

Majed al-Ansari: l’attacco iraniano alla base americana in Qatar
Majed al-Ansari, Consigliere del Primo Ministro del Qatar e Portavoce ufficiale del Ministero degli Affari Esteri, è intervenuto a un evento organizzato dallo IAI dal titolo “Europe and the Gulf: Roles in De-Escalating the Israel-Iran Conflict”, in dialogo con Maria Luisa Fantappiè.
Può raccontarci cosa è successo esattamente il giorno dell’attacco iraniano alla base americana in Qatar?
Il Qatar è un piccolo paese con una popolazione di meno di 3 milioni di persone, che non ha mai subito alcun attacco militare grave in tutta la sua storia, né nell’Ottocento, né dagli anni ‘70, quando ottenne l’indipendenza. Quella mattina, abbiamo ricevuto un’allerta di massimo livello per un attacco imminente contro il Qatar. La nostra macchina diplomatica ha iniziato a funzionare immediatamente, e tanto la risposta militare quanto quella politica miravano a garantire che l’attacco non avvenisse. Verso le 7:30, abbiamo ricevuto una comunicazione da parte del settore militare secondo cui il IRGC (Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche) aveva lanciato una prima raffica di sette missili verso la base aerea di Al Udeid Air: tutti erano stati abbattuti in mare; poi una seconda raffica di tredici altri missili, che erano stati tutti abbattuti tranne uno. In quel momento, ero seduto accanto al primo ministro dell’epoca. Alla mia sinistra, c’era il primo ministro. Alla mia destra, c’era il ministro di Stato, il dottor Mohammed AlKhulaifi. Era il nostro capo negoziatore con l’Iran. Ed è in quel momento che abbiamo saputo che il Presidente Trump voleva chiamare Sua Altezza. E la chiamata era fondamentalmente per informare Sua Altezza che ora era possibile grazie al loro coinvolgimento. L’escalation regionale significherebbe una minaccia diretta ai nostri interessi nazionali. E come conseguenza dell’escalation che ha avuto luogo la settimana scorsa, prima dal 23 giugno, il campo di Pars in Iran è stato attaccato, che è l’estremità settentrionale del nostro campo di gas al Nord, che rappresentava una delle più grandi minacce alla nostra sicurezza nazionale. Si trovava a 200 chilometri dalle nostre strutture offshore che ospitano circa 10.000 persone di 80 nazionalità diverse. E ovviamente qualsiasi ulteriore attacco a quel campo avrebbe significato evacuare e fermare la produzione di GNL (Gas Naturale Liquefatto), che sarebbe stato un grosso problema per la nostra economia, ma anche per la nostra reputazione nei mercati dell’energia a livello internazionale. C’è molta speculazione sul fatto che si trattasse di un attacco coordinato. Non lo era. È stato un attacco che abbiamo cercato di evitare, che abbiamo sempre temuto come scenario e contro cui abbiamo sempre elaborato strategie. È stato un attacco di cui non eravamo certi fino a quando non abbiamo avuto il primo avvertimento. In quel momento ero con il primo ministro nella sua casa: è allora che l’attacco è iniziato. Inoltre, non è stato un attacco innocuo. Vorrei chiarire questo punto. Le difese aeree che sono state schierate – circa tre batterie Patriot dislocate in due diverse località, più di 200 missili. Stiamo parlando di un costo enorme dal punto di militare ed economico, perché il nostro spazio aereo è stato chiuso per più di sei ore e la nostra compagnia aerea nazionale ha dovuto deviare i voli. Naturalmente, oltre al danno reputazionale in termini di sicurezza e protezione. Non si è trattato di un attacco innocuo contro il Qatar. Ma ancora una volta abbiamo scelto la pace, perché questo è ciò che tutti noi abbiamo imparato e questo è quello che faremo in futuro. Come siamo arrivati a questo accordo? Gran parte dell’accordo ha avuto a che fare con le manovre intorno a due diversi aspetti della discussione: un aspetto tecnico che riguardava ciò su cui entrambe le parti si sarebbero trovare d’accordo: qual è il linguaggio dell’accordo? Quali sarebbero i parametri del cessate il fuoco? Cosa significherebbe per i militari di entrambe le parti, chi avrebbe sferrato l’ultimo colpo, tutto questo tipo di informazioni tecniche. L’altra questione, che direi è importante quanto la prima, è l’ottica intorno al cessate il fuoco. Non potrò mai sottolineare abbastanza quanto importante sia stato l’elemento dell’orgoglio nazionale per entrambe le parti quando si è trattato di raggiungere un cessate il fuoco tra Iran e Israele. Come la narrazione politica dovesse essere controllata, da entrambe le parti, per assicurarsi che non ci fossero posizioni politiche che avrebbero portato al crollo del cessate il fuoco, e facendo entrambe le cose insieme, attraverso le nostre discussioni con entrambe le parti, in collegamento con gli americani, è ciò che ci ha portato al cessate il fuoco. E noi crediamo che il cessate il fuoco reggerà, finché lo slancio creato dal cessate il fuoco porterà ad altri punti positivi. Abbiamo udito le dichiarazioni positive degli Stati Uniti riguardo ai colloqui con l’Iran e quelle da parte dell’Iran sui colloqui con gli Stati Uniti, e avviare immediatamente quel processo, e assicurarsi che ci siano dei colloqui su questioni più ampie è l’unica salvaguardia contro un’altra escalation. Quando si tratta dei parametri per la de-escalation nella regione nel suo complesso, credo che sia molto importante ricordare sempre che il nucleo dell’escalation nella regione è ciò che sta accadendo a Gaza. La situazione a Gaza non sta solo causando un’escalation tra i palestinesi… L’Iran e gli israeliani, coinvolgendo gli americani in questa escalation, destabilizzando il Libano, la Siria, l’Iraq e lo Yemen, stanno anche provocando un’ondata di radicalizzazione e di sentimenti negativi verso l’Occidente che non dovremmo prendere alla leggera. Non si tratta di una conseguenza che dovrebbe essere controllata da due narrative politiche. Questo è in grande parte il risultato di questa escalation che va avanti ormai da più di due anni e che porterà a problemi per tutti noi, collettivamente nella regione, a meno che non siamo in grado di affrontarla. Per quanto riguarda ciò che possiamo fare insieme. Innanzitutto, permettetemi di dire molto rapidamente riguardo alle varie politiche, e cioè che noi crediamo che l’escalation che ha avuto luogo tra Israele e Iran abbia molto a che fare con la minaccia percepita piuttosto che con la minaccia reale. E quindi abbiamo bisogno di controllare la percezione più che […] la realtà sul campo. Quindi il ruolo degli Stati Uniti è molto importante, perché anche lì c’è una narrazione politica. C’è una questione di posizionamento politico. Non lo sottolineerò più di tanto, finché siamo in registrazione, ma penso che tutti capiscano di cosa sto parlando. Quindi gestire le percezioni, le narrazioni politiche e l’ottica è molto importante per entrambe le parti. Ora, cosa possiamo fare collettivamente? Ho avuto questa discussione non molto tempo fa, prima dell’escalation, a Bruxelles. Penso sia molto importante rendersi conto del nostro ruolo nel mondo di oggi. Stiamo assistendo a un’enorme polarizzazione in atto che, si ripropone ogni giorno. Stiamo assistendo a un’escalation nel Mar Cinese Meridionale, in Medio Oriente e in America Latina. Non si può mettere il dito su un qualsiasi punto della mappa senza vedere un’escalation potenziale che potrebbe verificarsi come risultato della polarizzazione in atto. Il nostro ruolo come medie potenze è quello di fare da cuscinetto tra le grandi potenze, tra i rivali e gli avversari, e la comunità internazionale, e contenere tutte queste forme di escalation che si stanno verificando in tutto il mondo. Uno dei punti salienti è stato il fatto che l’Oman e l’Italia sono stati i mediatori. Erano le forze convocatrici per l’Iran e gli Stati Uniti. E ciò ha dimostrato molto chiaramente che tra l’Europa nel suo complesso e il CCG nel suo insieme, tutti i paesi europei e i paesi del CCG, possiamo fare molto insieme, e so che stiamo facendo molto in Africa e in Medio Oriente, ma dobbiamo fare molto insieme, e deve essere integrato in un processo all’interno delle nostre istituzioni.
Quindi si può dire che questo è un punto di svolta per le relazioni tra Qatar e Iran che, come sappiamo, sono due paesi con relazioni consolidate da tantissimo tempo?
Prima di tutto vorrei dire molto chiaramente che abbiamo sempre mantenuto con l’Iran un rapporto compartimentato in modo da garantirne l’operatività. Abbiamo sempre avuto un buon rapporto di lavoro con gli iraniani; il Qatar non è il principale partner commerciale dell’Iran e del Consiglio, ma è sempre stato in grado di mantenere i contatti con gli iraniani. Ovviamente questo non è un momento facile, abbiamo 19 missili che rischiano di entrare nel nostro spazio aereo e che, se non fosse stato per grazia di Dio e per l’abilità e la competenza delle nostre forze armate, avrebbero potuto colpire sicuramente i nostri obiettivi e uno qualsiasi di questi razzi avrebbe potuto deviare e colpire i civili o causare i danni più gravi. Per fortuna questo non è successo, ma non è successo certo per caso, è successo grazie alla competenza delle nostre forze aeree come ho detto precedentemente.
Cosa significa questo per le relazioni con l’Iran? Prima di tutto abbiamo chiarito molto bene agli iraniani come la pensiamo su questo attacco. Abbiamo espresso una condanna immediata. Quella sera io stesso ero in conferenza stampa e ho lanciato un messaggio molto forte. Sua altezza ha anche ricevuto una telefonata dal Presidente iraniano, al quale ha chiarito che non si tratta di qualcosa che prendiamo alla leggera e che non sarà di certo qualcosa che lascerà il rapporto allo stesso punto in cui era prima. In più, il Primo Ministro ha detto in una conferenza stampa quel giorno che ora c’è una ferita nel rapporto che dobbiamo affrontare. Detto questo noi continuiamo a sostenere la pace, continuiamo a sostenere il dialogo nella regione. Questo è il motivo per cui ci siamo immediatamente attivati pochi minuti dopo la fine dell’attacco, per fungere appunto da mediatori con l’Iran. Continueremo a farlo e ci impegneremo a farlo, quindi questo sicuramente non cambierà.
L’Europa deve cavarsela senza gli Stati Uniti, ma non sa come farlo
La rottura transatlantica in atto ha lasciato i leader europei in grave difficoltà nel capire come costruire una reale autonomia europea. Le guerre in Medio Oriente ne sono la testimonianza più concreta.
I governi dell’Ue stavano finalmente prendendo le distanze dopo un anno e mezzo di complicità con i crimini di guerra del governo israeliano a Gaza. Gli osceni piani di Donald Trump per una “riviera” a Gaza e le presunte iniziative “umanitarie” – anch’esse in violazione dei principi umanitari – avevano spinto i governi europei a definire un proprio approccio. Francia e Arabia Saudita avevano programmato una conferenza sulla soluzione dei due Stati, che avrebbe potuto portare al riconoscimento da parte di Parigi dello Stato palestinese. L’Ue aveva inoltre accettato una revisione dell’accordo di associazione UE-Israele che, alla luce dei crimini di guerra di Israele, avrebbe potuto portare alla sospensione del commercio preferenziale dell’UE con Tel Aviv.
La correlazione tra autonomia europea e l’IranGli attacchi militari di Israele e degli Usa all’Iran hanno sconvolto questo timido sussulto di autonomia europea. Nelle capitali dell’Ue non c’è certo amore per il regime iraniano a causa delle sue violazioni dei diritti umani e della cooperazione militare con la Russia. Inoltre, l’Europa rimane giustamente irremovibile sul fatto che l‘Iran non debba avere armi nucleari ed è tradizionalmente convinta della necessità di risolvere la questione mediante la diplomazia. Per questo motivo, all’inizio degli anni 2000, i negoziatori europei crearono il formato E3/UE che includeva Francia, Germania e Regno Unito insieme all’Alto rappresentante dell’UE per mediare sul dossier nucleare iraniano.
Oggi quel mondo non esiste più. Quando Trump ha avviato un negoziato diretto con l’Iran, l’Europa è stata messa da parte. Con l’assalto militare all’Iran, l’Europa non si è schierata a favore del diritto internazionale, evitando di denunciare i bombardamenti israeliani e statunitensi come violazione della Carta delle Nazioni Unite e del protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra, che vieta gli attacchi contro le strutture nucleari di uno Stato. Sostenere il diritto di Israele (o di qualsiasi altro Stato) all’autodifesa è cosa ben diversa dal legittimare attacchi preventivi.
La politica estera di rottura dagli USA e le conseguenzeQuesta impotenza cronica deriva dal fatto che l’Europa ha tradizionalmente visto il mondo attraverso una lente transatlantica. Per decenni ha lavorato fianco a fianco con Washington, utilizzando gli aiuti, il commercio, la diplomazia, le sanzioni, la difesa e l’allargamento Ue per sostenere gli obiettivi di politica estera degli Stati Uniti, nella convinzione che i valori e gli interessi di fondo fossero condivisi. Solo in rare occasioni i Paesi europei si sono apertamente opposti agli Stati Uniti. Anche in caso di divergenze, l’Europa ha generalmente cercato di influenzare la politica estera americana smussandone le asprezze piuttosto che contrastandola frontalmente. La mediazione sul nucleare iraniano, ad esempio, ha portato al Joint Comprehensive Plan of Action del 2015.
La politica estera di rottura di Trump ha creato un mondo in cui gli europei devono cavarsela da soli. Sull’Ucraina, l’Europa sta imparando la lezione, mantenendo l’assistenza finanziaria e militare a Kyiv e preparandosi a colmare i vuoti lasciati dal disimpegno americano. Ma su qualsiasi altro dossier, l’Europa arranca. Genuflettendosi a Washington sull’ultima guerra in Medio Oriente, l’Europa non si è guadagnata il favore di Trump. Ha inoltre perso ogni credibilità come mediatore con l’Iran. Il rischio è che l’Europa rinunci a sviluppare anche un approccio minimamente più etico nei confronti dei crimini di guerra di Israele a Gaza.
La guerra, il caos e la proliferazione nucleare in Medio Oriente danneggeranno più l’Europa degli Stati Uniti. Finora, la genuflessione europea nei confronti di Trump ci ha reso i peggior nemici di noi stessi.
L’assedio dell’anima: la cultura ucraina in tempo di guerra
L’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia non è solo un’aggressione militare, ma anche un assalto calcolato all’identità e al patrimonio culturale della nazione. Al di là delle ambizioni territoriali, rivela una deliberata strategia di soppressione culturale attuata attraverso attacchi diretti ai siti culturali e la persecuzione degli artisti, la russificazione forzata dei territori ucraini occupati e sofisticate campagne di disinformazione volte a riscrivere la storia per negare una distinta identità ucraina. La Russia strumentalizza la cultura e la storia, inventando rivendicazioni per giustificare l’invasione ed erodere il sostegno internazionale all’Ucraina. Ciò ha avuto un forte impatto sul settore culturale ucraino, come riconosce implicitamente il quarto rapporto RDNA4 (Rapid Damage and Needs Assessment) – un’analisi completa condotta dalla Banca Mondiale, dalla Commissione Europea, dalle Nazioni Unite e dal governo ucraino – sottolineando la necessità di un’informazione accurata e di una promozione culturale. Il rapporto descrive in dettaglio l’impatto devastante dell’assalto: il costo totale dei danni al patrimonio culturale, alle collezioni museali e alle strutture dell’industria culturale e creativa è stimato in 4,1 miliardi di dollari USA, mentre l’impatto economico complessivo dell’invasione sul settore della cultura e del turismo raggiunge i 29,3 miliardi di dollari USA. Come osserva lo storico Serhii Plokhy, tale distruzione è spesso un tentativo deliberato di cancellare la storia e l’identità, una forma di genocidio culturale. Ciò sottolinea un punto chiave: di fronte all’aggressione russa, la cultura non è un lusso ma una pietra miliare per l’Ucraina. La cultura lega la nazione attraverso la condivisione di storia, lingua, arte e memoria. Alimenta la resilienza, promuove il senso di appartenenza e rafforza la coesione. In particolare, fornisce le basi per la ricostruzione di una società radicata nelle sue tradizioni. Tuttavia, la cultura è spesso trascurata nelle discussioni internazionali sulla ripresa post-bellica dell’Ucraina – un difetto che potrebbe compromettere notevolmente i risultati a lungo termine. L’ultima Conferenza sulla ripresa dell’Ucraina 2024, tenutasi a Berlino, ha presentato un panel dedicato al patrimonio culturale, ma non ha delineato un’agenda per la ripresa del settore culturale in generale. L’Appello di Vilnius del 2024 per la ripresa del settore culturale dell’Ucraina e la dichiarazione adottata alla prima conferenza internazionale nell’ambito del “Ramstein culturale” a Uzhhorod (febbraio 2025), pur riaffermando l’impegno dell’Ue per la ripresa della cultura ucraina, non hanno ancora trovato attuazione concreta. Integrare la conservazione della cultura nell’agenda di ripresa dell’Ucraina non è semplicemente una questione di giustizia, ma di garantire stabilità a lungo termine, prosperità e un futuro democratico per l’intero progetto europeo, costruito sul fondamentale riconoscimento del valore della cultura.
Una corsa contro la distruzioneL’invasione ha posto i musei e le istituzioni culturali ucraine di fronte alla sfida senza precedenti di salvaguardare i loro patrimoni, il personale e le collezioni dal pericolo fisico, dalla distruzione e dal saccheggio, costringendoli a una corsa contro il tempo. Questa immensa sfida è ora stimata nel rapporto RDNA4 in 10,5 miliardi di dollari USA necessari nel medio termine per il restauro e la ricostruzione dei siti danneggiati, la conservazione del patrimonio culturale e la promozione delle attività culturali. La risposta dell’Ucraina è stata multiforme, spaziando da evacuazioni su larga scala a interventi di conservazione localizzate. Il Museo Nazionale delle Arti Bohdan e Varvara Khanenko di Kyiv, che custodisce la più grande collezione di arte europea, asiatica e antica dell’Ucraina, è un esempio dell’impegno istituzionale e delle complessità logistiche legate alla protezione di grandi collezioni. Di fronte all’imminente minaccia di un bombardamento, il personale del museo ha rimosso la collezione dall’esposizione pubblica e l’ha trasferita in spazi più sicuri, organizzando oltre dieci mostre a livello internazionale, garantendo la sicurezza degli oggetti e contribuendo alla promozione culturale dell’Ucraina all’estero. Non potendo utilizzare le due opere d’arte principali in patria, il museo si è ripensato come uno spazio per interventi d’arte contemporanea, mostre temporanee, coinvolgimento della comunità, dibattiti professionali ed esperienze curate per i visitatori. Il “vuoto” del museo è diventato una dichiarazione artistica e curatoriale a sé stante e una potente metafora visiva dell’impatto della guerra sulla vita culturale dell’Ucraina. Come osserva Yuliya Vaganova, direttrice del Museo Khanenko, in una recente intervista, questo processo ha richiesto anche un ripensamento fondamentale della strategia museale, passando da un’attenzione esclusiva alla conservazione a una priorità per il coinvolgimento della comunità e per l’accessibilità delle collezioni anche in tempo di guerra. Nel suo famigerato articolo “Sull’unità storica di russi e ucraini”, spesso considerato un manifesto ideologico e una premessa per l’invasione su larga scala del 2022, Vladimir Putin nega esplicitamente l’esistenza di una nazione ucraina sovrana e indipendente, basando le sue conclusioni su affermazioni completamente false e antistoriche. Pertanto, la strategia russa si estende oltre la semplice distruzione di oggetti fisici, fino alla soppressione attiva dell’espressione culturale e dell’identità. Uno dei primi obiettivi delle truppe russe in Ucraina sono state le biblioteche: l’incendio e l’eliminazione dei libri sono stati comuni nelle città e nei villaggi ucraini che hanno subito l’occupazione russa. Altre forme di soppressione culturale nei territori occupati includono il saccheggio delle collezioni museali, la creazione di musei di propaganda e la strumentalizzazione dell’istruzione per indottrinare i giovani. Inoltre, la guerra rappresenta una chiara minaccia per il patrimonio culturale immateriale, in particolare per le comunità che stanno già affrontando la persecuzione, come i tatari di Crimea, una delle popolazioni indigene dell’Ucraina. La tradizione della narrazione dei tatari di Crimea, in particolare la rappresentazione di epopee destane, è un esempio di questa sfida. Queste epopee, interpretate da abili narratori (yırçı), incarnano la storia, i valori e l’identità culturale dei tatari di Crimea. L’annessione illegale della Crimea nel 2014 ha portato a un aumento delle persecuzioni e della censura da parte della Russia, sopprimendo ulteriormente la lingua e la cultura dei tatari di Crimea. Con il pretesto del “restauro”, la Russia avrebbe causato danni irreversibili alla struttura e all’autenticità del Palazzo del Khan di Bakhchysarai, risalente al XVI secolo, ex residenza principale dei monarchi del Khanato di Crimea e importante monumento culturale per i tatari di Crimea e per l’Ucraina. L’invasione su larga scala ha ulteriormente sconvolto questa tradizione, sfollando le comunità e rendendo impossibili le esibizioni pubbliche. Nonostante queste sfide, i centri e le organizzazioni culturali dei tatari di Crimea hanno lavorato attivamente per documentare e rivitalizzare queste tradizioni narrative. Stanno organizzando spettacoli e laboratori online attraverso piattaforme come YouTube e Zoom, mettendo in contatto i bambini tatari di Crimea sfollati con il loro patrimonio e formando una nuova generazione di yırçı. Adattando queste tradizioni alla sfera digitale, garantiscono che queste storie di resilienza e identità culturale continuino a essere tramandate.
Ricostruzione dal bassoLa ripresa post-bellica dell’Ucraina è un’occasione per rimediare il più possibile a questi danni. Deve andare oltre le infrastrutture per rivitalizzare la cultura, richiedendo maggiori finanziamenti alle istituzioni culturali, sostegno alle iniziative di base e promozione internazionale. Mentre gli attori internazionali, in particolare l’Ue attraverso Europa Creativa, gli Stati membri dell’Ue, le fondazioni e i donatori privati, nonché le organizzazioni umanitarie come l’USAID fino alla sua chiusura all’inizio del 2025, hanno lanciato programmi che forniscono assistenza finanziaria, scambi culturali e protezione del patrimonio culturale, i finanziamenti erogati sono inferiori alle esigenze identificate. Questo divario ha alimentato la nascita e la proliferazione di iniziative di base. Queste iniziative rappresentano una forma cruciale di resistenza culturale all’interno della società civile, contrastando direttamente gli sforzi della Russia di controllare la narrazione. Il Museum for Change documenta e archivia storie di sfollamento, perdita e resilienza, catturando il modo in cui la guerra rimodella la società. Concentrandosi sulle esperienze individuali, il progetto non solo preserva la memoria culturale, ma offre anche direttamente alle comunità la possibilità di plasmare le proprie narrazioni di resilienza. I centri culturali gestiti da volontari si sono moltiplicati nei territori liberati e in prima linea come luoghi cruciali per la guarigione della comunità e la rinascita culturale. Non si tratta di semplici spazi ricreativi, ma di strumenti per contrastare direttamente i tentativi russi di russificazione culturale nelle aree occupate, offrendo corsi di lingua ucraina, proiezioni di film ucraini e laboratori di arti e mestieri tradizionali ucraini. Riconoscendo la grave precarietà in cui versano gli artisti e le istituzioni culturali, sono nate iniziative come l’Ukrainian Emergency Art Fund (UEAF) e il Museum Crisis Center, fondato da Olha Honchar, per fornire un sostegno fondamentale. L’UEAF offre sovvenzioni e risorse agli artisti sfollati o il cui lavoro è stato interrotto, consentendo loro di continuare a creare e condividere la propria arte, assicurando così che le voci artistiche ucraine non vengano messe a tacere. Anche la Fondazione ALIPH (International Alliance for the Protection of Heritage in Conflict Areas), una fondazione internazionale con sede a Ginevra, è diventata un importante sostenitore del patrimonio culturale ucraino durante la guerra.
Amplificare le voci, contrastare le narrazioniLe comunicazioni strategiche dell’Ucraina in tempo di guerra cercano di proiettare un’impressione distinta e convincente del Paese, che evochi affinità e fiducia tra le società straniere. Questo complesso compito non può essere pienamente raggiunto senza una diplomazia culturale multiforme allineata agli obiettivi politici. A questo scopo, artisti, intellettuali e organizzazioni ucraine si sono rivolti strategicamente a diversi pubblici in tutto il mondo. Nel suo film The Earth Is Blue as an Orange, premiato al Sundance, la regista e scrittrice Iryna Tsilyk esplora il potere dell’arte in mezzo al conflitto e sottolinea l’umanità che raramente viene mostrata nei notiziari tradizionali. Attingendo a questi temi, gli artisti ucraini stanno attivamente contrastando la strategia di disumanizzazione della Russia attraverso la trasmissione di esperienze intime e personali della guerra. Questo approccio, che sfrutta il potere del cinema per entrare in contatto con un pubblico più ampio a livello emotivo, è un’altra forma di resistenza culturale. Allo stesso modo, lo straziante documentario 20 Days in Mariupol di Mstyslav Chernov, vincitore del premio Oscar, fornisce un resoconto viscerale e senza compromessi dell’assedio, documentando l’inconcepibile tragedia della città morente. A complemento di questa risonanza emotiva, figure come il filosofo Volodymyr Yermolenko e la critica letteraria Tetyana Ogarkova si sono impegnate nella diplomazia pubblica intellettuale, rivolgendosi a un pubblico interessato alle basi filosofiche, storiche e culturali della guerra. Come caporedattore di UkraineWorld, una piattaforma online multilingue che fornisce analisi e traduzioni relative all’Ucraina, Yermolenko esplora prospettive socio-politiche più ampie della guerra, inquadrandola come un profondo scontro tra libertà/democrazia e autoritarismo/colonialismo. Ogarkova facilita la comunicazione tra gli esperti ucraini e i media internazionali e produce podcast sulla cultura e la storia ucraina per il pubblico di Europa, America Latina e Africa. Parallelamente, organizzazioni come PEN Ucraina e il Centro per le Libertà Civili, vincitore del Premio Nobel per la Pace, lavorano per difendere i diritti umani, documentare i crimini di guerra e denunciare l’impatto devastante della guerra sulla cultura ucraina. Questo approccio incentrato sui diritti umani serve a rendere la Russia responsabile delle sue azioni e a mobilitare il sostegno internazionale per la protezione delle persone e del patrimonio culturale. Le attività di PEN Ucraina comprendono la documentazione dei crimini di guerra contro la cultura, il sostegno agli scrittori ucraini colpiti dal conflitto e l’amplificazione delle voci ucraine sulla scena internazionale. Agli sforzi della diplomazia culturale si uniscono anche scrittori e poeti ucraini di spicco, la cui missione va ben oltre la scrittura. Sfruttando la loro vasta base di lettori e le loro connessioni industriali, autori come Serhiy Zhadan (i cui romanzi esplorano i temi della guerra e dell’identità nell’Ucraina orientale) e Oksana Zabuzhko (autrice di Fieldwork in Ukrainian Sex, un’opera fondamentale della letteratura ucraina degli anni Novanta) rappresentano e parlano a nome dell’Ucraina alle fiere del libro, ai festival letterari e ai forum politici internazionali.
Oltre la resilienza: una responsabilità condivisaQuesta notevole azione collettiva testimonia la forza e la resilienza della cultura ucraina. Le sue risorse, tuttavia, non sono affatto infinite e si stanno già assottigliando. Il destino dell’Ucraina non poggia solo sulle spalle del popolo ucraino, ma anche sull’impegno della comunità internazionale. Mentre gli investimenti e l’assistenza finanziaria per le infrastrutture sono fondamentali, la ripresa dell’Ucraina deve anche prevedere una rivitalizzazione consapevole e strategica del suo settore culturale. Questo non dovrebbe limitarsi alla ricostruzione del patrimonio culturale, ma sviluppare un’agenda molto più ampia che includa lo sviluppo e la diffusione di una nuova politica culturale, la riforma dell’educazione artistica, il rafforzamento delle capacità e lo sviluppo delle competenze dei responsabili culturali e degli artisti, l’assistenza alla salute mentale, una remunerazione competitiva per le persone impiegate nella cultura e nelle industrie creative, una maggiore cooperazione culturale interregionale e internazionale, la progettazione di nuove infrastrutture culturali nelle regioni colpite dalla guerra che rispondano alle esigenze della comunità, la reintegrazione degli sfollati, l’aumento della produzione di contenuti culturali di qualità, e molto altro. È quindi essenziale un maggiore sostegno internazionale che dia potere alla società civile, protegga l›espressione artistica, contrasti la disinformazione e rafforzi le istituzioni. Tale sostegno può essere fornito attraverso i programmi di assistenza finanziaria esistenti, come lo Strumento per l›Ucraina da 50 miliardi di euro finanziato dall›Ue (purtroppo, attualmente privo di un pilastro culturale consapevole) o l’ipotizzato Piano Marshall moderno per l’Ucraina guidato dagli Stati Uniti. Gran parte di questo sostegno può essere indirizzato verso le istituzioni culturali di riferimento dell’Ucraina e le agenzie esecutive, come la Fondazione culturale ucraina e l’Istituto ucraino, che sono ben attrezzate per rispondere a specifiche esigenze di recupero, amministrando e distribuendo il sostegno a livello locale e internazionale. Altri partner chiave per i donatori internazionali sono le organizzazioni della società civile ucraina e le fondazioni private con una solida esperienza nel campo della cultura, della visione condivisa e della capacità istituzionale. Investire nella ricostruzione e nella ripresa post-bellica dell’Ucraina non è un semplice atto di carità, ma un investimento strategico per contrastare l’aggressione russa su più fronti, sostenere i valori democratici e garantire all’Ucraina un futuro sicuro, prospero e culturalmente ricco per tutta l’Europa.
G7 e G20 discutono di supply chains sostenibili, nonostante tutto
Il ‘gruppo dei sette’ è alquanto fragile da quando alla Casa Bianca è tornato Donald Trump, che ha provocato una frattura vigorosa col resto dei paesi occidentali. La presidenza canadese ha perciò tentato di rinsaldare i rapporti concentrando i lavori su sicurezza ed economia, ma di altre materie di imprescindibile urgenza – come la lotta ai cambiamenti climatici – si discute poco e male. L’anno scorso il G7 aveva su questo tema preso numerosi impegni per la mitigazione e l’adattamento climatico. Un’attenzione particolare era stata rivolta al continente africano, prioritario per l’allora presidenza italiana. Adesso siamo in un’altra era, nella quale il governo del più potente dei sette paesi è ideologicamente contrario all’azione climatica e sta smantellando la legislazione ambientale federale supportando invece l’industria fossile.
Con Washington di nuovo fuori dagli accordi sul clima e con la minaccia di protezionismi e regimi tariffari estremi che intralciano la cooperazione globale, il multilateralismo climatico è più debole che mai e le premesse non sono certo delle migliori. Per fortuna, però, qualcosa si muove. Nonostante questo difficile contesto, si stanno facendo alcuni passi avanti sulle discussioni intorno alle catene del valore dei minerali critici, tema particolarmente caro alla parallela presidenza sudafricana del G20. Come noto, la riduzione delle emissioni comporta un cambiamento drastico nella produzione e nel consumo di energia con forme di energia più sostenibili, che richiedono un massiccio uso di questi materiali.
Le aspirazioni di industrializzazione verde del continente africanoLe relative catene di approvvigionamento sono al cuore della contesa geoeconomica tra superpotenze, soprattutto dopo la pandemia e la guerra in Ucraina. Il continente africano è proprio al centro di questo scontro: partner tradizionali come gli Stati Uniti, l’Europa e la Cina, così come attori del Golfo, la Turchia e l’India, cercano di accedere alle preziose risorse del territorio africano. Il continente detiene infatti circa il 30% delle riserve minerarie mondiali, il 40% dell’oro, circa il 90% del cromo e del platino e le maggiori riserve di cobalto, diamanti, platino e uranio. L’Africa rimane in gran parte un esportatore di materie prime primarie verso il resto del mondo, (Cina in primis), dove la maggior parte dei minerali critici viene ulteriormente trasformata in prodotti come le batterie per i veicoli elettrici. La rilevanza dell’Africa su questo tema ha portato molte superpotenze globali a stringere accordi per allentare la propria dipendenza dalla Cina.
Nel frattempo, molti governi africani vedono nella crescente domanda globale di materiali critici un punto di partenza per potenziare le proprie capacità di lavorazione a livello nazionale e regionale: l’aspettativa è che la lavorazione locale contribuisca a promuovere l’innovazione e la produttività, soddisfacendo così le aspirazioni di industrializzazione nel continente. Nonostante i numerosi tentativi compiuti a partire dal periodo della decolonizzazione, l’Africa è però la regione meno industrializzata a livello globale, pur avendo quasi il 20% della popolazione e della superficie mondiale. In linea con lo sforzo italiano nel 2024, anche i canadesi si sono mossi per rendere le catene del valore più sostenibili, tema che vede anche la presidenza sudafricana molto impegnata data la rilevanza del tema per tutto il continente.
Si procede, ma lentamenteIl Piano d’azione per i minerali critici del G7, sulla base dei cinque punti per la sicurezza dei minerali critici stabiliti durante la presidenza giapponese del G7 nel 2023 si concentrerà sulla diversificazione della produzione e dell’approvvigionamento responsabile di minerali critici, sull’incoraggiamento degli investimenti in progetti di minerali critici e sulla creazione di valore locale, nonché sulla promozione dell’innovazione. Il G7 canadese si è impegnato ad affrontare gli ostacoli agli investimenti e a sostenere le riforme politiche e normative che migliorino il clima degli investimenti anche attraverso il G20 Compact con l’Africa.
Le barriere (economiche, sociali, ambientali e politiche) però non mancano. Tra gli ostacoli vi sono le limitate forniture di energia affidabile e a basso costo per convertire il minerale in materiali utilizzabili; l’inadeguatezza delle infrastrutture di trasporto; l’accesso limitato a finanziamenti a basso costo a causa dell’elevato rischio di investimento associato a molte nazioni africane. Le preoccupazioni su come garantire trasparenti e adeguati standard ambientali, sociali e di governance (ESG) complicano poi ulteriormente la situazione degli investimenti sia per l’estrazione che per la lavorazione di questi materiali.
I vari attori ai (già deboli) tavoli multilaterali G7 e G20 hanno poi orientamenti molto diversi rispetto a questo tema. I differenti approcci sono evidenti: la Cina ha per esempio negli anni principalmente stretto accordi per le materie prime, gli Stati Uniti cercano di firmare accordi minerari in cambio di sicurezza, come nel caso della Repubblica Democratica del Congo. Al contrario, l’Ue cerca di promuovere progetti comuni e condivisi con i suoi partner, soprattutto nelle economie in via di sviluppo. Quest’ultimo pare essere l’approccio più in linea con quanto delineato dal continente africano stesso, almeno su carta. L’attuale debolezza e frammentazione europea, però, non aiuta a far valere la voce di Bruxelles a livello globale. Del tema naturalmente si continuerà a lavorare dentro i gruppi di lavoro G7 e G20. I think tank al lavoro per supportare la presidenza del G20 hanno definito alcuni principi su cui basare la gestione dei minerali: vediamo se nel summit di fine novembre qualche passo in più sarà possibile.
A Roma l’Ukraine Recovery Conference
Può sembrare strano che nel mezzo di una guerra che continua a mietere migliaia di vittime innocenti e a causare distruzioni immani si promuova un grande incontro internazionale al più alto livello per discutere della ricostruzione del Paese aggredito e delle sue prospettive di sviluppo economico e sociale. E ancora più singolare potrebbe apparire il fatto che l’intenso impegno di esperti, economisti, uomini d’impresa e diplomatici, che da mesi lavorano alla minuziosa preparazione di questa riunione, si svolga proprio in una fase in cui la composizione del conflitto si allontana, anziché avvicinarsi, per la feroce determinazione di chi vuole proseguire la guerra fino alle estreme conseguenze, la disfatta totale del nemico e la soppressione della sua identità.
Invece, la Conferenza internazionale per la ricostruzione dell’Ucraina, in programma a Roma il 10 e 11 luglio sotto la presidenza congiunta di Italia e Ucraina, non deve sorprendere. È parte di un’azione ad ampio raggio, avviata da tempo dalla comunità internazionale, per venire incontro in modo coordinato alle esigenze più urgenti di quel martoriato Paese e per tracciare insieme una prospettiva a sostegno della sua resilienza e ripresa. È la prosecuzione degli appuntamenti annuali già realizzati a Lugano, Londra e Berlino, all’indomani dell’inizio della guerra imperiale scatenata da Vladimir Putin. Quest’anno l’agenda è ambiziosa. L’obiettivo è di mobilitare supporto internazionale per la ricostruzione, la riforma e la modernizzazione dell’Ucraina. Si tratta, tra l’altro, di creare le condizioni per attrarre capitali privati e per coinvolgere gli enti locali ucraini nel processo di ricostruzione, al momento opportuno.
Quattro settori d’interventoPer questo, sono stati individuati in particolare quattro settori di intervento, sui quali si articoleranno i lavori della Conferenza di Roma. Innanzitutto, una dimensione “business”, appunto per porre le basi di una crescita economica fondata anche sull’apporto di investimenti privati. Poi, un’attenzione speciale per le necessità connesse con la mobilitazione delle risorse umane, a cominciare dalla reintegrazione di sfollati, rifugiati e reduci nella vita civile. Si approfondirà inoltre la dimensione locale degli interventi, con l’opportuna responsabilizzazione delle entità regionali, puntando a una riforma in termini di decentralizzazione. Infine, sarà affrontata la dimensione europea, la prospettiva del percorso di integrazione dell’Ucraina nell’Unione europea, con il necessario allineamento agli standard dell’Ue.
La dimensione europeaL’adesione dell’Ucraina all’Ue non è per domani, occorrerà tempo e molto lavoro, da entrambi i lati. Tuttavia, ormai la linea è tracciata, al di là delle difficoltà di adattamento per l’una e di recepimento per l’altra. Per l’Ucraina, che pure ha già fatto passi notevoli in brevissimo tempo, a conferma della forte volontà di Kiev di procedere quanto più speditamente, vorrà dire adeguare normative e prassi ai precisi criteri previsti da Bruxelles. Per l’Unione Europea, significherà valutare in concreto e decidere le riforme interne imprescindibili per accogliere i nuovi Stati membri garantendo il funzionamento delle istituzioni comunitarie, altrimenti condannate alla paralisi se non all’implosione. Sicché, dopo venti anni dall’allargamento ai Paesi dell’Europa centro-orientale del 2004-2007, l’Ue deve riaffrontare il rapporto inscindibile tra allargamento e approfondimento. Questa volta, dovrà farlo con lungimiranza. Se la porta aperta all’Ucraina è frutto di un consenso ampio e convinto in seno all’Unione – a parte la malinconica, imbarazzante opposizione dell’Ungheria – sarà arduo invocare le difficoltà di riforme interne, la resistenza degli Stati membri refrattari al cambiamento, come alibi per richiudere quella porta in faccia a Kiev (e a quanti con lei e prima di lei, nei Balcani Occidentali, sono in fila, in marcia di avvicinamento all’Europa).
È questa la tela di fondo su cui si discuterà nei prossimi giorni a Roma. L’ancoraggio dell’Ucraina all’Unione europea non figurerà all’ordine del giorno delle riunioni della Conferenza, ma aleggerà su tutti i contatti. Del resto, la stessa partecipazione alla Conferenza di Roma del presidente Volodymyr Zelensky, ormai ospite abituale del Consiglio Europeo, al pari della sistematica presenza del suo ministro degli Esteri al Consiglio Affari Esteri dell’Ue, hanno un significato non solo formale. Sarà un segnale anche per Donald Trump e per le sue giravolte nel difendere l’Ucraina.
La guerra dei 12 giorni. L’Iran dopo l’attacco americano
Al momento della scrittura di questo articolo, tratto da un mio paper, è in vigore un fragile cessate il fuoco tra Israele e Iran. I due paesi si sono confrontati in una fase di aperto conflitto che, pur nella sua durata di appena dodici giorni, ha dato una sferzata decisiva agli equilibri regionali in Medioriente.
Nella notte tra giovedì e venerdì 13 giugno, Israele ha lanciato un attacco a sorpresa su siti nucleari e missilistici della Repubblica Islamica, eliminando figure chiave della catena di comando militare e scientifica degli apparati legati allo sviluppo del programma nucleare iraniano. In risposta, Teheran ha lanciato un contrattacco missilistico su Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme.
Lo scambio di fuoco tra le due potenze rivali è proseguito per dodici giorni: ad aggravarlo ulteriormente, è sopravvenuto l’intervento americano nella notte del 22 giugno su tre centrali nucleari in Iran che ha rischiato di dare al conflitto una dimensione globale, aprendo scenari impensabili fino a poche settimane prima: uno strisciante estendersi della guerra nel lungo periodo e un suo possibile allargamento geografico, un collasso del regime con una transizione dagli esiti imprevedibili, o ancora una sopravvivenza del regime stesso che lo renderebbe ancora più determinato a conseguire l’arma atomica. Pur nell’attuale situazione di cessate il fuoco, nessuna di queste eventualità può essere del tutto esclusa.
Anche se è la prima volta che le tensioni sfociano in uno scontro aperto, quella tra Iran e Israele è una guerra latente che dura da tempo. Nell’ultimo decennio, entrambi i paesi hanno investito capitale militare, diplomatico e politico nel tentativo di accerchiamento e isolamento dell’avversario. La Repubblica Islamica ha finanziato e armato una serie di gruppi paramilitari in tutto l’arco del Levante – Libano, Siria, Iraq e Yemen – investendo in particolare nell’armare il gruppo libanese di Hezbollah, operativo alla frontiera con Israele, con cui si era già confrontato specialmente nella guerra del 2006. L’apparato missilistico e l’arricchimento nucleare costituivano altri strumenti che affiancavano quelli del confronto tramite proxies.
Israele ha proceduto quasi in modo speculare, da un lato dando prova di condurre operazioni mirate contro i gruppi paramilitari legati a Teheran ed eliminando personalità di spicco del regime operative in Iraq e Siria; dall’altro, espandendo la sua rete di relazioni diplomatiche con alcuni paesi chiave del Golfo attraverso i cosiddetti accordi di Abramo e accerchiando il nemico con una serie di avamposti militari nel Kurdistan iracheno e nel Caucaso.
Dall’ottobre 2023 in poi questo fragile equilibrio che tratteneva Israele e Iran da uno scontro diretto si è gradualmente logorato. Nell’aprile del 2024, l’attacco israeliano al consolato dell’Iran in Siria già aveva portato a un primo lancio di missili iraniani su Israele – quasi tutti intercettati. Nel corso dei mesi successivi esponenti di spicco del cosiddetto asse della resistenza sarebbero morti in attacchi condotti da Israele a Teheran – tra di essi il leader politico di Hamas Ismael Haniyeh, il 31 luglio 2024, e a poche settimane di distanza l’iconico leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ucciso nella periferia sud di Beirut. In ottobre, l’Iran rispondeva con un secondo lancio di missili su Israele – anche questo largamente simbolico poiché intercettato dalle difese israeliane.
Tuttavia, i presupposti perché la guerra latente potesse diventare una guerra diretta erano già stati posti. Israele aveva testato la reazione di Teheran prima su obiettivi minori e successivamente su obiettivi più importanti (come Nasrallah) – suscitando da parte della Repubblica Islamica reazioni relativamente simboliche e limitate, rendendo sempre più plausibile l’idea che un confronto aperto avrebbe comunque visto Israele prevalere.
La nuova elezione del presidente Trump alla Casa Bianca e il lento procedere dei negoziati sul nucleare hanno fornito un’opportunità in più ad Israele per procedere in questa direzione. Da aprile, gli incontri tra Iran e Stati Uniti per un nuovo accordo sul nucleare sono avanzati a rilento e hanno avuto una forte battuta di arresto di fronte alla proposta americana che prevedeva lo smantellamento del programma nucleare iraniano nella sua componente sia civile che militare (zero enrichment policy), una nota linea rossa per i negoziatori iraniani.
Complici dei tenui progressi in ambito negoziale sono stati per parte loro anche gli E3 e gli stati del Golfo. Gran Bretagna, Francia e Germania, firmatari del primo accordo (il Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA) del 2015 hanno mostrato un tiepido sostegno per il processo negoziale e hanno invece minacciato l’imposizione di sanzioni più dure per punire l’alto tasso di arricchimento di uranio da parte dell’Iran. Altre potenze regionali – e in particolare l’Arabia Saudita – hanno optato per l’attendismo, pronte a fare leva cinicamente sulle pressioni degli Stati Uniti e di Israele, per costringere l’Iran a un negoziato che limitasse la percentuale di arricchimento e lo declassasse in quanto potenza regionale. Il fallimento della diplomazia ha quindi lasciato il sopravvento alla forza militare.
L’attacco americano ha aperto lo scenario di un allargamento geografico del conflitto e di un suo prolungamento nel tempo che potrebbe consolidare e radicalizzare il regime, o alternativamente farlo crollare. Al momento, l’alternativa del ritorno al tavolo negoziale si profila come la sola ed unica opzione che possa garantire un Iran senza arma atomica e stabilità regionale. L’azione militare di Israele, pur proponendosi di eradicare il problema con la forza, rischia di avere effetti imprevedibili e aumentare esponenzialmente i rischi per la sicurezza e la stabilità di Stati Uniti, Europa e Italia.
Dal punto di vista militare il principale risultato ottenuto da Tel Aviv e stato quello di mettere in evidenza le difficoltà croniche della contraerea iraniana, tecnologicamente arretrata a monte ed ora ridotta al minimo delle forze. Nonostante la facilità nell’ottenere un controllo sullo spazio aereo sia per Israele una garanzia di capacità di nuovo intervento, sembra che il programma nucleare iraniano non sia stato intaccato dai dodici giorni di conflitto in maniera irreversibile, neppure dopo il bombardamento statunitense. È verosimile a questo punto che nel dibattito interno alle élite iraniane la necessità di dotarsi di un’arma atomica, anche solo come strumento di deterrenza, diventi priorità assoluta, e i primi segnali in questa direzione non si sono fatti attendere – a partire dalla discussione nel parlamento di Teheran sull’opportunità di uscire dal Trattato di Non Proliferazione.
Scenario 1: Ripresa e allargamento del conflittoLe opzioni di Teheran di fronte all’attacco statunitense si sono rivelate limitate. La reazione è rimasta circoscritta ad un attacco, di grande efficacia simbolica ma senza effetti tangibili, contro la base americana in Qatar, innescando una serie di reazioni di circostanza che non hanno impedito il raggiungimento del cessate il fuoco mediato proprio dagli Stati Uniti.
Nella sua risposta, Teheran ha deciso di non seguire la sua tradizionale teoria della deterrenza tramite proxies in Iraq o in Yemen. L’opzione più diretta per reagire all’attacco americano poteva infatti essere quella di ricorrere alle milizie alleate in Iraq (Kataeb Hazbollah o Nujaba) per lanciare un attacco sulla base americana di Ain al-Assad, al confine tra Iraq e Siria. L’azione destabilizzatrice avrebbe potuto essere poi estesa con la ripresa di attacchi Houthi nel Mar Rosso o un blocco dello stretto di Hormuz – entrambi nodi cruciali del commercio del Golfo e globale. Un attacco lanciato dalle milizie avrebbe però fornito una giustificazione per un contrattacco statunitense (e forse israeliano) su queste, decimando un asse della resistenza già indebolito da due anni di conflitto indiretto con Israele. Altre azioni, come bloccare lo stretto di Hormuz, avrebbero colpito gli interessi della Cina, che beneficia dell’apertura dello stretto per garantire la propria posizione nel commercio globale, con il rischio di allontanare Pechino da Teheran.
L’Iran ha invece optato per una risposta largamente simbolica, colpendo le basi del Qatar, paese che vanta relazioni politiche, economiche e energetiche di lungo periodo con la Repubblica Islamica. Il Qatar ha assorbito il colpo trasformando l’attacco in una opportunità per farsi interlocutore privilegiato degli Stati Uniti e mediatore dell’attuale cessate il fuoco. Anche se puramente simbolico, l’attacco di Teheran su basi americane nel Golfo, rischia di aver aperto la strada a un progressivo incrinarsi dei rapporti tra Iran e Golfo arabo riaprendo ferite mai interamente sanate tra Repubblica Islamica e Arabia Saudita, attore principale nel Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il ripetersi di queste azioni potrebbe paradossalmente giocare a favore di Israele – e avrebbe tutto il potenziale per coinvolgere e coalizzare ancora di più gli Stati Uniti al fianco di Israele, attirando al contempo dalla loro parte gli stati del Golfo, già fortemente impattati dalla crisi in corso –, una prospettiva che annienterebbe qualsiasi possibilità per un ritorno al negoziato.
Questo primo scenario di ulteriore coinvolgimento americano aprirebbe anche la possibilità di un nulla osta statunitense a Israele per l’eliminazione della guida suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, volta a indebolire la coerenza interna allo stato iraniano, approfondire fratture interne al regime e istigare un collasso di stato e regime.
La storia degli ultimi decenni in Medio Oriente ci mostra che il vuoto politico lasciato dalla caduta di regimi autoritari è difficile e potenzialmente costoso da gestire. Qualunque sia stata la causa del cambio di regime – un’invasione militare esterna (si pensi ad esempio al costo umano e finanziario delle invasioni post-11 settembre per mano americana in Iraq e Afghanistan) o proteste popolari (come nel caso delle proteste popolari che hanno portato alla caduta dei regimi in Egitto, Tunisia, Libia e Sudan) – nessuna di queste transizioni ha portato democrazia o stabilità. La rapidità della caduta di sistemi autoritari che tengono in scacco le istituzioni dello stato porta di frequente ad una caduta congiunta di regime e stato che lascia a reti di opposizione il potere assoluto, portandole a gestire e manipolare la transizione a seconda dei loro interessi specifici, legati a egoismi personali, appartenenze comunitarie o locali. Nella totalità dei casi sopra menzionati, anche se in forme e modalità diverse, l’esito delle transizioni post-autoritarie ha lasciato lo stato debole, frammentato, vulnerabile a influenze regionali – di frequente coinvolte dalle opposizioni salite al potere.
I più recenti esperimenti in Libano e Siria, l’indebolimento di un attore centrale e quasi statale da un lato e la caduta di un regime pluridecennale dall’altro, provocati indirettamente dall’azione militare di Israele sull’intero arco della resistenza legato a Teheran, hanno prodotto effetti ancora in larga parte imprevedibili. In Libano, nonostante un nuovo governo sia al potere e un nuovo presidente sia stato eletto, il paese fatica a riprendersi ed e ancora lontana la prospettiva di un’esclusione di Hezbollah dal calculus politico, o quantomeno la riduzione del peso della sua componente terroristica a vantaggio di quella partitica. La caduta del regime in Siria presenta caratteristiche simili, con una nuova leadership al potere che di fatto monopolizza la transizione e fatica ad assicurare stabilità interna, coesistenza intra-comunitaria pacifica e unità statale del paese.
Lo scenario di caduta del regime in Iran lascia un margine di imprevedibilità e ha una forte potenzialità destabilizzatrice che rischia di impattare l’intera regione e con essa l’Europa tutta.
Scenario 2: Conflitto di lungo periodo a bassa intensitàUna seconda opzione per Teheran è quella di continuare una guerra di bassa intensità su Israele – senza necessariamente ricorrere agli alleati regionali, dopo aver scelto di limitare la ritorsione contro gli Stati Uniti al puro evento simbolico.
Scegliendo questa seconda opzione, l’Iran potrebbe “salvare” una via d’uscita diplomatica con gli Stati Uniti, utilizzare la prospettiva di una guerra a bassa intensità contro Israele per riprendere peso strategico. Infatti, né Israele né gli Stati Uniti intendono invischiarsi in un conflitto di lungo periodo. Per Israele, la prospettiva di un conflitto a bassa intensità che obbliga comunque i suoi civili a uno stato di allerta continuo è costosa – soprattutto se il regime iraniano non dà segnali di vacillare. Nonostante la poca credibilità di cui gode tra gli iraniani, una guerra di medio o lungo periodo potrebbe paradossalmente rafforzare le credenziali nazionaliste del regime di Teheran e ravvivare la precaria legittimità della classe politica della Repubblica Islamica, sulla base della sua capacità a resistere all’attacco di Israele.
Se il regime di Teheran dimostra di essere capace di resistere ad una guerra di medio e lungo periodo, questo avrà molto probabilmente l’effetto di rafforzare le voci più estremiste nella compagine politica e militare del regime, rafforzando la dimensione simbolica dell’Islam sciita. Resistenza, tradimento e martirio sono temi fortemente sentiti nella storia dell’Islam politico sciita, vissuti durante il decennio della guerra Iran-Iraq (nella quale l’Occidente diede pieno sostegno a Saddam Hussein) soprattutto dalle fazioni militari del regime di Teheran, che vennero particolarmente segnate da quella guerra. La resistenza contro Israele e l’Occidente anche a costo dell’immolazione potrebbe essere rappresentata dalle autorità politiche come ‘profetica’ e potrebbe dare nuovo impeto ideologico a un regime altrimenti discreditato, rendendolo determinato a perseguire la via dell’arma atomica.
Scenario 3: Ritorno al tavolo negozialeLo scenario di un ritorno a un tavolo negoziale è l’opzione più desiderabile – non solo perché evita morti civili ma proprio perché si presenta come quella che offre risultati più concreti nel garantire un Iran senza arma atomica, prevenire un conflitto espanso a tutta la regione e limitare l’imprevedibilità di un cambiamento di regime.
La via della diplomazia è però anche la più difficile da perseguire e necessita un ruolo proattivo degli Stati Uniti nel proporre un accordo che sia accettabile per Teheran anche con l’intermediazione dei paesi del Golfo. Se inizialmente Trump mirava a fare leva sulle operazioni militari israeliane per costringere l’Iran ad arrivare a un negoziato in ginocchio, il risultato ad ora è stato quello di permettere ad Israele di rendere sempre meno probabile un ritorno al negoziato e trascinare Washington nel vortice di un conflitto prolungato.
Gli ostacoli lungo il percorso sono molti, primo fra tutti il fatto che Trump si aspetta che la diplomazia aggressiva dia dei risultati. L’idea di un consorzio regionale per l’arricchimento potrebbe essere una modalità di compromesso che permetterebbe a Trump di rivendicare la fine del programma nucleare iraniano.
Al contrario delle aspettative di Trump, l’Iran del post-attacco rischia però di essere ancora meno propenso ad un compromesso sull’arricchimento. La leadership politica si riunisce attorno ad un sentimento di solidarietà e un sospinto senso di appartenenza nazionale che è trasversale ai diversi orientamenti politici (riformisti e conservatori) e che vede come un’umiliazione accettare il completo smantellamento del programma nucleare. L’espulsione degli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e un primo segnale in questa direzione. Diplomatici e dirigenti iraniani faticano ad adattarsi all’approccio trumpiano di un negoziato semplice e si aspettano un ritorno al tavolo negoziale con dettagli su percentuali possibili di arricchimento e sanzioni.
A complicare il quadro sono altri attori: Europa e Golfo. I paesi del Golfo esitano a proporre l’idea di un consorzio per l’arricchimento desiderando essi stessi avere un proprio programma nucleare. Sollecitati dall’Iran come tramite per un nuovo round negoziale con Trump, molti si sono dimostrati attendisti e hanno esitato a farsi avanti, dando la priorità alla propria relazione bilaterale con il presidente americano. Gli E3 restano anch’essi immobili. Il cessate il fuoco ha spostato l’attenzione su altri conflitti in corso (Libano, Siria e Gaza), con Francia e Germania che mostrano un’intransigenza simile a quella di Trump, se non ancora più ferma, nel legare dossier nucleare ad altri temi, come l’apparato missilistico o/e il finanziamento a gruppi proxy nella regione.
Questi sono gli ostacoli da superare e la tempistica in questo contesto e essenziale. Più si rimanda un ritorno al negoziato più si rischia di prolungare ed espandere il conflitto. In questo, la guerra a Gaza dovrebbe essere di monito.
Da consumatori a produttori di sicurezza: i Balcani occidentali e l’Europa della difesa
In un panorama di sicurezza in rapida evoluzione, l’autonomia strategica dell’Unione Europea dovrebbe comprendere anche l’integrazione di partner regionali capaci. I Balcani occidentali, considerati negli ultimi anni da molti periferici in termini geopolitici, stanno emergendo come proattivi produttori di sicurezza piuttosto che come passivi consumatori della stessa. Questa trasformazione è particolarmente evidente nella crescente spesa militare, nel rafforzamento delle industrie della difesa locali che si rivelano economicamente vantaggiose, e nella maggiore ambizione di assumersi più responsabilità per la sicurezza del proprio angolo del continente. Oltre al loro contributo operativo alle missioni dell’UE, questi Paesi rappresentano un’opportunità strategica per l’UE per rafforzare la propria prontezza militare, anche in termini di strutture per l’addestramento, e la resilienza industriale.
Spese nella difesa crescenti e procurement anche europeoI Balcani occidentali hanno notevolmente aumentato la propria spesa nella difesa: la media della regione supererà il 2% del PIL nel 2025, con alcuni Paesi come Serbia, Macedonia del Nord e Albania che si avvicinano o hanno già raggiunto la soglia del 2,5%. In particolare, oltre il 20% dei bilanci della difesa è destinato al procurement di equipaggiamenti, rispettando un parametro di riferimento chiave della NATO per una capacità militare credibile. La Macedonia del Nord e il Montenegro, ad esempio, hanno effettuato acquisizioni significativi dagli stati membri dell’UE, quali elicotteri italiani e francesi e veicoli blindati tedeschi. Anche la Serbia, nonostante i suoi complessi allineamenti geopolitici, si è rivolta a fornitori europei per sistemi radar, velivoli e sistemi di difesa aerea. Questo crescente approvvigionamento da fornitori UE sostiene direttamente la base tecnologica e industriale di difesa europea, migliorando al contempo l’interoperabilità.
Mezzo milione di proiettili di artiglieria da una sola azienda bosniacaDa notare come a loro volta i Balcani occidentali abbiano industrie della difesa efficienti e con significativo potenziale. Con oltre 200 aziende, principalmente in Serbia e Bosnia-Erzegovina, la regione produce artiglieria, armi leggere e munizioni, spesso a prezzi più competitivi rispetto alle controparti occidentali. La sola Serbia ha visto 1,2 miliardi di euro di esportazioni militari nel 2021. Con l’inizio della guerra in Ucraina, la regione è riuscita a espandere ulteriormente produzione ed esportazioni: una sola azienda in Bosnia-Erzegovina può produrre fino a 500.000 proiettili di artiglieria all’anno, un quarto dell’obiettivo che l’intera UE cerca di raggiungere. Queste industrie, compatibili con gli standard NATO, sono ben posizionate per soddisfare le urgenti esigenze europee di procurement, in particolare a sostegno dell’Ucraina. Con investimenti minimi, l’UE potrebbe ampliare significativamente questa capacità produttiva nei Balcani occidentali, assicurando una catena di approvvigionamento resiliente, vicina ed economicamente vantaggiosa.
Il rapporto costo-efficacia non è solo una questione economica, è una risorsa strategica. Le difficoltà dell’UE nel rispettare gli impegni in materia di fornitura di munizioni nei confronti dell’Ucraina illustrano i limiti della sua attuale capacità industriale quando si tratta di produzioni di massa di determinati mezzi. L’integrazione dei fornitori dei Balcani occidentali nelle catene di approvvigionamento dell’UE allevierebbe questi vincoli. Inoltre, la vicinanza alla linea del fronte in Ucraina e al fianco orientale della NATO, in particolare rispetto ai fornitori extraeuropei, riduce i problemi logistici e accorcia i tempi di consegna. Con investimenti adeguati e un allineamento normativo, la regione potrebbe anche fare un balzo in avanti verso tecnologie di nuova generazione come droni e sistemi anti-drone, un campo in cui alcuni Paesi, come il Kosovo e l’Albania, stanno già valutando partnership con gli alleati della NATO.
Il contributo dei Balcani occidentali alle missioni UE e NATO…Oltre alle spese nella difesa e alla relativa industria, i Balcani occidentali contribuiscono operativamente alla sicurezza europea. Paesi come Albania, Macedonia del Nord e Montenegro hanno fornito aiuti militari all’Ucraina, inclusi elicotteri, carri armati e veicoli blindati. Sebbene i contributi della Serbia siano stati più discreti, aiuti significativi sono comunque giunti da Belgrado a Kyiv, tramite forniture di armi per oltre 800 milioni di euro passate per stati terzi fino alla metà del 2024.
I paesi dei Balcani occidentali partecipano anche a numerose missioni della Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC) dell’UE, comprese le operazioni in Africa e nella regione del Mediterraneo. I loro contingenti, sebbene di dimensioni modeste, sono altamente specializzati e dimostrano una crescente interoperabilità con le forze dell’UE e della NATO. La Balkan Medical Task Force, un’unità medica militare multinazionale, è un buon esempio al riguardo. I contributi regionali a EUFOR Althea e a missioni NATO come KFOR e Enhanced Forward Presence mostrano il potenziale per una più profonda integrazione.
…e i loro vantaggi geografici per il fianco estLa posizione geografica della regione costituisce un altro valore aggiunto nell’attuale quadro strategico europeo. Posizionati tra il Mediterraneo e l’Ucraina, i Balcani occidentali sono fondamentali per la logistica militare. Progetti infrastrutturali come il Corridoio 8, che collega l’Adriatico e il Mar Nero, estendendosi dall’Italia alla Bulgaria, e strutture come la base aerea NATO di Kuçovë, sono fattori essenziali per la mobilità militare europea. Nonostante ciò, gli investimenti dell’UE nella mobilità militare nella regione rimangono minimi: colmare questa lacuna è diventata una necessità strategica.
Le capacità di addestramento rafforzano anche le credenziali della regione come fornitore di sicurezza. Il poligono di Krivolak ospita regolarmente esercitazioni NATO su larga scala, come quella del 2022 che ha coinvolto 4.600 militari provenienti da otto Paesi, mentre il centro di addestramento per la sicurezza informatica del Kosovo sottolinea l’evoluzione delle capacità della regione nel contesto contemporaneo.
In conclusione, per beneficiare appieno del potenziale della regione, l’UE deve considerare i Balcani occidentali come partner nella difesa, non solo come candidati all’allargamento. Includerli in iniziative di procurement congiunto, facilitare la loro partecipazione ai meccanismi di finanziamento della difesa europea come lo European Defence Indusry Programme (EDIP) e sostenere le industrie locali con investimenti mirati produrrebbe risultati tangibili. Inoltre, tale integrazione fungerebbe da acceleratore politico per l’allargamento dell’UE, allineando gli imperativi strategici e istituzionali.
La trasformazione dei Balcani occidentali da consumatori a produttori di sicurezza è già in corso. Tuttavia, senza un approccio consapevole e strutturato dell’UE all’integrazione della difesa, gran parte di questo potenziale rimarrà inutilizzato. Riconoscere e investire nelle capacità industriali e operative della regione non è più un’opzione facoltativa, è diventato funzionale alla più ampia sicurezza e autonomia strategica dell’Europa. L’UE si trova ad affrontare crescenti sfide alla sua prontezza militare, dai vincoli delle catene di approvvigionamento alle incertezze geopolitiche. I Balcani occidentali offrono non solo un rinforzo, ma anche resilienza. Mentre l’Europa ridefinisce la sua postura complessiva nella difesa, queste nazioni devono essere viste come attori partecipi alla costruzione di un’architettura di sicurezza europea più forte, più autonoma e più preparata per il contesto attuale e futuro.
L’articolo è tratto dal report Europe’s Overlooked Allies: Why the Western Balkans Matter for EU Defence Readiness
Difendere l’Europa dall’Ue: la svolta “europeista” della destra sovranista
Il 2025 si sta rivelando un anno decisivo per l’Europa, con un susseguirsi di appuntamenti elettorali che stanno ridisegnando il panorama politico del continente. Dopo le elezioni tedesche e croate a inizio anno, nell’ultimo mese abbiamo seguito col fiato sospesole presidenziali in Romania e in Polonia. Ancora una volta, la destra sovranista è stata la protagonista del dibattito pubblico, dimostrando come, a prescindere dal risultato elettorale, sia diventata centrale nella politica del continente.
Una delle principali conseguenze di questa ascesa è l’evoluzione della posizione di questi partiti nei confronti dell’Ue. Molti di essi hanno infatti abbandonato il rifiuto del progetto di integrazione europea che li caratterizzava agli esordi. Al contrario, mirano oggi a riproporsi in una chiave più “europeista”, sebbene in un senso del tutto nuovo, connotato da valori di stampo nazionalista, sovranista e identitario. Forti di una presenza crescente nelle istituzioni, le destre sovraniste puntano a ritagliarsi un ruolo sempre più influente sul futuro dell’Unione.
Il linguaggio come strumento strategico: l’Europa dei valoriTradizionalmente, i partiti euroscettici hanno sottolineato l’assenza di un’identità sovranazionale comune alla base del progetto europeo, un fattore che ne comporterebbe l’inevitabile fallimento. Era questa la posizione, ad esempio, di Margaret Thatcher: non esiste un popolo europeo, ma un insieme di nazionalità che possono associarsi solo sulla base di interessi, non di identità condivise.
Negli ultimi anni, tuttavia, si è gradualmente affermata una retorica (almeno in apparenza)diversa: l’estrema destra punta a ‘raccontare’ l’Europa come una famiglia di nazioni sovrane accomunate dalla tradizione storica e dalla religione cristiana (con una sottintesa implicazione razziale).
I partiti di destra sottolineano come questa idea di Europa sia oggi sotto minaccia: il progressismo liberale e cosmopolita promosso dai movimenti europeisti avrebbe tradito i valori tradizionali su cui si fonderebbe la civiltà europea, riducendo la sovranità degli stati-nazione e aprendo i confini ai migranti ‘invasori’, portatori di culture distanti e inassimilabili a quella europea. Il linguaggio di tali partiti ripropone sempre più questo dualismo: da un lato, un’Europa dei valori – tradizionalista, cristiana, e dunque “vera”; dall’altro, l’Ue allo stato attuale, una costruzione tecnocratica ed elitaria, fondata su astratti valori universalistici come il sovranazionalismo, il cosmopolitismo, l’inclusione sociale e il multilateralismo.
La destra sovranista su presenta come la protettrice di una civiltà europea in declino in una strategia discorsiva che mira a ridefinire il significato dell’europeismo tradizionale, che era e resta una visione politica legata al superamento dei nazionalismi in favore di un’integrazione sovranazionale.
Una strategia collaudata: dal PiS polacco e al gruppo ECRUn caso esemplare di questa collaudata strategia, nonché protagonista delle ultime elezioni in Polonia, è il partito Diritto e Giustizia (PiS), sostenitore del candidato vincitore, Karol Nawrocki. Il PiS è noto per le sue passate tensioni con Bruxelles, date dalle frequenti violazioni dello stato di diritto – in particolare riguardo alla ridotta indipendenza della magistratura. L’Europa è stata a lungo il principale bersaglio – insieme all’immigrazione, a cui veniva sempre associata – della retorica belligerante del PiS.
Nei programmi elettorali più recenti, il linguaggio del PiS nei confronti dell’Ue è diventato più ambivalente. Pur mantenendo una distanza critica, il PiS riconosce ufficialmente “l’importanza e i risultati dell’Unione europea”, citando principalmente “la libertà di circolazione, il mercato comune e i sussidi per gli agricoltori”.
Il partito, dunque, non rinnega più il progetto di integrazione – del resto, la sua opposizione all’Ue è sempre stata più performativa che sostanziale; la Polonia ha usufruito di considerevoli trasferimenti fiscali dall’Ue e gli agricoltori polacchi (lo zoccolo duro dell’elettorato del PiS) sono fra i maggiori beneficiari della politica agricola comune. Tuttavia, il PiS subordina la sostenibilità dell’Ue all’esigenza di “riforme che trasformino questa comunità internazionale in una ‘Europa delle patrie”, fondata sulle tradizioni nazionali, il cristianesimo e la piena sovranità degli stati membri. Secondo la retorica del PiS, la crisi europea, prima che politica, è fortemente “morale”, legata alla perdita di valori fondamentali.
L’approccio ambivalente del PiS si inserisce in una più ampia strategia condivisa all’interno del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR) al Parlamento europeo, di cui fanno parte anche Fratelli d’Italia e altri partiti sovranisti. Il manifesto elettorale di ECR per il 2024 riprende lo stesso schema discorsivo: riconoscimento dell’importanza dell’integrazione europea, purché ancorata al rispetto delle tradizioni nazionali e delle comuni radici culturali e religiose. Toni simili si ritrovano anche nel manifesto di Fratelli d’Italia, a conferma di una strategia discorsiva ormai consolidata.
Si delinea così un graduale tentativo di normalizzazione del sovranismo, che mira da qualche anno ad avvicinarsi al centro-destra tradizionale e a costruire un’alternativa legittima all’europeismo liberale. L’obiettivo finale potrebbe essere un nuovo polo conservatore europeo: in altre parole, la fine della politica di esclusione dell’estrema destra dalle maggioranze in Parlamento e Commissione, consentendo a queste forze di influenzare la direzione futura dell’integrazione a propria immagine.
La destra euroscettica gioca una partita sofisticata: non si oppone più frontalmente all’Ue, ma mira a ridefinirne l’identità, proponendo un’Europa alternativa, considerata più giusta e autentica. Lo scontro politico non si gioca solo sul terreno tecnico o economico, ma si sposta su quello culturale e simbolico. Questo nuovo modello, con la sua forza elettorale, ha già dimostrato di poter plasmare i toni del dibattito politico europeo. Non resta dunque che osservare gli appuntamenti elettorali dei prossimi anni, i quali rappresenteranno un vero e proprio referendum sul futuro dell’Europa – soprattutto in paesi con maggioranze europeiste, come la Francia e la Spagna.
La guerra dei dodici giorni frena il dialogo nucleare e complica i rapporti nel Golfo
Maria Luisa Fantappiè, responsabile del Programma Mediterraneo, Medio Oriente e Africa dello IAI, è intervenuta a Spazio transnazionale, trasmissione di Radio Radicale condotta da Francesco De Leo. Fantappiè ha analizzato le conseguenze della “guerra dei dodici giorni” tra Israele e Iran, sottolineando come il conflitto abbia contribuito a un ulteriore irrigidimento del regime della Repubblica Islamica, alimentando un clima che ostacola la ripresa dei negoziati sul dossier nucleare. Fantappiè ha inoltre commentato la posizione dei Paesi del Golfo, in particolare Qatar e Arabia Saudita, evidenziando come le dinamiche del conflitto influenzino le loro relazioni con Teheran.
Majed al-Ansari: L’attacco iraniano in Qatar e le relazioni con Teheran
Majed al-Ansari, Consigliere del Primo Ministro del Qatar e Portavoce ufficiale del Ministero degli Affari Esteri, è intervenuto a un evento organizzato dallo IAI dal titolo “Europe and the Gulf: Roles in De-Escalating the Israel-Iran Conflict”. In dialogo con Maria Luisa Fantappiè, ha approfondito le relazioni tra Iran e Qatar alla luce dell’attacco iraniano contro una base militare statunitense.
La guerra dei 12 giorni e il suo impatto sul dossier iraniano
L’Ambasciatore Michele Valensise, Presidente dello IAI, è stato ospite di Spazio Transnazionale su Radio Radicale, condotto da Francesco De Leo. Valensise ha commentato le operazioni militari condotte da Israele e Stati Uniti in Iran, sottolineando come su di esse persista un alone di incertezza e mistero, tanto sulle origini quanto sugli effetti reali. Non è ancora chiaro, infatti, quale sia stato l’impatto effettivo degli attacchi sui siti nucleari iraniani, né come questa “guerra dei 12 giorni” si inserisca nel contesto del negoziato attualmente in corso con Teheran. Valensise ha inoltre offerto una riflessione sulla politica estera dell’amministrazione Trump.
Il vertice NATO tra la minaccia russa e i nuovi obiettivi di spesa per la difesa
Alessandro Marrone, responsabile del Programma Difesa, Sicurezza e Spazio dello IAI, è intervenuto a Spazio transnazionale su Radio Radicale, condotto da Francesco De Leo. Marrone ha commentato l’esito del vertice NATO appena conclusosi all’Aia, che ha confermato la Russia come una minaccia di lungo periodo per l’area euroatlantica, l’impegno dei Paesi membri a destinare il 3,5% del PIL alla difesa entro il 2035 e la prosecuzione delle donazioni militari all’Ucraina. Marrone ha anche analizzato le prospettive dei rapporti tra i Paesi europei, la NATO e Donald Trump.
Il vertice NATO della pace euro-atlantica
Il vertice dei capi di stato e di governo NATO all’Aia, il primo con Donald Trump rieletto alla Casa Bianca, si può considerare un successo per l’Alleanza, e soprattutto per l’Europa, se lo si misura con l’obiettivo fondamentale di mantenere la pace nella regione euro-atlantica. Gli alleati hanno infatti concordato un’agenda di priorità estremamente ristretta su cui era possibile avere un consenso unanime, e hanno definito dei livelli di spesa equilibrati al fine di dissuadere e contenere la minaccia russa, mantenere gli Stati Uniti impegnati nella difesa collettiva dell’Europa, e risultare fattibili in 10 anni per i bilanci pubblici dei Paesi membri – anche se non facili per Italia e Spagna.
In particolare l’impegno preso a investire il 3,5% del PIL nella difesa vera, e quello separato di conteggiare in un nuovo, ampio e poco definito paniere un altro 1,5% del PIL sostanzialmente già oggi investito dalla grande maggioranza dei Paesi europei in infrastrutture critiche e resilienza civile, servono a continuare a mantenere pace, sicurezza e stabilità nella regione euro-atlantica in un quadro strategico segnato da più di tre anni di invasione russa dell’Ucraina.
Se la pace in Occidente vale un post sui social…Storicamente la NATO ha svolto la duplice funzione strategica di “peace in the West” e “peace of the West”. La prima consiste nel legare Paesi che altrimenti si erano fatti e si potrebbero fare la guerra: non solo coloro che si sono combattuti nelle due Guerre Mondiali, ma Grecia e Turchia perennemente in tensione, o gli stati membri usciti dalle sanguinose guerre civili dell’ex Jugoslavia negli anni ‘90. La pace in Occidente funziona se gli Stati Uniti mantengono una modica presenza militare, sia nucleare che convenzionale, in Europa, che evita il circolo vizioso di ri-nazionalizazione sovranista delle politiche di difesa dei singoli stati, di frammentazione in accordi bilaterali, trilaterali o regionali, di sfiducia reciproca e perfino di riapertura del dibattito su un nucleare militare nazionale. Se per evitare tutto questo, che l’Europa ha vissuto tragicamente – al netto del nucleare – per secoli fino a metà del ‘900, oggi serve un messaggio privato del Segretario Generale NATO al presidente statunitense incredibilmente lusinghiero, ossequioso e servile, come quello di Mark Rutte pubblicato da Donald Trump, tutto sommato questo è un prezzo politico accettabile da pagare.
…evitare un attacco russo vale il 3,5% del PIL nella difesaLa seconda funzione strategica della NATO è quella di “peace of the West”, ovvero di deterrenza e difesa collettiva contro la minaccia da Mosca. Dal 1991 al 2014 questa funzione è rimasta in stand-by, metaforicamente come una polizza di assicurazione rispetto al ritorno della secolare aggressività russa verso il suo vicinato occidentale, ma dal 2022 è tornata il core business e la priorità assoluta per la NATO. Un regime russo ancora solido dopo oltre tre anni di guerra di invasione contro uno stato europeo confinante, nonostante oltre mezzo milione di soldati morti o feriti, che nel 2025 intende portare la percentuale di PIL destinato alle forze armate dal 6% al 9% e arrivare a 1,5 milione di militari in servizio, e che continua a bombardare l’Ucraina invece che negoziare, è una minaccia diretta, grave e immanente per l’Europa.
In questo quadro strategico, Trump ha firmato il comunicato del vertice NATO che riconosce, testualmente, “la minaccia di lungo periodo posta dalla Russia alla sicurezza euro-atlantica”, e lo stesso documento riafferma l’impegno “ferreo” nella difesa collettiva sancito dall’articolo 5 del Trattato di Washington, senza sfumature o interpretazioni o incertezze. Difesa collettiva che si fonda su livelli di spese militari congrui, la priorità numero uno dell’amministrazione Trump.
Durante la Guerra Fredda i Paesi europei allora membri della NATO spendevano circa il 3% del PIL nella difesa, percentuale poi più che dimezzata, in media, negli anni ’90-2000 perché era scomparsa la minaccia del Patto di Varsavia. L’obiettivo del 2% del PIL nella difesa, fissato nel 2014, a oggi è stato mediamente raggiunto dall’Europa, e la nuova soglia del 3,5% entro il 2035 svolge la duplice funzione di dissuadere un attacco russo – e nello scenario peggiore a respingerlo – e di mantenere una certa presenza militare americana in Europa. La spesa pubblica europea così programmata in questo settore è enormemente inferiore ai danni che porterebbe nei Paesi UE e NATO una guerra su larga scala come quella che va avanti dal 2022 in Ucraina, scenario non escludibile a priori se la deterrenza fallisce. E questa spesa prevista è molto inferiore a quanto dovrebbe investire l’Europa per difendersi completamente da sola se gli Stati Uniti si disimpegnassero tout court dalla NATO perché gli alleati europei non vanno verso il 3,5% promesso al Aia. Le circa 100.000 truppe americane ad oggi presenti in Europa, e soprattutto gli assetti militari statunitensi, possono e devono essere in parte sostituiti da risorse europee con questi livelli previsti di spesa, mantenendo così la difesa collettiva, ma sarebbe molto più difficile e costoso rimpiazzarli totalmente – basti solo pensare ad un deterrente atomico in grado di dissuadere la ricorrente minaccia nucleare russa.
Ucraina fuori dalla NATO ma aiutata dai Paesi NATOPer mantenere la “peace of the West” dalla Russia, il vertice dell’Aia ha fatto chiarezza su quali sono i confini della NATO soggetti alla difesa collettiva, escludendo esplicitamente l’Ucraina. La prospettiva di un ingresso nell’Alleanza, richiesto da Kiev nel 2022 dopo l’inizio dell’invasione russa, era stata sostanzialmente abbandonata già nel vertice di Vilnius del 2023, quando l’amministrazione Biden aveva rifiutato di fissare i tempi per l’ingresso rinviando tutto sine die – con la soddisfazione non solo dell’Ungheria ma, in modo più silente, di diversi altri governi in Europa. La stessa presidenza Biden e tutta la NATO avevano però mantenuto una narrazione sempre più staccata dalla realtà, su un futuro percorso di Kiev verso l’adesione definito dal successivo summit di Washington nel 2024 come “irreversibile”.
L’amministrazione Trump ha fatto chiarezza definitiva al riguardo in poche settimane, già lo scorso gennaio, e nel comunicato del vertice dell’Aia non si nomina in nessun modo l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Non a caso, Zelenski è stato ospite come rappresentante di un Paese partner alla cena ufficiale, ma non ha partecipato ai lavori dei capi di stato e di governo degli stati membri.
Lo stesso comunicato afferma però che il costo degli aiuti militari donati dai Paesi NATO all’Ucraina vanno conteggiati nell’obiettivo del 3,5% del PIL destinato alla difesa, e questo è un incentivo per l’Europa e il Canada a continuare concretamente ad aiutare Kiev. Si tratta di una scelta pragmatica e logica, basata sulla ratio che invitare l’Ucraina nella NATO non è una strada percorribile per aiutarla a difendersi dalla Russia, e bisogna seguirne altre. Una lezione anche per l’UE, che nel 2022 aveva invece incautamente aperto la procedura di adesione dell’Ucraina all’Unione, destinata a finire come era prevedibile in un vicolo cieco.
Una NATO regionale e monotematica, sostenibile e (più) europeaLa NATO uscita dal vertice dell’Aia, e che molto probabilmente andrà avanti così per i quattro anni dell’amministrazione Trump, si può riassumere in 4 aggettivi: regionale, monotematica, sostenibile, e (più) europea. Regionale in quanto concentrata sul territorio degli stati membri, dalla Turchia al Canada, con un focus acquisito sul suo fianco est, dalla Scandinavia al Mar Nero passando per l’Europa orientale. Il comunicato dell’Aia non dice nulla sul fianco sud, il Nord Africa o il Medio Oriente, e nemmeno sull’Indo-Pacifico. Ma mentre quest’ultimo è in qualche modo ancora nel radar dell’Alleanza, sebbene sottotraccia e in modi da definire, tanto che il ministro della difesa australiano era presente all’Aia, gli stati del “Mediterraneo allargato” che non sono membri della NATO sono completamente fuori dall’agenda alleata post summit.
La NATO durante l’amministrazione Trump è e sarà anche sostanzialmente monotematica, in quanto dal comunicato del vertice breve quanto una pagina e con solo cinque punti, rispetto a una media di decine di pagine e centinaia di punti dei precedenti summit, sono stati eliminati parole chiave che hanno accompagnato gli scorsi anni della NATO quali: partnership; cooperazione con l’UE; cambiamento climatico; minacce ibride; criminalità organizzata; traffici illeciti; e, elemento più recente, Cina. La NATO non si occupa e molto probabilmente non si occuperà in maniera significativa di tutto ciò.
Certo restano nel comunicato i tre core tasks, i compiti chiave, del Concetto Strategico 2022, dove sicurezza cooperativa e prevenzione e gestione delle crisi sono secondari e strumentali rispetto all’obiettivo primario di deterrenza e difesa collettiva. La NATO continuerà a svolgere missioni importanti per la sicurezza europea in senso ampio, come quella che in Kosovo mantiene la pace tra le etnie serba e kosovara, Sea Guardian che pattuglia il Mediterraneo e la missione di addestramento delle forze irachene in chiave anti-estremismo islamico. Quanto a sicurezza cooperativa, resta per la NATO il tema di una cooperazione con l’UE che porterebbe benefici a entrambi, ma che durante l’amministrazione Trump è più utile non portare al tavolo transatlantico con il presidente americano. E continueranno a esistere i partenariati con i Paesi non-NATO, tra i quali però vi saranno fortissime differenze: quello con l’Ucraina è la priorità per l’Europa; quelli con i Balcani occidentali svolgono una importante funzione regionale di stabilità; i partner dell’Indo-Pacifico sono interlocutori rilevanti in termini politici, militari ed economici – specie Australia, Corea del Sud e Giappone. All’estremo opposto, i partenariati con gli stati del Nord Africa e Medio Oriente, compresi Mediterranean Dialogue e Istanbul Cooperation Initiative, rimarranno nello stato di stallo e de-prioritizzazione in cui si trovano dal 2022.
La scelta di una NATO regionale e monotematica serve sostanzialmente a limitare il confronto con Washington esclusivamente ai temi su cui si può trovare un accordo, in modo da raggiungerlo e mantenerlo, lasciando fuori ciò che è al tempo stesso divisivo e non essenziale per l’Alleanza atlantica e le sue funzioni strategiche di “peace of the West” e “peace in the West”. D’altronde che senso avrebbe discutere una strategia NATO per il Medio Oriente quando Trump cambia la sua ogni mese, Ankara considera Tel Aviv una minaccia, e i Paesi europei faticano persino a decidere in un perimetro molto più omogeneo come l’UE se rivedere o no l’accordo di associazione con Israele? Parlare di Gaza e Iran in ambito NATO farebbero solo danni alla difesa collettiva dell’Europa, mentre il vertice dell’Aia era volto in primo luogo ad evitarli.
Un’Alleanza regionale e monotematica, in cui i Paesi europei si muovono verso il 3,5% del PIL nella difesa e gradualmente rimpiazzano alcune delle forze americane – ma non tutte – è molto più sostenibile nel breve, medio e lungo periodo. Non solo nei rimanenti tre anni e mezzo di amministrazione Trump, ma nel futuro che vedrà gli Stati Uniti limitare comunque il proprio sostegno militare all’Europa al minimo indispensabile, dando la priorità alla sfida posta dalla Cina, all’Indo-Pacifico e a legittime istanze domestiche isolazioniste.
Una NATO più sostenibile è di fatto una NATO più europea di quanto lo sia mai stata, in termini di investimenti, risorse umane, assetti e comandi, oneri e rischi. Già dal 2022, degli otto battaglioni multinazionali dispiegati sul fianco orientale solo uno è a guida americana, in Polonia, e già nell’attuale pianificazione NATO la gran parte delle 200.000 truppe che gli alleati si preparano e si impegnano a inviare sul fianco orientale in caso di escalation da parte russa non sono statunitensi.
Una NATO più europea è il leit motiv dalla Finlandia alla Germania, ed è sostanzialmente quello che da anni sostiene saggiamente l’Italia, compreso il governo Meloni, quando punta a un “pilastro europeo” più forte, solido e coeso, rispetto a una difesa UE che non è decollata neanche dopo oltre tre anni di guerra in Ucraina e cinque mesi di amministrazione Trump. Sulle basi poste dal vertice dell’Aia, è probabilmente il caso di fare un ulteriore passo in avanti e puntare a una “NATO a trazione europea” come soluzione più sostenibile per la deterrenza e difesa dell’Europa di fronte alla minaccia russa. Per ora il summit in Olanda ha dato un contributo importante alla pace, stabilità e sicurezza della regione euro-atlantica, il che non era affatto scontato nei mesi scorsi, e questa è senza dubbio una buona notizia in un periodo storico in cui scarseggiano.
La strana guerra in cui tutti hanno vinto e tutti hanno perso
È indice dell’assurdità dei tempi in cui viviamo che una guerra potenzialmente disastrosa per la sicurezza internazionale si è – per il momento – interrotta con i ringraziamenti di uno dei paesi aggressori, gli Stati Uniti, al paese aggredito, l’Iran.
L’attacco contro una base americana in Qatar, condotto in rappresaglia dall’Iran contro i bombardamenti americani del suo programma nucleare, ha fatto temere che il conflitto potesse aumentare in intensità e allargarsi al Golfo. Invece, può avere raggiunto l’obiettivo cercato dagli iraniani, ovvero usare un attacco preventivamente comunicato a Washington per ristabilire un minimo di deterrenza formale e allo stesso tempo dare agli Stati Uniti la via d’uscita dall’escalation. A questo bizzarro gioco delle parti si è prestato anche Israele, che ha ritenuto di dover assecondare il desiderio del presidente Donald Trump di interrompere le ostilità.
La tregua, in vigore solo da poche ore, è già traballante. Non è possibile pertanto anticipare se seguirà la stessa traiettoria di quella con Hamas, che Israele ha infranto poco più di un mese dopo, oppure di quella con Hezbollah, che invece ha retto, sebbene Israele continui a operare in Libano. È possibile però fare una valutazione istantanea di ciò che hanno ottenuto e di ciò che hanno perso Israele, Stati Uniti e Iran.
Tutti vincitoriIsraele ha buone ragioni per ritenersi soddisfatto. Ha decapitato la leadership delle forze armate regolari e soprattutto delle Guardie rivoluzionarie, paralizzando inizialmente la catena di comando del nemico. Ha ucciso una dozzina di scienziati e pesantemente danneggiato le infrastrutture nucleari dell’Iran, riducendone considerevolmente la capacità di riattivare un programma nucleare su scala industriale. Ha distrutto la quasi totalità delle difese aeree e limitato la letalità del programma balistico intercettando la maggioranza dei missili e distruggendo almeno un terzo dei lanciatori. In generale ha dimostrato non solo netta superiorità militare e tecnologica sull’Iran, ma anche una profonda penetrazione del sistema di sicurezza e di intelligence della Repubblica islamica.
Anche gli Stati Uniti possono dire di aver conseguito risultati. Hanno contribuito a distruggere parte del programma nucleare iraniano e soprattutto a colpire il sito iper-fortificato di Fordow, mostrando l’impressionante capacità di fuoco della bunker buster, la ormai famosa GBU-57. Dimostrandosi pronti all’uso della forza e allo stesso tempo optando per un attacco mirato, hanno intimorito gli iraniani e rassicurato gli israeliani in misura sufficiente da indurli ad accettare una tregua, ponendosi come pacificatori.
Lo stesso Iran può dire di uscire dal conflitto ferito ma non sconfitto. Dopotutto, ha resistito alla pesante aggressione da parte della prima potenza militare della regione e della maggiore potenza del mondo. Ha ristabilito rapidamente la catena di comando avviando la risposta militare contro Israele, sparando missili fino a pochi minuti prima della tregua (e forse dopo). Ha attaccato la più grande base militare americana del Golfo costringendone l’evacuazione anticipata. E la Repubblica islamica sembra essere rimasta in controllo, godendo anzi di un condizionato appoggio popolare nella difesa della nazione.
Quando tutte le parti in causa in un conflitto ritengono di aver ottenuto qualcosa, emergono le condizioni perché una tregua si trasformi in pace duratura. Purtroppo non è necessariamente questo il caso della guerra in questione. Infatti, se è vero che tutti hanno ottenuto qualcosa, è altrettanto vero che nessuno può dirsi pienamente soddisfatto, e questo apre anche a uno scenario di ripresa delle ostilità.
Tutti sconfittiIsraele ha danneggiato ma non distrutto il programma nucleare iraniano. Similmente, ha ridimensionato ma non eliminato la capacità balistica iraniana. Ha mostrato che la sua sfolgorante campagna militare ha problemi di sostenibilità, visti gli immensi costi in termini di mezzi e fondi dello sforzo di difesa antimissile e di bombardamenti a lunga distanza. Nonostante il numero contenuto di vittime civili, ha visto le sue città sotto una pioggia di missili che hanno prodotto ingenti danni materiali. Pur avendo ottenuto la partecipazione americana e portato gli europei ad allinearsi, ha dato un ulteriore colpo alla sua vacillante reputazione per aver aggredito uno stato in assenza di minaccia imminente, e ha alimentato la percezione di aver affrettato un attacco anche per sviare l’attenzione dalla distruzione di Gaza. Soprattutto Israele non ha ottenuto quello che aveva ammesso essere il suo obiettivo, ovvero destabilizzare la Repubblica islamica e favorire le condizioni per un potenziale cambio di regime.
Dal canto suo, l’amministrazione Trump si è fatta cogliere di sorpresa dall’attacco israeliano, e ha dovuto reagire piuttosto che plasmare gli eventi. Per sua stessa ammissione, l’amministrazione non sa che fine abbia fatto l’uranio arricchito che potenzialmente potrebbe trasformarsi in materiale fissile per 8-9 bombe, e che era stato indicato dal governo israeliano come la causa più prossima a giustificazione dell’attacco. Il programma nucleare iraniano è seriamente ridimensionato, ma è anche diventato molto più opaco. Oggi l’Iran ha più motivi per cercare la bomba di quanti ne avesse prima dell’attacco israeliano a cui gli americani si sono uniti. Infine, gli Stati Uniti hanno cercato una tregua, non la resa incondizionata che Trump aveva in precedenza vagheggiato.
Senz’altro sconfitto è anche l’Iran, che non ha saputo proteggere il simbolo dell’orgoglio nazionale e della resistenza antiamericana, quel programma nucleare costato centinaia di miliardi di dollari in costi diretti e molti di più in costi indiretti per effetto delle sanzioni. L’Iran ha subito l’umiliazione di vedere i suoi vertici militari uccisi nelle loro case e la sua organizzazione di intelligence penetrata con facilità da quella israeliana. E per quanto l’attacco israeliano abbia generato un effetto di ricompattamento della popolazione a difesa della nazione, questo supporto non si è trasferito sulla Repubblica islamica. Anzi, l’attacco israeliano ha reciso un altro elemento del patto sociale fra Repubblica islamica e popolazione, ovvero la garanzia di stabilità che il governo iraniano aveva assicurato in un venticinquennio in cui il resto della regione è ripetutamente sprofondato in conflitti.
Futuro incertoNon è da escludere che la tregua riapra la strada alla gestione diplomatica della disputa nucleare tra USA e Iran che l’attacco israeliano ha interrotto. L’Iran dovrebbe offrire massima trasparenza all’agenzia Onu per l’energia atomica e accettare severi limiti a un programma già ridimensionato. In cambio, otterrebbe di mantenere una capacità nucleare autoctona e un forte allentamento delle sanzioni.
Ma è altrettanto verosimile, forse più probabile, che la tregua sia il preludio a una ripresa del conflitto. Se le parti restano su posizioni massimaliste – gli Usa insistendo sullo smantellamento del programma nucleare e sul ridimensionamento di quello balistico, l’Iran refrattario a rinunciare all’arricchimento dell’uranio – la diplomazia non farà strada. Al contrario, servirà solo a dare modo a Israele di preparare un nuovo attacco e all’Iran tempo per ricostituire parte delle sue difese aeree e capacità balistiche.
Al momento di scrivere, Israele già lamenta una presunta violazione iraniana di una tregua che potrebbe durare meno di un giorno. Se così fosse, l’annuncio della tregua da parte di Trump in un tweet con tanto di firma presidenziale non farebbe che dare una tonalità surreale e farsesca al dramma in corso.
La guerra in Medioriente e il vertice Nato
Alessandro Marrone, responsabile del programma Difesa, Sicurezza e Spazio dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuto a Spazio Transnazionale, la trasmissione di Radio Radicale condotta da Francesco De Leo. Marrone ha analizzato gli ultimi sviluppi in Medio Oriente dal punto di vista militare, soffermandosi in particolare sulla risposta iraniana all’attacco statunitense. Ha inoltre affrontato i temi legati alla NATO, con un focus sul vertice dell’Aia, e ha commentato l’aumento delle spese militari in Europa, inclusa la crescita della spesa per la Difesa in Italia.
La risposta iraniana e il cessate il fuoco con Israele
Maria Luisa Fantappiè, responsabile del Programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuta a Spazio Transnazionale, la trasmissione di Radio Radicale condotta da Francesco De Leo. Fantappiè ha commentato gli ultimi sviluppi in Medio Oriente, soffermandosi in particolare sulla risposta iraniana all’attacco statunitense contro le centrali nucleari del Paese. Una risposta di natura simbolica, rappresentata da un attacco – preannunciato e senza vittime – contro una base americana in Qatar. Fantappiè ha inoltre analizzato i contorni dell’accordo temporaneo di cessate il fuoco tra Israele e Iran.
Attacco USA agli impianti nucleari iraniani e la minaccia iraniana di ritiro dal TNP
Ettore Greco, vicepresidente vicario dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuto a Spazio Transnazionale, la trasmissione di Radio Radicale condotta da Francesco De Leo. Greco ha analizzato l’attacco statunitense contro gli impianti nucleari iraniani e la conseguente minaccia di Teheran di ritirarsi dal Trattato di non proliferazione nucleare (TNP).
L’attacco USA all’Iran e le possibili risposte iraniane
Maria Luisa Fantappiè, responsabile del Programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuta a Spazio Transnazionale, la trasmissione di Radio Radicale condotta da Francesco De Leo. Fantappiè ha definito l’attacco statunitense contro l’Iran una forma di diplomazia coercitiva, volta a spingere Teheran verso una resa totale. Ha poi analizzato le possibili opzioni di risposta iraniana, in un contesto regionale segnato da crescente instabilità.
La mancanza di una cultura della difesa e della sicurezza
È difficile negare che nel nostro Paese si sia sempre lasciata in secondo piano la costruzione di una cultura della difesa e della sicurezza. La reazione alle illusioni indotte dalla faciloneria del regime fascista, che presentava l’Italia come potenza militare (smascherate dalle ripetute sconfitte su tutti i fronti, dall’occupazione tedesca, dai bombardamenti alleati), ha contribuito a spingere nel dopoguerra la nostra opinione pubblica verso altre illusioni: quella di poter vivere in eterno sotto la protezione convenzionale e nucleare dell’alleato americano e in un nuovo mondo in cui le guerre, al massimo, avrebbero continuato a svolgersi in altri continenti.
Questa convinzione è stata ben evidenziata dall’atteggiamento verso la partecipazione italiana alla NATO dei due maggiori partiti di opposizione (a sinistra e a destra): ideologicamente contrari, soprattutto all’inizio, ma sostanzialmente consapevoli che ci si poteva sentire più sicuri dentro che fuori.
Con la fine della Guerra Fredda, per un decennio ha imperato il dibattito sul “dividendo della pace”, anche se, non avendo precedentemente investito nel settore militare, non c’erano profitti, ma solo debiti e carenze da soddisfare. Poi, con l’arrivo delle guerre ibride, la scarsa attenzione della nostra opinione pubblica si è spostata sulle “missioni di pace”, sempre presentate in chiave buonista per non urtare il “pacifismo” così radicato nell’area cattolica, in quella populista e in quella di sinistra (sia storica che movimentista).
Nemmeno la prima vera guerra combattuta, quella in Afghanistan, è riuscita a scalfire l’atteggiamento di serena tranquillità regnante nel nostro Paese. E non lo ha fatto nemmeno l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014.
L’obiettivo del 2% del PIL per a difesaCon l’annessione della Crimea è arrivata la conseguente decisione dell’Alleanza Atlantica nel 2014 di rafforzare le sue capacità di difesa, fissando l’obiettivo di investirvi almeno il 2% del PIL entro dieci anni. Tornati a Roma dopo quel vertice, i nostri governanti se ne sono dimenticati, salvo ribadire il nostro impegno nei dieci vertici successivi da parte dei Presidenti del Consiglio, dei Ministri degli Affari Esteri e della Difesa “pro-tempore”, ma senza poi fare nulla per mettere in pratica questa decisione.
Il “mantra” politico dei 6 Governi che si sono succeduti in questo decennio (Renzi, Conte 1, Conte 2, Gentiloni, Draghi, Meloni) è sempre stato: non ci sono sufficienti risorse finanziarie e, in ogni caso, non si possono trovare a discapito delle spese sociali. Il sottinteso, sempre condiviso, è che, altrimenti, si sarebbe rischiato di perdere consenso elettorale. E, per parere unanime dei nostri decisori politici, non si poteva aumentare il debito pubblico perché si sarebbero sforati i parametri del Patto di Stabilità e Crescita (per altro non imposti da qualche “gnomo” nascosto nell’ombra, ma discussi e approvati dall’Italia nel quadro dell’Unione Europea).
Ne è conseguita una costante richiesta italiana di escluderne le spese militari (in parte, secondo i governi di centro-sinistra, e del tutto, con il governo di centro destra). Ora, avendo la Commissione Europea accettato lo scorporo nell’ambito del programma ReArm Europe, almeno per il prossimo triennio, ci si accorge che in seguito bisognerà, però, rimettere i conti in ordine e che, comunque, un aumento del debito pubblico inciderebbe sul suo tasso di interesse. Di qui la tiepida, se non fredda, iniziale accoglienza italiana.
Il risultato dell’impegno, solennemente sottoscritto in sede NATO e confermato in sede europea, è che se nel 2014 spendevamo (secondo i criteri NATO concordati fra tutti i Paesi alleati) l’1,14%, nel 2024 siamo saliti all’1,49% con un incremento medio annuo dello 0,03%. Con questo ritmo l’obiettivo del 2% verrebbe, quindi, raggiunto intorno al 2041, con soli 17 anni di ritardo.
Una costante della storia italianaNella storia della Repubblica non ci sono state molte scelte bipartisan, ma quella di non investire nelle spese per la difesa e la sicurezza è sicuramente in vetta alla classifica. Nonostante i 68 governi nei 79 anni della Repubblica, con tutti i partiti coinvolti (anche se chi più e chi meno) il copione sul tema è sempre rimasto lo stesso: criticare quando si sta all’opposizione e non fare nulla una volta arrivati al governo.
Non ci si può, quindi, meravigliare se manca nel nostro Paese una cultura della difesa e della sicurezza. Lo dimostrano i risultati di alcuni sondaggi di opinione: lo scorso anno il 75% degli italiani si dichiarava contrario a ogni strategia di riarmo; quest’anno il 34% vorrebbe mantenere l’attuale livello di spesa, il 23% lo vorrebbe abbassare e solo il 33% è favorevole a un aumento degli investimenti in difesa; alla domanda se sarebbero disposti a impugnare le armi per difendere i confini nazionali, il 78% degli intervistati italiani ha risposto negativamente.
Eppure l’attuale Governo, e, in particolare, il Ministro della Difesa Crosetto (col supporto della Presidente del Consiglio Meloni), si sta impegnando come mai in passato nel comunicare alla nostra opinione pubblica che la ricreazione è finita e che lo scenario internazionale sta diventando sempre più pericoloso e minaccia la nostra libertà e autonomia e conseguentemente il nostro modo di vivere e il nostro sviluppo economico e sociale. Ma, purtroppo, questo non basta e, comunque, richiede un tempo che non è compatibile con le scelte che devono essere fatte oggi, non domani e tanto meno dopodomani.
C’è stata un’occasione unica nella nostra recente storia subito dopo l’attacco russo all’Ucraina nel febbraio 2022, ma, purtroppo, la legislatura stava finendo e non si è riusciti a coglierla. La sorpresa e la condanna unanime da parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche hanno portato il 16 marzo 2022 all’approvazione a stragrande maggioranza da parte della Camera dei Deputati di un Ordine del Giorno proposto da un deputato della Lega e co-firmato da parlamentari del M5S, PD, FI, IV e FDI in cui “si impegna il Governo ad avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2 per cento del PIL, dando concretezza a quanto affermato alla Camera dal Presidente del Consiglio il 1° marzo scorso e predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione, a tutela degli interessi nazionali …”.
È quasi incredibile che solo tre anni fa anche quelli che oggi contrastano l’aumento delle spese militari (a livello europeo e nazionale) la pensavano diversamente e che tutti riconoscevano apertamente che fino ad allora avevamo evidentemente dimenticato gli impegni internazionali assunti nel 2014.
Bisogna ancora una volta prendere atto che l’illusione pacifista è così radicata nel nostro Paese da non riconoscere l’evidenza dei fatti, come l’esplodere di nuove guerre nelle aree più vicine all’Europa. Troppi italiani non sembrano voler riconoscere che nella nuova era in cui viviamo gli impegni e i trattati internazionali sembrano essere considerati apertamente carta straccia anche dal nostro alleato americano, oltre che da Russia e Israele (ma vi sono anche altri Paesi che lo hanno fatto senza ammetterlo, fornendo finanziamenti e armi a regimi impresentabili e milizie irregolari).
Le nuove regole sono basate sulla forza (economica e, inevitabilmente, militare) e non sul diritto, come conferma anche la crisi di tutti gli strumenti internazionali costruiti in questi ultimi settantacinque anni per gestire le diverse criticità di un mondo sempre più complesso. È evidente che, in alcuni casi per ragioni ideali e, in altri, per ragioni biecamente elettorali, molte forze politiche cavalcano e stimolano le comprensibili preoccupazioni di un’opinione pubblica disinformata e impreparata.
Una strategia nazionale per formare e informarePer questo sarebbe così importante definire e mettere in campo una forte azione di informazione e formazione della nostra opinione pubblica che coinvolga l’intero Governo e non solo il Ministro della Difesa e, insieme, tutte le Istituzioni dello Stato, compreso il Parlamento e la Presidenza della Repubblica.
In quest’ottica un ruolo importante potrebbe essere svolto dal CASD-Centro Alti Studi per la Difesa e dagli Istituti di studio delle Forze Armate nell’ambito universitario e dalle Accademie nell’ambito delle scuole superiori. Analogamente il Consiglio Supremo di Difesa potrebbe favorire, con la sua autorevolezza, la crescita della consapevolezza in alcuni settori istituzionali, a partire dalle altre Amministrazioni pubbliche che vi sono coinvolte.
Essendo questo un problema nazionale, e solo parzialmente della Difesa, sarebbe opportuno che il coordinamento della definizione e dell’esecuzione di una simile strategia complessiva fosse gestito dalla Presidenza del Consiglio in un’ottica bipartisan, rendendo così evidente l’importanza che le viene attribuita e sfruttando l’autorevolezza di questa Istituzione.
Una particolare attenzione dovrebbe essere dedicata al mondo giovanile (utilizzando anche le modalità e gli strumenti più adatti), al mondo dell’informazione (utilizzando meglio le professionalità già disponibili) e a quello dei Think Tank (che in tutti i Paesi moderni, grazie alla loro “terzietà”, svolgono un importante compito di studio e informazione).
Certo, sarebbe necessaria anche la disponibilità per lo meno della parte più responsabile dell’opposizione nella consapevolezza che, se potesse diventare maggioranza, si troverebbe a dover compiere le stesse scelte che oggi devono necessariamente essere fatte dagli attuali Governo e Parlamento. È un percorso inevitabilmente lungo, ma non vi sono scorciatoie. In futuro una maggiore consapevolezza su questo tema servirà ancora più di oggi.