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Trump fa poker nelle primarie repubblicane in South Carolina

Donald Trump fa poker nelle primarie repubblicane in South Carolina e veleggia verso la nomination a Usa 2024. Si sceglie come compagni di viaggio Putin e l’uomo della motosega, il presidente argentino Javier Milei.

Bielorussia alle urne: il declino del pluralismo e l’ascesa del nuovo Politburo

Il 25 febbraio si svolgerà la cosiddetta “giornata di voto unificata” in Bielorussia, dove i cittadini torneranno alle urne per la prima volta dopo le controverse e turbolente elezioni del 2020. In questa occasione, saranno eletti i deputati della Camera dei Rappresentanti dell’Assemblea Nazionale e dei Consigli dei deputati locali. Successivamente, il 4 aprile 2024, si terranno le elezioni per i membri del Consiglio della Repubblica.

L’importanza delle elezioni

L’elezione è cruciale poiché segna un grande passo nella direzione di una Bielorussia sempre più totalitaria. Queste elezioni segneranno una svolta per l’Assemblea Popolare Panbielorussa (ABPA), che da organo puramente consultivo è diventato il “più alto vertice della rappresentanza democratica” del Paese, con la modifica costituzionale del febbraio 2022.

Questa trasformazione ha l’obiettivo di preparare il terreno per un’eventuale sostituzione dell’attuale presidente Aleksandr Lukashenko, al potere da ormai tre decenni, in vista delle elezioni presidenziali del 2025. La modifica dei poteri dell’ABPA, infatti, prevede un cambiamento significativo nella struttura del governo, conferendo a questo organo un controllo esteso su numerose decisioni politiche. Inoltre, tale modifica porterà alla formazione di un gruppo ristretto di alleati fidati di Lukashenko, accentuando l’autoritarismo nel Paese e rafforzando ulteriormente la centralizzazione del sistema governativo.

Il processo elettorale bielorusso, “un rituale senza significato o giustizia”

La Bielorussia è una Repubblica presidenziale, con una struttura di governo che prevede una separazione dei poteri. Il potere legislativo è affidato ad un Parlamento bicamerale noto come “Assemblea Nazionale della Repubblica di Bielorussia”, che si compone della Camera dei Rappresentanti e del Consiglio della Repubblica. Il potere esecutivo è concentrato nelle mani del Consiglio dei ministri, mentre il potere giudiziario è esercitato dalla Corte costituzionale e dalla Corte Suprema.

Nonostante la divisione formale tra i diversi organi, il presidente ha tradizionalmente esercitato un controllo sostanziale su tutte le sfere del governo, limitando l’efficacia sia del potere giudiziario che del potere legislativo. La natura autoritaria del Paese si riflette anche nel suo sistema elettorale che, sebbene la parvenza di democraticità e la garanzia del suffragio universale, equo, diretto o indiretto secondo la Costituzione, è spesso stato oggetto di critiche per irregolarità e presunte frodi elettorali.

Le ultime elezioni presidenziali del 2020 sono state non solo criticate ma contestate formalmente con accuse di falsificazioni diffuse. Analisi indipendenti hanno persino dimostrato come le elezioni siano state in realtà vinte dall’attuale presidente in esilio, Sviatlana Tsikhanouskaya, anziché da Lukashenko. Tuttavia, proprio a causa della natura autoritaria, dal 1994 la Bielorussia ha costantemente e invariabilmente rieletto Lukashenko come presidente, senza lasciare spazio per significativi cambiamenti nel panorama politico, tendenza che si prevede continuerà anche nelle elezioni di quest’anno.

Una stretta al regime bielorusso: un declino del pluralismo politico

La continua e crescente repressione governativa, iniziata a seguito delle proteste avvenute nel 2020, e la conseguente emigrazione di massa dal Paese hanno drasticamente ridotto il pluralismo politico in Bielorussia.

I cittadini e oppositori rimasti si sono trovati ad affrontare forti repressioni. Secondo quanto riportato da Amnesty International nel report sui diritti umani nel mondo (2023), in Bielorussia la libertà di espressione è severamente ristretta, con più di 1500 prigionieri politici e pene detentive che superano anche i 10 anni di reclusione. L’obiettivo della repressione è sopprimere qualsiasi potenziale forza di opposizione. Ai sensi dei requisiti stabiliti dalla Costituzione aggiornata, infatti, non possono candidarsi alle elezioni i cittadini contro i quali sia stata emessa una sentenza di condanna, che abbiano precedenti penali, o che risiedono all’estero.

Queste limitazioni hanno un grande peso su chi può o non può partecipare alle elezioni e, di conseguenza, hanno influito notevolmente sulla presenza dei partiti politici di opposizione. Oltre a controllare i media e reprimere qualsiasi forma di dissenso, le autorità bielorusse hanno influenzato il processo elettorale prendendo di mira ben 12 partiti, tra cui il Partito Civile Unitario, il gruppo di opposizione di lunga data.

Attualmente, sono registrati solo quattro partiti politici: l’attuale partito al governo, Belaya Rus, relativamente centrale; due partiti nominalmente di sinistra, il Partito Comunista di Bielorussia e il Partito Liberal Democratico della Bielorussia; e infine, un partito di destra, il Partito Repubblicano del Lavoro e della Giustizia.

Riforme istituzionali e strategie politiche: il ruolo dell’ABPA e il cosiddetto “pacifismo armato”

Le elezioni di febbraio non segnano un discostamento dal clima creatosi nel Paese a partire dal 2020, ma evidenziano piuttosto un significativo cambiamento nella struttura del governo.

La nuova Assemblea Popolare Panbielorussa, dotata di ampi poteri, avrà autorità su tutti i rami del governo, incluso quello esecutivo e, oltre ad altri compiti, potrà introdurre la legge marziale, avviare le pratiche di impeachment, annullare le elezioni presidenziali, e anche eleggere e rimuovere i giudici delle corti Suprema e Costituzionale.

Dei 1200 rappresentanti che andranno a costituire questo nuovo organo, solo 15 avranno il potere effettivo di dirigerne la politica, creando così una sorta di Politburo personale di Lukashenko. Ai sensi della costituzione aggiornata, sarà il presidente stesso a ricoprire il ruolo di presidente dell’ABPA, mentre gli altri membri formeranno il cerchio dei suoi associati più fidati, da cui potrebbe emergere il suo eventuale successore.

La tornata servirà anche per preparare il terreno per le elezioni presidenziali del 2025. Tra i principali temi della campagna elettorale di Lukashenko vi sono la narrativa populista e l’allineamento con la Russia su questioni legate ai “valori della famiglia” e in materia di diritti LGBT. A questi, si aggiunge anche il concetto di “pacifismo armato”, che mira alla creazione di una Bielorussia pacifica ma militarmente potente.

Un fievole barlume di speranza democratica all’ombra dell’autocrazia

Le elezioni di febbraio in Bielorussia vedranno una concentrazione di potere senza precedenti nelle mani di Lukashenko. Tra il nuovo ruolo dell’Assemblea Popolare Panbielorussia e l’aumento della repressione politica, le prospettive di cambiamento nel futuro immediato sono ben poche.

Allo stesso tempo, le forze democratiche all’estero, costrette all’esilio per sfuggire alla persecuzione, stanno perseverando nel loro impegno per contrastare il regime di Lukashenko. Sebbene rappresentino un’opzione limitata, offrono una speranza in un Paese che ha perso gran parte della sua natura democratica.

Articolo a cura di Sara Pastorello

Rapporto di previsione Ue: rischi e sfide per l’economia dell’euro

di Antonio Pollio Salimbeni

Nell’elenco dei rischi che incombono sulla magra crescita economica dell’area euro, che compare nel rapporto di previsione d’inverno della Commissione Ue, non c’è traccia del possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, con tutte le possibili implicazioni negative per le relazioni Ue-Usa, da quelle sulla sicurezza a quelle commerciali.

Certo, vengono elencati gli ovvii pericoli derivanti dal proseguimento della guerra sotto casa (Ucraina) e dalla possibile estensione del conflitto da Gaza al Medio Oriente. Viene indicato che, acuendosi, queste tensioni geopolitiche fanno “pendere la bilancia dei rischi verso esiti più avversi”. Gli economisti di Bruxelles si riferiscono solo al fatto che il 2024 sarà un anno storicamente rilevante per il grande numero di votanti in tutto il mondo (76 paesi pari al 51% della popolazione) per cui “l’incertezza politica peserà sul sentiment degli investitori”.

Si può comprendere la cautela tanto più che i rapporti di previsione comunitari sono in stile asciutto, analisi fattuali. Il futuro degli Usa è argomento delicato. Si può comprenderla meno se però si sorvola sui rischi interni. Il messaggio generale di Bruxelles è di temperato ottimismo sull’area euro: quest’anno si vivacchia con una crescita del pil dello 0,8% dopo 0,5% nel 2023; si spera nel quasi raddoppio (1,5%) l’anno prossimo. Questa la sintesi: “Ripresa della crescita lenta in un contesto di riduzione più rapida dell’inflazione”. Per Bruxelles i rischi interni di peggiorare o migliorare sono in equilibrio. Eppure dalle cifre e tra le righe del rapporto comunitario emergono diverse indicazioni che segnalano come un problema serio in Europa ci sia e da questo dipenda molto del prossimo futuro. È la lunga frenata dell’economia tedesca: l’anno scorso la Germania era in recessione, quest’anno sarà il paese che nell’area euro crescerà meno, 0,3%.

Dal quadro di Bruxelles emerge intanto che la stagnazione della crescita dell’area euro nel quarto trimestre del 2023 è stata in gran parte determinata proprio dalla contrazione in Germania. Poi che in Germania (e pure in Francia) i fallimenti di imprese hanno superato i livelli pre pandemia; le famiglie hanno perso potere d’acquisto; gli alti costi di costruzione e di finanziamento, oltre alla carenza di manodopera e agli elevati prezzi dell’energia, hanno depresso gli investimenti nei settori dell’edilizia e ad alta intensità energetica; alcuni recenti indicatori delle opinioni sull’economia sono tornati ai livelli più bassi dalla pandemia; l’aumento degli investimenti sarà inferiore ai valori pre 2020; la carenza di manodopera continua a costituire un collo di bottiglia per l’attività; viene giudicata “improbabile” una ripresa trainata dal commercio. Infine, che una politica di bilancio più restrittiva a causa del rispetto del “freno al debito” (tradottosi ormai chiaramente in quella che è stata chiamata una propensione all’autolesionismo) “avrà un impatto frenante sulle prospettive di crescita a breve termine”. Non resta che sperare nella prospettiva di una riduzione dei tassi di interesse, un paradosso per la Germania rigorista in politica monetaria.

Tutto ciò conferma che alcune delle condizioni determinanti che hanno reso dominante quell’economia sono venute meno. Le crisi multiple degli ultimi anni, dal Covid all’interruzione delle catene globali degli approvvigionamenti; dall’invasione dell’Ucraina al rarefarsi delle forniture di gas dalla Russia a basso costo; dal rallentamento del commercio all’esposizione verso la Cina in una fase di ricentramento della globalizzazione per ragioni politiche, che la Germania cerca in tutti i modi di evitare; tutto questo ha messo in discussione la solidità dei fattori di crescita del paese. Si aggiunga il recente sorpasso di Volkswagen da parte di BYD (la casa cinese Build Your Dreams, si chiama proprio così, “costruisci i tuoi sogni”) nelle vendite di auto in Cina, uno shock. Di fronte a tali dati economici negativi (la disoccupazione tuttavia è inchiodata attorno al 3%) il ministro delle finanze Christian Lindner se la cava affermando che il paese ha solo bisogno di “un caffè” per svegliarsi. Per l’economista Marcel Fratzscher (DIW di Berlino) le difficoltà sono invece profonde, dipendono “da una grave crisi politica che ha gettato un’ombra sulle prospettive economiche e sta pesando pesantemente sul sentiment economico”. Non solo: “Il complesso sistema federale tedesco, noto per i suoi solidi controlli ed equilibri, è stato progettato per consolidare i suoi principi democratici e impedire un ritorno all’autoritarismo. Pertanto, dà priorità alla stabilità rispetto alla velocità e alla flessibilità. Questa preferenza sta ora mettendo a dura prova l’economia”.

Qualcosa dovrà cambiare in Germania e non è facile far sterzare un modello economico consolidato nei decenni di cui però sono vacillate le basi e almeno una tra queste, il gas russo, è sulla via dell’esaurimento. Una Germania trimestre dopo trimestre in stagnazione, con una produzione industriale negativa negli ultimi tre mesi del 2023 o a quota zero o sotto, fa paura all’Europa centrale (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia sono vere e proprie piattaforma della manifattura tedesca) e anche a quella rilevante sezione dell’industria italiana intimamente legata alla Germania (per fare solo un esempio, un quinto dei componenti di un’auto tedesca provengono dall’Italia). Batte in testa la crescita “export oriented”. Non è un caso che lo stesso Mario Draghi, pur non nominando la Germania, abbia recentemente indicato che “i modelli di business basati su ampi avanzi commerciali potrebbero non essere più politicamente sostenibili. I paesi che vogliono continuare a esportare beni potrebbero dover essere più disposti a importare altri beni o servizi per guadagnarsi questo diritto, pena l’aumento delle misure di ritorsione”. L’economia leader di un’area integrata ha anche oneri oltreché onori.

Barriere e protezionismo mettono a rischio la pace

di Marco Magnani*

La globalizzazione moderna ha rivelato eccessi, limiti e distorsioni ma anche prodotto enormi benefici, garantendo prosperità, progresso e un buon grado di stabilità e pace a gran parte del mondo. Da qualche tempo tuttavia la globalizzazione sembra aver perso slancio. La ritirata della globalizzazione è metaforicamente rappresentata da quella delle acque del canale di Panama, il cui livello si è abbassato a causa della siccità, in tal modo limitando il passaggio di navi in uno dei punti nevralgici del commercio mondiale.

Il clima nei confronti della globalizzazione è cambiato. In molti paesi è diminuito il sostegno popolare, e quindi anche quello della politica. Gli obiettivi di libera circolazione di merci e servizi, lavoro e capitali, persone e idee, tecnologia e innovazione che hanno caratterizzato la globalizzazione moderna sono entrati in crisi. Ed è in corso un forte ripensamento sui vantaggi della globalizzazione mentre cresce la domanda di protezione in tutti gli ambiti.

È in corso soprattutto un forte ritorno al protezionismo in campo economico. Esigenze di sviluppo locale, tutela dell’occupazione domestica e difesa delle industrie nazionali tendono a prevalere su obiettivi di apertura dei mercati, integrazione economica, concorrenza. Di conseguenza rallentano commercio internazionale e delocalizzazione, si regionalizzano gli scambi e cambiano configurazione le Gvc, aumentano i controlli su movimenti di capitale e investimenti diretti esteri, cresce la regolamentazione del settore dei servizi finanziari. Anche parte della teoria economica sostiene questa tendenza e – con la teoria del commercio strategico ‒ mette in discussione i principi di libero scambio enunciati da Smith e Ricardo.

Il protezionismo è spesso utilizzato dalla politica per rispondere a un malessere economico o sociale. Non è un caso che a seguito della crisi finanziaria del 2008 è iniziato un periodo caratterizzato da barriere, tariffarie e non, ristagno di accordi commerciali multilaterali, aumento di controlli su movimenti di capitali e restrizioni su investimenti diretti esteri.

Il ritorno al protezionismo: alcuni casi

Il capitalismo di stato cinese mostra molte caratteristiche protezioniste. Il piano Made in China 2025, lanciato nel maggio 2015, si propone di sviluppare ulteriormente il settore manifatturiero domestico al fine di ridurre il grado di dipendenza della Cina da fornitori stranieri, soprattutto in ambito tecnologico. E nel 2020, con il lancio della politica della “doppia circolazione”, Pechino ha confermato l’obiettivo di rendere l’economia meno dipendente dall’estero e più concentrata sul proprio mercato interno.

Non molto diverso lo spirito dello slogan populista America First con il quale Trump ha scatenato una guerra doganale nel corso della sua presidenza. E l’Amministrazione Biden ha dato continuità a gran parte delle misure protezionistiche introdotte dal predecessore, seppur con toni più moderati e riducendo le tensioni con gli alleati. Particolarmente significativo il Build Back Better Act del 2021 che, anche in reazione alla crisi prodotta dalla pandemia, contempla investimenti complessivi per circa 1,2 trilioni di dollari e contiene diversi elementi protezionistici. Il piano è diviso in tre parti ‒ Rescue Plan, Jobs Plan, Families Plan – e prevede investimenti in strade e ponti, porti e aeroporti, sistemi idrici e rete elettrica, trasporto pubblico e servizi ferroviari, banda larga, veicoli elettrici e tutela ambientale. Anche il piano strategico per facilitare la transizione energetica ‒ Inflation Reduction Act (IRA) del 2022 – contiene forti elementi protezionisti. Le centinaia di miliardi di dollari di agevolazioni fiscali, sussidi e finanziamenti stanziati hanno l’obiettivo di favorire la transizione energetica ma anche di rilanciare le capacità manifatturiere interne e ridurne la dipendenza dalla Cina di materiali critici.

Nella stessa direzione vanno le recenti decisioni del governo indiano di bloccare le esportazioni di grano (per contrastare l’inflazione interna sui generi alimentari) e limitare quelle di zucchero (per dirottarle alla produzione di etanolo). E con il piano Make in India, New Delhi si pone l’obiettivo di ridurre la dipendenza dei settori manifatturieri dall’estero e stanzia 10 miliardi di dollari per creare un’industria nazionale di semiconduttori. Anche l’Ue cerca di costruire un’“autonomia strategica” e cresce la tentazione di perseguire quella che il Nobel per l’economia Maurice Allais ha definito «préférence européenne»: difendere le aziende europee dall’avanzata di multinazionali americane nel digitale e cinesi nella manifattura.

Il ritorno al protezionismo è un dato di fatto e l’impatto negativo che questo trend può avere non va sottovalutato. Infatti, la storia ci insegna che i rischi vanno ben al di là del costo economico. È importante ricordare quanto accaduto dopo la Grande depressione del 1929, quando ogni paese aveva cercato di uscire dalla propria crisi a spese degli altri innescando un’ondata di protezionismo. L’introduzione nel 1930 dello Smoot-Hawley Tariff Act da parte degli Usa produsse dapprima a una guerra commerciale tra nazioni, con conseguente impoverimento generale, e successivamente a una guerra mondiale.

La speranza è che la storia non si ripeta. Perché, come sosteneva l’economista francese Frederic Bastiat “dove non passano le merci, passeranno gli eserciti”.

 

*Docente di International Economics in Luiss a Roma e Università Cattolica a Milano. Autore de “Il Grande Scollamento. Timori e speranze dopo gli eccessi della globalizzazione”, Bocconi University Press, di Marco Magnani, 260 pagine, €22

Il ruolo della guerra russo-ucraina nel rinnovare le relazioni Ue-Paesi terzi

L’attacco della Russia all’Ucraina nel 2014 e l’invasione su larga scala dal 2022, affiancate ad altri sviluppi in Europa e dintorni, hanno sollevato nuovamente la questione fondamentale degli interessi e valori che le nazioni europee dovrebbero condividere. Gli eventi straordinari successivi all’annessione della Crimea da parte della Russia dieci anni fa e, soprattutto, all’inizio della guerra su larga scala due anni fa, hanno alterato le priorità politiche sia dell’Ue e dei suoi Stati membri, da una parte, sia dei Paesi europei al di fuori dell’Ue, inclusa la Turchia, dall’altra. Alla luce di questi avvenimenti e del continuo dibattito sull’Europa orientale, l’imminente cambiamento nella composizione e nella ristrutturazione delle principali istituzioni dell’Ue nel 2024-2025 ha assunto dimensioni nuove.

Nei precedenti parlamenti, commissioni e consigli dell’Ue, i principali dibattiti e le decisioni politiche vertevano sulla velocità e direzione del progresso dell’integrazione europea, concepita come un progetto normativo ed economico. Attualmente, la posta in gioco per rispondere a queste domande è notevolmente aumentata, spostandosi nella sfera della sicurezza internazionale. Quali implicazioni e ripercussioni pratiche dovrebbe affrontare l’Ue in risposta alla nuova situazione militare, geopolitica e geoeconomica in Europa? Questa la sfida per Bruxelles oggi e negli anni a venire.

Già diverse strutture transnazionali legano tra loro gli Stati membri dell’Ue e i Paesi terzi dell’Europa. Queste comprendono, da un lato, istituzioni più antiche come il Consiglio d’Europa (CdE), l’OSCE, l’AEA o l’Unione doganale UE-Turchia e, dall’altro, innovazioni più recenti come la Sinergia del Mar Nero, il Programma di partenariato orientale (PO) o il Triangolo di Lublino. In passato, la Russia era parte del Consiglio d’Europa, mentre, ancora oggi, fa parte dell’OSCE. Tuttavia, la presenza di queste strutture non è stata sufficienti a prevenire la drammatica escalation della guerra russo-ucraina nel 2022. Una dinamica simile si è manifestata per i recenti scontri militari tra Armenia e Azerbaigian – Paesi che partecipano al CoE, all’OSCE e al PO.

Le relazioni tra Ue e Paesi europei al di fuori dell’Unione

I recenti e decisivi sviluppi in Europa evidenziano la necessità di un sostanziale cambiamento nelle relazioni tra l’Ue e i Paesi europei al di fuori dell’Unione, e ciò per due ragioni fondamentali. In primo luogo, gli approcci e le iniziative di Bruxelles si sono rivelati insufficienti nel mitigare o contrastare le tensioni in Europa orientale che hanno portato alla guerra. Nel 2022 è stato necessario, e continua ad esserlo, riesaminare tali approcci e iniziative, alla luce del loro evidente fallimento nel garantire la pace in Europa. In secondo luogo, la guerra in corso e le sue molteplici ripercussioni globali richiedono nuove prospettive e azioni, mirate a preservare l’integrità dello Stato ucraino e a tutelare l’ordine di sicurezza europeo dalla distruzione. In questo senso, sono già in corso un profondo ripensamento e una riconfigurazione, almeno parziale, delle precedenti politiche dell’Ue nei confronti dei Paesi terzi, soprattutto in Europa.

Il cambiamento più significativo degli ultimi due anni è stato l’ascesa dell’Ucraina e della Moldavia, nel 2022, e delle Georgia e della Bosnia-Erzegovina, nel 2023, a candidati ufficiali per la piena adesione all’Ue. Mentre i Paesi dei Balcani occidentali hanno una prospettiva di adesione all’Ue già da più di 20 anni, il destino del trio di associazione – Ucraina, Moldavia e Georgia – è rimasto incerto dopo l’avvio del Programma di partenariato orientale (PO) nel 2009. Solo in seguito all’aggressione della Russia e alla richiesta di adesione dell’Ucraina nella primavera del 2022, la Commissione europea ha preso l’iniziativa di persuadere gli Stati membri a rivedere il loro atteggiamento non solo nei confronti di Kyiv, ma anche di Chisinau e Tbilisi. Alla fine del 2023, il Consiglio europeo ha approvato l’avvio dei negoziati di adesione con l’Ucraina e la Moldavia e ha accettato la Georgia come Paese candidato all’Ue. In questo modo, Bruxelles ha finalmente chiarito l’obiettivo fino ad allora sfuggito dei tre ampi accordi di associazione e delle relative DCFTA conclusi con questi tre Paesi nel 2014.

Un significativo cambiamento istituzionale in risposta all’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022, è rappresentato dalla creazione della Comunità politica europea, un’iniziativa avviata simbolicamente dal Presidente francese Emmanuel Macron il 9 maggio 2022. Complessivamente, 47 Stati, inclusa la Turchia, hanno aderito alla CPE, delineando così un nuovo quadro europeo per le consultazioni e per il rafforzamento delle relazioni dell’Ue con i Paesi terzi. L’istituzione del CPE riflette un nuovo senso di solidarietà degli interessi nazionali europei nei confronti del feroce assalto russo a una delle nazioni più grandi d’Europa. Questo atto può anche essere interpretato come il segnale di un crescente sentimento di comunità tra le nazioni interne ed esterne all’Ue, che condividono i valori europei e desiderano affrontare la più grande sfida normativa posta da Mosca e dai suoi alleati anti-occidentali.

La prospettiva futura del CPE, in senso più stretto, e l’eventuale impatto delle motivazioni, più ampiamente intese, alla base sua istituzione restano, tuttavia, da verificare. La loro effettiva influenza non dipenderà esclusivamente, ma in modo cruciale, dalla volontà, capacità e successo dell’Ue nel potenziare le relazioni, le associazioni e, in parte, l’integrazione con i Paesi europei attualmente non appartenenti all’Ue. Poiché questi ultimi comprendono un gruppo eterogeneo di Stati, le nuove iniziative generiche come il CPE possono funzionare solo come forum di discussione e networking. Il CPE e le organizzazioni paneuropee consolidate, come il CoE o l’OSCE, possono agevolare la circolazione e la discussione di idee tra le decine di Paesi partecipanti. Tuttavia, le iniziative generali come il CPE avranno un ruolo più marginale nella pianificazione concreta e nell’attuazione pratica dei miglioramenti legali, istituzionali e materiali delle relazioni tra l’Ue, i suoi Stati membri e i Paesi terzi in Europa.

La cooperazione tra le democrazie europee contro le potenze anti-occidentali

L’approfondimento bilaterale e multilaterale della cooperazione nelle relazioni dell’Ue è cruciale non solo per le nazioni europee direttamente colpite o minacciate da un’aggressione militare russa – come Ucraina, Georgia, Moldavia e Armenia –, ma rappresenta una necessità anche nei confronti di altri Paesi europei non appartenenti all’Ue in senso ampio, inclusi Islanda, Regno Unito, Azerbaigian e Turchia. I temi principali di questa collaborazione sono diventati la sicurezza e la resilienza nazionale e transnazionale. La promozione di maggiori scambi, collaborazioni e coesione in vari settori, che riguardano la deterrenza, la prevenzione o, almeno, il contenimento della guerra russa e di altre guerre anti-occidentali in Europa – che siano di natura cinetica, ibrida, psicologica, politica, economica o di altro tipo – ha acquisito una vera e propria dimensione esistenziale. Tale impegno determinerà non solo la qualità ma anche la sopravvivenza delle democrazie europee e delle loro diverse alleanze – soprattutto, ma non solo, dell’Ue.

Inoltre, una cooperazione più ampia e profonda in settori non direttamente legati alla difesa della sicurezza, dell’integrità e della sovranità dell’Europa contribuirà a rafforzare la comunità europea degli Stati. La vasta gamma di settori in cui Bruxelles e le altre capitali dell’Ue possono e devono intraprendere un’azione transeuropea più efficace spazia dalla promozione dell’innovazione industriale alla garanzia di una migliore protezione sociale e ambientale, favorendo una maggiore parità di genere, il progresso scientifico e lo scambio culturale. Sostenere una maggiore collaborazione e integrazione in questi e altri ambiti in tutta Europa non rappresenta solo l’espressione di una preferenza normativa per l’umanesimo transnazionale, l’europeismo e/o il liberalismo. È diventata una questione di autoconservazione.

Se le democrazie europee, all’interno o all’esterno dell’Ue, non si avvicinano e non si aiutano a vicenda per svilupparsi e proteggersi, corrono un grave pericolo. Si può supporre che la Russia e altre potenze anti-occidentali siano alla ricerca di anelli deboli all’interno della comunità di Stati europei. Come Mosca sta facendo con l’Ucraina dal 2014, sceglieranno questi Paesi non solo per attaccare le loro politiche democratiche e le loro società aperte, ma anche per trasformare la loro debolezza militare, istituzionale e/o sociale in sfide fondamentali per tutta l’Europa.

Un antico detto della scienza politica afferma che non solo gli Stati fanno le guerre, ma anche le guerre fanno gli Stati (Charles Tilly: “La guerra ha fatto gli Stati e gli Stati hanno fatto la guerra”). Per l’Europa nel suo complesso, e per l’Ue, è emersa la possibilità di verificare se questa regola si applica abbia anche una trasposizione transnazionale. La guerra russo-ucraina in corso rafforzerà o indebolirà la comunità europea degli Stati? Solo il futuro potrà dirlo.

Striscia di Gaza: questi gli interventi della Corte internazionale di giustizia

Una decisione storica quella adottata dalla Corte internazionale di giustizia con l’ordinanza del 26 gennaio 2024 con la quale la Corte dell’Aja ha accolto, almeno in parte, la richiesta di misure cautelari invocate dal Sudafrica che ha presentato un ricorso per le possibili violazioni da parte di Israele, nella Striscia di Gaza, della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948 (Order).

Prima di tutto, la Corte ha accertato la competenza prima facie sulla controversia tra i due Stati, entrambi parti alla Convenzione. Verificato che sussiste una controversia ai sensi della Convenzione, la Corte è passata a esaminare la necessità di adottare le misure cautelari richieste dal Sudafrica. La Corte ha, in primo luogo, accertato che i palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza possono essere configurati come un gruppo ai sensi della Convenzione e devono, quindi, essere protetti da atti di genocidio perché sussiste un rischio di un pregiudizio irreparabile e imminente che impone l’adozione delle misure cautelari. La popolazione di Gaza – scrive la Corte – si trova in una situazione di estrema vulnerabilità che potrebbe durare per molti mesi come risulta dalle dichiarazioni del Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il quale ha dichiarato che le operazioni a Gaza potrebbero continuare anche nel 2025.

Di conseguenza, poiché c’è il rischio che la catastrofica situazione umanitaria possa peggiorare fino al momento in cui ci sarà la pronuncia di merito, la Corte ha accolto, almeno in parte, la richiesta di misure cautelari (sei). In base all’ordinanza della Corte, Israele è tenuto a prevenire la commissione degli atti vietati dall’articolo 2 della Convenzione e a impedire che i propri militari commettano quegli atti. Inoltre, Tel Aviv deve prevenire e punire l’incitamento al genocidio e adottare misure per garantire l’assistenza umanitaria e preservare le prove. Dal momento dell’adozione dell’ordinanza, Israele deve presentare, entro un mese, un rapporto sull’esecuzione delle misure cautelari che, va ricordato, sono vincolanti. Respinta, invece, la richiesta del cessate in fuoco, mentre la Corte ha chiesto a tutte le parti in conflitto di rispettare il diritto internazionale umanitario. Inoltre, seppure non nella parte del dispositivo, la Corte ha chiesto il rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas.

Qui le dichiarazioni dei giudici Dich. NolteDich. BhandariXUEBarak., e l’unica opinione dissenziente della giudice Sebutinde.

La partita sulle misure cautelari non è ancora chiusa perché il Sudafrica, sulla base dell’articolo 75 del Regolamento della Corte, il 12 febbraio ha così presentato una nuova richiesta alla Corte internazionale di giustizia in cui, a seguito dell’offensiva israeliana nella città di Rafah, ha chiesto nuovamente alla Corte di intervenire con estrema urgenza (Sudafrica). Israele, dal canto suo, ha contestato, con le osservazioni depositate il 15 febbraio (Israele), la richiesta del Sudafrica anche sul piano procedurale. In particolare, secondo Tel Aviv, risulta errato il ricorso all’articolo 75 del Regolamento della Corte che si occupa del diritto della Corte di indicare misure cautelari proprio motu e non su richiesta delle parti. Inoltre, Israele ritiene che proprio la circostanza che la Corte internazionale di giustizia non abbia accolto la richiesta del cessate il fuoco implica un riconoscimento a Israele del diritto di legittima difesa a seguito dell’attacco di Hamas del 7 ottobre.

La Munich Security Conference 2024 raccontata da Nathalie Tocci

“La Conferenza di Sicurezza di Monaco del 2024 è iniziata con toni molto cupi, con la notizia dell’assassinio nel carcere in Siberia del leader dell’opposizione russa Aleksej Naval’ny”, racconta Nathalie Tocci, Direttore dello IAI. “Dietro tutto questo c’è lo sfondo della guerra in Ucraina, con le sue centinaia di migliaia di morti; c’è la guerra in Medio Oriente, sono quasi 30 mila i civili palestinesi uccisi da Israele e oltre 130 gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas; poi c’è uno sfondo più ampio in cui, se vogliamo citare solamente un numero, sono oltre 800 milioni le persone che ogni notte vanno a dormire con fame”, continua Tocci. “Tutto questo a causa di guerre, repressioni e cambiamenti climatici. Quindi è stata una Conferenza che aveva come sfondo questo scenario cupo. E devo dire, non è stata, in realtà, una conferenza che ha rassicurato molto”.

La morte del dissidente russo Aleksej Naval’nyj

In questo podcast vi proponiamo l’intervento di Nona Mikhelidze (Responsabile di ricerca presso l’Istituto Affari Internazionali) sulla morte del dissidente russo Aleksej Naval’nyj in un carcere russo il 16 febbraio 2024, nello speciale di RadioRadicale curato e condotto da Francesco De Leo.

Il leader dell’opposizione russa Alexei Navalny muore in carcere

Il leader dell’opposizione russa Alexei Navalny è morto nella colonia carceraria dell’Artico, dove stava scontando una condanna a 19 anni. Il 47enne era il più importante leader dell’opposizione russa e aveva conquistato un grande seguito con le sue critiche alla corruzione nella Russia di Vladimir Putin.

“Navalny si è sentito male dopo una passeggiata, perdendo quasi subito conoscenza. Il personale medico è arrivato immediatamente ed è stata chiamata un’ambulanza”, ha dichiarato il servizio penitenziario. “Sono state eseguite misure di rianimazione che non hanno dato risultati positivi. I paramedici hanno confermato la morte del detenuto. Le cause del decesso sono in corso di accertamento”. Il Comitato investigativo russo ha dichiarato di aver aperto un’indagine sulla morte.

L’addetta stampa di Navalny, Kira Yarmysh, ha dichiarato che il suo team non è stato informato della morte. “L’avvocato di Alexei sta volando a Kharp, dove si trova la sua colonia carceraria”, ha dichiarato in un post sui social media.

Citando il suo portavoce, le agenzie di stampa russe hanno riferito che Putin era stato informato della morte di Navalny.

Le reazioni dei governi occidentali alla morte di Navalny

I governi occidentali hanno immediatamente attaccato il Cremlino per la morte del più esplicito critico del presidente Vladimir Putin.

L’Unione Europea ha dichiarato di ritenere la Russia del presidente Vladimir Putin l’unica responsabile della morte. “Alexei Navalny ha combattuto per i valori della libertà e della democrazia. Per i suoi ideali ha compiuto l’estremo sacrificio”, ha scritto il presidente del Consiglio europeo Charles Michel su X. “L’Ue ritiene il regime russo l’unico responsabile di questa tragica morte”.

“Alexei Navalny ha pagato con la vita la sua resistenza a un sistema di oppressione”, ha dichiarato il ministro degli Esteri francese Stephane Sejourne. “La sua morte in una colonia penale ci ricorda la realtà del regime di Vladimir Putin”.

Il ministro degli Esteri spagnolo, José Manuel Albares, ha dichiarato di essere “profondamente scioccato dalla morte di Alexei Navalny” e ha affermato che Madrid “esige che vengano chiarite le circostanze” della sua morte. Albares ha sottolineato che la morte è “avvenuta durante la sua ingiusta detenzione per motivi politici” e ha offerto le sue condoglianze ai “suoi cari” e il suo “sostegno a coloro che lavorano per la libertà”.

Anche il primo ministro britannico Rishi Sunak ha deplorato l'”immensa tragedia” che la morte di Navalny rappresenta per il popolo russo. “È una notizia terribile. Il più feroce difensore della democrazia in Russia, Alexei Navalny ha dimostrato un incredibile coraggio per tutta la sua vita”.

Navalny “ha pagato il suo coraggio con la vita”, ha lamentato il cancelliere tedesco Olaf Scholz. “Chiunque si impegni per la democrazia deve temere per la propria sicurezza e per la propria vita, ed è per questo che siamo tutti molto tristi”, ha aggiunto Scholz in una conferenza stampa a Berlino insieme al capo di Stato ucraino Volodymyr Zelensky.

Putin deve “rispondere dei suoi crimini”, ha affermato Zelensky. L’assistente presidenziale ucraino Andriy Yermak ha dichiarato che “Putin è il male supremo che ha paura di qualsiasi competizione. Le vite dei russi non sono nulla per lui”, aggiungendo che “tutti coloro che chiedono negoziati devono rendersi conto che non ci si può fidare di lui. L’unico linguaggio che capisce è quello della forza”.

Infine, si è espresso anche il capo della Nato Jens Stoltenberg: “Sono profondamente rattristato e preoccupato per le notizie che arrivano dalla Russia sulla morte di Alexei Navalny, tutti i fatti devono essere accertati e la Russia ha serie domande a cui rispondere”.

Il ritorno in Russia e l’incarcerazione

Le denunce di Navalny, pubblicate sul suo canale YouTube, hanno accumulato milioni di visualizzazioni e portato decine di migliaia di russi in piazza, nonostante le dure leggi anti-protesta della Russia.

È stato incarcerato all’inizio del 2021 dopo essere tornato in Russia dalla Germania, dove si stava riprendendo da un attacco di avvelenamento quasi mortale con il Novichok, un agente nervino dell’era sovietica. Dopo aver dato al Cremlino la colpa dell’attacco di avvelenamento in Siberia, il suo ritorno in Russia ha segnato il suo destino. “Non ho paura e vi invito a non avere paura”, ha detto in un appello ai sostenitori al momento dell’atterraggio a Mosca, poco prima di essere arrestato per accuse legate a una vecchia condanna per frode. È stato condannato a 19 anni di carcere: gruppi indipendenti per i diritti hanno ampiamente contestato le accuse, viste anche in Occidente come punizione per la sua opposizione al Cremlino.

Il suo arresto ha scatenato alcune delle più grandi manifestazioni che la Russia abbia mai visto negli ultimi decenni, e migliaia di persone sono state trattenute in manifestazioni a livello nazionale per chiedere il suo rilascio.

In carcere, il team di Navalny ha dichiarato di essere stato molestato e ripetutamente spostato in una cella punitiva di isolamento. Le guardie hanno sottoposto lui e altri detenuti alla “tortura di Putin”, facendoli ascoltare i discorsi del presidente. Nonostante ciò, da dietro le sbarre, Navalny è stato un convinto oppositore dell’offensiva militare su larga scala di Mosca contro l’Ucraina. Il Cremlino si è mosso per smantellare la sua organizzazione, rinchiudendo i suoi alleati e mandando in esilio decine di altri.

Alla fine dello scorso anno è stato trasferito in una colonia carceraria artica nella regione russa di Yamalo-Nenets, nella Siberia settentrionale.

© Agence France-Presse

Elezioni municipali in Israele e il nuovo partito arabo-ebraico

Il 31 ottobre scorso dovevano avere luogo in Israele le elezioni per i consigli municipali, un test politico importante nel paese segnato da mesi da un profondo scisma che attraversa e lacera la società, dopo l’insediarsi di un governo frutto di un’alleanza fra il Likud del premier Netanyahu e partiti religioso-fondamentalisti. Proteste massicce e persistenti da parte di vasti settori dell’opinione pubblica contro il degrado antidemocratico del paese e l’ondata di tribalismo intollerante, con modalità senza precedenti nella storia  di Israele fino a forme di quasi “obiezione di coscienza” di reparti della riserva dell’esercito; azioni di disobbedienza civile che dimostrano la gravità della crisi e il pericolo acuto di una disintegrazione della società.

L’attacco terroristico di Hamas a Israele

Il 7 ottobre, terroristi di Hamas, sfruttando l’occasione delle provocazioni di estremisti ebrei, inclusi membri di partiti di governo che predicano l’espulsione dei palestinesi e le presunte minacce all’integrità della Spianata delle Moschee e di Al Aqsa – luogo sacro dell’Islam ma al contempo simbolo di una sovranità rivendicata – hanno perpetrato un efferato eccidio di massa sul territorio di Israele. Hanno colpito e devastato edifici, strade, infrastrutture nelle regioni del sud e del centro del Paese, ucciso e ferito civili, rapito ostaggi: un’esibizione barbara di forza nel reagire contro il nemico Israele mentre l’Autorità palestinese  e  il Fatah, nella retorica fondamentalista di Hamas, restavano inani ed inerti.

Due i vincitori nel breve periodo in questa “faida barbarica” – come la definì anni fa Avishai Margalit, un insigne filosofo israeliano – che attanaglia i due popoli, due vincitori stretti da una malefica, oggettiva alleanza: Hamas, che trionfa nelle simpatie dei palestinesi e nella retorica del mondo musulmano; Benjamin Netanyahu che, premier di un governo fortemente osteggiato da strati corposi dell’opinione pubblica, resta il leader di una “union sacrée” contro il nemico irriducibile. Da allora una guerra devastante è in corso fra Israele e i miliziani di Hamas sul territorio della Striscia di Gaza.

È un regresso profondo dalla filosofia degli accordi Oslo, di cui ricorrono i 30 anni, il cui presupposto era il riconoscimento reciproco dei diritti: quello degli israeliani alla pace e alla sicurezza come specchio di quello dei palestinesi a uno Stato degno di questo nome. Da un lato, è vano affidarsi per Israele alla mera repressione militare della violenza senza offrire un negoziato di pace, anzi esaltando la volontà di costruire nuove case nelle colonie in Cisgiordania, legalizzando retroattivamente altri insediamenti illegali e tollerando con indulgenza le ripetute violenze squadristiche dei coloni stessi contro località palestinesi e i loro abitanti che li spingono ad abbandonare loro terreni e fonti di sostentamento. Dall’altro, l’illusione di Hamas di piegare Israele con la violenza, riscattando l’impotenza dell’Autorità palestinese indebolita nei suoi apparati e fortemente delegittimata nella sua stessa opinione pubblica, resta un’ossessione sciagurata di quel movimento integralista.

Il partito arabo-ebraico Kol Ezracheya alle elezioni municipali

Un piccolo ma significativo spiraglio di luce viene dalla formazione alcuni mesi or sono di un partito arabo-ebraico su base paritaria, chiamato Kol Ezracheya (Tutti i cittadini). Nel suo manifesto fondativo esso afferma: “noi offriamo un’alternativa reale e radicalmente innovativa. Proponiamo una partnership politica sostanziale e profonda tra ebrei e arabi, di tutti i generi, su basi civiche, costituzionali ed egualitarie. Insieme, ebrei e arabi, uomini e donne, costituiamo una rappresentanza politica unica, che rispecchi la piena collaborazione tra i componenti delle due comunità nazionali di Israele”.  L’impulso che anima il partito è quello di un’azione di lungo periodo, politica e culturale, che trasformi la psicologia dominante nel paese dal nazionalismo “etnico” di un Israele “Stato degli ebrei” ad uno “Stato degli israeliani”, con un’identità civile ed egualitaria.

Candidati del nuovo partito corrono nelle elezioni municipali rinviate al 27 febbraio in sei città, piccole e grandi del paese, ma è Gerusalemme l’epicentro della novità. Gerusalemme dove su circa 1 milione di residenti 400.000 sono arabi di cui circa 340.000 con permesso di residenza temporanea nella città e 60.000 cittadini israeliani. Essi, mai rappresentati con alcun seggio nel consiglio municipale, corrono in queste elezioni con diversi candidati ebrei capeggiati da Sundus El Khot, una giovane educatrice palestinese di 33 anni, insegnante di lingua araba in scuole ebraiche e nell’amministrazione pubblica della città.

Una novità significativa dunque per i palestinesi di Gerusalemme est indifesi, oppressi e senza voce. Non vi è pianificazione edilizia in quei quartieri e quindi quasi tutte le case palestinesi di nuova costruzione sono designate come illegali e soggette alla demolizione. Procedono atti di espropriazione di terreni palestinesi e di successiva costruzione di nuovi quartieri ebraici da Silwan, Ras al Amoud, Walaja e in altre parti della città. Il boicottaggio delle elezioni municipali, predicato da sempre dall’OLP e poi dall’Autorità palestinese, come atto di protesta contro l’annessione della parte orientale della città dopo la guerra del 1967 e le successive modifiche del suo status, è stata una pratica autodistruttiva; certamente non ha concorso in alcun modo a difendere i diritti dei palestinesi a Gerusalemme.

L’intervista di Tucker Carlson a Putin

Riccardo Alcaro, responsabile del programma Attori Globali dello IAI, commenta l’intervista rilasciata dal presidente Vladimir Putin a Tucker Carlson. Si tratta della prima intervista concessa a un giornalista occidentale dall’inizio della guerra russa all’Ucraina.

La lenta chiusura dello spazio civico tunisino

di Saïd Benarbia

Nel 1990, il presidente Zine El Abidine Ben Ali emanò la legge 88-90, che affidava al potere esecutivo ampi poteri per sciogliere le associazioni qualora le loro attività fossero ritenute di natura politica o se la loro esistenza fosse contraria all’ordine pubblico. Inoltre, le associazioni rischiavano la dissoluzione se non si impegnavano esclusivamente in un elenco limitato di “attività approvate”, come l’istruzione e lo sport.

In questo contesto, le rivolte del 2010-2011 in Tunisia hanno prodotto una delle leggi più progressiste che regolano l’esercizio del diritto alla libertà di associazione in tutto il Medio Oriente e Nord Africa. Il decreto legge 88/2011 (decreto legge 88) ha abrogato le leggi e le misure restrittive adottate sotto la presidenza di Ben Ali e ha assicurato “la libertà di costituirsi, di appartenere e di intraprendere attività all’interno di associazioni”, rafforzando “l’indipendenza” e il “ruolo delle organizzazioni della società civile”. Fondamentalmente, il decreto legge 88 ha creato un sistema di notifica per la costituzione di associazioni, ha eliminato le restrizioni sulla registrazione e sull’ambito delle attività consentite e ha autorizzato le associazioni a ricevere finanziamenti esteri senza previa autorizzazione.

Tuttavia, dal 25 luglio 2021, in Tunisia è stato istituito un nuovo regime di governo centralizzato che minaccia i progressi ottenuti dopo le proteste del 2010-2011. Nei suoi sforzi per consolidare il potere e sradicare il dissenso, il presidente tunisino Kais Saied ha cercato di minare e smantellare una delle ultime linee di difesa contro il suo governo autoritario: la società civile indipendente. In particolare, il presidente ha accusato le organizzazioni della società civile di servire gli interessi di potenze straniere, di agire come un’estensione delle agenzie di intelligence straniere e di utilizzare il sostegno finanziario straniero per minare la sovranità della Tunisia. I governi succeduti sotto la sua presidenza, così come i membri del parlamento tunisino, hanno avviato almeno tre iniziative per emendare il decreto legge 88 e, attraverso tali emendamenti, smantellare il quadro e le garanzie che consentivano alle organizzazioni di società civile di responsabilizzare il governo.

Proposte di modifica al decreto-legge 88

Le proposte di emendamento al decreto-legge 88 in Tunisia, presentate dal governo e da un gruppo di dieci parlamentari nel corso del 2022 e del 2023, hanno sollevato importanti preoccupazioni riguardo alla limitazione della libertà delle organizzazioni della società civile nel paese. I progetti di modifica includono disposizioni che permetterebbero al governo di esercitare un controllo esteso sulle attività e i finanziamenti delle associazioni, con poteri ampliati per respingere le richieste di costituzione e limitare l’accesso ai finanziamenti esteri. Queste proposte sono state giustificate dai proponenti con l’obiettivo di “contrastare il riciclaggio”, il “finanziamento del terrorismo” e altri illeciti, ma sono state criticate per il loro potenziale impatto sulla democrazia e sulla libertà di espressione nel paese. In particolare, la proposta di richiedere l’approvazione preventiva per la registrazione e i finanziamenti delle associazioni potrebbe compromettere seriamente l’indipendenza e la capacità operativa delle organizzazioni di società civile in Tunisia. Tale approccio si pone in netto contrasto con gli standard internazionali (Convenzione internazionale sui diritti civili e politici) che promuovono procedure di notifica rapide e indipendenti per la registrazione delle associazioni, oltre a garantire il libero accesso ai finanziamenti nazionali ed esteri.

Il progetto di emendamento del governo del 2023 prevede anche la creazione di una piattaforma elettronica per la presentazione delle richieste di costituzione delle associazioni, gestita dal Segretariato Generale del Governo, con poteri decisionali significativi in caso di non conformità con le disposizioni di legge. Tale proposta, insieme alla limitazione dei finanziamenti esteri non autorizzati, solleva dubbi sulla neutralità e l’indipendenza del processo decisionale, e potrebbe mettere a rischio la pluralità delle organizzazioni della società civile in Tunisia. In definitiva, l’adozione di queste modifiche potrebbe minare il ruolo fondamentale delle organizzazioni civili nel promuovere la trasparenza, la responsabilità e il progresso democratico nel paese.

Le ultime linee di difesa

Dal 25 luglio 2021, il presidente Kais Saied ha smantellato la democrazia tunisina e riportato il paese all’autocrazia. In un breve lasso di tempo, ha gravemente eroso i principi democratici e sciolto le istituzioni democratiche, tra cui il Parlamento, la Commissione anticorruzione e il Consiglio superiore della magistratura. La Costituzione del 2022 codifica un regime autocratico e stabilisce uno “stato di emergenza” permanente in base al quale il presidente ha poteri illimitati.

Libero da qualsiasi supervisione, il presidente ha mantenuto una dura repressione nei confronti dei suoi presunti oppositori: leader dell’opposizione, giudici e pubblici ministeri, giornalisti e attivisti della società civile. La promulgazione del decreto presidenziale legge 54/2022 sulla “lotta ai reati relativi ai sistemi di informazione e comunicazione” ha inoltre consentito alle autorità tunisine di imporre restrizioni arbitrarie al legittimo esercizio del diritto alla libertà di espressione.

Anche se non tutte le organizzazioni della società civile tunisina hanno contestato la presa del potere da parte del presidente, molte di loro hanno criticato l’arretramento democratico della Tunisia, la detenzione arbitraria e il perseguimento giudiziario di coloro sospettati di opporsi al presidente, lo smantellamento del pluralismo dei media e gli attacchi contro i migranti e altre persone protette dal diritto internazionale. I progetti di emendamento al decreto legge 88 e i molteplici tentativi del presidente di delegittimare le organizzazioni della società civile hanno lo scopo di mettere a tacere queste voci critiche e rimuovere una delle ultime linee di difesa contro il governo centralizzato del presidente.

Il presidente ha rilasciato numerose dichiarazioni ostili nei confronti delle organizzazioni della società civile e alla luce di queste vanno apprezzati i progetti di emendamento al decreto legge 88 presentati da parlamento e governo nel corso del 2023. Poiché i progetti di emendamento sono sufficientemente ampi, possono essere utilizzati e abusati dal governo per ostacolare e mettere a tacere quelle associazioni e i loro rappresentanti ritenuti critici nei confronti dell’esecutivo.

Di conseguenza, è fondamentale che le autorità tunisine ritirino i progetti di modifica del decreto legge 88 e, in rispetto delle buone pratiche e standard internazionali, garantiscano che le associazioni della società civile possano registrarsi attraverso una procedura di notifica, che l’organismo che vigila sulla registrazione delle associazioni sia indipendente e che le associazioni possano chiedere, ricevere e utilizzare finanziamenti e altre risorse da fonti nazionali ed estere.

Saïd Benarbia è il direttore del programma Medio Oriente e Nord Africa presso la Commissione Internazionale di Giuristi.

In gioco ragion d’essere e legittimità del G7

Nelle ultime settimane, con un po’ di ritardo rispetto alle attese, il governo italiano ha cominciato a rendere noti gli obiettivi e le linee di azione che intende perseguire durante il suo turno di Presidenza del G7 nel 2024. In realtà già nei mesi scorsi, l’esecutivo aveva avuto modo, in più occasioni, di esplicitare alcuni impegni prioritari della Presidenza.

Ci sarà di certo continuità su due capitoli dell’agenda del G7 che hanno assunto un rilievo di primo piano durante le ultime due presidenze (tedesca e giapponese): il sostegno all’Ucraina contro l’aggressione russa e il contrasto ai piani egemonici della Cina. Su entrambi i fronti il governo appare saldamente allineato agli altri membri del G7. La premier Giorgia Meloni ha preso posizioni inequivocabili sull’assistenza economica e militare all’Ucraina (anche se il contributo italiano, va detto, rimane inferiore a quello di altri membri del Gruppo).

Anche la posizione sui rapporti con Pechino non si discosta da quella messa a punto durante le ultime presidenze del G7. Il governo Meloni ha mostrato di non sottovalutare il rischio che vitali interessi nazionali possano essere messi a repentaglio dall’espansionismo cinese, come mostrano alcune decisioni, fra cui le misure per la protezione di settori strategici e la disdetta dell’accordo con Pechino sulla nuova via della seta (Belt and Road Initiative). Tuttavia, non si può escludere che nei prossimi mesi emergano contrasti, soprattutto a livello transatlantico, sulle entità e gli strumenti dell’appoggio a Kyiv o sulle misure per ridurre la dipendenza economica da Pechino; contrasti che si ripercuoterebbero inevitabilmente sul G7. In tal caso, l’Italia avrebbe il delicato compito, in quanto detentrice della presidenza, di favorire credibili soluzioni di compromesso al Vertice di giugno.

Non va dimenticato che temi come i rapporti commerciali, i sussidi all’industria, la cooperazione in campo tecnologico e il contrasto al cambiamento climatico sono stati spesso al centro di accese dispute fra i membri del G7, non solo durante la presidenza Trump ma anche di recente. Durante la presidenza Biden, grazie al ritrovato clima cooperativo tra le due sponde dell’Atlantico, è stato possibile intraprendere vari tentativi per appianare le divergenze in questi settori, ma i risultati sono stati finora ben al di sotto delle aspettative. Al momento sembrano esservi i presupposti per posizioni unitarie del G7 su gran parte dei dossier internazionali, ma la presidenza italiana farebbe bene a non sottovalutare le persistenti tensioni interne al Gruppo che potrebbero acuirsi in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, in particolare le elezioni parlamentari nell’Ue e quelle presidenziali negli Usa.

Ridefinire la legittimità del G7 nel contesto globale

C’è poi una sfida più ampia che riguarda la stessa ragion d’essere e legittimità del G7. Nei paesi del cosiddetto Global South il G7 è sempre più percepito come una sorta di “comitato direttivo” (steering group) dell’Occidente, un club esclusivo che mira essenzialmente alla promozione degli interessi dei paesi occidentali e del Giappone. È un fatto innegabile, e da tempo ampiamente riconosciuto, che il G7 non sia in grado – data la sua membership ristretta e il suo peso declinante negli equilibri mondiali – di guidare il processo diplomatico per la soluzione di problemi cruciali per il destino dell’umanità, come la salute globale o la crisi climatica. Altri sono i contesti nei quali si possono raggiungere accordi globali su questi temi. Non che altrove le intese siano a portata di mano. Lo stesso G20 sta vivendo una crisi profonda a causa delle rivalità crescenti tra le maggiori potenze e altri raggruppamenti, come i Brics, sono tutt’altro che coesi e faticano a decollare.

Il punto è che, in questo contesto oltremodo frammentato della cooperazione internazionale e nel quale le istituzioni multilaterali hanno sempre più difficoltà ad assolvere la loro missione, il G7 non può pretendere di imporre soluzioni preconfezionate alle grandi sfide internazionali. È però fondamentale che continui a coltivare l’ambizione di intraprendere iniziative che abbiano caratteristiche tali da poter essere utilmente discusse e possibilmente recepite in contesti più ampi, dove hanno voce anche altre regioni e gruppi di paesi. Non è un’impresa facile. Anche perché alcune delle misure promosse di recente dal G7, per esempio quelle mirate a ridurre il rischio economico o i nuovi regimi di sanzioni, hanno effetti negativi in molti paesi del cosiddetto Global South. L’ostilità verso il G7 scaturisce anche dai contraccolpi di queste politiche occidentali.

Rafforzare la cooperazione globale: il G7 e il Global South

Il G7 deve pertanto puntare a rafforzare e ampliare quelle parti della sua agenda che possono costituire la base per una più stretta cooperazione con i paesi meno sviluppati – spesso in bilico tra l’Occidente e i suoi rivali strategici – e in particolare con i paesi africani che, come confermato nel recente Vertice Italia-Africa, saranno il “fuoco regionale” della presidenza italiana. I leader del G7 dovranno perciò impegnarsi a sviluppare ulteriormente le linee di azione in settori cruciali per il dialogo con il Global South, come la salute globale, gli strumenti multilaterali per la ristrutturazione del debito, la mitigazione degli effetti della crisi climatica e la sicurezza alimentare.

È essenziale, peraltro, che al Vertice di giugno si approfondiscano anche gli accordi sugli strumenti finanziari necessari per tenere fede agli impegni su queste tematiche. Solo così l’offerta di cooperazione e partnership con gli altri paesi potrà risultare credibile. In quest’ottica, è da salutare con favore la scelta del governo italiano di dare risalto ai rapporti con i paesi africani e, più in generale, con i paesi più svantaggiati, nel solco anche delle significative iniziative diplomatiche intraprese dall’Italia negli ultimi anni su temi come la salute globale e la sicurezza alimentare.

Un conflitto senza fine

Fra pochi giorni, l’Operazione Militare Speciale lanciata da Vladimir Putin all’assalto dell’Ucraina concluderà il suo secondo anno di guerra. Malgrado il gran numero di morti, combattenti e civili, le enormi distruzioni e l’altissimo costo economico sopportato da ambedue le parti, non sembra affatto che questo conflitto si avvicini ad una conclusione, né ad una lunga tregua.

Il fatto è che nessuno dei contendenti è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi: la Russia non ha né conquistato né domato l’Ucraina e quest’ultima non è riuscita a cacciare le truppe degli invasori da una larga fascia, circa il 20%, del suo territorio nazionale. Teoricamente, questa potrebbe essere la premessa per un compromesso che, pur senza arrivare ad una pace stabile, consenta l’instaurarsi di un lungo armistizio (quella che in gergo viene definita la “soluzione coreana”). Ma il problema è che questo conflitto ha assunto una valenza politico-strategica che va molto al di là delle, relativamente, semplici questioni territoriali.

Gli obiettivi strategici di Putin in Ucraina

Il dittatore russo ha più volte spiegato come egli attribuisca a questa guerra un grande valore strategico. Si tratta, a suo avviso, di difendere e riaffermare il ruolo ed il rango di grande potenza della Russia nei confronti del mondo occidentale, degli Stati Uniti, della Nato e dell’Unione europea, respingendo, e possibilmente annullando, l’allargamento verso Est di questo sistema, verificatosi a partire dal 1989. A tal fine è necessario, in primo luogo, assicurare il controllo dell’Ucraina da parte di Mosca.

Aver alzato la barra ad un tale livello non lascia spazio per raggiungere un compromesso equilibrato. Dopo due anni di guerra, Putin sembra puntare ancora alla pura e semplice sconfitta dell’Ucraina. Ma una tale inflessibilità e un tale massimalismo obbligano anche l’Occidente a definire con maggior chiarezza quali siano i suoi obiettivi, al di là della solidarietà nei confronti degli aggrediti e della loro strenua resistenza contro l’invasore.

È probabile che a Mosca si pensi che gli alleati occidentali dell’Ucraina, o almeno una loro parte, non diano a questa guerra la stessa importanza sistemica attribuitale da Putin. Se così fosse, essi potrebbero finire per accettare un compromesso squilibrato a favore della Russia. Al Cremlino, ad esempio, potrebbero sperare che un’eventuale rielezione di Donald Trump alla Presidenza americana renda questa ipotesi plausibile.

Cresce l’incertezza per il futuro dell’Ucraina

In un tale scenario, quali sarebbero gli interessi europei e quali le prospettive di farli prevalere?

L’allargamento dell’Europa verso Est è stata una delle più significative scelte politiche, sia in ambito Nato che per l’Ue. Rimettere in discussione questa scelta significherebbe anche minare la credibilità di queste istituzioni e, in genere, del concetto stesso di “Occidente”. Il fatto che tale politica si scontri con la decisa opposizione della Russia è probabilmente anche conseguenza di errori e sottovalutazioni, ma ciò non giustificherebbe un improvviso cambiamento di rotta.

Ad oggi, il bilancio del conflitto è piuttosto positivo. La deterrenza ha funzionato, non solo a favore della Russia, che ha sinora evitato che il conflitto si estendesse in profondità sul suo territorio, ma anche a favore dell’Ucraina, che non ha subito attacchi nucleari, e dell’Occidente, che ha potuto continuare indisturbato ad imporre sanzioni alla Russia e a rifornire di armamenti l’Ucraina. Lo scontro convenzionale non ha visto una vittoria ucraina, ma neanche un successo dei russi, che al contrario hanno subito ingenti perdite.

C’è però una crescente incertezza circa il futuro: quanto potrà durare ancora questa situazione? Le risorse umane e militari russe sono molto superiori a quelle degli ucraini, che possono colmare tale deficit solo grazie agli aiuti degli alleati, ma che comunque sopportano da soli il costo delle perdite umane e l’impatto della sistematica distruzione delle loro città e infrastrutture. La domanda è se gli alleati dell’Ucraina siano disposti a continuare a sostenere questo sforzo a tempo indeterminato, fino a quando l’Ucraina vorrà e potrà combattere o la Russia rinuncerà alle sue ambizioni.

Il ruolo dell’Unione europea nel conflitto

Molti ritengono che l’Europa non avrebbe le capacità necessarie, senza il determinante contributo americano, e che quindi l’intera partita si giocherà a Washington, tra Casa Bianca e Congresso, e forse con le prossime elezioni presidenziali. Tuttavia, tale posizione riduce l’intera realtà politica europea ad un semplice ruolo di comparsa ed in pratica finisce per delegare a Washington e a Mosca (e forse ad altri ancora) il compito di definire cosa accadrà ai nostri paesi.

La questione Ucraina diviene quindi un essenziale banco di prova per le ambizioni di “autonomia strategica” dell’Europa o anche, più concretamente, per definire la natura del nuovo sistema di sicurezza europea. In questa direzione vanno molti discorsi e proposte avanzate in queste settimane dalle istituzioni europee ed atlantiche, nonché i pronunciamenti di alcuni governi, quali ad esempio quelli di Francia e Germania. Rimane però la necessità di concretizzare tali affermazioni con i necessari impegni sia in termini di bilancio che in termini di politica industriale.

Prolungandosi nel tempo e rimanendo irrisolto, il conflitto in Ucraina ha visto crescere la sua importanza politica. Visto inizialmente come il tentativo russo di riaffermare la primazia di Mosca sui territori della vecchia Urss, è diventato centrale per il futuro del sistema occidentale e quindi anche degli equilibri globali.

Taiwan fronte aperto

Il 2024 è l’anno delle elezioni. Sono più di quattro miliardi i cittadini nel mondo chiamati alle urne nei prossimi mesi, nell’anno elettorale più importante di sempre. Tra i Paesi in cui si svolgeranno le elezioni, ci sono liberal-democrazie e Paesi autoritari, Paesi in pace e in guerra, Paesi in cui la democrazia può consolidarsi e altri in cui si radicherà il nazional-populismo. In contesti radicalmente diversi, la costante del 2024 sono le elezioni e le prime, cruciali, si sono già svolte: quelle a Taiwan.

Taiwan sotto i riflettori internazionali

In passato, le elezioni taiwanesi non riscuotevano grande interesse. D’altronde Taiwan è un Paese relativamente piccolo, con 23 milioni di abitanti, e non è riconosciuto come Stato dalla stragrande maggioranza dei Paesi nel mondo. Fino a poco tempo fa, erano 13 gli Stati che riconoscevano Taiwan, per lo più piccoli Stati dell’America centrale e del Pacifico. L’ultimo ad averlo disconosciuto, su pressione di Pechino, è Nauru e la lista è destinata a rimpicciolirsi ulteriormente. Inoltre, le elezioni non hanno avuto grandi colpi di scena. Come anticipato, il candidato del Partito democratico progressista (Dpp) Lai Ching-te ha vinto le presidenziali a Taiwan. Inoltre, è interessante notare come, nonostante la vittoria, il Dpp abbia perso la maggioranza in parlamento e sia costretto a governare cercando il consenso anche dei partiti di opposizione: il partito nazionalista Kuomintang (Kmt) e il nuovo partito del popolo di Taiwan (Tpp). Insomma, nulla di sensazionale.

Eppure gli occhi di tutti sono e rimangono puntati su Taiwan. C’è chi teme che la vittoria di Lai, inviso a Pechino, alzi il rischio di uno scontro. Con le guerre in corso in Ucraina e Medio Oriente, esiste la minaccia imminente di un nuovo fronte aperto a Taiwan, in quella che Papa Francesco ha saggiamente definito la “Terza guerra mondiale a pezzi”?

C’è un vero rischio di escalation?

a Taiwan c’era e rimane. Sebbene se ne sia parlato meno dopo l’escalation innescata nell’estate 2022 dalla visita dell’allora speaker della Camera Usa Nancy Pelosi e dalle rappresaglie militari cinesi che vi fecero seguito – incluse esercitazioni attorno all’isola e la sospensione del dialogo militare con Washington –, il livello di allerta su Taiwan non si è mai veramente abbassato. Al contrario, durante la campagna elettorale, Taipei ha ripetutamente accusato Pechino di interferire nelle elezioni, anche attraverso un’aggressiva campagna di disinformazione, e di aver fatto sorvolare diversi palloni spia sull’isola. Infatti, Pechino ha criticato apertamente Lai e non ha mai nascosto le sue preferenze per Hou Yu-ih, il candidato del Kmt, più vicino alle istanze della Repubblica popolare. Nel suo tradizionale discorso di fine anno, il presidente cinese Xi Jinping ha, inoltre, definito l’unificazione con Taiwan uno “sviluppo inevitabile”. Le parole di Xi hanno riproposto una posizione sempre più marcata da parte di Pechino, ma pronunciate a poche settimane dal voto a Taiwan hanno assunto una dimensione ancora più infausta. Ora che Lai ha vinto, con oltre il 40% dei voti, c’è chi teme che le minacce di Pechino si traducano in realtà.

Che la questione di Taiwan sia sulla china dell’escalation è chiaro, ma ciò non vuol dire che la vittoria di Lai debba segnare uno spartiacque verso una guerra aperta. Il Dpp è alla sua terza vittoria consecutiva. Da un lato, questo indica che il popolo si identifica sempre più come taiwanese (e non cinese), rifiutando un futuro dell’isola integrato con la Repubblica popolare. Avendo visto cosa significa la reintegrazione nel caso di Hong Kong, sorprende poco che i taiwanesi rifuggano una prospettiva simile. Dall’altro lato, questa terza vittoria del Dpp significa che poco cambia rispetto alla gestione degli ultimi anni. Tant’è che nell’ultimo mandato, Lai era vicepresidente, numero due della leader uscente Tsai Ing-Wen.

In sintesi, se il conflitto a Taiwan rischia l’escalation, così è dalla prima vittoria del Dpp nel 2016, non certo da ieri. A questo si aggiunge il fatto che il nuovo leader, al pari della presidente uscente, nei suoi discorsi non invoca l’indipendenza dell’isola, ben sapendo che un tale scenario comporterebbe una guerra contro la Cina, bensì insiste sul mantenimento dello “status quo”. Nell’intervento pronunciato in seguito alla vittoria, Lai Ching-te, pur ribadendo la determinazione di salvaguardare Taiwan dalle minacce e intimidazioni cinesi, ha usato toni pacati, assumendosi le sue responsabilità nell’assicurare la pace e stabilità nello Stretto e dichiarandosi aperto al dialogo con Pechino su basi paritarie. Questo sullo sfondo di una relativa distensione nei rapporti tra Washington e Pechino, incoronati dal vertice tra Joe Biden e Xi Jinping a San Francisco nel novembre scorso e dalla riattivazione del dialogo militare tra le due superpotenze.

La reazione di Pechino

Le elezioni taiwanesi probabilmente vedranno una relativa inversione di rotta nel clima di distensione. Il disconoscimento di Taiwan da parte del Nauru, su pressione cinese, è avvenuto non a caso dopo le elezioni. È evidente che il negoziato tra Cina e Nauru si era concluso prima e che Pechino abbia voluto aspettare l’esito delle elezioni – che probabilmente aveva previsto – per alzare la pressione politico-diplomatica su Taipei. Il governo cinese probabilmente alzerà anche il tiro con una crescente coercizione economica e, magari non immediatamente, anche una maggiore pressione militare sull’isola. Il problema a Taiwan, insomma, rimane. Con la crescente assertività della Cina in Asia e nel mondo, è Pechino che ormai rifiuta lo “status quo”, regolarmente evocando l’unificazione tra terraferma e isola, se necessario attraverso l’uso della forza. La minaccia di una guerra c’era prima e continua a esserci. Ma se dovesse concretizzarsi, ce ne accorgeremmo dai preparativi cinesi molti mesi prima. In ogni caso, è improbabile che si concretizzi prima di tre o quattro anni, dando il tempo alla deterrenza e al dialogo, se efficaci, di scongiurarla.

L’agenda del G7 a guida italiana

Il G7 è un foro informale di consultazione, composto da un gruppo ristretto di Paesi economicamente più avanzati del mondo occidentale, che offre un’occasione di confronto e coordinamento su una serie di questioni d’interesse prioritario per la comunità internazionale. Raramente nel G7 si assumono decisioni vincolanti, ma esso costituisce un quadro di riferimento utile per la definizione di orientamenti condivisi su temi di interesse comune. L’agenda del G7 è quindi caratterizzata da temi ricorrenti che, tradizionalmente, figurano nelle conclusioni dei rispettivi vertici, da tematiche in qualche modo imposte dall’attualità del contesto internazionale e da specifiche questioni che riflettono maggiormente le priorità delle presidenze di turno.

Le priorità del G7 a guida italiana

La presidenza italiana coinciderà con un anno particolarmente complesso per le numerose incertezze e l’instabilità che caratterizzano la situazione internazionale, cui si aggiunge l’incognita delle scadenze elettorali in Europa e negli Usa. Inevitabilmente, quindi, nell’agenda del G7 a guida italiana figureranno le crisi che caratterizzano l’attualità internazionale: dalla guerra in Ucraina al riaccendersi del conflitto israelo-palestinese, dalla ripresa delle tensioni in Medio Oriente alle altre aree a rischio che caratterizzano la scena internazionale. Tutti temi che verranno declinati in funzione degli sviluppi nel corso dei prossimi mesi, ma per i quali il G7 offrirà il quadro di riferimento ideale per verificare e consolidare una posizione comune del mondo cosiddetto occidentale rispetto a queste crisi.

Tuttavia, al centro dell’agenda del G7 ci saranno anche le sfide con le quali il mondo deve confrontarsi per garantire una crescita sostenibile e inclusiva, stabilità finanziaria e riduzione dei divari di ricchezza. Sotto questo profilo figureranno nell’agenda temi come il coordinamento delle politiche macro-economiche, la finanza per lo sviluppo, il futuro del commercio internazionale, la sicurezza alimentare, la salute per tutti, la transizione energetica e il contrasto al cambiamento climatico (anche alla luce degli impegni assunti dalla comunità internazionale alla Cop28 e in vista della Cop29), la transizione digitale e la riduzione del digital divide.

Tra i temi destinati a caratterizzare l’agenda della presidenza italiana, il Governo ha anche già anticipato che una speciale attenzione sarà dedicata allo sviluppo delle relazioni con l’Africa, con l’obiettivo di stimolare rapporti più sistematici di cooperazione con questa parte del mondo, così importante per la disponibilità di materie prime e per la sua spettacolare crescita demografica.

Altro argomento di straordinaria attualità e interesse per tutta la comunità internazionale, su cui la presidenza italiana intende puntare, sarà poi quello dello sviluppo e della regolamentazione dell’intelligenza artificiale. Sotto questo profilo, il G7 potrebbe fornire indicazioni mirate soprattutto ad individuare un quadro di riferimento per una regolamentazione condivisa dell’intelligenza artificiale che, senza bloccarne sviluppi e potenzialità, ne riduca i rischi di usi impropri, grazie anche alla cooperazione internazionale.

Il ruolo del G7 nell’attuale sistema di governance globale

Ma la Presidenza italiana dovrà anche tenere presente che, nel corso degli anni, con la modifica degli equilibri complessivi sulla scena internazionale, i Paesi che fanno parte del Gruppo dei sette hanno perso di peso specifico e quindi di rilevanza. Con la conseguenza che il G7 oggi deve fare i conti con un problema di rappresentatività, a sua volta conseguenza dell’emergere di nuovi protagonisti che si stanno affermando in ambito internazionale e che chiedono di svolgere un ruolo di primo piano nella gestione della governance globale. Non a caso, già a partire dal 2008, al G7 si è affiancato il G20, un foro di consultazione a partecipazione più ampia e quindi potenzialmente assai più rappresentativo.

Il G7 resta comunque indubbiamente un foro importante di concertazione, anche perché i suoi membri sono caratterizzati da posizioni sostanzialmente omogenee su molte questioni di interesse comune. Ma i Paesi che ne fanno parte dovranno assumere le loro decisioni nella consapevolezza che il loro peso specifico – misurato in termini di quota del PIL mondiale, di quota della popolazione mondiale e di quota del commercio internazionale – si è ridotto drasticamente rispetto a quando il Gruppo fu creato nel lontano 1975.

Per poter continuare a svolgere un ruolo nella governance globale, il G7 dovrà quindi sempre più più aprirsi ad altri Paesi e contribuire, con le sue decisioni, anche a colmare le distanze emerse di recente fra l’Occidente e il resto del mondo. Sotto questo profilo sarà importante che, anche nel 2024, il G7 tenga presente la necessità di coinvolgere nelle sue decisioni un più ampio spettro di stakeholders. E confermi la prassi di invitare anche altri Paesi a partecipare al processo di consultazione attraverso la formula dell’outreach, come segnale della disponibilità a coinvolgere Paesi non membri del gruppo ristretto nella preparazione delle decisioni di maggior rilievo, e ad ascoltare e a dare un seguito alle richieste del cosiddetto Sud globale.

La presidenza italiana e la credibilità internazionale del Paese

Mai come nel caso del G7 a presidenza italiana, le riunioni previste sono state svolte in un contesto simile a quello attuale, con due conflitti – contro l’Ucraina e in Israele e Palestina – e una crisi straordinaria come quella causata dagli attacchi armati degli Houthi contro il transito delle navi nel Mar Rosso, per citare solo alcuni gravi episodi che accadono in Europa o in aree non lontane.  Quale sarà a giugno l’evoluzione di queste gravi vicende? È auspicabile che si arrivi almeno a un cessate il fuoco, se non addirittura a ipotesi di armistizi. Ma sarà così o si tratta di una spes contra spem?

La principale riunione del G7 si terrà a Borgo Egnazia, in Puglia, dal 13 al 15 giugno, poco dopo l’esito delle elezioni europee che, per l’Italia, si terranno l’8 e 9 giugno, mentre a livello europeo potranno comunque svolgersi tra il 6 e il 9 giugno. Questo contesto non potrà non influenzare i meeting del G7, che si potrebbero anche svolgere “in vitro”. Probabilmente, in quei giorni, si continuerà a discutere sugli esiti elettorali e sulle possibili formazioni dei nuovi organi dell’Unione. Senza citare poi altre vicende internazionali, come la campagna per l’elezione del Presidente degli Usa o l’elezione del Presidente della Russia. Si stima che quasi metà della popolazione globale andrà alle urne quest’anno. Sotto alcuni aspetti, potrebbe anche essere un vantaggio dover svolgere le riunioni del foro nel fuoco di problemi che incidono in corpore vili e, dunque, inducono a fare i conti con realtà tangibili e incombenti.

Il G7 a presidenza italiana dovrebbe ambire alla concretezza

Il programma di tutto il G7 è ambizioso. Con esso, la presidenza italiana gioca anche una carta per la propria credibilità internazionale, ma naturalmente all’aumento delle aspettative scaturenti dai temi in discussione corrisponderà, poi, una rigorosa valutazione dei risultati. Rappresenterebbe già un esito importante poter concludere il meeting di giugno se non con decisioni operative – che sarebbe un’illusione – con almeno impegni che, pur scontando altri numerosi e non facili passaggi, risultino meno distanti dall’attuazione di quanto solitamente accade in tali organismi che finiscono, volens nolens, con il limitare la loro funzione al sostanziale scambio di informazioni.

Naturalmente, non bisogna trascurare gli altri formati di incontri che caratterizzeranno il G7, a partire da quello dei Ministri finanziari, per i contributi che potranno offrire nelle loro aree d’interesse. In materia bancaria e finanziaria, sarebbe importante valutare come raccordare l’azione dei sette con quella delle principali Banche centrali, nel presupposto della reciproca autonomia. La premier Giorgia Meloni ha sottolineato la posizione dell’Italia quale ponte tra l’Atlantico e l’Indopacifico, ponendo in primo piano i temi della cooperazione internazionale e i rapporti con i Paesi in via di sviluppo, con le economie emergenti, soprattutto con l’Africa e, in questo quadro, sottolineando le urgenze per le politiche migratorie.

Energia e cambiamento climatico non potranno non avere un ruolo centrale in tutti gli incontri. Ma saranno in evidenza pure i temi della sicurezza, della finanza e dello sviluppo. La preparazione, come sempre, sarà decisiva anche per la selezione, nei numerosi incontri, dei temi prioritari. È importante, soprattutto nella riunione dei Grandi, concentrarsi sui temi che meritano un’assoluta priorità. Si deve tener conto che, come accennato, il contesto in evoluzione potrà sollecitare a dare la precedenza a nuovi argomenti. La concretezza dovrebbe essere uno degli obiettivi-vincolo.

Anche le linee di fondo non sono meno importanti. Pur con tutti i limiti di rappresentatività del G7  rispetto al G20, e pur con la contezza delle difficoltà del progetto, anche per non incorrere in un mero sforzo di fantasia,  sarebbe una scelta apprezzabile iniziare a definire le linee di un nuovo ordine internazionale (formula molto spesso agitata, senza mai fare, però, i conti con la realtà) o, almeno, sostenere il multilateralismo e introdurre antidoti a chiusure che potrebbero sopravvenire (si pensi a cambi di rotta negli Usa a seguito delle presidenziali o a impatti delle politiche cinesi e dei rapporti con la Russia).

Un’opportunità di rinnovamento per le istituzioni finanziarie ed economiche internazionali

Apprezzabile sarebbe anche un riesame critico della struttura e dell’azione delle istituzioni finanziarie ed economiche internazionali.  Nate in un lontano e un ben diverso contesto internazionale, esse necessitano di una sostanziale revisione istituzionale e organizzativa. A seguito degli attuali eventi bellici, in questa fase della vita dell’Occidente (e non solo) si pongono temi di grande spessore, quali l’adeguatezza, la concretezza, la cogenza del diritto internazionale e umanitario, nonché delle branche ad essi collegate, come il diritto della navigazione, il diritto marittimo e quello del mare.  Ma si pone anche il tema del livello di adesione al diritto stesso e dell’adeguatezza dell’insieme delle Corti con giurisdizione transnazionale.

Ovviamente, non è immaginabile che il G7 affronti il merito di queste complesse tematiche, come di quella della moratoria del debito dell’Africa, che richiama discussioni e impegni sulla remissione del debito dei Paesi poveri in occasione del Giubileo del Duemila. Tuttavia, non è eccessivo sperare che il G7 dia almeno una spinta ad affrontare questi temi straordinari e particolarmente complessi, anche in ragione dei solleciti che provengono dalla giusta esigenza di regole globali per l’epocale fenomeno dell’intelligenza artificiale.

Il quadro internazionale è oggi particolarmente complicato, pur se a vicinanze tra Russia e Cina e tra Russia e Iran potrebbe fare da contrappeso un orientamento per uno scambio telefonico tra Biden e Xi Jinping nel prossimo mese di marzo. Anche se, per ora, si tratta di un accenno e nulla di più. Bisognerà vedere quale sarà la situazione al momento del più importante incontro del programma, qual è il meeting di giugno.

Come accennato, una fase costituente di un nuovo ordine internazionale non è realistica, ma non per questo si deve abbassare la spinta innanzitutto ideale.  Ci si aspettano, come si è prospettato, risultati non epocali ma concreti, anche se delimitati. Perciò, nella preparazione degli incontri più importanti, sarebbe un segnale coinvolgere sin d’ora anche saperi, specialismi ed esperienze pure al di fuori dei canali istituzionali.

Tajani: “Rafforzeremo il G7”

AffarInternazionali ha partecipato lo scorso 17 gennaio 2024 alla conferenza stampa del Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, On. Antonio Tajani, tenutasi alla Farnesina e organizzata per presentare le priorità relative ai filoni di attività del G7 di competenza del Ministero. Vi proponiamo alcuni passaggi tratti dai suoi interventi.

Il G7 a presidenza italiana

“Come sapete, dal primo gennaio l’Italia ha la guida del G7, per la settima volta. Noi vogliamo rafforzare il ruolo di questa organizzazione che è il meccanismo di coordinamento delle grandi democrazie liberali ad economia avanzata, vogliamo che il G7 sia uno strumento di stabilità per fornire risposte coese alla crisi che stiamo vivendo. Abbiamo due guerre e una crisi nel Mar Rosso. L’obiettivo della nostra presidenza sarà quello di rafforzare questa coesione e questa collaborazione”.

Il Medio Oriente

“Priorità della nostra presidenza in politica estera sarà ovviamente la situazione in Medio Oriente e, come sapete, lavoreremo per una de-escalation. Lavoriamo perché la situazione non peggiori assolutamente, siamo contro l’escalation, quindi tutte le nostre iniziative politico-diplomatiche vanno in questa direzione. Ci stiamo muovendo con grande equilibrio. Noi siamo contro il terrorismo. Abbiamo condannato con grande fermezza il disumano attacco di Hamas contro la popolazione civile israeliana, chiediamo con forza la liberazione degli ostaggi, vediamo con favore tutte le iniziative di mediazione, compresa l’ultima che servirà a portare anche medicinali agli ostaggi. Noi, insieme agli altri del G7, abbiamo dato un messaggio chiaro ad Israele di avere reazioni militari proporzionate e di risparmiare la popolazione civile: ci sono troppi morti innocenti. D’altro lato, Hamas ha la grande responsabilità di usare la popolazione civile come scudo umano: molto spesso vengono inviati messaggi di evacuare alcune parti dove ci saranno attacchi militari israeliani e Hamas impedisce alla popolazione civile di abbandonarli.

Quindi Israele deve proporzionare e ridurre assolutamente l’attacco contro la popolazione civile che non ha nessuna colpa. È vero che i terroristi di Hamas sono palestinesi, ma i palestinesi non sono tutti terroristi di Hamas. Questo deve essere molto chiaro. Dal punto di vista del sostegno alla popolazione civile, ribadisco quali sono i nostri impegni e la nostra azione. Sono arrivati due aerei militari carichi di beni da portare alla striscia di Gaza. C’è la nave ospedale militare Vulcano dove si stanno curando bambini palestinesi. Stiamo lavorando con il governo egiziano per installare un ospedale da campo a Rafah, non sappiamo se al di là o al di qua della porta, comunque siamo pronti a farlo, stiamo aspettando le autorizzazioni, siamo in trattativa e siamo pronti a realizzarlo. Cureremo in Italia oltre cento bambini palestinesi con l’azione di coordinamento della nostra unità di crisi. L’Italia sta facendo di tutto per aiutare la popolazione civile palestinese che, ripeto, non ha nulla a che vedere con i criminali terroristi di Hamas. Noi siamo per due popoli due Stati, quindi lo stato di Israele che riconosca lo Stato palestinese e lo Stato palestinese che riconosca Israele.

Per quanto riguarda Israele, fin dal primo giorno mi sono raccomandato sulla reazione a quanto accaduto il 7 ottobre. Sono stato il primo ministro degli Esteri ad arrivare in Israele dopo l’attacco di Hamas. Voglio però ribadire – perché non se ne parla abbastanza, dato che non tutti hanno visto i filmati di ciò che è accaduto – che non è stato un bombardamento, non è stato un attacco ad una caserma, è stata una vera e propria caccia all’uomo, alla donna, al bambino, con una violenza mai vista. Le profanazioni dei cadaveri, la violenza fisica da tutti i punti di vista: non si era mai vista una cosa del genere dall’antichità ai giorni nostri. Chi ha avuto l’opportunità di vedere alcuni video sa cosa è accaduto: la caccia al neonato, la violenza sulle donne vive e morte. È inaccettabile e inaudito anche nel corso di una guerra. Anche questi sono crimini di guerra. Ripeto, siamo contrari a bombardamenti a tappeto che colpiscono la popolazione civile e provocano tanti morti, però bisogna anche denunciare ciò che è accaduto e ciò di cui si parla, secondo me, troppo poco. Lì è stata fatta la caccia all’ebreo casa per casa, prendendosela con un neonato di tre mesi e con i cadaveri: atti di vigliaccheria”.

Il Mar Rosso

“Per quanto riguarda invece la situazione nel Mar Rosso, stiamo lavorando ad una nuova missione europea accanto all’Operazione Atalanta che è nello Stretto di Hormuz, per proteggere i traffici commerciali. L’idea, quella di più facile soluzione, è di allargare questa missione e farla arrivare con competenza fino al Mar Rosso per difendere il traffico marittimo in tutta l’area, visto che oggi con Atlanta difendiamo il traffico marittimo soprattutto nel sud del Mar Rosso. Vorremmo arrivare fino a Suez per garantire il traffico, assicurando la possibilità di difendere, con una presenza militare europea, le navi europee che transitano per quella parte di mondo. Abbiamo condannato fin dall’inizio le aggressioni dei ribelli Houthi ai mercantili.

Siamo di fronte ad un problema economico non secondario: siamo un Paese esportatore –  sapete bene che quasi il 40% del nostro PIL è export – e quindi la riduzione del traffico marittimo attraverso il Canale di Suez ci preoccupa: siamo passati da 400 navi al giorno a 250. Sono aumentati e non di poco i costi assicurativi e si allungano i tempi di percorrenza. Fare il periplo dell’’Africa significa perdere 15 giorni, ne va della competitività dei nostri prodotti, ne va anche della competitività dei nostri porti, penso a quelli di Gioia Tauro, di Taranto, di Brindisi, di Trieste e di Genova. A gennaio abbiamo aderito alla dichiarazione politica con gli Stati Uniti, poi c’è stata una dichiarazione da parte della Presidenza del Consiglio sul sostegno alla difesa dei traffici nel Mar Rosso. Non stiamo operando solo militarmente, ma anche diplomaticamente per salvaguardare la nostra attività di esportazione”.

Esercito europeo

“Noi vogliamo un’Europa più politica. Non si può fare politica estera se non c’è un sistema di difesa europea. Non vogliamo che l’Europa sia un gigante economico e un nano politico.  L’Italia deve essere protagonista in un’Europa che conta, che abbia un rapporto paritario con gli Stati Uniti anche all’interno della Nato. Dobbiamo per questo avere un sistema di difesa europeo che sia competitivo. È partito un percorso, bisogna accelerare, non è sufficiente quello che si è fatto e si sta facendo, ma bisogna avere veramente, come obiettivo finale, un esercito europeo. Ci stiamo lavorando, servono i tempi necessari, ma se vogliamo avere missioni di pace efficaci, se vogliamo intervenire in tempi rapidi e non essere sempre costretti a seguire iniziative di altri, dobbiamo avere uno strumento anche di peacekeeping europeo, quindi che sia operativo in tempi molto rapidi. Questo è ciò in cui credo, penso che sia giusto procedere in questa direzione. Sono stati abbattuti negli ultimi anni molti tabù, ora bisogna andare avanti”.

L’Ucraina

“Siamo convinti che se l’Ucraina dovesse perdere da un punto di vista militare, non ci sarebbe più la possibilità di raggiungere la pace, sarebbe una sconfitta e non una pace. Noi vogliamo che si raggiunga la pace, ma la pace si può raggiungere soltanto quando ci sono due contendenti che si confrontano, non c’è un vincitore e un vinto. Chi ha violato il diritto internazionale? La Russia, e quindi va rispettato il diritto internazionale, va messa l’Ucraina nelle condizioni di poter fare – quando sarà il momento e mi auguro che arrivi il prima possibile – un accordo di pace che sia una pace giusta, come abbiamo sempre detto, con la Russia.

Noi vogliamo che si raggiungano obiettivi di pace ma, ripeto, la pace non può significare lo stravolgimento del diritto internazionale, non può valere la regola, “io sono più forte, decido e invado un paese”. Questo è inaccettabile anche dal punto di vista del diritto internazionale. L’Ucraina sta difendendo la libertà, la sua libertà, quella dell’Europa, quindi noi abbiamo il dovere di sostenerla, non soltanto, attraverso aiuti di tipo militare, ma anche con aiuti alla popolazione civile, soprattutto durante l’inverno”.

Le migrazioni

“Il tema migrazioni, l’ho sempre detto anche quando avevo altre responsabilità, come quella di vicepresidente della Commissione europea o presidente del Parlamento europeo, la questione migratoria deve essere risolta a monte. Non può essere solo un problema di ordine pubblico. Lo è anche, ma soprattutto è un problema che deve essere affrontato in maniera strategica. Nel 2050 avremo due miliardi e mezzo di africani. Se noi vogliamo, come diceva Benedetto XVI, “difendere il diritto a non migrare”, dobbiamo contribuire alla soluzione dei problemi che provocano la migrazione. E questi problemi sono: le guerre, la carestia, il cambiamento climatico, le malattie e la povertà.

Cosa possiamo e dobbiamo fare? Intanto, porre l’attenzione del mondo sul problema, quindi il G7 sarà una delle occasioni, lo abbiamo posto anche nelle occasioni dei vertici Nato. Il Piano Mattei è uno strumento per cercare di dare un contributo determinante, da parte italiana, per risolvere questi problemi con un’ottica non neo-colonizzatrice, ma che guardi all’Africa con lenti africane e non con lenti italiane o europee. E il piano Mattei, che dovrebbe essere a mio giudizio parte di quel piano che ho sempre invocato, un grande piano Marshall europeo per il continente africano, deve essere scritto insieme agli africani, perché sennò non avrebbe senso. Non dobbiamo fare elemosina, dobbiamo avere una strategia politico-economica che deve permettere al continente africano di poter utilizzare tutte le risorse che ha per una sua crescita economica. Possiamo esportare il nostro saper fare, stiamo già lavorando con molti paesi, penso all’Egitto, alla Tunisia, all’Algeria, alla stessa Libia, con tanti paesi africani per cercare di risolvere il problema.

Poi ci sono tutti i problemi politici e militari che riguardano la sicurezza dell’Africa sub-Sahariana. C’è poi il Medio Oriente con i tanti profughi dalla Siria, con la situazione in Libano che rischia di peggiorare ogni giorno, con i tanti profughi che attraverso la rotta balcanica potrebbero presto raggiungere l’Europa. Serve insomma una strategia, investimenti, ma soprattutto una politica di pace”.

Ha collaborato alla redazione dell’articolo Marta Fornacini

Due anni di guerra russa all’Ucraina

A febbraio 2022, la Russia ha invaso l’Ucraina da nord, est e sud al fine di controllare l’intero Paese attraverso un’occupazione militare diretta e/o un governo fantoccio. Mosca si aspettava un rapido collasso o la resa dello stato ucraino ed aveva pianificato una guerra di manovra relativamente veloce, per prendere il controllo delle città principali, in primis Kyiv, Kharkiv e Odesa. L’Ucraina, che si era preparata in una certa misura dal 2014 ad un’invasione russa, ha resistito e ha respinto le forze russe dai principali centri abitati, compreso il capoluogo regionale Kherson, nonostante la sua annessione illegale alla Federazione Russa. Nel corso del 2023, Kyiv ha lanciato una controffensiva mirata a liberare territori a sud di Zaporizhia, ma sfortunatamente le forze russe mantengono la maggior parte del terreno precedentemente conquistato. 

L’evoluzione della guerra russo-ucraina

Il conflitto si è trasformato in una logorante guerra di attrito, con oltre mezzo milione di militari impiegati in totale dalle due parti in lotta, ed è entrato in una situazione di stallo ormai da diversi mesi. Si assiste a continue e indiscriminate campagne di bombardamenti aerei da parte della Russia – con l’uso di bombe, missili e droni–,  raid mirati da parte dell’Ucraina sui territori occupati e nelle acque del Mar Nero, e soprattutto feroci, sanguinose battaglie terrestri lungo una linea del fronte altamente fortificata, con ampia potenza di fuoco e un uso massiccio di droni. Due anni dopo l’inizio dell’invasione, le forze armate russe controllano il corridoio terrestre che collega la penisola di Crimea al Donbas – due aree già direttamente o indirettamente sotto il controllo di Mosca dalla guerra del 2014– e l’intero Mar d’Azov, corrispondente a poco meno del 20% del territorio ucraino. L’Ucraina continua ad avere accesso al Mar Nero e ad esportare i propri beni alimentari. Tale occupazione ha finora comportato decine di migliaia di vittime militari per entrambi i Paesi in guerra, l’uccisione di altre decine di migliaia di civili ucraini, così come un enorme numero di feriti e persone sfollate, oltre alle distruzioni materiali causate dal conflitto.

Un esito ancora incerto

L’inizio della guerra ha sorpreso molti esperti e addetti ai lavori dell’Europa occidentale, l’evoluzione del conflitto è stata difficile da prevedere ed il suo futuro rimane incerto. Una guerra convenzionale su larga scala, ad alta intensità, prolungata, tra la Russia ed il secondo Paese più grande d’Europa, è un fenomeno estremamente complesso non sperimentato nel Vecchio Continente dalla Seconda Guerra Mondiale. In quanto tale presenta diversi elementi significativi, anche se in molti casi peculiari, nei cinque domini operativi – terrestre, aereo, navale, spaziale e cibernetico –, oltre che molteplici implicazioni a livello strategico, coinvolgendo anche la Nato e la difesa europea.

Lo speciale discute gli elementi militari più importanti della guerra tra Russia e Ucraina e le implicazioni per le forze armate dei Paesi europei. Pertanto, non considera né le ragioni della guerra di aggressione di Mosca né i possibili esiti oltre il 2024. La prima parte della pubblicazione esamina il livello operativo del conflitto nei domini aereo, terrestre, navale e spaziale. La seconda parte dello speciale affronta una serie di implicazioni per la Nato e l’Ue, con un focus ulteriore sulla politica industriale della difesa. Gli articoli anticipano alcuni capitoli dello studio IAI redatto da un team di ricerca ad hoc che sarà presentato in una conferenza pubblica a Roma il prossimo 20 febbraio.

La giustizia alimentare al centro del dialogo politico

Se il prossimo G7 a presidenza italiana vorrà avere realmente un focus sull’Africa e l’area Mediterranea – come pare evidente dalle molteplici dichiarazioni istituzionali e dalla Conferenza Italia-Africa –, il tema delle crisi alimentari dovrà avere necessariamente un posto di rilievo nel corso del summit.

Prima ancora di conoscere ufficialmente le priorità del vertice, la società civile italiana – raccolta nel Civil-7 e coordinata dalla GCAP Italia – ha proposto la questione della giustizia alimentare al centro del dialogo politico, che si è svolto lo scorso 18 gennaio a Roma, con diversi esponenti istituzionali di alto livello dei ministeri interessati. Alcune delle considerazioni e raccomandazioni qui espresse rappresentano il portato di un lavoro comune del gruppo del C7 italiano, denominato “Giustizia alimentare e trasformazione dei sistemi alimentari”.

I sistemi alimentari essenziali per il nostro futuro

I sistemi alimentari sono infatti centrali per il benessere sociale e il paradigma del nostro futuro: per la salute degli ecosistemi, la sicurezza alimentare e nutrizionale, la cultura e il paesaggio. Al contempo, pongono sfide cruciali in merito alla riduzione della biodiversità, il consumo idrico, le emissioni di gas serra e l’inquinamento delle falde, con gravi implicazioni per la salute umana. Subiscono il cambiamento climatico e vi contribuiscono.

Occorre quindi un approccio integrato per rispondere ad una questione tanto urgente: l’ultimo Rapporto FAO sullo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo dichiara che l’anno scorso 783 milioni di persone hanno sofferto la fame (122 milioni in più rispetto al 2019), mentre in 3,1 miliardi non hanno accesso a una dieta adeguata e salubre. Uno scenario che rende una chimera l’obiettivo “Fame Zero” entro il 2030, come previsto dell’Agenda Onu per lo sviluppo sostenibile.

Le cause strutturali alla base della fame

In tutto questo, le cause strutturali della fame sono sempre le stesse e non si sono attenuate. Nel post-pandemia, i conflitti e la questione climatica restano i fattori determinanti dello status quo. Causati in buona parte da fattori geopolitici: dal protrarsi del conflitto in Ucraina alla diffusa crisi politica nel Sahel, dai conflitti protratti in Yemen, Somalia e Siria al dramma umanitario che si sta consumando in Africa Orientale. Il caos climatico, che si manifesta con crescente e drammatica frequenza oramai su scala globale, ha infatti proprio nell’Africa e nell’area del cosiddetto Mediterraneo allargato uno dei suoi punti critici.

Assistiamo poi a una speculazione finanziaria sempre più intensa che condiziona l’inflazione, specie se guardiamo agli incrementi ingiustificati dei prezzi dei beni alimentari, aggravata da altri fenomeni, come l’accaparramento della terra in aree sempre più vaste. Un elemento che esacerba diseguaglianze ed è di ostacolo all’accesso al cibo per milioni di persone. A queste si sommano politiche di disincentivo alle riserve strategiche pubbliche di cibo da parte dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), accordi commerciali che aumentano il divario di opportunità e un quadro incoerente di politiche globali ed europee.

Le proposte della società civile per una transizione agro-ecologica

Da questa analisi sulle cause scaturiscono un ampio ventaglio di proposte politiche e di azioni da intraprendere. Ne proponiamo qui alcune che riguardano il processo G7 e pongono la possibilità di realizzare un’inversione di rotta nella direzione di una transizione agro-ecologica. Altre, altrettanto fondamentali, su clima, salute, ruolo delle donne e dei giovani contadini, le proporremo comunque all’attenzione dei governi del G7.

Diritti umani

La centralità del quadro internazionale dei diritti umani nel G7 si estende certamente al tema della giustizia alimentare e alla necessità che i diritti umani siano incorporati nella trasformazione dei sistemi alimentari. Questo approccio deve essere tradotto in priorità, ricordando la necessità di rispettare, proteggere e promuovere i diritti umani, e l’importanza della partecipazione, della trasparenza e della responsabilità dei detentori dei diritti e dei portatori dei doveri e delle terze parti, nella trasformazione dei nostri sistemi alimentari.

Investimenti e commercio

Allo stesso tempo tutti gli investimenti dovrebbero rispettare gli standard ambientali e sui diritti umani, siano essi pubblici o privati. Quando quest’ultimi sono sovvenzionati con fondi pubblici, riteniamo che ci debba essere un’attenzione più forte e marcata ad adottare modelli di business sostenibili e inclusivi, come le cooperative, le imprese sociali e le associazioni dei piccoli produttori, in particolare delle donne, che già integrano il costo della conformità ambientale e sociale.

Occorre anche prestare maggiore attenzione alla necessità di assicurare che gli accordi commerciali multilaterali e bilaterali e gli indirizzi dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) di disincentivo alle riserve strategiche pubbliche del cibo non mettano a rischio o contraddicano gli sforzi volti ad abbandonare un sistema alimentare incompatibile con i limiti del pianeta e con il necessario sostegno agli approcci territoriali.

La governance dei sistemi alimentari

Nei percorsi di dialogo e negoziazione in essere sui sistemi alimentari sostenibili a livello nazionale, europeo e globale occorre infine ovviare a un approccio multi-stakeholder, carente di legittimità democratica, e definire chiare responsabilità, tramite regole utili a mitigare squilibri di potere e conflitti d’interesse, come dimostrato dalle forti limitazioni del summit dei sistemi alimentari dell’Onu nel sostenere percorsi di reale trasformazione dei sistemi alimentari e valorizzare il contributo della società civile. Pertanto, occorre riaffermare il Comitato per la Sicurezza Alimentare Onu (CFS) come la principale piattaforma politica internazionale, multi-attore e intergovernativa sulla sicurezza alimentare e la nutrizione che promuove il coordinamento, la convergenza e la coerenza delle politiche per realizzare il diritto ad un’alimentazione adeguata.