiattaforma in grado di smascherare e interrompere le operazioni informative prima che si radichino. Le soluzioni esistono: sviluppare una strategia coerente per i futuri rapporti dell’UE con la Russia che includa risposte agli attacchi ibridi, evitare un’estensione dell’influenza russa in Ucraina e un più ampio isolamento della Russia, introdurre un monitoraggio più centralizzato delle informazioni sulle minacce all’interno della NATO e un protocollo di escalation proporzionale per gli attacchi ibridi. Ciò che manca non sono le soluzioni, ma l’urgenza.

Oltre la Romania

La crisi elettorale della Romania non è un episodio isolato. È un avvertimento di ciò che accade quando le istituzioni si occupano dei sintomi senza affrontare le cause alla radice. Rimuovere i candidati estremisti antidemocratici è necessario, ma insufficiente. Senza una strategia proattiva per costruire la resilienza democratica, le democrazie rischiano di diventare tecnicamente ben difese ma sempre più svuotate dalla sfiducia.

Il contenimento ritarda le crisi, non le risolve. La questione è se le democrazie transatlantiche impareranno dalla Romania o si troveranno ad affrontare rotture simili con ancora meno scuse per l’inazione.

Sarà l’Iran la grande occasione di pace per Trump?

In questi primi tre mesi di presidenza, Donald Trump ha fatto poco per mantenere la promessa di porre fine ai conflitti che insanguinano Europa e Medio Oriente. Il modo in cui l’amministrazione ha aperto il negoziato fra Russia e Ucraina, facendo concessioni alla prima e premendo sulla seconda, ha generato più preoccupazioni che speranze. E quando Israele ha rotto la tregua con Hamas che Trump stesso si era vantato (a ragione) di aver favorito, gli Stati Uniti non solo non hanno offerto resistenza ma hanno applaudito. Alla luce di ciò, l’annuncio di un incontro “di alto livello” fra Usa e Iran in Oman dev’essere accolto senz’altro con favore, ma anche con circospezione.

Scambi epistolari

La posta in gioco è altissima. Trump continua a evocare pubblicamente l’eventualità di un massiccio bombardamento del programma nucleare iraniano per evitare che Teheran si doti di un arsenale atomico. Allo stesso tempo, sostiene di preferire di gran lunga raggiungere un accordo, una posizione che ha espresso in una lettera personale ad Ali Khamenei, Guida Suprema della Repubblica islamica. L’Iran, che nega di volere la bomba (e secondo l’intelligence USA non ha preso una decisione in questo senso), ha duramente criticato il linguaggio bellicoso di Trump. Si è però detto disponibile a trattare su base di mutuo rispetto; almeno questa sarebbe la sostanza della risposta di Khamenei.

L’Iran ha buoni motivi di dubitare di Trump, responsabile di aver unilateralmente ritirato gli Stati Uniti da un accordo nucleare che l’Iran e sei potenze – USA, Russia, Cina e i cosiddetti ‘E3’ (Germania, Francia e Regno Unito) più l’UE – avevano faticosamente raggiunto nel 2015. In risposta al ritiro da quell’accordo, noto come Joint Comprehensive Plan of Action o JCPOA, l’Iran ha grandemente espanso il programma nucleare.

Le ragioni dell’incontro in Oman

L’incontro in Oman è, in questo senso, un primo passo per ricostruire un minimo di fiducia reciproca. La contemporanea presenza del ministro degli esteri iraniano Seyed Abbas Araghchi e di Steve Witkoff, inviato speciale per il Medio Oriente e uomo di fiducia di Trump, fa pensare che ai primi colloqui mediati dagli omaniti possa presto seguire un incontro bilaterale. Se così fosse, Trump avrebbe ottenuto un risultato cercato invano dall’amministrazione Biden.

La maggiore flessibilità iraniana si deve, in parte, al desiderio del presidente Masoud Pezeshkian di rilanciare l’economia, il cui potenziale di crescita è compromesso dal peso delle sanzioni extraterritoriali americane.

Un altro motivo è che la situazione attuale, in cui l’Iran continua ad accumulare materiale potenzialmente impiegabile in testate pur mantenendolo al di sotto della soglia militare (weapon-grade), non è sostenibile. Entro luglio gli E3, i membri europei del JCPOA, dovranno prendere una decisione se attivare o meno uno speciale meccanismo, detto snapback, che comporterebbe la riapplicazione automatica delle sanzioni ONU. Questo costringerebbe l’Iran a reagire, per esempio cacciando gli ispettori nucleari ONU dal paese. È plausibile che l’Iran voglia evitare di essere messo in una condizione che lo esporrebbe a un maggior rischio di attacchi, e per questo abbia acconsentito alla mediazione omanita (e non degli europei, ormai estromessi nonostante il ruolo fondamentale giocato al tempo del JCPOA).

Dopotutto, i falchi anti-Iran in Israele, a partire dal premier Binyamin Netanyahu, e negli Stati Uniti, dove abbondano in Congresso, ritengono che questo sia il momento ideale per sferrare il colpo decisivo contro il cosiddetto ‘asse della resistenza’ promosso dall’Iran, che negli ultimi mesi ha visto Hezbollah fortemente ridimensionato e il regime di Bashar al-Assad in Siria liquefarsi. Gli attacchi aerei contro gli Houthi, alleati dell’Iran in Yemen, e lo schieramento nella base americana di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, di bombardieri capaci di portare potenti bombeanti-bunker rafforzano la credibilità della minaccia.

Un ultimo motivo dietro la disponibilità a trattare dell’Iran è che, per quanto difficile e incerto il negoziato, un eventuale accordo con Trump avrebbe il vantaggio di recare con sé l’appoggio di almeno parte del Partito Repubblicano (oltre che di buona parte dei Democratici) e non sarebbe così soggetto al rischio di essere cancellato da una futura amministrazione. Inoltre, Trump potrebbe mettere sul piatto la riapertura del commercio diretto Iran-USA, mentre l’accordo del 2015 si concentrava soprattutto sulla ripresa del commercio Europa-Iran.

Le prospettive per un negoziato

L’incontro in Oman serve a esplorare le posizioni di partenza e saggiare la rispettiva disponibilità a fare concessioni, soprattutto da parte americana.

Nell’amministrazione convivono infatti due anime. La prima, favorita dal segretario di stato Marco Rubio e dal consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, nonché da una nutrita schiera di Repubblicani (e qualche Democratico) e soprattutto da Netanyahu, spinge per una posizione massimalista. L’Iran dovrebbe non solo smantellare il programma nucleare, ma ridimensionare l’arsenale balistico e tagliere i ponti con le milizie che, da Hezbollah agli Houthi alle Forze di mobilitazione popolare in Iraq, compongono l’asse della resistenza. Se dovesse passare questa linea, le chance di un accordo sono scarse se non nulle.

L’alternativa è che l’amministrazione punti esclusivamente a un “verificabile accordo di pace nucleare”, come ha avuto modo di dire lo stesso Trump. Questo obiettivo è compatibile con la posizione iraniana. La questione, complessa sul piano tecnico ma certamente non irrisolvibile, diventerebbe come stabilire nuovi limiti al programma nucleare e mettere a punto un efficiente sistema di verifica (così come del si era fatto per il JCPOA).

I costi di un fallito accordo

I benefici di un accordo sono evidenti, non solo in termini di non-proliferazione nucleare ma anche di sicurezza regionale, senza contare che la riapertura del commercio con gli USA darebbe all’Iran un incentivo a evitare di schiacciarsi su Russia e Cina, come ha fatto invece in questi ultimi anni anche in conseguenza della pressione americana.

Un bombardamentocome non se ne sono mai visti”, per usare il rozzo, truculento vocabolario di Trump, presenta invece costi potenzialmente immensi a fronte di benefici incerti. Potrebbe riportare il programma nucleare iraniano indietro di qualche anno, ma non distruggerlo del tutto. Dal momento che l’Iran non avrebbe più remore a cercare un deterrente nucleare, gli USA sarebbero inoltre costretti ad attacchi ripetuti, forse per anni. Né il conflitto resterebbe limitato all’Iran: le forze americane nell’area, Israele e il commercio marittimo nel Golfo diventerebbero bersagli di una guerra asimmetrica da parte degli iraniani e dei loro alleati. Le perdite di vite umane, in una regione che nel XXI secolo sconquassata da un eccezionale livello di violenze, sarebbero significative.

Non è quindi un caso che nell’area conservatrice che fa capo al vice-presidente JD Vance, l’ipotesi di una guerra con l’Iran sia vista come il fumo negli occhi. Disgraziatamente questo potrebbe non essere sufficiente a sventare questo scenario infausto. L’amministrazione Trump non sembra avere un orientamento strategico preciso ed è popolata da personale inesperto (quando non incompetente, come dimostrato dallo scandalo Signal). Potrebbe pertanto non avere la pazienza, la disciplina e la sofisticazione diplomatica non solo per gestire un negoziato tanto delicato, ma per resistere alle pressioni della lobby anti-Iran, che ha in Netanyahu e nei suoi alleati in Congresso campioni formidabili.

Detto questo, il fatto che l’incontro in Oman si svolga all’indomani della visita di Netanyahu alla Casa Bianca può essere un segnale che, sull’Iran, Trump sia dopotutto più autonomo di quanto i suoi critici temono. Non resta che augurarselo, unendo alla speranza grande, spassionata cautela.

Trump e il Medio Oriente, tra nucleare iraniano, Siria e nuovi spazi di dialogo

Maria Luisa Fantappiè, responsabile del programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dello IAI, è stata ospite di Francesco De Leo a “Spazio Transnazionale” su Radio Radicale, dove ha parlato della nuova amministrazione Trump e delle sue possibili scelte diplomatiche in Medio Oriente. Fantappiè ha analizzato la questione dell’accordo sul nucleare iraniano e il complesso rapporto tra Usa e la Siria.

Fantappiè ha inoltre fatto riferimento a un recente evento organizzato dallo IAI che ha visto la partecipazione di rappresentanti palestinesi e israeliani, creando uno spazio di dialogo costruttivo in un momento di particolare tensione nella regione.

Il disprezzo di Trump

Lo scandalo Signalgate e la guerra dei dazi, che vede l’Ue tra i target principali di Washington, hanno confermato ciò che gli europei già sapevano: il disprezzo dell’amministrazione Trump per l’Europa è profondo e la frattura transatlantica è strutturale

I leader europei sperano ancora di evitare gli scenari peggiori, come un’invasione della Groenlandia o il ritiro delle truppe Usa dalla Nato. Si concentrano soprattutto sul garantire che, se (o forse quando) gli Stati Uniti abbandoneranno Kyiv, sarà l’Europa collettivamente a riuscire a garantire un’Ucraina libera, indipendente e democratica. Ma non bisogna illudersi che ciò avvenga lavorando in sinergia con Washington o addirittura con la sua tacita approvazione.

Il Signalgate è stato prevedibile e scioccante, ma non sorprendente: l’astio verso l’Europa emerso nella chat riservata del team di sicurezza Usa rispecchia le dichiarazioni pubbliche dell’amministrazione. La coerenza è evidente: Washington vede l’Europa come obsoleta, arrogante e parassitaria. Ciò che è sconvolgente, tuttavia, è che gli Stati Uniti non si limitano a considerare l’Europa come moribonda: i funzionari di Trump sembrano voler contribuire alla sua morte. Per Washington, attaccare gli Houthi nel Mar Rosso sarebbe nell’interesse della sicurezza nazionale americana. Eppure, proprio il fatto che tale azione aiuterebbe anche l’Europa viene considerato un motivo valido per metterla in discussione. Il vantaggio di contrastare una minaccia diretta agli Usa viene messo in dubbio dal solo fatto che ne beneficerebbero anche gli europei.

Le componenti del disprezzo

Questo disprezzo ha tre importanti implicazioni politiche per l’Europa. In primo luogo, il commercio. Trump ha annunciato la sua guerra commerciale contro i Paesi che, secondo lui, “fregano” l’economia statunitense. Nessuna simpatia o amicizia storica potrà attenuare la dimensione Usa-Ue di questa guerra. L’imposizione del 20% di dazi su tutte le esportazioni europee agli Stati Uniti, oltre a quelle già imposte su acciaio, alluminio e automobili, ne è la testimonianza concreta. Tuttavia, la gestione della politica commerciale per i 27 Stati membri è una competenza esclusiva dell’Ue e il blocco ha un peso economico combinato che gli Stati Uniti non possono ignorare. In questo confronto, i danni saranno reciproci. Con un’Europa unita sul commercio, come sulla regolamentazione della tecnologia, gli Usa non potranno agire in modo predatorio nonostante il loro odio irrazionale. Alla fine, Washington dovrà adottare un approccio pragmatico e cercare un accordo con Bruxelles. 

In secondo luogo, Trump ha più volte ribadito le sue mire sulla Groenlandia. La controversa visita di Vance all’isola e le sue critiche alla Danimarca segnalano un’intensificazione delle pressioni americane. Tuttavia, la reazione inizia a farsi sentire efficace: dopo le critiche, il viaggio è stato frettolosamente modificato escludendo la capitale Nuuk e limitandosi a una remota base militare statunitense nell’estremo nord del territorio. La prima ministra danese, Mette Frederiksen, ha accusato gli Stati Uniti di “pressioni inaccettabili“, ma spetterà agli altri leader europei sostenerla. Quanto più gli europei si mostreranno deboli e pusillanimi, tanto più le pressioni degli Stati Uniti si aggraveranno.

Infine, e soprattutto, l’Ucraina. I Paesi volenterosi, guidati da Emmanuel Macron e Keir Starmer, insieme al presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy, stanno elaborando piani di sostegno all’Ucraina. Ma appare sempre più evidente che dovranno farlo non solo senza il sostegno militare degli Stati Uniti, ma forse anche contro di essi. Mentre l’Europa pianifica un maggiore sostegno economico-militare e una “forza di rassicurazione” per addestrare e assistere le forze ucraine nella protezione delle città e delle infrastrutture, dovrà accettare l’assenza di una garanzia statunitense. Naturalmente, è opportuno continuare a coinvolgere gli Usa nelle varie discussioni, in particolare sulla condivisione di informazioni e sul supporto logistico. Tuttavia, se Washington continuerà a mettersi di traverso, Europa e Ucraina dovranno farne a meno. 

Sulle sanzioni alla Russia, l’Europa dovrà probabilmente agire in contrapposizione agli Usa. La strategia di Vladimir Putin è ovvia: subordinare il cessate il fuoco alla fine del sostegno occidentale e alla revoca delle sanzioni. Molto probabilmente l’amministrazione americana asseconderà il Cremlino e farà pressione sugli europei affinché seguano il suo esempio, dipingendoli come ostacoli alla pace.

Finora i governi europei hanno tenuto duro, respingendo le richieste russe di sospendere le sanzioni finanziarie sul settore agroalimentare come precondizione per un cessate il fuoco nel Mar Nero. L’Europa deve essere pronta a resistere anche alle pressioni americane.

Opporsi alla prepotenza degli Stati Uniti non è solo una buona politica, ma anche politicamente vantaggioso. Con fermezza, coraggio e cortesia, l’Europa dovrebbe semplicemente andare per la sua strada.

Nuovi equilibri e squilibri istituzionali nell’Unione europea

La nuova legislatura europea che si è aperta lo scorso dicembre è caratterizzata da una serie di nuovi equilibri e squilibri istituzionali, che hanno determinato nuove dinamiche. Sarà vitale, per l’Unione europea, trovare il modo di funzionare e di mantenere l’unità interna anche in questa situazione e durante una fase di grandi mutamenti internazionali.

Se guardiamo all’interno delle istituzioni, le elezioni europee e quelle nazionali che si sono susseguite nel super anno elettorale del 2024 (con la coda di quelle tedesche del 2025) hanno fatto registrare un consenso crescente per forze radicali ed euroscettiche che influenzano le maggioranze al Parlamento europeo, ma anche l’agenda della Commissione e del Consiglio europeo. 

Al Parlamento europeo ha sostanzialmente tenuto una maggioranza centrista, moderata e pro-europea, formata dal Partito Popolare Europeo (PPE), dai Socialisti e Democratici, dai Liberali e dai Verdi. Questa stessa coalizione ha eletto Ursula von der Leyen per il suo secondo mandato come Presidente della Commissione europea con 401 voti, una quarantina in più del minimo necessario. Quasi tutti i partiti estremisti hanno votato contro di lei, segnando una chiara linea di demarcazione tra maggioranza e opposizione. L’opposizione resta divisa tra il gruppo dei “Conservatori e Riformisti Europei” (ECR) guidato fino allo scorso anno da Giorgia Meloni, il neonato gruppo “Patrioti per l’Europa”, al quale appartiene anche la Lega, e il gruppo “Europa delle nazioni sovrane” guidato da Alternative für Deutschland (AfD). Per tenere salda la maggioranza, è stato applicato il “cordone sanitario”, che impedisce ai rappresentanti dei “Patrioti per l’Europa” e dell’”Europa delle nazioni sovrane” – ma non a ECR – di assumere posizioni rilevanti nelle commissioni del Parlamento europeo. Allineamenti alternativi alla maggioranza, in particolare tra PPE e ECR, si sono già verificati, ad esempio per il rinvio e l’indebolimento della legge sulla deforestazione nel novembre 2024, e non è escluso che si ripetano nel corso di questa legislatura. 

Mutano le diverse composizioni degli organi politici

Anche al Consiglio europeo si registra uno spostamento a destra. Con le elezioni in Belgio e in Germania, il numero dei rappresentanti di ECR equivale a quello dei rappresentanti dei Socialisti e Democratici, mentre la maggioranza resta salda in capo al PPE. Trovare il consenso a 27 sta diventando sempre più complicato, tant’è vero che negli ultimi Vertici è stato necessario ricorrere ad espedienti di vario tipo per far passare decisioni necessarie ed urgenti: ad esempio quando il leader ungherese Orban è uscito dalla sala per permettere al Consiglio europeo di votare l’avvio dei negoziati di adesione di Kyiv, oppure allegando alle conclusioni formali dei Vertici le deliberazioni sul sostegno all’Ucraina concordate a 26, di nuovo senza l’Ungheria. E questa tendenza è destinata ad accentuarsi nella prospettiva di un ulteriore allargamento. 

L’attivismo estremo della Commissione

Anche la composizione della nuova Commissione voluta dalla Presidente von der Leyen presenta alcuni elementi nuovi, tra i quali il più evidente è un’estrema frammentazione delle competenze tra i Commissari sui principali dossier. Ne sono un esempio il Clean Industrial Deal, che ricade sotto ben tre Commissari: Teresa Ribera, Vicepresidente esecutiva per la transizione pulita, giusta e competitiva, Stéphane Séjourné, Vicepresidente esecutivo per la prosperità e la strategia industriale e Wopke Hoekstra, Commissario per il clima, l’azzeramento delle emissioni nette e la crescita pulita. Oppure il Libro Bianco sulla Difesa, che è nelle mani di Kaja Kallas, vicepresidente, Alta rappresentate per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Andrius Kubilius, Commissario per la difesa e lo spazio. Di recente, il gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo ha promosso un’interrogazione in cui si contesta che “non esiste un Commissario designato con un portafoglio chiaro per il mercato interno e la tutela dei consumatori”. Avere incarichi in parte sovrapponibili e con obiettivi comuni rende poco chiari i limiti entro i quali ciascun Commissario riesce ad operare, e finisce per accentrare il processo decisionale nelle mani della Presidente von der Leyen. Questa tendenza è stata confermata anche dalla decisione di von der Leyen di istituire 14 “Gruppi di progetto” composti dai diversi Commissari che si occupano di definire iniziative e coordinare il lavoro nelle diverse aree prioritarie d’azione della Commissione. 

Questo marcato rafforzamento delle prerogative della Presidente della Commissione sta influenzando anche le dinamiche inter-istituzionali, realizzando fughe in avanti potenzialmente anche a scapito dei centri di potere intergovernativi. Un ambito in cui questo è particolarmente marcato è quello della difesa, un settore che è ancora di competenza prevalentemente nazionale e in cui le principali decisioni sono soggette alla regola del consenso in sede in Consiglio europeo e Consiglio dell’Unione europea. La Commissione, sfruttando al massimo le sue prerogative in tema di politica industriale della difesa, ha prima istituito il nuovo ruolo di Commissario per la difesa e ha poi proposto due iniziative di primo piano per rispondere alle esigenze di un maggiore impegno europeo: il piano RearmEu, poi ridenominato Readiness 2030, e il Libro Bianco sulla Difesa. Gli Stati membri riuniti in Consiglio e Consiglio europeo hanno reagito sostenendo queste iniziative, ma avanzando anche diverse critiche e richieste di modifica. In generale, quello che emerge è un attivismo estremo della Commissione, senza però una chiara copertura politica dei 27 Stati membri. Invece di tradursi in un rafforzamento della dimensione sovranazionale delle politiche europee, l’attivismo della Commissione rischia di produrre un disequilibrio nell’architettura istituzionale e in un mancato impegno politico da parte delle capitali in iniziative comuni, aumentando le già significative spinte centrifughe che arrivano da dentro e da fuori l’Unione.

Per resistere all’impatto di queste trasformazioni, la nuova leadership europea dovrebbe imparare rapidamente a navigare nel nuovo ambiente politico e pensare seriamente di mettere in cantiere una serie di riforme istituzionali quanto mai necessarie per superare lo stallo nel processo decisionale intergovernativo, riformare la composizione della Commissione anche con un ridimensionamento del numero dei Commissari, bilanciare in modo più funzionale le prerogative delle diverse istituzioni. Insomma, in questa legislatura l’Unione europea si muove in bilico tra nuovi equilibri e rischi di frammentazione. Alla fine, come sempre, la funzionalità delle procedure decisionali e la chiara definizione delle rispettive responsabilità saranno essenziali per realizzare le politiche nei vari settori e sostenere la competitività europea. Jean Monnet diceva: “Niente è possibile senza gli uomini, niente dura senza le istituzioni”.

La guerra dei dazi di Trump e le risposte europee

A poco più di dieci settimane dall’inizio del suo mandato, il Presidente Donald Trump ha annunciato una guerra commerciale verso il mondo con una messe di dazi che non ha precedenti nel secondo dopoguerra. L’Europa è tra le maggiori vittime, accusata ripetutamente da Trump di aver biecamente sfruttato in passato il grande e ricco mercato americano. Le importazioni dall’Europa verranno gravate di dazi del 20%, dopo le tariffe del 25% introdotte dall’Amministrazione americana sulle importazioni di acciaio e alluminio e, più di recente, su quelle di automobili.

Le ragioni economiche avanzate dall’Amministrazione americana per giustificare tali nuove pesanti misure (deficit commerciale americano e protezionismo europeo) risultano del tutto inconsistenti, se analizzate con attenzione. È vero che l’Unione ha accumulato, negli anni, un surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti di entità rilevante. Ma considerando l’intera bilancia dei pagamenti correnti – come si deve fare – e includendo quindi il surplus statunitense nel settore dei servizi (109 miliardi di euro), il saldo complessivo tra Ue e Usa risulta pressoché in equilibrio. Anche sotto il profilo dei dazi reciproci, al centro delle accuse americane, le differenze sono minime: la tariffa media ponderata americana è del 2,2%, contro il 2,7% europeo.

Dietro l’apparente crociata economica, c’è dunque altro. È una visione di politica internazionale, una sorta di realpolitik, ben più aggressiva e mirata a rivoluzionare gli equilibri globali. Donald Trump è da sempre convinto che l’ordine economico liberale dei passati decenni con le sue regole e istituzioni e, in particolare, il sistema commerciale multilaterale, abbiano depredato e reso vulnerabile l’economia americana, soprattutto nei confronti di rivali strategici come la Cina. Vanno dunque abbattuti e sostituiti con un sistema di rapporti bilaterali, peraltro ancora abbozzato in modo vago dal Presidente americano, in cui Washington possa esercitare la propria supremazia economica e militare ricavandone vantaggi cospicui e di varia natura. Lo tsunami dei dazi del 2 aprile è dunque l’annuncio di un’offensiva su scala globale che apre una fase di inusitata incertezza economica e politica.

Verso un negoziato duro, lungo e difficile

Nel chiedersi come debba e possa rispondere l’Europa, va innanzi tutto ricordato che tra le grandi aree mondiali l’economia europea è quella più aperta agli scambi internazionali. Difendere e consolidare questa profonda integrazione con l’economia mondiale è un’assoluta priorità europea.

Tre appaiono le direttrici lungo cui l’Unione dovrebbe muoversi per cercare di mitigare i danni della guerra scatenata da Trump. La prima è affrontare con determinazione l’Amministrazione americana sul terreno dei dazi, mantenendo una linea negoziale dura e coesa. In qualsiasi buon manuale di politica commerciale si afferma che di fronte a misure protezionistiche ingiustificate e vessatorie è legittimo e doveroso reagire, anche per poi negoziare. La Commissione europea deve dunque approntare dei propri dazi e altre misure restrittive in risposta alle iniziative americane. D’altra parte, soltanto la minaccia di una ritorsione dura anche se appropriata può spingere l’Amministrazione americana ad aprire un negoziato, all’insegna del do ut des, che ha finora rifiutato. E se l’Unione resterà compatta – un dato peraltro non scontato – la sua forza commerciale sarà tale da essere in grado di contrastare l’aggressività di Washington.

La difesa del sistema aperto e il completamento del Mercato interno

La seconda strada da seguire è rafforzare e ampliare la rete di accordi commerciali dell’Unione diversificando ulteriormente i partner che ne fanno parte. Un accordo transattivo con l’amministrazione statunitense non può essere in effetti sufficiente, per quanto resti importante per cercare di evitare una guerra dei dazi che, oltre a punire chi la scatena (stagflazione) – come insegna la storia –, finisce per danneggiare tutti. Proprio perché così aperta, l’Europa deve continuare a espandere e consolidare la rete di accordi bilaterali, regionali e multilaterali costruita in questi anni. Va così rafforzata la cooperazione commerciale sia, ad esempio, con i grandi paesi dell’Asia del Pacifico, colpiti da dazi ancor più pesanti di quelli europei, sia con economie emergenti come India, Indonesia e Brasile, che hanno ormai assunto un ruolo chiave e condividono l’interesse a mantenere un sistema commerciale aperto e regolato. Al riguardo, l’accordo con i paesi del Mercosur in America Latina andrebbe ratificato al più presto dal Consiglio europeo, e il voto dell’Italia – va ricordato – sarà determinante.

Per quanto gli Stati Uniti restino un mercato fondamentale, essi rappresentano ormai solo il 13% delle importazioni mondiali: si apre così per l’Europa un ampio spazio per diversificare i suoi legami commerciali e sostenere un sistema internazionale aperto e regolato. È un percorso, quest’ultimo, già avviato nei mesi scorsi dalla Commissione von der Leyen e che va proseguito con forza.

Infine, un terzo fronte di risposta, spesso trascurato ma cruciale, riguarda il mercato interno europeo. Le barriere commerciali tra i paesi membri sono ancora troppo elevate: secondo il FMI, equivalgono in media a una tariffa del 44% per gli scambi di merci (agricoltura esclusa) e addirittura del 110% per quelli di servizi. Le cause sono molteplici, come la presenza di regimi nazionali frammentati in settori chiave quali, ad esempio, gli appalti pubblici. Una conseguenza è che il commercio intraeuropeo è oggi meno della metà di quello all’interno degli Stati Uniti.

Eliminare questi ostacoli e completare l’integrazione del Mercato interno non solo rafforzerebbe la coesione economica dell’Unione, ma rappresenterebbe anche un’occasione per rilanciare la domanda interna e la crescita europee, con più consumi e investimenti. Finora le forti resistenze di alcuni Paesi membri hanno impedito una maggiore integrazione. L’offensiva di Trump potrebbe forse convincerli ad agire diversamente.

I dilemmi dell’Italia di Giorgia Meloni tra Washington e Bruxelles

Infantile” e “superficiale”: così la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha recentemente bollato l’idea che l’Italia sia chiamata a compiere una scelta tra gli Stati Uniti di Donald Trump e l’Europa. Al contrario, secondo Meloni, mantenere un fronte euroatlantico unito e solido sarebbe “nell’interesse di tutti”. In quest’ottica, la presidente del consiglio ha rimarcato a più riprese la propria disponibilità a “evitare uno scontro” e a “costruire ponti” tra le due sponde dell’Atlantico. 

Alla base degli sforzi di Meloni per evitare un disallineamento tra Washington e Bruxelles c’è il desiderio di preservare l’architettura complessiva della politica estera italiana. Dal 1945 a oggi, il rapporto con gli Stati Uniti – a garanzia anzitutto della sicurezza del paese – e quello con gli alleati europei – volano dello sviluppo economico, sociale e civile – hanno rappresentato le due direttrici fondamentali della politica estera di Roma. Nei primi due anni del suo governo, Meloni aveva potuto beneficiare di una ritrovata convergenza tra Washington e Bruxelles sotto l’amministrazione di Joe Biden, non a caso da alcuni vista in prospettiva come “l’ultima presidenza atlantista”. Il ritorno di Donald Trump alla Casa bianca ha molto rapidamente portato a forti tensioni transatlantiche ad ampio spettro: dalle rimostranze Usa per il gap nelle spese per la difesa all’annuncio dell’introduzione di dazi doganali sulle importazioni dall’Europa, dalle dichiarazioni aggressive del neopresidente sulla Groenlandia sino alla gestione unilaterale da parte di Washington del cruciale dossier ucraino.

I nuovi scenari aperti dalla Presidenza Trump pongono un dilemma al governo di Giorgia Meloni. Da un lato, motivazioni di carattere strategico ed economico impongono di mantenere un ancoraggio saldo ai partner europei e a Bruxelles. Dall’altro, affinità ideologiche ma anche la concorrenza politica all’interno del governo italiano da parte di Matteo Salvini – lesto a schierarsi con Washington sui vari dossier – spingono a evitare una frattura con Washington. Di fronte all’impossibilità di prendere nettamente una posizione, quella di cercare di ergersi a pontiera tra le due sponde dell’atlantico è per Meloni in un certo senso un’aspirazione forzata – ma non per questo necessariamente realistica.

Il “radicalismo pragmatico” di Meloni…

Fino all’insediamento di Trump, l’investimento politico di Meloni su un ruolo da interlocutore privilegiato con Washington sembrava una scommessa potenzialmente vincente. A gennaio, la presidente del consiglio era stata l’unico capo di governo dell’UE a essere invitata alla cerimonia di insediamento a Capitol Hill – una visita presentata come un successo in Italia e in Europa.

La popolarità di Meloni a Washington non dovrebbe sorprendere. Nei suoi primi due anni di governo, la presidente del consiglio ha saputo dosare con maestria moderazione e prese di posizione più radicali, assurgendo in qualche modo a nuovo modello globale per la destra al potere.

In Italia, la premier si è destreggiata abilmente tra le critiche dei progressisti che l’avevano dipinta come fascista e come un pericolo per l’Europa. La comunicazione di Meloni ha valorizzato i suoi tratti distintivi: quelli di una madre che si è fatta da sé e che lavora sodo e di primo ministro donna che ha cura della propria immagine, marcando così una netta rottura con la schiera di leader italiani tutta al maschile (a prescindere dal colore politico) degli ultimi ottant’anni.

Giorgia Meloni ha adottato un approccio più assertivo o dialogante, a seconda delle circostanze. Nei rapporti con i leader internazionali, è rimasta fedele al tradizionale posizionamento euroatlantico dell’Italia, membro fondatore dell’Ue e della Nato. Rivolgendosi al suo elettorato, invece, la presidente del consiglio ha lasciato intendere di ispirarsi a una visione di fondo nazionalista e a un approccio transazionale al multilateralismo e alla politica mondiale. “L’Italia farà sentire con forza la sua voce [in Europa], come si conviene a una grande nazione fondatrice”, ha affermato Meloni nel suo primo discorso da Primo Ministro al Parlamento italiano.

La politica estera del governo Meloni prende le mosse da una precisa gerarchia di principi. Gli interessi vengono prima dei valori, l’interesse nazionale prima dell’integrazione europea e dei fora multilaterali, le relazioni personali prima dei canali istituzionali, la crescita economica prima degli obiettivi climatici. Gli accordi a breve termine, che possono essere fonte di consenso a livello interno, sono prioritari rispetto alle soluzioni a lungo termine. Questa dinamica è stata sintetizzata ricorrendo al concetto piuttosto fumoso di “pragmatismo”, che significa tutto e il contrario di tutto. È una ricetta che non offre risposte globali e di ampio respiro, ma che funziona benissimo per restare al potere. Non a caso, a differenza di Emmanuel Macron e Olaf Scholz, Giorgia Meloni è stata uno dei pochi leader dell’UE il cui partito ha aumentato i propri voti nelle elezioni europee del 2024. Nei mesi immediatamente successivi, lo standing internazionale di Meloni è sembrato essere cresciuto a tal punto da venire definita da Politico “la persona più influente in Europa “.

Il “radicalismo pragmatico” di Meloni sta avendo una certa risonanza anche all’estero, all’interno di quel network globale che sta rapidamente prendendo forma tra i leader di destra radicale al governo. I politici della destra al potere non sono solo ideologicamente vicini tra loro, ma stanno anche imparando l’uno dall’altra le migliori pratiche per rimanere in sella. Giorgia Meloni può senz’altro offrire alla destra globale ispirazione in termini di leadership e pratiche di governo. Ma in un mondo in cui il mero perseguimento degli interessi nazionali diventa la regola, il conto da pagare per l’Italia potrebbe essere salato.

… e i mali strutturali dell’Italia

In un certo senso, Meloni potrebbe essere tentata di fare il passo più lungo della gamba. Infatti, il paese di cui è presidente del consiglio deve fare i conti con una serie di problemi strutturali che, lungi dall’essere colpa solo di questo o quel governo, risalgono ad almeno tre decenni fa e saranno destinati ad aggravarsi nei prossimi anni. Il rapporto tra debito pubblico e PIL italiano era stimato a oltre il 136% a fine 2024, il secondo più elevato di tutta l’Ue, e si prevede che sia destinato ad aumentare ulteriormente nel prossimo futuro. La crescita economica del Paese è fiacca – stimata allo 0,8% nel 2025 – e, soprattutto, trainata dai massicci investimenti (per un totale di 194,4 miliardi di euro) previsti dal piano di ripresa e resilienza finanziato dall’Ue, che tuttavia si concluderà nel 2026. In una prospettiva a più lungo termine, le tendenze demografiche pongono vincoli sostanziali all’economia del Paese: l’invecchiamento della popolazione richiederà una spesa pubblica crescente sia per le pensioni che per la sanità per almeno in prossimi dieci-quindici anni. Di conseguenza, a causa degli scarsi margini di manovra a livello di bilancio, Roma dovrà necessariamente mantenere un dialogo costruttivo con Bruxelles e i partner europei, cercando forme di investimento e di sostegno finanziario a livello comunitario.

Il governo italiano deve fare gioco forza i conti con limiti strutturali alle proprie capacità d’azione non solo a livello macroeconomico, ma anche – in qualche modo conseguentemente – in ambito diplomatico e di sicurezza. Rispetto a Francia, Germania e Regno Unito, la rete diplomatica italiana dispone di meno sedi all’estero, meno personale e dotazioni finanziarie inferiori. La carenza di personale, in particolare, riduce il tempo e l’attenzione che è possibile dedicare ai singoli dossier di politica estera, rendendo difficile tradurre le grandi visioni delineate dai vertici politici in una strategia completa e concretamente perseguibile.

In maniera analoga, sulla base dei dati della Nato, la spesa per la difesa dell’Italia in percentuale sul PIL si attestava all’1,49 per cento nel 2024, un dato molto più basso del 2,33 per cento del Regno Unito, del 2,12 per cento della Germania e del 2,06 per cento della Francia. Le difficoltà italiane a raggiungere la soglia del 2% di spesa per la difesa stabilita a livello Nato oltre dieci anni fa mette il Paese in una posizione difficile nei confronti degli alleati transatlantici – tanto più che la nuova amministrazione statunitense ha già lanciato chiari segnali riguardo a una possibile revisione al rialzo degli impegni degli alleati in materia di sicurezza collettiva.

Trumpismo o multilateralismo: una scelta ineludibile

Se in un primo momento si era ipotizzato che il nostro paese potesse trarre qualche beneficio di breve termine dalle affinità ideologiche tra Meloni e Trump, l’annuncio da parte dell’amministrazione statunitense di pesanti dazi verso l’Unione europea a inizio aprile è stata una doccia fredda per Roma. Con ogni probabilità il governo italiano proseguirà nei suoi sforzi per mantenere aperto un dialogo con Washington; in questo senso, la probabile visita del vicepresidente JD Vance in Italia a fine aprile potrebbe rappresentare un’occasione per tentare di rimettere l’Italia al centro dei rapporti transatlantici. Data la complessità dello scenario globale e il massimalismo delle posizioni dell’amministrazione Trump, tuttavia, quella di fare da pontieri appare un’impresa assai ardua per Roma. Se le aperture verso Washington dovessero poi finire per tradursi in un allineamento di stampo ideologico alle prese di posizione radicali contro l’unità europea e il sistema multilaterale della nuova amministrazione Usa, ciò, anziché “far tornare grande l’Italia”, farebbe più male che bene al nostro paese.

Dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia è stata tra i più convinti sostenitori del multilateralismo nelle sue varie manifestazioni, e non per caso. Attraverso il proprio supporto all’azione delle Nazioni Unite e al processo di integrazione dell’Ue, i governi italiani hanno sostenuto – e fatto leva – sulle istituzioni multilaterali e sull’integrazione europea per rafforzare il prestigio del Paese e temperare i suoi problemi strutturali, giustificando attraverso questo attivismo un certo livello di freeriding su beni comuni globali come la sicurezza collettiva all’interno della Nato.

Nel momento in cui Washington sembra recedere dai suoi impegni globali a favore di una concezione smaccatamente transazionale e incentrata sulla forza delle relazioni internazionali, altri Paesi sono chiamati ad assumersi la loro parte di responsabilità. Per i Paesi europei, ciò significa per l’appunto difendere quei beni comuni – tra cui la sicurezza collettiva – che hanno garantito la loro prosperità postbellica e i loro valori.

In questo scenario, Meloni si sta destreggiando in complicati equilibrismi. Restia a schierarsi apertamente, la presidente del consiglio invoca l’unità dell’Occidente all’interno del quadro atlantico e auspica summit congiunti tra Washington e l’Europa. Ma di fronte a una crisi di sicurezza senza precedenti che incombe sul continente europeo, questi appelli suonano vuoti. La titubanza di Meloni è già stata sottolineata dal presidente francese Macron, che ha espresso il suo auspicio di vedere “un’Italia forte che agisca a fianco della Francia, della Germania, nel concerto delle grandi nazioni”, richiamando esplicitamente l’esempio dell’ex premier Mario Draghi.

L’unilateralismo e il disprezzo per l’Europa dell’amministrazione Trump stanno squarciando il velo del “radicalismo pragmatico” di Meloni, costringendo la premier a mostrare le sue vere intenzioni. Mentre il legame transatlantico è ai minimi storici e il destino dell’Ucraina appare incerto, la presidente del Consiglio è chiamata a una scelta: cercare un confronto con Washington a vantaggio dell’Europa, o scommettere sulla sua vicinanza ideologica alla destra radicale statunitense, minacciando la coesione dell’Ue; rafforzare il suo status di stella della destra radicale globale o riconoscere che l’Italia ha parecchio da perdere da un (dis)ordine globale basato solo sulla forza. Si tratta, in fondo, anche di una scelta tra la presidente del Consiglio e l’Italia: accreditarsi come leader di fiducia di Washington in Europa o privilegiare l’interesse strategico del suo Paese. Una scelta ardua per chi considera nazione e patria come valori fondamentali.

Ora una risposta comune

All’indomani dell’elezione di Donald Trump, alcuni osservatori europei si affrettarono a spiegare che le preoccupazioni per le dichiarazioni incendiarie del presidente eletto erano infondate, dato che esse rientravano in una logica strettamente elettorale e sarebbero state quindi ridimensionate dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Altri raccomandarono di non sottovalutare i progetti trumpiani, in particolare quelli relativi al commercio e alla sicurezza, e le loro conseguenze. Ora dovrebbe essere abbastanza chiaro chi aveva ragione.   

I dazi americani sono arrivati, come preannunciato, e assestano un colpo durissimo alle economie di avversari e alleati. Si salva solo la Russia, mentre gli stessi Stati Uniti pagano subito un prezzo molto elevato. Si valutano le risposte più adeguate, si arriva anche a mettere a fuoco una soluzione ideale, un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, anche se è di là da venire. Suona come una voce fuori dal coro dell’Europa, oggi in preda alle preoccupazioni e all’incredulità, dopo gli annunci con cui Trump ha festeggiato a suo modo “il giorno della liberazione”. Robert Habeck, vice cancelliere e ministro dell’Economia, assegna all’Europa un obiettivo di lungo periodo – un accordo ambizioso, di mutuo interesse per i due lati dell’Atlantico. Non importa che tra qualche settimana non sarà più membro del governo tedesco, quel che rileva è la volontà di reazione del Paese europeo più colpito dai dazi americani e l’impegno a definire un’agenda efficace a tutela dei propri interessi, molto consistenti. 

Occorre un’Unione europea coesa

Se si seguisse la logica, si dovrebbe andare verso una liberalizzazione degli scambi tra due aree economiche già così integrate e imponenti nel mondo. Ma Trump la vede in un altro modo: fissa dazi punitivi a destra e a manca, sconvolge i commerci senza distinguere tra avversari e alleati e senza battere ciglio davanti al costo salato imposto agli stessi Stati Uniti (aumento dei prezzi, inflazione etc.). Per una possibile risposta europea, è da considerare la necessità di una reazione coesa e unitaria dell’Ue, mentre sono da scongiurare ogni furbesca scorciatoia nazionale, foriera di complicazioni ulteriori del quadro, non soltanto economico. L’Europa deve essere capace di dare segnali di fermezza, di predisporre misure adeguate, non fini a sé stesse, non per rappresaglia, bensì come leva per riavviare il dialogo e negoziati indispensabili con gli Stati Uniti. Se possibile, occorrerà ricostituire la fiducia e l’equilibrio. In ogni caso, per sedersi al tavolo della trattativa occorre avere qualche buona carta in mano.

Lo sconcertante spettacolo offerto mercoledì scorso da Donald Trump dal Giardino delle Rose della Casa Bianca e le sue interpretazioni autentiche non sembrano preludere a immediate aperture negoziali né a proiezioni di lungo periodo, addirittura con una meta ideale di libero scambio. Comunque, gli europei cominciano a trarre qualche lezione dalla doccia fredda, attesa, di Washington. Nessuno vuole una guerra commerciale senza precedenti con gli Stati Uniti, il dialogo va ricercato ancor più quando l’orizzonte si rabbuia. L’Europa dovrà serrare i ranghi con misure ben calibrate per avviare su quella base un negoziato, per quanto teso, non per aumentare le tensioni e rischiare una spirale di ritorsioni fuori controllo. Saranno di aiuto anche un’opportuna diversificazione e l’aumento degli scambi europei con Mercosur, Messico e India. 

Vari leader europei e la presidente della Commissione hanno parlato con chiarezza. I dazi di Trump assestano “un colpo durissimo” all’economia mondiale e anche a quella americana, come confermato da tutti gli indicatori. L’Europa, il più grande mercato del mondo, è ancora disorientata di fronte all’abbandono da parte del suo più antico alleato. Oggi si patisce nel commercio, domani il prezzo sarà da pagare nel campo della difesa e sicurezza. Gli avvertimenti non sono mancati. 

Per i dazi, non ci si dovrebbe sorprendere che essi siano diretti senza distinzioni a tutti gli europei. Non sono solo i trattati a imporre una risposta comune dell’Ue, ma la necessità di essere ascoltati ed efficaci. Certo, sull’amministrazione americana potrebbe pesare anche la pressione dissuasiva di settori dell’economia Usa fortemente penalizzati. Tuttavia la difesa dei propri interessi non può essere delegata ad altri né si può sperare in ravvedimenti provvidenziali. Fermezza e dialogo sono gli strumenti necessari in una situazione grave e di estrema incertezza, sempre gravida di rischi pesanti nell’economia e nella politica internazionale. Per questo occorre scongiurarla con ogni mezzo, riconoscendo che chi si spinge fino a considerare l’emergenza come un’“opportunità” si illude e illude pericolosamente quanti cercano invece risposte razionali.

Difesa europea: tempi stretti?

Di difesa europea parliamo sin dagli anni ‘50 del secolo scorso, ma dal rinvio sine die della ratifica del Trattato della Comunità Europea di Difesa, deciso dal Parlamento francese nel 1954, ad oggi, pochissimo è stato fatto, mentre la difesa dell’Europa è divenuta responsabilità pressoché esclusiva della Nato, con un ruolo crescente degli Stati Uniti, sia economico che militare.

Oggi si è aperta una nuova fase, perché gli americani ci fanno sapere, con modi piuttosto bruschi, di non voler più assumersi tanta parte delle spese per assicurare la nostra difesa. Erano partiti dal chiedere che gli alleati europei spendessero almeno il 2% del loro PIL per la difesa, ma ora parlano anche di un mirabolante 5,5%. 

Comunque la si rigiri, il punto è che il determinante contributo americano alla difesa e sicurezza dell’Europa non è più garantito: dipenderà da come ci comporteremo alla corte del nuovo re. 

I primi a scoprire quanto scomoda sia questa situazione sono stati gli ucraini che hanno visto improvvisamente bloccarsi sia l’arrivo di nuovi armamenti che, soprattutto, il vitale flusso di Intelligence che permette loro di resistere efficacemente agli attacchi russi. L’aiuto americano è stato riattivato non appena gli ucraini si sono piegati al diktat di Donald Trump, che ha imposto loro di accettare l’avvio di negoziati indiretti, in cui gli americani parlano con i russi e con gli ucraini separatamente e decidono sui compromessi possibili. Il fatto che finora non si sia arrivati a nulla è il segnale della durezza di Mosca più che della solidarietà americana con Kyiv. I russi sembrano aspettarsi di raccogliere al tavolo negoziale quella vittoria totale che non hanno guadagnato sul campo di battaglia. Il tutto puntando sul desiderio di Washington di chiudere quanto prima questa partita.

Gli USA incrementano le insicurezze dell’Europa

Non sappiamo come andrà a finire, ma nel frattempo la diffidenza europea nei confronti dell’alleato americano cresce. Così si rafforza la percezione che bisogna rapidamente fare qualcosa di concreto. Ciò sta in parte avvenendo sul piano finanziario (dai piani di spesa tedeschi alle proposte di Rearm Europe della Commissione), ma è ancora embrionale sul piano operativo, che è invece quello essenziale se si vuole recuperare credibilità nei confronti sia della Russia che degli Usa.

Ma questa situazione di attesa non può durare troppo a lungo. Il passare dei giorni accresce il rischio di divaricazioni importanti tra le scelte dei singoli governi nazionali, sotto la spinta di evoluzioni specifiche dei vari elettorati, o per adattarsi ad altre sfide. È chiaro, ad esempio, che un aggravarsi della “guerra dei dazi” verrà vissuta in modo diverso dai singoli paesi e che questo potrà influire sulla loro solidarietà reciproca. Altre divisioni potrebbero insorgere se si dovesse porre mano alle politiche sanzionatorie nei confronti della Russia e di altri paesi. È insomma urgente cominciare a prendere decisioni significative.

Sul piano operativo l’iniziativa europea deve partire dall’ambito Nato, più che dall’Ue, perché è la Nato che assicura la difesa delle frontiere orientali e la deterrenza nei confronti della Russia. Dovrà quindi essere un gruppo di paesi membri della Nato a dare il via a una missione specifica comune europea per la difesa a Oriente, dal Circolo polare artico al Mar Nero. Il programma deve essere quello di assicurare una capacità difensiva credibile anche in assenza del contributo americano, senza naturalmente in alcun modo voler scusare gli americani per una loro eventuale mancanza.

Per far questo nel modo migliore sarebbe bene passare anche attraverso quella integrazione e razionalizzazione del mercato interno europeo della difesa di cui si parla nella Lettera di intenti firmata trent’anni or sono dai maggiori paesi europei. Ma in primo luogo sarà necessario individuare lo Stato Maggiore in grado di pianificare sia gli aspetti operativi che quelli tecnologici e industriali necessari a una difesa credibile.

Oggi il grosso di queste competenze è nel Comando Supremo alleato in Europa (Shape) guidato da un americano e con la presenza di numerosi funzionari a stelle e strisce. Il loro contributo sarà prezioso, se disponibile, altrimenti si dovrà procedere tra i volenterosi, magari anche coinvolgendo l’embrione di Stato Maggiore esistente nell’Ue. Ma deve essere chiaro che una difesa credibile europea della frontiera orientale è un’operazione militare di enorme impegno, che non può né deve fare a meno delle conoscenze e degli asset comuni dipendenti da Shape.

Non sono decisioni facili, né politicamente né tecnicamente, ma solo cominciando da subito ad esaminarle e discuterle potremo sperare di affrontare con successo l’immenso e gravoso compito che ci aspetta, se vogliamo mantenere l’Europa libera e unita.

L’Europa al confronto con Trump

La politica estera del nuovo Presidente americano è eversiva quanto quella che sta attuando sul fronte interno. È connotata da un approccio esplicitamente transazionale nei rapporti fra Stati, da scarsa considerazione per le regole che presiedevano ai rapporti fra Stati e per le alleanze tradizionali, e dal ricorso spregiudicato alla logica del più forte. In sintesi, Trump sta facendo saltare i tradizionali parametri di riferimento della politica estera americana. Con il risultato di provocare una pericolosa instabilità del contesto internazionale.

Ma Trump sta provocando anche una crisi nel rapporto transatlantico, particolarmente evidente almeno su quattro fronti: misure protezionistiche, guerra in Ucraina, sicurezza e difesa, e più in generale sul tema dei valori e dei principi fondanti.

Le cause dei dazi

La politica commerciale di Trump è caratterizzata da un’autentica ossessione per gli squilibri della bilancia commerciale americana e dalla decisione di utilizzare i dazi sulle importazioni negli Usa come strumento di politica economica. Dopo aver adottato dazi generalizzati sulle importazioni di acciaio, alluminio e, successivamente, auto, Trump ha annunciato il 2 aprile – con una cerimonia tanto spettacolare quanto surreale – nuovi dazi (differenziati e qualificati come “reciproci”) sulle importazioni da circa una sessantina di Paesi, motivati dalla necessità di rispondere a dazi e altre barriere non tariffarie praticate da partner commerciali degli Usa (peraltro calcolati con metodi opinabili). Nell’ottica del Presidente americano, i dazi americani avrebbero il triplice obiettivo di riequilibrare la bilancia commerciale degli Stati Uniti, recuperare risorse finanziarie per ridurre il deficit del bilancio federale, e incentivare investimenti esteri per attività produttive negli Usa.  

Le decisioni annunciate da Trump segnano una svolta di portata epocale e sono destinate a provocare reazioni pesanti sull’economia americana e globale, incertezze sulle scelte degli investitori, e rischi sui mercati finanziari e sulle quotazioni di borsa, con la prospettiva di avvio di una recessione globale. Anche l’Ue è stata colpita con dazi del 20% apparentemente su tutte le importazioni europee negli Usa, che si sommano ai dazi già in vigore su acciaio, alluminio e auto. Sono quindi misure che colpiscono direttamente anche rilevanti interessi europei, rendendo complessivamente più complicato per gli europei trattare con la nuova Amministrazione americana. 

Sulla guerra in Ucraina, Trump, confermando le promesse della campagna elettorale, ha avviato un’iniziativa diplomatica mirata alla ricerca di una cessazione del conflitto. I tentativi di mediazione stanno procedendo tra molte difficoltà. Non è chiaro se a un certo punto Trump dovrà concludere che le condizioni che Putin cercherà di imporre sono inaccettabili. Tuttavia, finora Trump ha spiazzato gli europei aprendo un canale di dialogo bilaterale con Putin, legittimandolo come interlocutore affidabile e dando l’impressione di condividere la narrazione russa sulle origini e responsabilità del conflitto. Ha inoltre deliberatamente escluso gli europei da questa iniziativa, con la prospettiva che questi ultimi – oggi all’oscuro delle vere intenzioni di Trump – possano essere chiamati a svolgere un ruolo dopo un eventuale accordo, sia per la definizione di credibili garanzie di sicurezza per l’Ucraina, che per la sua ricostruzione.

Sul fronte della sicurezza e della difesa, è per ora improbabile che si concretizzi il rischio di un esplicito disimpegno americano dalla Nato. Tuttavia, aumenteranno le pressioni americane sugli alleati europei per una maggiore spesa per la loro difesa. La richiesta non è nuova, ma potrebbe diventare più stringente, al punto da condizionare l’impegno americano per la sicurezza dell’Europa a concreti risultati nella direzione dell’assunzione di maggiori responsabilità da parte degli europei. Ne consegue che appaiono più che legittimi i dubbi sulla stessa credibilità di un’eventuale mobilitazione degli Usa in caso di minacce alla sicurezza degli alleati europei.

Infine l’involuzione autoritaria imposta da Trump sul fronte interno (con gli attacchi alle politiche di inclusione e diversità, ai media e alla magistratura, alle università, agli studi legali, a chiunque osi contestare le politiche dell’Amministrazione americana) rimette in discussione un sistema di valori una volta considerati patrimonio comune dell’Occidente. Tutto ciò rischia di provocare un effetto imitazione anche in Europa, rafforzando i consensi per le formazioni politiche dichiaratamente nazionaliste, sovraniste ed euro-scettiche. Potrebbe inoltre accentuare le divisioni fra Paesi dell’Ue con conseguenze sulla compattezza della posizione dell’Ue.

Il risveglio europeo

Nel frattempo la linea della nuova Amministrazione americana sta stimolando un risveglio di iniziative da parte europea, non tutte lineari, coerenti o istituzionalmente corrette, ma animate dall’intenzione di recuperare un protagonismo da tempo smarrito ma che si impone date le circostanze. Non necessariamente in contrapposizione agli Usa, sui quali, malgrado tutto, si spera di poter contare, ma come tentativo di dare faticosamente sostanza e contenuto all’obiettivo dell’autonomia strategica.

La prima sfida che chiama in causa l’Ue è quella della reazione ai dazi americani. Subito dopo l’annuncio di Trump, la Presidente della Commissione ha dichiarato che le misure minacciate erano sbagliate e dannose per l’economia mondiale. Pur mantenendo aperta l’opzione di una qualche forma di accordo per ridurre l’impatto dei dazi, ha confermato di essere pronta a rispondere con misure analoghe da adottare dopo una consultazione con i Paesi membri. Si apre ora una fase delicata in cui l’Ue dovrà decidere come reagire. Non è da escludere che, oltre ai più tradizionali (e poco efficaci) dazi sulle importazioni americane, possano essere prese in considerazione anche misure mirate a colpire gli interessi delle aziende tecnologiche sul mercato europeo, come limitazioni all’accesso e tassazione dei profitti.

Sulla difesa, gli europei si stanno movendo su due direttrici: un piano di medio-lungo termine di rafforzamento delle capacità militari degli Stati membri come premessa per una futura difesa europea e una serie di iniziative a sostegno dell’Ucraina. Sulla difesa europea, le proposte della Commissione hanno ricevuto un sostegno di principio, accompagnato da critiche, distinguo e condizioni, a conferma che resta molta strada da fare per avviare concretamente un percorso condiviso di rafforzamento delle capacità europee in materia di difesa. Sull’Ucraina, oltre alla conferma del sostegno politico e di nuovi aiuti anche militari (sia pure per un volume di spesa molto inferiore quanto proposto dalla Commissione), sono in discussione varie proposte per un contributo europeo ad un sistema credibile di garanzie di sicurezza all’Ucraina che dovrebbero costituire parte integrante di un auspicabile accordo sulla cessazione del conflitto.

Sono ancora piccoli passi nella direzione giusta di un recupero di protagonismo in un contesto particolarmente difficile per l’Europa. Sul piano degli annunci le intenzioni sono quindi buone. In concreto l’Ue dovrà fare i conti con le complessità dei suoi processi decisionali e con le difficoltà di far convergere scelte e sensibilità dei Governi nazionali. 

Buone intenzioni, poca strategia

Mai nella sua ormai lunga storia l’Ue ha vissuto un così drammatico periodo di incertezza. Schiacciata fra Trump e Putin, Bruxelles e i suoi principali partner sembrano muoversi a sussulti in un mondo ormai radicalmente diverso dopo l’emergere prepotente del “fattore T”. Molte le buone intenzioni e le iniziative sul tappeto, ma senza una vera e propria strategia comune per imparare a navigare in questi procellosi scenari. 

Come al solito arrivare a una decisione comune è estremamente difficile, come dimostrano gli scontati rinvii dell’ultimo Consiglio europeo del 20 marzo e perfino le ripetute riunioni dei cosiddetti “volonterosi” indette a Londra o Parigi per definire i contorni di una “forza di garanzia o di rassicurazione” in caso di cessate il fuoco in Ucraina

Di fronte a questa profondissima crisi riemergono in tutta la loro evidenza i limiti politici e istituzionali dell’Ue. Si ripete spesso che il processo di integrazione è destinato ad approfondirsi sotto la pressione delle crisi esterne, ma fino ad oggi non si è visto nulla di simile, anche se nei fatti alcuni adattamenti cominciano ad emergere.

La prima grande novità riguarda il ruolo della Commissione europea che, come nella passata crisi del Covid o della successiva depressione economica, ha preso anche oggi un’iniziativa coraggiosa su materie apparentemente lontane dalle sue competenze: il piano originario di “ReArm Europe” ampliato poi in un più convincente “Joint White Paper for European Defence Readiness 2030”. In mancanza di altri attori istituzionali capaci di prendere con una certa rapidità decisioni cruciali per il futuro dell’Unione, ecco che ancora una volta è la Commissione europea ad assumersi la responsabilità di dare la linea agli altri organismi dell’Ue e soprattutto al Consiglio europeo e ai 27 suoi paesi membri. Che poi l’iniziativa di Ursula von der Leyen abbia sollevato le proteste e i dubbi dei paesi e delle forze politiche sovraniste (comprese quelle italiane) era da mettere nel conto delle tipiche reazioni anti-comunitarie presenti un po’ dovunque. L’importante tuttavia è che qualcuno si sia preso la responsabilità di lanciare l’allarme e di obbligare a dare risposte concrete in un campo, quello della difesa comune, che attende ancora dal 1954 (fallimento della CED) di essere affrontato. 

In fondo l’Ue in tutti questi decenni è stata ciò che si definisce una “potenza civile” in un mondo dove gli sviluppi dell’economia erano al primo posto negli interessi globali. Ma oggi la musica è radicalmente cambiata e in un mondo marcatamente multipolare e nel quale lo strumento della guerra sembra essere tornato utilizzabile nelle contese internazionali l’essere “potenza civile” non è più sufficiente. Altiero Spinelli già decenni fa parlava di Europa come “terza potenza” per significare la necessità di completare il processo di integrazione economica anche con la dimensione di difesa. Oggi tale esigenza rimane valida anche se essa si sostanzia essenzialmente nella necessità di interloquire da pari con gli altri attori multipolari a cominciare dalla Russia, ma anche e soprattutto dagli Stati Uniti vista la loro drammatica trasformazione da alleati indispensabili per quasi 80 anni a concorrenti feroci nei prossimi. 

Sfide e prospettive per l’Europa nella difesa e nei negoziati internazionali

Certo non basta Ursula von der Leyen né la sua determinazione ad incamminarsi sulla via, soprattutto industriale, di una difesa comune e di uno sviluppo tecnologico accelerato per aprire il confronto con le altre potenze globali. Lo può fare nel campo degli accordi commerciali e della difesa dai dazi di Trump ove la Commissione ha competenze esclusive. In effetti, gli accordi con il Mercosur o i negoziati con il Messico e forse in futuro con l’India possono costituire la giusta risposta alle follie tariffarie di Trump. Ma sul piano dei negoziati di sicurezza o di pace la voce della Commissione non può che essere debole. Nessun invito alla Presidente della Commissione a sedersi a qualsivoglia tavolo con Usa, Russia e Ucraina. Cosa che a maggior ragione vale per la nuova Alto Rappresentante, Kaya Kallas, che ha dovuto soffrire la cancellazione all’ultimo minuto dell’incontro con la controparte americana Carlo Rubio o che ha visto respinta dal Consiglio europeo la sua proposta di un aiuto di 40 miliardi di Euro all’Ucraina, poi ridotta a 5 miliardi (ma senza conseguente decisione). Né migliori sono le performance internazionali del nuovo presidente del Consiglio europeo Antònio Costa il cui organismo di riferimento è scarsamente adatto a prendere con rapidità e consenso decisioni vitali per l’Ue. 

Se questo è lo stato penoso del decision-making comunitario di fronte alle nuove responsabilità di sicurezza e difesa, la reazione di alcuni stati membri, ed è questo l’altro motivo di novità, è stata quella di fare rinascere il vecchio concetto di “willing and able”.

Sviluppato intorno alla seconda metà degli anni ’80 per attrezzare la Nato a operazioni fuori dalla sua area di competenza è stato poi largamente applicato dopo il 2001 con le iniziative di ritorsione americana all’attacco alle due Torri. Sia in Afghanistan che in Iraq sono infatti nate le cosiddette “coalition of the willing” che hanno permesso la partecipazione volontaria di paesi alleati degli Usa per combattere in Medioriente. Oggi sia Macron che Starmer hanno preso in mano le redini dei cosiddetti gruppi di volonterosi per attrezzare in questo caso l’Ue a mantenere le proprie responsabilità in sostegno dell’Ucraina, prevedendo anche la costituzione di una forza di garanzia in caso di pace fra Mosca e Kyiv

In realtà queste iniziative, soprattutto da parte francese e degli altri membri dell’Ue che hanno deciso di farne parte, indicano la possibile strada anche istituzionale per uscire dal deficit decisionale dell’Ue. La nascita cioè di un gruppo di avanguardia che decida di procedere autonomamente verso un’integrazione di livello superiore, magari con un nuovo accordo/trattato che lasci inalterato l’assetto del resto dell’Ue, ma che nel gruppo di testa ponga rimedio alla paralisi istituzionale e di rappresentanza di un’Europa “potenza”. Sarà questa l’evoluzione futura? Sarebbe certamente auspicabile, ma viste le resistenze passate rimane poco probabile. A meno che la crisi attuale non finisca per imporsi. 

Il fattore Trump nel reset tra UE e Regno Unito

I primi due mesi della seconda Amministrazione Trump sono già stati sufficienti a erodere ogni precedente certezza sulle fondamenta dell’ordine internazionale. Tra dazi, politiche commerciali sempre più aggressive, riavvicinamento con la Russia e abbandono della causa ucraina, la faglia atlantica tra Stati Uniti ed Europa non è mai parsa tanto ampia. Un contesto così caotico e volatile da impattare inevitabilmente anche sul tanto annunciato ‘reset’ tra Unione Europea (Ue) e Regno Unito, che sembra sempre più avviato a un processo di accelerazione il cui punto di caduta è però difficile da immaginare.

L’Europa prova a cambiare passo

Il crescendo con cui Donald Trump ha prima adulato Vladimir Putin, poi umiliato Volodymyr Zelensky e infine messo nel mirino Bruxelles sembra aver suscitato un primo cambio di passo nelle principali cancellerie europee. La consapevolezza di non poter più contare su un affidabile alleato a Washington e di doversi assumere la responsabilità della propria sicurezza ha portato l’Ue a fare importanti passi in tal senso. Sinora, a guidare questa nuova fase sono stati soprattutto Emmanuel Macron e i Paesi in prima linea dinanzi alla minaccia russa, senza dimenticare l’assertività sin qui mostrata dal nuovo Cancelliere tedesco Friedrich Merz. In questo mosaico in rapida ricomposizione, fuori dalla cornice Ue un ruolo di primo piano lo ha sin qui giocato il Primo Ministro britannico Keir Starmer. Prima ospitando un summit a Londra con alcuni dei principali leader europei, poi ponendosi alla guida assieme alla Francia della ‘coalizione dei volenterosi’ per offrire garanzie di sicurezza all’Ucraina per mezzo di un contingente da dispiegare sul territorio. Il Regno Unito sembra tornato al centro della scena europea per la prima volta dal 2016, sottolineando come Brexit non abbia in fondo separato gli obiettivi strategici che legano Bruxelles e Londra.

La dimensione economica del reset, e le implicazioni sulla sicurezza

La data cerchiata in rosso per il futuro del reset Ue-Regno Unito è stata a lungo quella del 19 maggio 2025, ovvero il summit ufficiale che dovrebbe fornire l’occasione per affrontare temi delicati quali il miglioramento delle relazioni economiche e commerciali, e il futuro del tanto discusso Security Pact. Gli avvenimenti delle ultime settimane, però, potrebbero aver impresso un’accelerazione imprevista, nonostante permangano importanti nodi da sciogliere.. La formula della ‘coalizione dei volenterosi’, emersa anche a causa delle resistenze interne di alcuni Stati membri, va nella direzione di modelli di cooperazione basati su gruppi di paesi che stringono accordi ad hoc. Questo scenario si discosta dalle discussioni degli ultimi mesi sul Security Pact, finora concepito come un accordo a tutto campo tra Londra e Bruxelles. In teoria, la situazione attuale suggerirebbe la necessità di superare intese informali e dichiarazioni di principio a favore di una cooperazione più strutturata. Tuttavia, resta da vedere se l’urgenza della crisi spingerà effettivamente in questa direzione o se prevarrà la preferenza per formati più agili e flessibili anche al di fuori del quadro istituzionale dell’Ue. Inoltre, c’è anche una dimensione economica del reset che intreccia i destini con quella di sicurezza. Il recente incremento delle spese per la difesa in ambito comunitario sembra destinato a riaprire il dibattito sulle regole Ue riguardanti la partecipazione di paesi terzi ai programmi di procurement militare,  tema particolarmente sensibile per Londra. Al tempo stesso, nel Regno Unito ci si aspetta che il nuovo quadro strategico possa portare Bruxelles ad attenuare le proprie posizioni su questioni commerciali, come gli accordi sanitari e fitosanitari o le barriere non tariffarie. Infine, il fattore Trump potrebbe incidere anche su questo scenario: un maggiore allineamento tra Londra e Bruxelles su questi temi potrebbe essere interpretato dalla Casa Bianca come una presa di posizione britannica a favore dell’Ue.

Momento Churchill?

Il forte attivismo di Starmer nell’assumere un ruolo di primo piano in politica estera e nell’architettura di sicurezza europea ha suscitato vivaci reazioni, in patria e all’estero, spingendo importanti osservatori politici a definire il suo come un ‘Momento Churchill’, con riferimento ai grandi successi di politica estera del Primo Ministro che guidò il Regno Unito durante la Seconda Guerra Mondiale. Sulla strada di Starmer restano però alcuni ostacoli non di poco conto. Innanzitutto, il futuro del rapporto transatlantico. Il Regno Unito non vuole rinunciare al proprio ruolo di ponte tra Washington e l’Europa per ragioni storiche, culturali e strategiche, pensando così di poter consolidare la propria centralità post Brexit come collante tra le due sponde dell’Atlantico. Ma se il divario tra le due parti sulla questione ucraina dovesse ampliarsi ancora, questo delicato equilibrismo potrebbe diventare insostenibile e Londra dovrà scegliere con chi schierarsi. In secondo luogo, c’è il fronte interno e l’impellente urgenza di reperire risorse. Per innalzare la spesa militare, Starmer ha recentemente tagliato i fondi allo sviluppo internazionale, scatenando proteste interne al partito e le dimissioni del Ministro Dodds. Per sostenere i suoi ambiziosi piani per la sicurezza europea, però, il governo dovrà ora e in futuro trovare molti più fondi in un contesto di crescita economica stagnante. Ridurre ulteriormente la spesa pubblica, a scapito soprattutto del sistema sanitario, vorrebbe dire contravvenire a ogni promessa elettorale e colpire un’opinione pubblica sin qui solidamente favorevole all’Ucraina. Confermarsi l’architrave della sicurezza europea senza smantellare quel poco che resta del welfare britannico sarà una sfida esiziale per Starmer. Per evitare un altro frammento del destino di Winston Churchill nel 1945, spesso dimenticato: mettere al riparo la sicurezza dell’Europa, per poi perdere le elezioni. 

La visione di politica globale del nuovo governo in Germania

I negoziati per la formazione della nuova coalizione di governo in Germania procedono spediti, anche a causa di un quadro internazionale che reclama con sempre maggiore urgenza una leadership chiara e forte. In particolare, il concretizzarsi della sfida trumpiana al sistema delle relazioni economiche internazionali aggiunge un ulteriore fattore di urgenza a quello legato al progetto di riarmo europeo

Coerentemente con il quadro emerso all’indomani delle elezioni, si configura una coalizione a due – CDU/CSU e SPD – che porrà all’opposizione un ventaglio di partiti che va dai Verdi ad AfD passando per la Linke. Si tratterà dunque di una coalizione che non potrà sicuramente essere definita come “grande” ma che certamente dovrebbe presentare minori problemi gestionali della defunta coalizione semaforo, che aveva posto un vero e proprio problema dei tre corpi, finendo per logorare soprattutto il maggiore, l’SPD, e il suo leader, Olaf Scholz. In questi giorni le trattative tra le due forze principali si stanno intensificando, anche se il raggiungimento di un accordo per la fine di aprile sembra davvero difficile, con una maggiore fiducia per i primi giorni di maggio. 

Ha avuto molta eco la convergenza espressa da socialdemocratici e cristiano-democratici per la riforma delle regole di finanza, che sono state fatte votare dal parlamento uscente e che permetteranno al governo tedesco un maggiore margine di manovra su tematiche strategiche. In questo senso, l’impegno per il riarmo e la continuazione del sostegno all’Ucraina rappresenta la premessa attraverso cui cementificare l’intesa. 

Restano però molti fattori divisivi legati soprattutto alle diverse visioni dell’economia e dello sviluppo del paese, al momento alle prese con una contrazione economica che va governata e trasformata in un volano di crescita. A dividere molto è il tema della detassazione: mentre la CDU preme per un taglio immediato delle tasse sulle aziende, per i socialdemocratici questo obiettivo va raggiunto in un orizzonte più ampio, quello del 2029. Si tratta di divisioni di sostanza ma anche di forma: su questi temi infatti i partiti mettono in gioco la loro identità e la loro visione della società. 

Diversi punti di frattura

In realtà, il tema del rilancio dell’economia è molto più complesso e va oltre le divisioni più classiche su tasse e occupazione. La futura Groko dovrà infatti mettere a punto un programma per modernizzare un’economia che, nell’ultimo decennio, non ha saputo effettivamente rinnovarsi. Vi è un ritardo infrastrutturale rilevante, basti guardare al comparto ferroviario. Vi è poi una questione energetica aperta: è diffusa l’idea che la svolta green che il paese ha compiuto sia stata mal pensata e mal gestita. Vi è poi un discorso più generale di innovazione e di adeguamento di una legislazione che con il tempo si è fatta più complessa e farraginosa. Questo processo di riforma si intreccia e si sovrappone con le politiche in materia portate avanti dall’Unione europea, dall’Omnibus Simplification Package ad altri macro-provvedimenti che andranno rapportati e integrati con le strategie nazionali.

Tutti questi temi, che dovranno necessariamente trovare una sintesi nella piattaforma politica del nuovo governo, andranno poi a sommarsi alla nuova visione strategica che il governo dovrà definire, innanzitutto nei confronti dei tre attori globali principali: Russia, Cina e Stati Uniti. Questi ultimi pongono un duplice problema: da un lato quello di ripensare (e, se necessario, integrare) il dialogo transatlantico, dall’altro quello di evitare che il vuoto di potere generato dalla ritrazione di Washington in diverse aree geografiche sia colmato dagli altri, in particolare da Pechino. In questo senso un aspetto molto importante da monitorare sarà la visione di politica globale del nuovo governo, con un’attenzione specifica alle politiche di aiuto allo sviluppo. Inizialmente si pensava che il nuovo governo tedesco avrebbe tagliato questa voce per dare priorità ad altro, ma oggi ci si chiede se questo sia possibile per evitare che la Cina subentri nel controllo di aree e ambiti economici strategici.

Giornata internazionale contro le mine antipersona: il dilemma dei paesi al confine con la Russia

La Giornata internazionale contro le mine antipersona indetta dalle Nazioni Unite si celebra ogni anno  il 4 aprile. Per l’Unione Europea l’adesione da parte di tutti i suoi membri  alla Convenzione di Ottawa del 1997 che proibisce il possesso ed uso di tali odiosi strumenti  bellici che dissimulati nel terreno fanno saltare in aria i civili e militari che li calpesta, costituisce una delle piu significative espressioni dell’impegno dell’Europa a favore del controllo degli armamenti. Quest’anno la celebrazione non può che avvenire in tono minore poiché desta preoccupazione il recente annuncio congiunto dei Ministri della Difesa di  Polonia, Estonia, Lituana e Lettonia dell’intenzione di ritirarsi dall’accordo di Ottawa  a causa ”dell’accresciuta minaccia militare che devono affrontare quei  paesi della  Nato che confinano con la Russia e la Bielorussia”. Successivamente anche la Finlandia, ha effettuato un annuncio analogo.

Tali annunci destano preoccupazione sul piano generale perchè  costituiscono un ulteriore passo indietro nel settore del controllo degli armamenti che si aggiunge a precedenti numerosi  ritiri da accordi effettuati soprattutto da parte degli Stati Uniti e dalla Russia. Con l’uscita dalla Convenzione di Ottawa, i cinque paesi in questione non farebbero estinguere l’accordo, cui hanno aderito ben 165 paesi,ma certamente indebolirebbero  il regime del disarmo “umanitario”, quello che mira non tanto a  mantenere un equilibrio strategico tra le maggiori potenze, bensì ad alleviare le soffrenze di combattenti e civili durante e dopo un conflitto armato.

Il motivo che induce questi stati ad adottare tale spiacevole decisione è però comprensibile. Non si tratta di un gesto volto a ristabilire la reciprocità con la Russia e la Bielorussia che non hanno mai aderito alla Convenzione sulle mine e che hanno sempre possieduto ed impiegato tali ordigni. Si tratta invece di uno strumento di dissuasione contro un possibile attacco militare russo, che visto il precedente dell’aggressione russa dell’Ucraina non è più del tutto escludibile.Particolarmente delicata è la situazione della Finlandia che ha con la Russia un confine  di migliaia di chilometri e che ha già subito un’invasione sovietica nel corso della seconda  guerra mondiale.

Occorre tener presente che l’art 20 della Convenzione Ottawa prevede che uno stato parte che sia coinvolto in un conflitto armato possa  ritirarsi dal trattato solo dopo la conclusione delle ostilità. E’ questo il caso dell’Ucraina che aveva aderito alla convenzione  di Ottawa e che non può oggi, come vorrebbe, ritirarsi  dal trattato. Lo potrà fare solo al termine del conflitto. Nel frattempo Kiev ha ottenuto dagli USA delle mine antipersona che non potrebbe legalmente possedere e tanto meno usarle. Per evitare di cadere nella stessa trappola dell’Ucraina e per potersi svincolare legalmente dalle ferree disposizioni della convenzione, i cinque paesi citati preferiscono  probabilmente anticipare il proprio ritiro dalla convenzione ed evitare  una loro possibile inadempienza.

L’uscita dei cinque  paesi dall’accordo  non è un fatto compiuto, la decisione  definitiva non è stata ancora presa  e dovranno comunque passare sei mesi tra la denuncia vera e propria (che deve essere motivata)e la sua effettiva entrata in vigore.Nel frattempo i membri della comunità internazionale potranno cercare di dissuadere i governi dei cinque paesi dal portare a termine il loro intendimento.Tuttavia viste le circostanze attuali non saranno molti i paesi che se la sentiranno di intervenire presso le capitali nordiche affinchè esse desistano dal ritiro.Semmai le si potrà incoraggiare a dichiarare la natura reversibile della loro decisione e la disponibiltà a rivederla in tempi meno turbolenti.

Il Cremlino appalta la disinformazione ad aziende private russe come SDA

Per la sua strategia di manipolazione e destabilizzazione, il regime russo non si serve solo dei canali di propaganda statali e dei servizi di intelligence, con unità speciali adibite ad operazioni psicologiche e informative, ma ha anche appaltato l’attività ad agenzie private di Mosca che assumono esperti di marketing e social media. Si tratta delle eredi di quella che fu la Internet Research Agency del fondatore di Wagner, Evgenij Prigozhin, la celebre fabbrica dei troll che per anni ha provocato e seminato discordia sulle piattaforme online. Tra quelle note c’è l’azienda informatica Struktura National Technologies fondata da Nikolai Aleksandrovich Tupikin, concentrata sull’America Latina, la no-profit ANO Dialog fondata nel 2019 e guidata fino al 2022 da Alexej Goreslavskij e poi da Vladimir Tabak, impegnata a diffamare i dissidenti russi e a disinformare in Ucraina, ma anche la ArgonLabs, gestita da Maria Aleksandrovna Shubochkina e dal marito Andrey Evgenievich Shubochkin. La più nota, tuttavia, è la Social Design Agency, SDA, (Агенство Социального Проектирования), fondata da Ilya Andreevich Gambashidze, che dal 2022 ha lavorato insieme a Struktura di Tupikin in base alle direttive del Cremlino. Infatti, le due aziende sono responsabili di alcune delle più vaste campagne di disinformazione ai danni dell’opinione pubblica occidentale e sono state dunque sanzionate.

L’inchiesta che ha svelato la macchina di propaganda

Un’inchiesta pubblicata a settembre 2024 da Radio Free Europe insieme ad altri media tedeschi ed estoni ha scoperchiato l’enorme macchina di propaganda gestita da SDA. I giornalisti investigativi hanno potuto farlo grazie a una consistente mole di documenti filtrati dall’azienda russa, che hanno permesso di scoprire i retroscena della strategia adoperata contro l’Ucraina e i paesi europei. Alcuni di quei documenti erano già stati pubblicati dalle autorità americane per giustificare una richiesta di sequestro dei domini internet collegati a SDA. Forse il file più clamoroso è un video promozionale del capo dell’agenzia, Gambashidze, che si vanta dei successi conseguiti e svela la paternità di operazioni come la “RRN” (Recent Reliable News, in cui era coinvolto anche il propagandista filorusso italiano Amedeo Avondet) e Doppelganger, con la clonazione di almeno 120 siti di media e istituzioni europee.

La strategia operativa in tre direzioni

Il video di tre minuti e mezzo era indirizzato ai “clienti” russi dell’agenzia e non andava divulgato all’esterno. Infatti, mostra Gambashidze in tuta mimetica con la mostrina “Truppe Ideologiche Russe — Forza della Verità” e descrive come lavora la sua organizzazione per inquinare l’informazione occidentale. L’attività di SDA si sviluppa in tre direzioni: la prima è il monitoraggio giornaliero da parte di 24 analisti di articoli sulla Russia e dei post di oltre mille opinion leaders in sei lingue diverse, con la compilazione di rapporti su potenziali contenuti di disinformazione. La seconda è quella analitica, con specialisti che studiano le priorità mediatiche e le vulnerabilità del pubblico da influenzare, mentre la terza è quella creativa e si concentra sull’elaborazione di articoli di disinformazione che copiano lo stile giornalistico di un determinato paese europeo, oltre alla produzione di caricature e meme per denigrare i suoi leader.

I protagonisti e i collegamenti con il Cremlino

Oltre a Gambashidze, sono noti anche Andrej Naumovich Perla, direttore dei progetti, e Sofia Avraamova Zakharova, il cui nome emerge in vari documenti ed è una funzionaria nell’amministrazione presidenziale russa, con l’incarico di supervisionare le attività di SDA. Infatti, dal 2023 al Cremlino è stato istituito il “Comitato presidenziale speciale di coordinamento e valutazione dell’efficacia delle operazioni informative e psicologiche”, guidato da Sergej Kirienko, primo vicecapo gabinetto di Putin, a cui probabilmente risponde Sofia Zakharova, capo dipartimento per lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione e informazione. Il suo nome riemerge nel verbale di una riunione tenutasi a settembre 2023, in cui esprime soddisfazione perché la falsa notizia di un traffico di organi di bambini ucraini prodotta da SDA è stata rilanciata dalla deputata americana Marjorie Taylor Greene, complottista trumpiana e contraria agli aiuti all’Ucraina. Anche un meme contro Zelensky e un video contro USAID prodotti da SDA sono stati ricondivisi da Elon Musk e Donald Trump Junior, raggiungendo milioni di utenti su X.

Operazioni di destabilizzazione in Europa

Tra le operazioni gestite da SDA figura la distribuzione di documenti falsi che imitano quelli del governo ucraino o delle autorità polacche e tedesche, con l’obiettivo di creare divisioni interne e fiaccare l’aiuto all’aggredito. Per questo, gli analisti di SDA monitorano sui media ucraini argomenti come la mobilitazione, le perdite al fronte, le limitazioni dovute alla legge marziale, i casi di corruzione, e cercano di sfruttare ogni possibile notizia per aumentare il disfattismo e la polarizzazione. Ad esempio, i commenti provocatori e le caricature sono prodotti per esasperare il dibattito politico e la competizione tra il presidente Zelensky e i suoi potenziali avversari, come Petro Poroshenko, il sindaco di Kyiv Klitchko e il generale Zaluzhny. Un esercito di account bot è addestrato da SDA a spammare commenti negativi sotto alle notizie sui social.

Un altro filone è mirato a diffondere contenuti di disinformazione nei paesi dell’Ue, come un video pubblicato da un canale Telegram in tedesco, che sostiene di mostrare un rifugiato ucraino mentre sfonda una vetrina a Napoli per rubare nel negozio. Uno dei documenti di SDA circolati descrive il lavoro dei “creativi”, che propongono di creare un’organizzazione ucraina fittizia che chieda risarcimenti di guerra alla Germania per l’invasione nazista, oppure diffondere la notizia che rifugiati ucraini in Europa si sono uniti all’ISIS, o, ancora, che una dodicenne tedesca è stata stuprata da adolescenti ucraini nella città di Rostock, nell’ex Germania est dove va forte Alternative für Deutschland, partito di estrema destra particolarmente votato dagli immigrati russo-tedeschi, che a sua volta li apprezza molto. SDA ha prodotto un video falso attribuito alla testata tedesca Bild, secondo cui rifugiati ucraini avrebbero dato fuoco alla casa dei tedeschi che li ospitavano nel tentativo di bruciare una bandiera russa.

L’impatto e i numeri della macchina della disinformazione

I documenti filtrati offrono anche dei numeri precisi sull’attività di SDA: solamente da gennaio ad aprile 2024 l’organizzazione di Gambashidze ha pubblicato almeno 34 milioni di commenti sui social network grazie alla fabbrica di bot. Nello stesso periodo, sono stati prodotti circa trentamila post, quasi cinquemila video, millecinquecento articoli, duemilacinquecento caricature e meme. Il lavoro prolifico di SDA non sembra essersi arrestato nonostante la fuga di notizie, le sanzioni che hanno colpito Gambashidze e i suoi collaboratori. Le istituzioni europee e nazionali possono trarre da questa esperienza molte lezioni su come affrontare la macchina di propaganda russa e implementare risposte più stringenti alla manipolazione informativa straniera.

Matteo Pugliese, PhD, analista di Debunk.org

I media al tempo di Trump 2.0

di Sofia Chiarelli

A circa due mesi dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il sistema politico statunitense sembra non poter fare troppo affidamento sui tradizionali “contrappesi” in grado di controbilanciare l’azione di un esecutivo che sta acquisendo sempre di più il carattere di un potere personale

Il Congresso sembra essere uno spettatore passivo di fronte al dispiegarsi della valanga di ordini esecutivi presidenziali. Il sistema giudiziario appare in difficoltà nel tentativo di contrastare i ripetuti attacchi provenienti da Trump e dal suo sodale Elon Musk, e non è scontato che possa godere del supporto di una Corte Suprema sensibile alle istanze conservatrici del presidente. Le agenzie federali hanno subìto in tempo record un ricambio del personale che assomiglia più ad una epurazione. Infine, la controparte democratica risulta essere ancora in crisi dopo la sconfitta alle elezioni, in mancanza di un leader capace di imprimere al partito una spinta di rinnovamento e di definire una chiara linea politica. 

In questo quadro, non troppo rassicurante, i media potrebbero rappresentare – come spesso si dice – un quarto potere, e fungere da contraltare in questo tsunami politico. Ma Trump 2.0 ne ha anche per loro.

“Ripristinare la libertà di parola”, ma non troppo

I rapporti di Trump con i media sono stati conflittuali già durante il suo primo mandato.

Il magnate ha infatti più volte sostenuto che la stampa avrebbe contribuito a sabotare la sua precedente presidenza, accusando in diverse occasioni i giornalisti di dargli una copertura sfavorevole, diffondere fake news, ed essere corrotti e asserviti ai Democratici. Tutti elementi che hanno valso alla categoria giornalistica l’appellativo di “nemica del popolo”. Questa visione è ulteriormente rafforzata dal fatto che – a suo dire – l’amministrazione di Joe Biden avrebbe contribuito a utilizzare i media per promuovere la narrazione preferita dai Democratici, costruendo un sistema censorio che “ha calpestato i diritti di libertà di parola”.

È in questo contesto, dunque, che Trump firma il giorno stesso del suo secondo insediamento un ordine esecutivo per “ripristinare la libertà di parola e porre fine alla censura federale”.

In realtà, con l’intento di ristabilire l’imparzialità dei media, questa misura ha spinto piattaforme come Meta ad abbandonare i servizi esterni di fact-checking e di moderazione dei contenuti, percepiti dal presidente come forme di censura nei suoi confronti. L’ordine esecutivo, inoltre, ha incaricato con portata retroattiva la Federal Communications Commission di accertare le basi per una revoca della licenza alle emittenti di cui la nuova amministrazione non condivide contenuti e copertura. In altre parole, i media che non si allineano alla visione di Trump sono nemici e vanno contrastati. Chi invece mostra lealtà verrà ricompensato.

Verso un ecosistema mediatico più allineato

L’amministrazione Trump ha allontanato alcune testate ed emittenti, ridefinendo il pool dei giornalisti che a rotazione partecipa ai press briefing dello Studio Ovale, del Pentagono e di altri Dipartimenti federali. Il tutto, scavalcando la White House Correspondents’ Association, l’organizzazione indipendente di giornalisti che si occupa della copertura mediatica della Casa Bianca e del relativo sistema di accreditamento degli organi di informazione. A Reuters e Associated Press, per esempio, è stato bandito l’accesso – tradizionalmente sempre garantito – alla prima riunione di gabinetto del presidente, mentre, al Pentagono, il New York Times, NBC News, e Politico hanno dovuto lasciare il posto a emittenti e testate pro-Trump, tra cui One America News, Breitbart News, e New York Post.

Questa mossa garantisce all’amministrazione di esercitare un controllo stringente su chi pone le domande e su ciò che viene domandato, riducendo la possibilità di ricevere domande scomode e assicurandosi un pubblico di giornalisti più allineati. Non è infatti un caso che Associated Press sia stata esclusa dalla Casa Bianca dopo aver scelto di non riferirsi al “Golfo del Messico” con il nome di “Golfo d’America”, così come ribattezzato da Trump.

Quale futuro per la libertà di stampa? 

Un numero crescente di media sta provando ad alzare la voce, esprimendo preoccupazione per la libertà di stampa o invocando l’intervento dei giudici per ripristinare l’accesso alla Casa Bianca in nome del primo emendamento. Ci sono anche media che, invece, hanno preferito adeguarsi alla volontà presidenziale, accettando di raggiungere accordi economici per chiudere cause pendenti intentate dallo stesso Trump prima di vincere le elezioni. È questo il caso delle emittenti CBS e ABC, accusate dal presidente di aver favorito la candidata democratica nella copertura mediatica dei dibattiti televisivi. Il fatto che un organo d’informazione accetti di patteggiare privatamente con un presidente, anziché affidarsi alla magistratura per risolvere la controversia, è un segnale alquanto preoccupante per l’indipendenza del giornalismo. Inoltre, la semplice minaccia di una citazione in giudizio per un organo di stampa – o tanto più per un singolo giornalista – da parte del governo federale riduce la capacità dei media di svolgere liberamente il proprio lavoro, in particolare per le testate che non hanno le risorse economiche per sostenere eventuali spese legali. Queste circostanze rischiano, tra l’altro, di preparare il terreno alla forma più invisibile di restrizione alla libertà di stampa: l’autocensura.

Ciò che emerge da questo quadro è che Trump sta cercando di alterare, in modo diretto e indiretto, l’ecosistema mediatico a suo favore, ricorrendo sia a mezzi ufficiali e pubblici che al proprio potere di pressione sui giornalisti. L’insieme di questi elementi suggerisce un venir meno dei presupposti per una stampa libera, per la quale – anche in contesti democratici in cui dovrebbe essere quasi scontata – c’è bisogno della collaborazione di tutte le componenti dello Stato, e di quel sistema di “pesi e contrappesi” che, attualmente, sembra essere in profonda difficoltà.

Il magro bilancio della lotta all’obesità

Il 4 marzo scorso, in concomitanza con il quinto anniversario dell’inizio della pandemia da Sars-CoV-2 e nel sostanziale silenzio dei media, si è celebrato il World Obesity Day. Fenomeno di dimensioni planetarie e in costante crescita, l’obesità è associata a circa il 70% delle malattie non trasmissibili (NCD) tra cui patologie cardiovascolari, respiratorie, muscolo-scheletriche e tumori. A livello globale, secondo i dati della World Health Organization (WHO) oltre un miliardo di persone sono obese, di cui circa quattrocento milioni nella fascia di età 5-19 anni. Inoltre, nonostante sia una condizione in larga parte prevenibile, l’obesità è causa diretta di circa cinque milioni di decessi all’anno. Dal punto di vista finanziario, poi, il costo di questa vera e propria pandemia dimenticata è oggi stimabile in 3.000 miliardi di dollari all’anno, cifra che potrebbe arrivare presto, secondo uno studio pubblicato dal British Medical Journal, a 4.300 miliardi di dollari.

Un fallimento sociale su scala planetaria dunque, come è stato definito da The Lancet. Non solo. Un fallimento che rischia di protrarsi per decenni, nonostante il Covid abbia dato inconfutabile evidenza numerica dell’importanza della prevenzione di malattie che influiscono sul sistema cardiovascolare e respiratorio. Come ha avuto modo di affermare il direttore generale del WHO Tedros Ghebreyesus, “la pandemia ha evidenziato il grave pericolo delle NCD e ha segnalato l’urgente necessità di politiche e investimenti di sanità pubblica più forti per prevenirle. Esortiamo i leader mondiali a livello pubblico e privato ad adottare misure aggressive per prevenire le malattie non trasmissibili. Meno malattie non trasmissibili avrebbero significato meno morti durante la pandemia”.

Nonostante l’enfasi che le autorità internazionali danno al tema, le risorse dedicate alla prevenzione delle NCD in generale e dell’obesità in particolare sono ancora limitate: raccolgono complessivamente il 2% degli investimenti internazionali nel settore sanitario. A questo proposito, una ricerca del 2023 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, WHO) evidenzia che circa due terzi dei paesi del mondo hanno applicato varie forme di tassazione su cibi e bevande non salutari. Tuttavia, queste entrate fiscali (che, secondo l’OECD, farebbero risparmiare sei dollari per ogni dollaro investito), non solo non sono state reinvestite in programmi per la prevenzione, ma non sono nemmeno risultate particolarmente efficaci nel garantire un duraturo cambiamento di abitudini. Così come non sembrano avere prodotto risultati apprezzabili i sussidi all’acquisto di cibo più nutriente, come ad esempio quelli del Supplemental Nutrition Assistance Program (SNAP), lanciato più di dieci anni fa dal Department of Agriculture degli Usa. Sostenuto da circa 100 miliardi di dollari all’anno di finanziamenti federali, lo SNAP ha sì ridotto la cosiddetta insicurezza alimentare(intesa come difficoltà di accesso al cibo sano e nutriente), ma non sembra abbia avuto particolari effetti sulle abitudini alimentari di lungo termine degli oltre sessanta milioni di partecipanti.

Considerato che la grande maggioranza delle NCD sono causate da comportamenti nocivi come sedentarietà, cattiva alimentazione e fumo, si può quindi dedurre che un risoluto cambio di abitudini a livello collettivo rimanga il fattore chiave per affrontare le patologie non trasmissibili e in particolare l’obesità. Uno sforzo che, da un lato, non può ovviamente prescindere dalla partecipazione del legislatore, che dovrebbe limitare la produzione di alimenti a scarso valore nutritivo o il repurposing dell’industria del tabacco. Ma che, dall’altro, non dovrebbe prevedere nemmeno il ricorso a ‘scorciatoie’ come quelle offerte da alcuni recenti prodotti farmaceutici per la riduzione dello stimolo dell’appetito. Come sostengono i ricercatori dell’università di Harvard, infatti, l’appetito è uno stimolo naturale e gestibile anche attraverso l’assunzione di cibo nutriente. Inoltre, secondo alcuni studi molti di questi ‘rimedi’ non rappresentano una soluzione duratura, devono essere assunti a vita e hanno un prezzo spesso superiore a 1.000 dollari al mese. Un quadro non ideale dunque, ulteriormente complicato dalle attività di lobbying del settore farmaceutico che, oltre alla tradizionale influenza sul settore medico e su quello della formazione, hanno fatto sì che il costo di tali medicine sia sostenuto in molti stati dalle casse pubbliche, drenando così ingenti risorse che invece potrebbero essere destinate ad altre priorità globali.

Tra queste, l’accesso al cibo. Soprattutto a quello sano, bene sempre più ‘a premio’ visto lo spazio globale per la coltivazione di vegetali, passato da 0,45 ettari pro capite nel 1961 all’attuale 0,21, e l’esigua quantità di terra coltivabile a livello globale dedicata a frutta (3,8%) e verdura (3,3%), alimenti fondamentali nella prevenzione di varie malattie. Inoltre, l’omogeneizzazione delle catene alimentari – con la produzione di cibi pronti per il consumo – è un fenomeno che ha colpito anche (se non soprattutto) i paesi a medio-basso reddito (LMIC), rendendo l’accesso ad una dieta equilibrata un problema sempre più grave per un’ampia fascia di popolazione. Ciò significa che le popolazioni dei LMCI – e soprattutto i loro bambini, sovrappeso e al tempo stesso malnutriti – sono sempre più a rischio di contrarre una patologia non trasmissibile, dal momento che assumono un quantitativo a volte sufficiente di calorie ma non abbastanza nutriente per una crescita sana. Secondo stime delle Nazioni Unite, circa due miliardi di persone non hanno accesso a cibo sano e nutriente. Come diceva Ippocrate, “fa che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo”.

L’articolo riflette unicamente le posizioni personali dell’autore