

Le elezioni albanesi: tra continuità politica e relazioni internazionali
L’Albania ha deciso di confermare la fiducia al Partito Socialista di Edi Rama domenica 11 maggio, nel giorno in cui il Giro d’Italia concludeva la terza tappa, l’ultima in territorio “shqipetaro”.
Un passaggio di borraccia simbolico tra i leader dei due Paesi? Certamente si è trattato di un’altra tappa del tandem Rama-Meloni che a Tirana, qualche giorno dopo, ha tagliato il traguardo suggellato dall’inchino con cui il premier albanese ha accolto la presidente del consiglio italiana.
Il sistema elettorale albaneseIl sistema elettorale albanese è basato su un meccanismo proporzionale plurinominale e i candidati sono distribuiti in collegi elettorali corrispondenti alle prefetture locali.
Il Parlamento albanese è composto da 140 deputati che, a seguito delle ultime elezioni, risultano così distribuiti:
- 83 seggi al Partito Socialista
- 50 seggi al Partito Democratico
- 3 seggi al Partito Socialista Democratico
- 2 seggi al Partito ‘Opportunità’ (Mundësia)
- 1 seggio al partito Iniziativa albanese (NISA SH)
- 1 seggio al partito Coalizione Insieme (Levizha Bashkë)
Il Partito Socialista, erede del PPSH (il Partito del Lavoro di Albania), negli anni ha avuto due leader che potremmo definire dei re laici: lo storico Fatos Nano e l’attuale (ma ormai storico pure lui) Edi Rama.
Il Partito Democratico, nato come primo movimento che nel 1991 sfidò nelle prime elezioni libere il partito unico del regime comunista, ha poi conteso in alternanza con i socialisti la guida del Paese, rappresentata sostanzialmente sempre da Sali Berisha.
Gli altri partiti presenti in parlamento sono numericamente irrilevanti e presentano sfumature per differenziarsi tanto a destra (Iniziativa albanese) quanto a sinistra (Coalizione Insieme; Partito Socialista Democratico albanese).
Negli ultimi trent’anni in Albania c’è chi sostiene che ci sia stata un’alternanza e chi ritiene che in realtà si sia trattata di una diarchia. I numeri dimostrano che gli altri partiti rimangono ai margini ed è molto difficile uscire dalla “coppia” PS-PD.
Tra acclamazioni e criticheNell’analizzare le elezioni, importanti analisti albanesi hanno concentrato l’attenzione su fattori esterni e interni.
Il fattore esterno riguarda la credibilità che Rama ha presso la comunità internazionale. Le congratulazioni ricevute “valgono più di un rapporto dell’OSCE perché il suo operato è perfettamente in linea con i loro standard”.
Tuttavia non bisogna dare esclusiva importanza ai fattori esterni, altrimenti si perde di vista la portata generale del problema: il Partito Democratico dai primi conteggi ha perso circa 180mila voti.
C’è chi non ne fa soltanto una questione di numeri, ma analizza come questi si traducano nel 52% dei voti che si è tramutato in 83 su 140 seggi. Ciò significa, secondo gli osservatori pro-PD, che “chi minaccia la democrazia, la rappresentanza e il normale funzionamento di un’opposizione è questo sistema elettorale”, che anche il PD ha accettato negli ultimi anni con l’incapacità politica di vedere il gioco che l’altra squadra stava facendo per assicurarsi una facile vittoria.
Dal 2005 a oggi, il Partito Democratico ha ottenuto all’incirca lo stesso numero di voti, ma nel 2005 i seggi erano più degli attuali 50. Questo sistema è stato ovviamente al centro della contestazione degli sconfitti.
Le elezioni albanesi viste dal KosovoIn Kosovo hanno fatto notare che questa volta il premier Albin Kurti non è intervenuto nelle elezioni in Albania, “perché ha ricevuto pressioni internazionali”.
Molti in Kosovo pensano che il Primo Ministro Kurti, ma in generale tutti i partiti, dovrebbe essere cauto sul ruolo del suo partito Vetëvendosje in Albania, e non solo da una prospettiva elettorale.
Se i partiti albanesi aprono sedi distaccate in Kosovo e viceversa, il risultato può essere l’unità o l’assorbimento di un partito nell’altro, ma entrambe le ipotesi non sono facilmente gestibili.
In ogni caso, sostengono da Pristina, c’è un ulteriore motivo per cui questa volta non è intervenuto: non c’è un forte sostegno per nessuno dei partiti politici albanesi.
L’atteggiamento effettivamente tenuto si è rivelato saggio, in un momento in cui il clima generale nei Balcani è teso, risultando prudente non rischiare “invasioni di campo”.
Le elezioni albanesi viste dalla GreciaIn Grecia c’è chi ha sottolineato come la vittoria sia soprattutto di Edi Rama (ormai un tutt’uno con il PS) che si avvia a diventare un po’ l’Orban dei Balcani. La sua vittoria rende l’Albania, almeno sulla carta, un paese politicamente stabile, ma a quale prezzo?
Su questa linea, e non proprio come complimento, si è espresso l’europarlamentare greco Fredi Beleri, cittadino albanese appartenente alla minoranza greca e già candidato sindaco al comune di Hymara. Beleri è stato in prigione con l’accusa di voto di scambio secondo gli albanesi, per motivi politici secondo le autorità greche. “In queste elezioni ci siamo resi conto che ci sono ancora molti passi da compiere, affinché la democrazia in Albania possa crescere”, ha affermato l’eurodeputato dopo i risultati.
Va detto però che, al di là di quanto accaduto due anni fa, i rapporti tra Tirana e Atene sono ispirati a un sano pragmatismo di buon vicinato.
L’Albania al Summit della Comunità Politica EuropeaIl Summit della Comunità Politica Europea del 16 maggio ospitato dall’Albania ha visto Rama protagonista come padrone di casa e trionfatore. Nel suo discorso ha sottolineato che l’Unione Europea gli ha insegnato che anche ex nemici possono unirsi “anche con ferite aperte dalla guerra e creare un legame”. I riferimenti interni (l’eterna rivalità con Sali Berisha) ed esterni (erano presenti BiH, Kosovo, Serbia) non mancavano.
Secondo Rama l’Europa è un luogo tanto spiritualmente condiviso quanto un mosaico di diverse lingue e religioni, per questo rappresenta il presupposto ideale per una pace duratura.
L’arte della politica consiste spesso nello spostare l’attenzione sulla scena internazionale per distrarla dai temi interni, e i Balcani non fanno eccezione. Da tempo non si parla delle proteste in Grecia, Serbia, Macedonia del Nord, nella stessa Albania o della crisi istituzionale che attraversa la Bosnia ed Erzegovina.
L’accordo bilaterale Italia-Albania sul riconoscimento delle pensioniIl 16 maggio stesso, a Tirana, il primo ministro italiano Giorgia Meloni ha consegnato il documento finale sull’attuazione dell’accordo bilaterale sul riconoscimento delle pensioni tra Italia e Albania, che entrerà in vigore il 1° giugno 2025.
Edi Rama, da politico navigato, ne ha fatto una bandiera da sventolare insieme alla sua “sorella”, come chiama da tempo la sua omologa italiana.
Da più di cento anni il contesto geopolitico avvicina i destini di Albania e Italia: nel 1915 con la campagna di Albania, dal 1939 al 1945 con la Corona di Albania offerta all’Italia, e poi negli anni Novanta quando l’Italia era diventata “Lamerica” raccontata nel film di Gianni Amelio. Chissà quali saranno i prossimi episodi che la sceneggiatura politica scriverà.
Soluzioni per la crisi del debito nei Paesi a medio e basso reddito
Il Presidente Paolo Gentiloni è intervenuto a Radio Radicale nella trasmissione Spazio Transnazionale, condotto da Francesco De Leo, per commentare le possibili soluzioni alla crisi del debito dei paesi a medio e basso reddito, analizzando le situazioni attuali di questi paesi e le prospettive per l’alleggerimento del debito.
60° anniversario IAI al Quirinale: le riflessioni dell’Amb. Michele Valensise
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto in udienza ieri, 22 maggio 2025, i dirigenti e i ricercatori dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), in occasione del 60° anniversario della fondazione dell’Istituto, avvenuta nel 1965 per iniziativa di Altiero Spinelli.
In seguito all’incontro al Quirinale, l’Ambasciatore Michele Valensise, Presidente dello IAI, è intervenuto a Spazio Transnazionale, la trasmissione condotta da Francesco De Leo su Radio Radicale, per raccontare i momenti salienti dell’udienza e per offrire una riflessione sulle sfide e sulle difficoltà che l’Unione europea si trova ad affrontare in questa fase storica.
Il complesso allargamento europeo verso i Balcani
L’invasione russa dell’Ucraina ha spinto l’Unione Europea ad agire in diversi ambiti: da una maggior diversificazione dell’approvvigionamento energetico alla definizione di un massiccio piano di investimenti in difesa. Nel contempo, le mire espansionistiche di Putin — unite ai tentativi della Cina di espandere la sua sfera di influenza — hanno riportato in primo piano il tema dell’allargamento dell’UE, in particolare verso i Paesi dei Balcani occidentali. L’apertura di Bruxelles verso queste nazioni, da tempo candidate a divenire parte dell’UE, continua però a palesare degli elementi critici che, allo stato attuale, rendono ardua un’accelerazione del loro processo di integrazione nell’Unione.
Queste problematiche, in larga parte, sono legate alla situazione politico-istituzionale dell’area, che si è fatta negli ultimi anni più complessa, con massicce proteste di piazza, aspri scontri tra poteri dello Stato e rinnovate tensioni tra diverse etnie. In questo contesto appare particolarmente problematica la situazione della Bosnia-Erzegovina, Paese che continua a vivere sulla base del precario equilibrio stabilito dagli Accordi di Dayton del 1995. Qui, da anni, i vertici della Repubblica Srpska contestano l’ordine costituzionale definito su base internazionale e portano avanti un’agenda indirizzata a separare la componente serbo-bosniaca dal resto del Paese. Gli atti di aperta sfida all’assetto costituzionale sono stati negli ultimi mesi di tale gravità da indurre la magistratura di Sarajevo a spiccare un (finora inefficace) mandato d’arresto nei confronti dei leader della Repubblica Srpska: il Presidente Dodik, il Primo Ministro Viskovic e il Presidente del Parlamento, Nenad Stevandic. Una secessione appare improbabile — vista anche la condanna delle azioni dell’esecutivo della Repubblica Srpska da parte dell’amministrazione Trump — ma una Bosnia ancora frammentata e dalla sovranità limitata non ha dinanzi a sé una prospettiva di accesso all’Unione Europea in tempi brevi. Particolare attenzione merita anche la situazione della Serbia. Sotto la presidenza di Aleksandar Vučić, Belgrado ha mantenuto solide relazioni con la Russia e non ha compiuto passi significativi verso un autentico sistema liberaldemocratico capace di garantire la tutela dei diritti fondamentali della persona e dello stato di diritto. Le ampie proteste degli ultimi mesi a seguito del crollo di una pensilina nella stazione ferroviaria di Novi Sad — incidente che ha causato la morte di 15 persone e che è stato visto come emblematico del malfunzionamento dell’amministrazione pubblica — hanno aperto una frattura senza precedenti nel rapporto tra il leader del Partito Progressista Serbo e la cittadinanza. Tuttavia, assumere che questo possa aprire la strada a un più stretto legame tra Belgrado e Bruxelles appare, al momento, eccessivamente ottimistico.
Anche dal lato dell’Unione Europea ci sono però elementi che non facilitano l’avvicinamento alla regione balcanica. In primo luogo, i 27 Paesi membri — che devono deliberare all’unanimità l’accesso di uno Stato nell’UE e poi ratificarlo a livello nazionale — attribuiscono diversi gradi di rilevanza all’integrazione dell’area: alcuni, come Germania e Paesi Bassi, spingono verso un rapido percorso di integrazione, altri, come Bulgaria e Grecia, frenano, anche per dispute storiche. In secondo luogo, sussistono legittime preoccupazioni in merito al funzionamento delle istituzioni e dei meccanismi decisionali euro-unitari. Un ingresso accelerato di questi Paesi nell’UE al fine di includerli rapidamente nella sfera di influenza comunitaria aumenterebbe infatti il rischio di portare all’interno della casa europea degli Stati istituzionalmente fragili (come avvenuto nel caso di altre nazioni dell’est) che, su dossier fondamentali, potrebbero ad esempio esercitare un deleterio potere di veto, vista la perdurante esistenza su molte materie del requisito dell’unanimità.
Alcuni Stati della regione, come Albania e Montenegro — già membri della NATO e politicamente più stabili rispetto a quelli sopra menzionati — potrebbero anche nel breve-medio periodo riuscire ad accedere all’UE ma, per altri, questa strada sembra, almeno per il momento, difficilmente percorribile. Ecco, dunque, che sui Balcani occidentali, come su altre aree, torna inevitabilmente in rilievo il dibattito su altri modi con cui l’Unione Europea potrebbe cercare di allargare la propria sfera di influenza. È l’ingresso nella (attuale) UE l’opzione più valida per perseguire questo obiettivo?
La proposta di dar vita a un’Europa a cerchi concentrici, caratterizzata da diversi livelli di integrazione, potrebbe rappresentare una valida soluzione alternativa: in quest’ottica, gli Stati più istituzionalmente (ed economicamente) “avanzati” potrebbero procedere con un’integrazione sempre più federale, mentre gli altri, almeno temporaneamente, sarebbero coinvolti in una cornice istituzionale più affine al modello confederale. Questa possibile riforma del progetto di integrazione europea — sostenuta, fra gli altri, dal presidente francese Emmanuel Macron — stenta però a decollare e, per ora, neppure l’invasione russa dell’Ucraina è riuscita a darle una particolare spinta propulsiva. Chissà se la nuova leadership tedesca, unita a un rinnovato asse Parigi-Berlino, riuscianno però a mettere (finalmente) la questione sul tavolo delle cancellerie europee.
L’articolo è stato elaborato nell’ambito di “Focus Geofinanza. Osservatorio IAI-Intesa Sanpaolo sulla geofinanza
Oltre il bluff: dentro la macchina tariffaria trumpiana
Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump ha inaugurato una nuova fase basata sul protezionismo. Fedele alla dottrina dell’America First, la Casa Bianca ha rilanciato l’uso delle tariffe doganali come strumento di politica estera ed economica. In pochi mesi, gli Stati Uniti hanno imposto dazi su centinaia di miliardi di dollari di beni importati, colpendo tanto i rivali sistemici come la Cina quanto gli alleati storici come l’Unione Europea e il Regno Unito. Un ritorno alle politiche di un secolo fa che, la Storia insegna, rischiano di creare più danni che altro.
La nuova dottrina tariffaria statunitenseIl 2 aprile 2025, il presidente Trump ha annunciato l’imposizione di dazi generalizzati su tutte le importazioni, con un’aliquota base del 10 per cento e incrementi fino al 50 per cento per alcuni partner. La misura, battezzata Liberation Day Tariffs, ha interessato 180 Paesi ed è stata giustificata sulla base del principio dei reciprocal tariffs: gli Stati Uniti imporranno dazi proporzionati a quelli “applicati” dagli altri Paesi sui beni americani, secondo una fantasiosa formula che considera il disavanzo commerciale con il Paese interessato come un dazio applicato alle importazioni da quest’ultimo. Occorre qui fare una prima precisazione: a differenza di quanto sostenuto da Trump, quindi, non sono dazi reciproci, ma dazi punitivi.
Tra le entità più colpite: la Cina (34 per cento), l’Unione Europea (20 per cento), il Giappone (24 per cento). Solo la Russia è stata esentata. Gli effetti sono stati immediati: i mercati finanziari hanno reagito in maniera molto negativa, con un crollo che nemmeno Trump ha potuto ignorare.
La risposta della Cina: escalation e tregua temporaneaLa Repubblica Popolare Cinese ha reagito in modo deciso. A partire dal 10 aprile, Pechino ha aumentato i dazi su un ampio paniere di prodotti statunitensi, portando l’aliquota media dal 34 per cento fino all’84 per cento. Tra i settori più colpiti: agroalimentare, tecnologia, automotive.
Oltre ai dazi, la Cina ha attivato misure non tariffarie, limitando l’esportazione di terre rare e inserendo oltre quaranta aziende americane nella lista delle “entità inaffidabili”. La tensione ha portato a un’escalation che ha rischiato di sfociare in una vera guerra commerciale. Il 12 maggio, però, grazie a una mediazione dell’Organizzazione mondiale del commercio a Ginevra, le due potenze hanno raggiunto un accordo temporaneo: sospensione dei dazi per novanta giorni e istituzione di un tavolo bilaterale per la rinegoziazione delle relazioni economiche.
Tuttavia, l’accordo sembra poco più che un cessate il fuoco simbolico. Le tariffe su settori strategici restano, e il campo di gioco è tutt’altro che stabilizzato. Pechino ha concesso molto meno rispetto al precedente accordo firmato nel 2020 e non ha dato alcun segnale di voler allinearsi alle richieste americane in materia di sovvenzioni industriali, tutela della proprietà intellettuale o accesso al mercato.
A conferma della distanza tra retorica diplomatica e realtà, il 18 maggio la Cina ha introdotto nuovi dazi antidumping fino al 74,9 per cento su alcune materie plastiche importate da Stati Uniti, Unione Europea, Giappone e Taiwan. Si tratta di copolimeri di poliossimetilene, materiali utilizzati nell’automotive e nell’elettronica in sostituzione dei metalli, considerati strategici in numerose filiere. Secondo Pechino, un’indagine avviata nel 2024 ha confermato pratiche di dumping da parte di Washington e Bruxelles, giustificando così l’introduzione delle tariffe. La notizia è stata confermata da Reuters, che ha riportato anche le differenze tra i Paesi colpiti: massimo impatto per gli Stati Uniti, aliquote più contenute per Taiwan e alcune imprese giapponesi.
Le contromisure dell’Unione EuropeaAnche Bruxelles ha reagito all’offensiva statunitense. In aprile, la Commissione Europea ha varato un pacchetto di dazi compensativi tra il 10%e il 25%su prodotti iconici americani: jeans, motociclette, bourbon, carne bovina. In parallelo, sono state rafforzate le misure a tutela degli standard ambientali e sanitari europei contro l’ingresso di merci statunitensi non conformi.
Il 10 maggio, tuttavia, l’UE ha bloccato temporaneamente le sue contromisure, in seguito alla decisione americana di sospendere i dazi nei confronti di alcuni partner strategici. Questa tregua potrebbe essere solo temporanea, in attesa di sviluppi più strutturali, ma la sensazione a Bruxelles è che si tratti di una mossa tattica americana per dividere il fronte multilaterale e aumentare la pressione su singoli Stati membri.
L’accordo selettivo con il Regno UnitoIn un contesto di tensione diffusa, l’amministrazione Trump ha portato a termine un’intesa commerciale con il Regno Unito. L’8 maggio 2025 è stato annunciato lo US-UK Economic Prosperity Deal, che prevede l’accesso preferenziale per le esportazioni britanniche di auto, acciaio e prodotti farmaceutici, le concessioni britanniche su carne bovina ed etanolo americani e la creazione di un meccanismo di consultazione permanente sulle barriere non tariffarie.
Nonostante il tono celebrativo, l’accordo è stato accolto con scetticismo sia a Londra che a Bruxelles, mentre la Cina ha criticato apertamente l’intesa, accusando Washington di voler sabotare le relazioni economiche sino-britanniche. Sebbene presentato come risolutivo, l’accordo non scioglie i nodi relativi ai servizi finanziari, alla regolamentazione digitale e alla gestione delle certificazioni, che restano le vere partite economiche tra USA e UK.
Implicazioni globali e scenari futuriL’escalation tariffaria americana ha accelerato la frammentazione del commercio globale, incentivando la regionalizzazione delle catene del valore. Le imprese multinazionali, colpite dall’incertezza, stanno riconsiderando le proprie strategie di approvvigionamento e investimento, con serie ricadute per le supply chain in tutto il mondo.
Un aspetto spesso trascurato riguarda il ritardo fisiologico con cui le tariffe producono effetti concreti sull’economia reale. Fino a quando le scorte preesistenti a magazzino non si esauriscono, le imprese possono tamponare l’impatto dei rincari. Solo nei mesi successivi, quando le importazioni soggette ai nuovi dazi iniziano a sostituire i vecchi stock, le conseguenze diventano tangibili: prezzi più alti, margini più stretti, inflazione in risalita. Chi si aspettava conseguenze immediate deve aspettare ancora un po’, mentre chi ha visto nella – per ora – mancata esplosione dell’inflazione una supposta dimostrazione che i dazi funzionano, si dovrà presto ricredere: prima si dà fondo alle scorte, poi arriva l’inflazione e, infine, le conseguenze sulle vite di milioni di americani che a tutt’oggi vivono paycheck to paycheck, da stipendio a stipendio, senza nessun tipo di cuscinetto economico per far fronte all’aumento dei prezzi. Una lettura confermata anche da un’analisi di Bloomberg, che ha sottolineato come gli effetti delle tariffe imposte nel 2018 abbiano impiegato mesi prima di trasmettersi ai prezzi al consumo.
Quello che rimane sul piatto è un teatro retorico. L’obiettivo finale di Trump non è tanto l’applicazione letterale dei dazi più alti, quanto la costruzione di uno scenario negoziale deformato in cui diventa plausibile accettare condizioni altrimenti irricevibili. Il resto è rumore di fondo, pensato per stordire e negoziare dalla posizione più aggressiva. Un metodo che Trump ha mutuato dalla sua attività da immobiliarista.
Allo stesso tempo, il sistema multilaterale del commercio, incarnato dall’OMC, appare sempre più marginalizzato. Le politiche unilaterali di Washington spingono le altre potenze a privilegiare accordi bilaterali o regionali, riducendo la capacità del diritto internazionale di governare i flussi commerciali.
L’endgame di TrumpLa strategia tariffaria dell’amministrazione Trump rappresenta una sfida sistemica all’ordine economico liberale costruito nel secondo dopoguerra. Se da un lato essa risponde a pressioni interne legate alla deindustrializzazione e alla concorrenza cinese, dall’altro rischia di alimentare una spirale protezionistica che potrebbe danneggiare più di chiunque altro l’economia statunitense.
Nonostante l’enfasi mediatica sulle tariffe iperboliche – il 145 per cento sulle auto cinesi, ad esempio – l’obiettivo reale di Trump non è tanto la loro applicazione quanto la costruzione di una cornice negoziale. Escalate to de-escalate, come direbbero i diplomatici strategici: sparare alto per far accettare una condizione che, di per sé, causerebbe una levata di scudi. L’architettura finale lascia quindi intravedere il vero obiettivo: un dazio del 10 per cento universale su tutte le importazioni, indistinto, strutturale, che rappresenta già di per sé un colpo durissimo all’ordine commerciale globale e sarebbe stato impensabile fino a pochi mesi fa, mentre ora sembra il male minore.
La vera domanda, a questo punto, è come Trump intenda gestire il consenso interno quando l’inflazione causata dalle sue politiche comincerà a erodere il potere d’acquisto di milioni di americani. A quel punto finirà la strategia, e comincerà la realtà.
Da Brexit al riavvicinamento: il vertice UE–Regno Unito riaccende il dialogo
Il vertice fra Unione Europea e Regno Unito del 19 maggio ha sancito il reset delle relazioni bilaterali. Il riavvicinamento fra Bruxelles e Londra, fortemente voluto dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il premier laburista Keir Starmer, si svolge alla luce dei cambiamenti internazionali forzati dalla nuova amministrazione americana di Donald Trump, che hanno evidenziato le sfide comuni alle quali i due partner europei devono far fronte. Tuttavia, UE e Regno Unito hanno rischiato di incagliarsi su annose questioni, come l’accesso alle risorse ittiche e l’immigrazione, superate con un compromesso dell’ultimo minuto. Si tratta però di una svolta chiave che inverte la rotta delle relazioni dopo la Brexit.
I contenuti dell’accordoDopo un’intensa fase negoziale, il summit si è concluso con l’adozione di tre documenti. Il primo, un Geopolitical Preamble, individua le principali sfide comuni che Londra e Bruxelles si trovano ad affrontare, a partire dalla minaccia rappresentata dalla Russia per la sicurezza europea. Tuttavia, i documenti di maggiore rilevanza politica sono gli altri due: il Security and Defence Partnership (SDP), un accordo in materia di sicurezza e difesa, e il Common Understanding, che apre la strada a negoziati approfonditi sui principali dossier economici.
Il primo documento rappresenta l’architrave dell’accordo, segnando il superamento della dimensione strettamente bilaterale tra Stati membri e aprendo la strada a una prima forma di cooperazione strutturata tra UE e Regno Unito. L’intesa prevede l’istituzione di dialoghi semestrali a livello ministeriale, oltre alla partecipazione reciproca a vertici di alto livello inclusi i Consigli Europei. È inoltre previsto un dialogo annuale sulla difesa, oltre alla possibilità per il Regno Unito di prendere parte a esercitazioni di crisis management nell’ambito della Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC). Sul fronte della cooperazione nell’industria della difesa, viene delineata la possibilità di un coinvolgimento del Regno Unito — e delle sue imprese — nell’iniziativa SAFE, subordinato a un contributo finanziario da parte di Londra e alla firma di un ulteriore accordo che sancisca i dettagli della partecipazione britannica. Resta inoltre aperta l’opzione di un accordo amministrativo con l’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), che consentirebbe la partecipazione a progetti militari congiunti anche nel quadro della PESCO.
Il Common Understanding apre la strada a piccoli, ma significativi progressi nella relazione economica e commerciale, delineando un ampio quadro di cooperazione futura su temi quali pesca, mobilità, agroalimentare ed energia. Tra i punti principali figura l’estensione fino al 2038 dell’attuale accordo che consente l’accesso delle imbarcazioni europee alle acque britanniche. In cambio, Londra potrà esportare prodotti agroalimentari senza ulteriori controlli veterinari e fitosanitari, una misura che, secondo le stime britanniche, potrebbe recuperare circa 9 miliardi di interscambio entro il 2040. Questo comporta però un allineamento dinamico alle normative UE e, in ultima istanza, la possibilità di ricorso alla Corte di Giustizia dell’UE. Sul piano energetico, Bruxelles si impegna a valutare l’adesione del Regno Unito al mercato elettrico interno, mentre entrambe le parti esploreranno il possibile allineamento dei rispettivi sistemi di scambio delle emissioni (ETS), una soluzione che esenterebbe Londra dalla carbon tax europea in vigore dal 1° gennaio 2026.
Più limitati i progressi sul fronte della mobilità, che riguarda studenti, giovani, artisti e turisti. L’intesa si limita infatti a prevedere l’avvio di un dialogo verso un possibile accordo, senza però assumere impegni vincolanti. Il tema resta particolarmente delicato per il governo britannico, preoccupato che un aumento degli ingressi possa tradursi in un rialzo dei dati sull’immigrazione, con possibili contraccolpi sull’opinione pubblica interna.
Le ragioni dell’accordoNon è casuale che un simile accordo sia stato siglato ora e che, dopo anni di tensioni post-Brexit, Regno Unito e UE siano tornati a parlarsi con profitto. L’intesa si inserisce infatti in un momento di profondo cambiamento per l’Europa, nell’ambito del quale Bruxelles e Londra riconoscono di essere partner naturali. In particolare, la presidenza Trump ha messo in dubbio i capisaldi della cooperazione transatlantica e del sostegno occidentale all’Ucraina. Proprio il fermo sostegno mostrato da UE e Regno Unito a Kyiv a fronte delle pressioni americane e la stretta cooperazione fra Londra e alcuni partner europei per il lancio di una “coalizione dei volenterosi” che garantisca un possibile accordo di pace hanno probabilmente favorito un riallineamento più generale fra le due sponde della Manica. Il capitale politico generato in questo modo è stato poi utilizzato per superare, almeno parzialmente, le divergenze più settoriali.
Inoltre, sullo sfondo rimane il tema del possibile disimpegno americano dalla difesa dell’Europa, che rende indispensabile un approfondimento della cooperazione in materia di sicurezza e difesa. Il Regno Unito rimane infatti una delle principali potenze militari europee, è membro chiave della NATO e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e dispone di un’industria della difesa comunque già integrata con quella di paesi europei come Germania e Italia. Non è casuale che proprio questi due paesi abbiano spinto per l’apertura del fondo SAFE anche a paesi terzi, in modo da salvaguardare le cooperazioni in corso e potenzialmente rilanciarle. È stata invece la Francia a premere per l’introduzione di clausole che leghino l’utilizzo di queste risorse all’acquisto di prodotti dell’UE. Il compromesso raggiunto prevede quindi che il 65% dei fondi venga utilizzato nell’UE, ma che le risorse possano anche essere utilizzate per acquisti da compagnie di paesi terzi che abbiano firmato patti di sicurezza con l’UE. Per questo, l’accordo con Londra è di vitale importanza, sia per la difesa europea, sia per gli interessi economici britannici.
Un primo passo nella giusta direzioneLa cooperazione fra Regno Unito e UE è più che mai necessaria alla luce del contesto internazionale, che vede in questi giorni i leader britannici ed europei lavorare a stretto contatto per mantenere un ruolo nei negoziati sull’Ucraina. Il reset certamente garantisce più credibilità a questa collaborazione e riporta le due parti sulla strada del dialogo. Rimangono tuttavia delle sfide aperte. Da un lato, per l’UE si tratta di cooperare con efficacia con Londra su temi chiave, pur mantenendo il punto sulla supremazia del diritto UE, una delle principali ragioni che aveva spinto il Regno Unito fuori dall’Unione. L’intesa sull’allineamento dinamico alle norme UE costituisce un primo assaggio dei compromessi politicamente sensibili che le due parti sono chiamate ad accettare.
Dall’altro, il governo Starmer dovrà affrontare profonde pressioni politiche domestiche. L’ascesa del movimento politico Reform di Nigel Farage indica come le istanze isolazioniste siano ancora molto forti. Il premier laburista è stato quindi costretto a non cedere eccessivamente su temi caldi come quello migratorio, rischiando di compromettere l’accordo. Allo stesso tempo, Starmer deve anche salvaguardare la relazione speciale con Washington, uno dei capisaldi della politica estera britannica, nel momento in cui l’amministrazione USA si dimostra profondamente ostile alle istituzioni UE.
L’accordo del 19 maggio costituisce, al momento, un’intesa quadro destinata a essere precisata attraverso negoziati lunghi e complessi, in particolare sui dossier più sensibili, e l’esito di queste trattative sarà determinante nel definire i contorni futuri della relazione tra UE e Regno Unito. Nonostante queste sfide, tuttavia, questo accordo costituisce il primo passo di un’inversione di rotta necessaria che riavvicina due partner inevitabili.
L’UE e le tensioni con Israele: revisione diplomatica
L’UE ha ordinato una revisione dell’accordo di cooperazione con Israele e la Gran Bretagna ha interrotto i colloqui commerciali con il paese, mentre le nazioni europee hanno adottato una linea più dura sulla guerra di Gaza.
La Francia ha rinnovato il suo impegno a riconoscere uno Stato palestinese, un giorno dopo che il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha reagito con rabbia alle dichiarazioni di Gran Bretagna, Francia e Canada che minacciavano di intervenire a causa dell’offensiva militare e del blocco di Gaza da parte del suo Paese.
L’Alta Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri, Kaja Kallas, ha dichiarato che “una forte maggioranza” dei 27 Stati membri, durante una riunione dei ministri degli Esteri, ha appoggiato questa iniziativa nel tentativo di fare pressione su Israele.
“I Paesi ritengono che la situazione a Gaza sia insostenibile e ciò che vogliamo è aiutare concretamente la popolazione e… sbloccare gli aiuti umanitari affinché raggiungano la gente”, ha detto Kallas ai giornalisti.
La spinta a riesaminare l’Accordo di associazione UE-Israele, che costituisce la base dei rapporti commerciali, è cresciuta da quando Israele ha ripreso l’offensiva militare a Gaza dopo la scadenza del cessate il fuoco.
I diplomatici hanno riferito che 17 Stati dell’UE hanno fatto pressione per la revisione in base a un articolo dell’accordo che richiede il rispetto dei diritti umani, con i Paesi Bassi in prima linea nell’ultima iniziativa.
L’Unione europea divisa agisceL’UE è da tempo divisa tra i Paesi che sostengono Israele e quelli considerati più filo-palestinesi. A dimostrazione di questa spaccatura, in un’azione separata, l’Ungheria ha bloccato l’imposizione di ulteriori sanzioni ai coloni israeliani nella Cisgiordania occupata.
Il ministro degli Esteri belga Maxime Prevot ha dichiarato di non avere “alcun dubbio” sulla violazione dei diritti a Gaza e che la revisione potrebbe portare alla sospensione dell’intero accordo.
Nel frattempo la Gran Bretagna ha sospeso i negoziati di libero scambio e ha convocato l’ambasciatore di Israele. Il ministro degli Esteri David Lammy ha accusato il governo di Netanyahu di “azioni ed espressioni vergognose” per l’espansione delle operazioni militari nel territorio palestinese.
Lammy ha dichiarato al Parlamento britannico che il governo sta imponendo nuove sanzioni a individui e organizzazioni coinvolti negli insediamenti in Cisgiordania.
“Il mondo li sta giudicando, la storia li giudicherà. Bloccare gli aiuti, espandere la guerra, ignorare le preoccupazioni dei vostri amici e partner. Tutto questo è indifendibile e deve finire”, ha affermato.
Ha aggiunto che la Gran Bretagna “rivedrà la cooperazione” con Israele nell’ambito della cosiddetta tabella di marcia 2030 per le relazioni tra Regno Unito e Israele. “Le azioni del governo Netanyahu hanno reso necessario questo passo”, ha dichiarato Lammy.
La risposta di IsraeleIsraele ha risposto affermando che le “pressioni esterne” non impediranno al Paese di “difendere la propria esistenza e sicurezza contro i nemici che cercano la sua distruzione”.
“Se, a causa dell’ossessione anti-israeliana e di considerazioni di politica interna, il governo britannico è disposto a danneggiare l’economia britannica, questa è una sua prerogativa”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Oren Marmorstein.
Anche la Francia ha rinnovato le sue critiche diplomatiche a Israele, con il ministro degli Esteri Jean-Noel Barrot che ha ribadito l’impegno a riconoscere uno Stato palestinese.
“Non possiamo lasciare ai bambini di Gaza un’eredità di violenza e odio. Tutto questo deve finire ed è per questo che siamo determinati a riconoscere uno Stato palestinese”, ha dichiarato Barrot alla radio France Inter.
Il presidente francese Emmanuel Macron si è unito al primo ministro britannico Keir Starmer e al primo ministro canadese Mark Carney in una rara dichiarazione congiunta su Gaza lunedì, che ha irritato Israele.
I tre hanno minacciato “azioni concrete” se Israele avesse continuato a bloccare gli aiuti. Netanyahu ha dichiarato che la dichiarazione rappresenta un “enorme premio” per Hamas, che ha scatenato la guerra di Gaza con gli attacchi del 7 ottobre 2023 contro Israele.
© Agence France-Presse
Perché Washington non è riuscita a porre fine alla guerra russo-ucraina
All’inizio del XIX secolo, uno dei padri fondatori degli studi moderni sulla guerra, il generale e storico militare tedesco Carl von Clausewitz, commentò le guerre napoleoniche con queste parole: “Il conquistatore è sempre amante della pace; preferirebbe di gran lunga entrare tranquillamente nel nostro Stato”. Questa osservazione rimane valida per la maggior parte delle aggressioni militari. Tuttavia, l’idea di base di Clausewitz è stata ignorata dalla maggior parte degli europei nella loro interpretazione del comportamento di Mosca dopo l’inizio della guerra russo-ucraina nel 2014.
Gran parte della diplomazia e dei commenti europei fino al 2022 si sono invece basati sul presupposto che l’insistenza pubblica del Cremlino sulla pacificità delle proprie intenzioni nei confronti di Kyiv implicasse che si potessero e si dovessero negoziare e moderare gli obiettivi e il comportamento della Russia in Ucraina. Questo presupposto inappropriato ignorava che Putin preferiva semplicemente una rapida e facile resa dell’Ucraina alla Russia piuttosto che una campagna militare dall’esito incerto contro Kyiv. Quando, undici anni fa, la Russia ha annesso la Crimea e invaso segretamente l’Ucraina orientale continentale, la guerra in quanto tale non comportava alcun vantaggio per Putin e il suo entourage. Il metodo preferito era invece una sovversione ibrida dell’Ucraina tramite agenti russi e forze minori piuttosto che un’occupazione violenta della maggior parte del territorio ucraino da parte di decine di migliaia di soldati russi regolari.
Negli ultimi tre anni, tuttavia, sia il ruolo dell’invasione militare russa dell’Ucraina, ora su vasta scala, per il regime di Putin, sia la comprensione europea delle motivazioni e del comportamento di Mosca, sono cambiati. Da un lato, la guerra stessa ha acquisito una funzione stabilizzante per il sistema politico russo, che si basa su un’ideologia sempre più estremista, un’economia militarizzata e una società mobilitata. Dall’altro lato, la maggior parte dei politici, diplomatici ed esperti europei, in questo contesto così cupo, nutrono oggi molte meno illusioni rispetto a dieci anni fa sul presunto amore di Putin per la pace.
Al contrario, la percezione finora largamente adeguata della strategia di Mosca a Washington è stata sostituita, dal gennaio 2025, da un approccio escapista alla guerra russo-ucraina. Il grado di ingenuità politica, indifferenza morale e dilettantismo diplomatico della nuova amministrazione statunitense nei suoi primi quattro mesi di mandato è stato sorprendente. Anche alla luce delle aberrazioni della prima presidenza Trump del 2017-2021, l’inadeguatezza delle dichiarazioni e delle azioni della Casa Bianca negli ultimi mesi riguardo alla guerra russo-ucraina ha provocato onde d’urto in Europa e altrove. Si sospetta che non solo l’infantilismo strategico, ma anche il rispetto politico e persino la simpatia personale dell’amministrazione Trump per Putin abbiano guidato i recenti zigzag degli Stati Uniti.
Quattro mesi di diplomazia itinerante e tentativi di mediazione da parte degli Stati Uniti hanno ottenuto ben poco. Anche i risultati della conversazione di due ore di questa settimana tra Trump e Putin sono stati scarsi. Certo, dopo la loro telefonata, entrambi i presidenti hanno parlato di successo.
Tuttavia, non ci sono risultati tangibili delle intense trattative trilaterali tra Washington, Mosca e Kyiv, né delle interazioni dirette tra i presidenti degli Stati Uniti e della Russia. Putin ha chiarito che non c’è e non ci sarà presto alcun cessate il fuoco. Trump ha annunciato che dovrebbero esserci negoziati diretti tra Russia e Ucraina, come se i due paesi non stessero già negoziando tra loro, in diversi formati, da più di undici anni.
Nel suo commento orale alla telefonata di lunedì, Putin ha di fatto provocato l’Ucraina, gli Stati Uniti e l’intero Occidente in due modi. In primo luogo, il termine che la Russia ha recentemente introdotto e che Putin ha utilizzato per definire l’obiettivo primario da raggiungere nei prossimi negoziati è “memorandum”. Chiunque conosca la storia delle relazioni russo-ucraine nel periodo post-sovietico sa che esiste già un “memorandum” storico in materia di sicurezza firmato da Mosca e Kyiv(nonché da Washington e Londra) nella capitale ungherese più di 30 anni fa. Si tratta del famigerato “Memorandum sulle garanzie di sicurezza in relazione all’adesione dell’Ucraina al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari”, fornito nel dicembre 1994 dai tre Stati depositari di questo trattato all’Ucraina.
Nel Memorandum di Budapest, Mosca aveva garantito che non avrebbe attaccato l’Ucraina in cambio dell’accordo di Kyiv di consegnare tutte le sue testate atomiche alla Russia. Washington e Londra, a loro volta, avevano assicurato a Kyiv il rispetto dei confini e della sovranità ucraini. Dopo aver palesemente calpestato la lettera e lo spirito del Memorandum di Budapest per undici anni, il Cremlino offre ora di firmare un altro “memorandum” russo-ucraino.
In secondo luogo, Putin non ha escluso, nel suo commento dopo aver parlato con Trump, che i futuri negoziati con Kyiv possano portare a una tregua. Tuttavia, il presidente russo ha aggiunto che, anche “se saranno raggiunti accordi adeguati”, un “possibile cessate il fuoco” sarebbe solo “per un certo periodo di tempo”. Anche se i negoziati avranno successo, l’armistizio sarà quindi solo temporaneo.
Questa avvertenza di Putin è un’ammissione appropriata: l’economia di guerra russa e la mobilitazione militare della popolazione sono ormai così avanzate che non possono essere facilmente fermate. Mosca non è più in grado di interrompere bruscamente e in modo permanente le operazioni belliche. Cosa accadrebbe alle centinaia di migliaia di soldati arruolati, alla produzione di armi su larga scala, al bellicismo sistematico e alle intense campagne ucrainofobiche in molti ambiti della vita sociale russa (istruzione, media, cultura, ecc.) se improvvisamente si instaurasse una pace permanente?
Questi e altri segnali simili provenienti da Mosca consentono di trarre un’unica conclusione: per porre fine alla guerra russo-ucraina, la Russia deve subire una sconfitta umiliante sul campo di battaglia. La lezione del passato è inoltre che i fallimenti militari russi hanno innescato una liberalizzazione interna, come le Grandi Riforme dopo la guerra di Crimea del 1854-1856 o l’introduzione del semicostituzionalismo dopo la guerra russo-giapponese del 1904-1905. Uno dei fattori determinanti della Glasnost e della Perestrojka fu il disastroso fallimento dell’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979-1989.
L’imperialismo russo non sarà neutralizzato da negoziati, compromessi o concessioni. Al contrario, tali approcci non fanno che promuovere un ulteriore avventurismo estero da parte di Mosca e un’escalation militare lungo i confini della Russia. Un giorno il Cremlino porrà fine alle guerre espansionistiche della Russia e al terrore genocida contro i civili in Ucraina e altrove. Ma affinché ciò avvenga, il popolo russo deve prima iniziare a credere che tale comportamento non può portare alla vittoria, può innescare il collasso interno e sarà punito con determinazione.
Consiglio d’Europa: adottata la Convenzione sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale e la Strategia a lungo termine sull’ambiente
Il Consiglio d’Europa rafforza la sua azione nel campo della protezione dell’ambiente. E lo fa con un duplice intervento: l’adozione della Convenzione sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale (CM(2025)52-final) e la Strategia a lungo termine in materia ambientale (Strategia ambiente) che si propone di indirizzare gli Stati verso il riconoscimento esplicito di un diritto umano all’ambiente negli ordinamenti interni. I due testi sono stati adottati nella riunione del Comitato dei ministri del 14 maggio 2025. L’obiettivo è comune: arrivare a costruire un quadro regolatorio condiviso dagli Stati del Consiglio d’Europa per garantire la protezione ambientale.
Convenzione sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penalePer quanto riguarda la Convenzione, accompagnata dal rapporto esplicativo (CM(2025)52-addfinal), la scelta del Comitato è quella di portare gli Stati a prevedere reati nel proprio ordinamento e assicurare che coloro che commettono reati ambientali siano puniti. Un primo tentativo era stato fatto con la Convenzione n. 172 del 1998 del Consiglio d’Europa sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale che, però, è da annoverare tra i fallimenti del Consiglio visto che è stata ratificata solo dall’Estonia.
Il nuovo testo della Convenzione: diritto sostanziale e giurisdizioneIl nuovo testo è costituito da 58 articoli: una parte è dedicata al diritto penale sostanziale con l’individuazione dei reati e delle sanzioni, nonché delle misure preventive che gli Stati dovranno adottare, un’altra agli aspetti legati alla giurisdizione con i criteri per l’individuazione del giudice competente e per risolvere talune questioni di carattere procedurale, con un apposito focus sulla cooperazione tra Stati. Il testo prevede anche la responsabilità delle persone giuridiche (articolo 34). Inoltre, per quanto attiene ai reati, sono individuati talune particolari categorie di reati particolarmente gravi, condotti con intenzionalità e in presenza di danni di ampia portata e di lunga durata (sezione 7, Articolo 31), finalizzati a causare un grave inquinamento che potrebbero rientrare nella nozione di ecocidio. Per l’entrata in vigore è richiesta la ratifica di 10 Stati di cui almeno 8 del Consiglio d’Europa.
Strategia a lungo termine sull’ambienteIl secondo atto adottato nella riunione di Lussemburgo del 14 maggio, è la Strategia a lungo termine in materia ambientale. Se certo il Consiglio d’Europa non è la prima organizzazione ad occuparsene, possiamo rilevare che è però la prima volta che si utilizzano i diritti umani come strumento per accelerare la protezione dell’ambiente e la lotta all’inquinamento. Sono proprio i diritti umani, lo Stato di diritto e la governance democratica a costituire il filo conduttore dei principi fissati nella Strategia, che è accompagnata da un articolato piano operativo e che fa tesoro della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il Comitato dei Ministri ha individuato cinque obiettivi strategici finalizzati a fronteggiare i cambiamenti climatici, l’inquinamento e la perdita della biodiversità, oltre a puntare a migliorare l’effettiva attuazione delle convenzioni già adottate al fine di proteggere gli ecosistemi, la fauna selvatica e il paesaggio. In particolare, nella Strategia sono elencati, come elementi essenziali per interventi funzionali ad arrivare a un’effettiva tutela dell’ambiente: 1) l’integrazione dei diritti umani nelle politiche ambientali (e viceversa); 2) il rafforzamento della governance democratica in campo ambientale; 3) il supporto e la tutela degli attivisti che hanno come fine la tutela ambientale e quella dei diritti umani, nonché dei whistleblowers; 4) la prevenzione e la punizione nel caso di crimini ambientali; 5) la protezione della fauna, degli ecosistemi, degli habitat e del paesaggio.
Come l’Europa dissuade azioni coercitive contro i suoi interessi con uno strumento da non utilizzare. Il caso dell’Anti Coercion Instrument
Stiamo assistendo ad una escalation di tensioni e rischi destabilizzanti la sicurezza e l’economia europea. Sono a rischio non solo il regolare andamento dei commerci, ma anche l’autonomia decisionale dell’UE a fronte di azioni coercitive di Paesi terzi nei riguardi delle politiche europee. Se il capitolo più recente è quello dei dazi unilaterali americani, è dal 2021 che si riscontrano una crescente assertività cinese nel minacciare o applicare restrizioni economiche, misure coercitive (blocco all’import) contro la Lituania dopo l’apertura a Vilnius di un ufficio commerciale di Taiwan, divieto russo di acquisti di prodotti agricoli, minacce USA di rappresaglia sulla digital tax.
Ne consegue l‘esigenza di un’”Europa geopolitica” che abbia la forza e la volontà di tutelare e far valere i propri interessi e valori, che supporti i negoziati con misure ad hoc. Avvertita l’impellenza di colmare un vuoto regolamentare, l’UE si è dotata di uno strumento di dissuasione nei confronti di comportamenti distorsivi, da utilizzare (si prese come esempio il deterrente nucleare nella difesa) come opzione di ultima istanza in aggiunta a contromisure europee in risposta a minacce unilaterali di dazi.
La Commissione Europea propose l’ACI (Anti Coercion Instrument), approvato il 22 novembre 2023 dal Consiglio UE. ACI si inserisce nel recente pacchetto europeo di strumenti di tutela come il monitoraggio degli investimenti esteri diretti, il controllo dei sussidi esteri e degli investimenti outbound.
Oggi L’ACI è chiamata a svolgere un ruolo chiave per proteggersi dalla “weaponization of economic dependencies or economic coercion.” Il focus dell’ACI risiede nella difesa dalla coercizione, definita come pratica e comportamento distorsivo che influenza e ostacola l’autonomia decisionale della UE e dei Paesi Membri nelle aree del commercio e degli investimenti. Le eventuali contromisure previste, proporzionali e temporanee, tutelano le industrie a monte e a valle e dei consumatori e l’economia della conoscenza europea. Di rilievo la possibilità di escludere dagli appalti pubblici in Europa le offerte il cui valore globale è costituito per oltre il 50% da beni e servizi originari dal paese terzo.
La gestazione di un framework legale come l’ACI, le cui implicazioni vanno oltre il Trade, non è stata semplice, incontrando divergenze tra le istituzioni europee durante i negoziati. La controversia riguardava gli equilibri e la ripartizione dei poteri tra le istituzioni. La CE propose di estendere le proprie competenze per determinare i casi di coercizione economica e agire in modo unilaterale con contromisure di emergenza. Tuttavia, è stata fortemente limitata per eccesso di discrezionalità, e il potere decisionale è rimasto in capo ai Paesi Membri con la regola della maggioranza qualificata.
Durante i lavori preparatori dell’ACI, pensato per tutelarsi dalla Cina, venne condivisa l’esigenza di tutelare aree quali i dati, il cloud e la proprietà intellettuale. La Francia sollevò la questione dei potenziali effetti extraterritoriali dei controlli non europei per l’export, tentando di far rientrare tra le misure anti-coercizione anche la difesa. Il timore era che gli USA facessero dell’ITAR un utilizzo sistematico andando oltre la misura stessa, prefigurando un’ingerenza politica a discapito dell’autonomia europea. Ma la CE e gli stakeholders considerarono l’ACI uno strumento di politica commerciale UE, quindi perimetrato al comparto economico civile al pari degli Accordi WTO, rimarcando che l’export control è competenza dei Paesi Membri. Perciò l’area di competenza dell’ACI si limita ad accennare alle politiche generali UE inclusa la politica estera e di sicurezza europea.
Nel “corpus legis” UE di misure di tutela commerciale, l’ACI assumerà un ruolo chiave, ponendo le prime basi legali per l’autonomia strategica europea, rimasta per lo più a livello declaratorio e di principi. Le caratteristiche dell’ACI, flessibilità, certezza di disporre di differenziate azioni difensive, velocità di attuazione, ne fanno uno strumento efficace, la cui mera esistenza anche senza attivazione è già di per sé un valido deterrente e un test di credibilità per attuare la “EU open strategic autonomy” e affermare l’Europa come attore geopolitico internazionale.
L’annuncio (si spera prematuro) del tramonto del diritto internazionale
Il diritto internazionale è in crisi? Le offese al diritto internazionale non sono certo mancate in passato, eppure mai prima d’ora si era avvertita una minaccia così seria.
Occorre tuttavia porsi prima un’altra domanda, solo apparentemente provocatoria: il diritto internazionale è utile? Si trascura spesso, infatti, che il diritto internazionale non si occupa, nella quotidianità, solo di guerra (vera o commerciale). In realtà, ogni giorno il diritto internazionale opera tramite numerose norme e trattati che consentono lo svolgersi di attività essenziali, senza le quali il mondo si fermerebbe (come abbiamo potuto sperimentare durante la pandemia). Per limitarci ad un semplice esempio fra tanti, il fatto di volare da un aeroporto italiano verso una qualunque destinazione estera è reso possibile non solo dalla tecnologia, che da sola non basterebbe, ma anche da un sistema di regole internazionali senza le quali non si potrebbe entrare nello spazio aereo di altri Paesi.
Questa vitale dimensione del diritto internazionale, che continua ad operare quotidianamente dietro le quinte, è non meno reale di quelle però più visibili in quanto più drammatiche, specie quando si ha a che fare con guerre o questioni territoriali (risorse incluse). Dunque se vi è crisi questa non investe (per ora) il diritto internazionale nel suo insieme. Ciò nonostante, è chiaro che in particolare le regole relative all’uso della forza e alle dispute territoriali rappresentano un aspetto nevralgico del sistema per via delle enormi implicazioni umanitarie, di sicurezza ed economiche connesse alla loro osservanza (o meno).
Un altro elemento portante del sistema di regole costruito sulle macerie della seconda guerra mondiale è la tutela internazionale dei diritti umani, il cui avvento è stato favorito anche dalla comprensione del suo legame profondo con il mantenimento della Pace: “non vi sarà pace su questo pianeta finché i diritti dell’uomo saranno violati da qualche parte nel mondo”, ebbe a dire René Cassin, che aveva vissuto di persona le due guerre mondiali (dalla prima uscì invalido), che contribuì poi alla stesura della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e che venne infine insignito del Premio Nobel per la Pace. Lezione (purtroppo) verissima ancora oggi: sono innanzitutto dei regimi autoritari, cioè abituati a comportarsi in modo brutale e arbitrario al proprio interno, ma a volte anche sistemi statali in cui democrazia e Stato di diritto si sono indeboliti, quelli che, disprezzando le regole, diventano capaci di usare la forza anche verso l’esterno.
L’azione sempre più spregiudicata (e spesso brutale) degli Stati più potenti sta effettivamente erodendo la presa delle regole (fondamentali) sull’uso della forza e sul modo (pacifico) in cui vanno gestite e risolte le controversie internazionali. Data la natura di tali regole fondamentali (consuetudinaria, anche se in buona misura codificate nella Carta delle Nazioni Unite), l’atteggiamento e il comportamento di tali Stati possono avere un impatto non solo sul loro contenuto, ma alla lunga sulla loro stessa sopravvivenza.
Diversi fra gli Stati dotati di potenza economico-militare (Russia, Cina, Stati Uniti, con l’aggiunta di Israele a trazione Netanyahu e di qualcun altro) mostrano infatti di credere che la forza di cui dispongono consenta loro di affrancarsi da qualunque preoccupazione relativa a ciò che sia permesso o meno dal diritto. Per questi Stati, in sostanza, tutto è permesso quando serve ai loro interessi.
Questa tendenza – non nuova naturalmente, ma che sta ora mostrando una virulenza inedita – finirà col portare alla desuetudine delle norme fondamentali in questione e col trascinare anche il resto della comunità internazionale verso un (nefasto per tutti nel medio-lungo termine) ripiegamento nel particolare, a discapito di valori e interessi collettivi? Può darsi, ma deve essere chiaro cosa ne conseguirebbe: il passaggio dalla Legge alla … “legge” del più forte, in virtù della quale i forti (che spesso sono anche prepotenti) impongono le loro priorità senza alcun riguardo per gli altri. Ebbene non solo questo non converrebbe ai “vasi di coccio” (comprese – singolarmente – le piccole/medie potenze europee), sempre che questi non accettino una posizione di soggezione, vassallaggio o irrilevanza.
Il punto è anche un altro: la Storia (in particolare del Novecento) insegna che il fallimento dei tentativi di organizzare le relazioni internazionali e di dar loro un minimo di ordine attraverso delle regole ha invariabilmente portato alla guerra, e su vasta scala, il che non è nell’interesse di nessuno, neppure delle “grandi” potenze. Molti sembrano dimenticare che sia la Società delle Nazioni che l’ONU nacquero dalle ceneri delle due spaventose guerre mondiali.
In realtà, ora più che mai abbiamo bisogno di quelle conquiste del diritto internazionale che abbiamo ottenuto a carissimo prezzo alla fine della seconda guerra mondiale. Non è un caso che negli ultimi anni il ricorso ai tribunali internazionali, anche da parte di tutta una serie di Stati diversi dai suddetti (pre)potenti, si sia intensificato a livelli senza precedenti: il diritto internazionale, attraverso le sue corti, è visto sia come l’unica opzione rimasta di fronte ai ripetuti fallimenti della politica, sia come l’ultimo baluardo oltre il quale c’è il caos.
In una indagine d’opinione sul multilateralismo, condotta lo scorso anno in nove importanti Paesi del cosiddetto Sud Globale, su commissione della Conferenza di Monaco sulla sicurezza e pubblicata su Foreign Policy, la maggioranza assoluta degli intervistati (con punte fra il 63 e l’88%) si è pronunciata nel senso che il diritto internazionale serve gli interessi di tutta la comunità internazionale e non solo dei Paesi occidentali, smentendo quindi quella narrazione – in particolare russa e cinese – secondo la quale il diritto internazionale sarebbe un’illusione occidentale.
La principale sfida per l’Europa è quindi trovare coesione, sebbene non tutti sembrino realmente interessati a questo obiettivo. Questo significa riuscire a interagire in modo efficace con il Sud Globale, oltre che con altri Paesi occidentali extraeuropei sulla stessa lunghezza d’onda (come il Canada), allo scopo di costruire un fronte comune a sostegno del diritto internazionale.
Questo presuppone due cambiamenti “di paradigma” fondamentali. Primo, la comprensione che in particolare l’Unione europea (insieme naturalmente a quegli Stati europei che non ne fanno parte ma non meno impegnati in tal senso) può svolgere un ruolo globale, a favore della sopravvivenza di un quadro di riferimento normativo fondamentale (così come della giustizia internazionale, compresa quella penale), solo agendo (coesa) di concerto anche con tutti gli Stati non occidentali che condividono tale visione (e ve ne sono in ogni continente).
Secondo, la consapevolezza che l’autorevolezza e la credibilità dell’Europa dipendono anche dalla sua coerenza fra princìpi e azioni concrete: coerenza al proprio interno (verso l’Ungheria di Orbán, ad esempio) e all’esterno, ovvero rispetto a tutta una serie di situazioni che chiamano in causa l’Europa, in un modo o nell’altro (dall’occupazione militare e uso spropositato della forza da parte delle autorità israeliane – e di molti coloni armati – al ruolo nocivo del Ruanda nell’Est del Congo, e altre ancora).
E bisogna darsi da fare per puntellare l’ultimo baluardo, perché il rischio che cedano le fondamenta del diritto internazionale, così come si è sviluppato dal 1945 ad oggi, è reale e se ciò dovesse sciaguratamente accadere, un’eventuale “crisi d’identità” degli studiosi del diritto internazionale (così Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera) sarebbe davvero l’ultima delle preoccupazioni.
Antonio Bultrini è professore associato di diritto internazionale nell’Università di Firenze
Spazio, innovazione e difesa: voci dalla seconda edizione della AeroSpace Power Conference
L’8 e 9 maggio 2025, Roma ha ospitato la seconda edizione dell’AeroSpace Power Conference, organizzata dall’Aeronautica Militare italiana in collaborazione scientifica con l’Istituto Affari Internazionali. Un appuntamento esclusivo che ha riunito oltre 1.500 partecipanti tra vertici militari, rappresentanti delle istituzioni, accademici, esperti e professionisti del settore aerospaziale.
In questo episodio, raccogliamo una serie di interviste realizzate durante la conferenza con alcuni dei suoi protagonisti. Attraverso le loro voci, esploreremo temi cruciali come l’innovazione tecnologica, la sostenibilità nel settore della difesa, la centralità dello spazio e le prospettive dell’Italia nel quadro della cooperazione internazionale.
In ordine di intervento, ascolteremo:
- Generale Luca Goretti, Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare;
- Valter Villadei, astronauta e pilota colonnello dell’Aeronautica Militare;
- Massimo Comparini, Managing Director della Space Division di Leonardo;
- Teodoro Valente, Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana;
- Lorenzo Mariani, Executive Group Director Sales & Business Development di MBDA e Managing Director di MBDA Italia.
Transizione giusta e diplomazia climatica: necessarie per il successo nazionale ed internazionale
Le politiche climatiche contengono una forte componente sociale. Il Green Deal europeo ha rappresentato la visione climatica ed economica europea degli ultimi anni. Tuttavia, i governi devono implementarlo in maniera attenta ed equilibrata per poter raggiungere i target preservando il supporto politico e pubblico. Se da un lato, infatti, la transizione energetica potrebbe contribuire a un risultato netto positivo in termini di creazione di posti di lavoro a livello macro (insieme a co-benefici a livello locale), la decarbonizzazione causerà anche effetti negativi e regressivi a livello micro, data l’alta concentrazione di industrie e occupazioni ad alta intensità di emissioni. Poiché il bilancio della transizione non è in bianco e nero, richiederà un’attenta calibrazione delle politiche pubbliche.
La paura degli effetti regressivi, in primis la perdita di lavoro, è uno dei fattori frenanti delle politiche climatiche. Per questo, i governi potrebbero essere tentati di rallentare la decarbonizzazione con l’obiettivo di prevenire gli esiti regressivi della transizione verde. Tuttavia, è importante sottolineare che la politica climatica non sia l’unica causa delle disuguaglianze, ma certamente aggiunge un livello di complessità a un modello già fragile, caratterizzato da disuguaglianze elevate e crescenti causate da trasformazioni significative guidate dalla digitalizzazione, dalla globalizzazione e dalla concorrenza internazionale.
In questo contesto, i governi hanno interesse a progettare una strategia di transizione giusta più completa che affronti le fragilità esistenti dell’attuale sistema come componente integrante della progettazione della decarbonizzazione industriale. Inoltre, una strategia di transizione giusta non può essere limitata al livello nazionale dei paesi sviluppati, ma anche nei paesi in via di sviluppo che sono fortemente esposti ai costi della transizione e della crisi climatica. Integrare la transizione giusta nella politica estera garantirebbe nuove opportunità di cooperazione con paesi chiave in un periodo di crescente competizione geoeconomica e industriale. Queste considerazioni sono particolarmente rilevanti sia per l’Unione Europea che per l’Italia.
L’Europa alla prova: verso una nuova strategia sociale industriale
L’UE dovrebbe definire una nuova strategia sociale industriale in parallelo al suo Clean Industrial Deal, in modo da favorire la dimensione della transizione giusta. Negli anni, l’UE ha creato strumenti e meccanismi importanti, ma non sufficienti alle sfide che la aspettano.
Una necessaria riforma riguarda i limiti chiave dell’attuale quadro regolatorio, che manca di un approccio olistico. Ad esempio, il Just Transition Mechanism è troppo ristretto e caratterizzato da approccio territoriale. È quindi essenziale includere un approccio più ampio che copra i settori industriali chiave che saranno profondamente influenzati dalla transizione, come le industrie ad alta intensità energetica e il settore automobilistico.
La seconda area di modifica è quella legata agli investimenti. Data la scala e la portata della sfida della decarbonizzazione, nuove risorse sono essenziali. Per questo, la dimensione sociale dovrebbe essere un pilastro chiave del prossimo Quadro Finanziario Pluriennale (QFP), nel tentativo di affrontare anche le disparità di spazio fiscale tra gli Stati membri. L’UE dovrebbe allocare risorse finanziarie ai programmi di formazione e sviluppo delle competenze per facilitare la mobilità del lavoro insieme ad altre politiche complementari (curricula educativi).
Il caso italiano: colmare i ritardi e potenziare le competenze
Nel caso italiano, il governo dovrebbe ridurre disallineamenti e obiettivi contrastanti tra documenti politici e programmatici in modo da promuovere un approccio olistico verso la transizione giusta. Inoltre, il paese ha bisogno di migliorare il proprio quadro regolamentare e di governance per sfruttare appieno le risorse finanziarie esistenti per i progetti, che hanno subito ritardi nel caso del Fondo per la Transizione Giusta.
L’Italia dovrebbe potenziare i programmi di sviluppo delle competenze e i fondi per sostenere i lavoratori e rivedere i propri curricula educativi per aumentare le materie STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), che sono ancora poco sviluppate. A questo scopo sono necessarie una serie di politiche per affrontare le incertezze del mercato del lavoro, specialmente nelle regioni meridionali dove i lavoratori sono più esposti alla transizione energetica
Diplomazia climatica: trasformare la transizione in opportunità globale
Come detto, la transizione giusta può essere anche un pilastro per la diplomazia climatica ed energetica europea – soprattutto alla luce delle sfide energetiche-economiche europee e l’evoluzione geopolitica.
Ad oggi, l’attuale strategia diplomatica europea ha registrato alcune carenze che hanno minato lo sforzo delle molteplici iniziative e partenariati causando risultati contrastanti e frustrazioni nei paesi terzi. La prima carenza è la mancanza di una governance chiara e un coordinamento tra Stati-Ue e tra le diverse direzioni generali della Commissione europea
L’occasione per migliorare la governance e il coordinamento è data dalle Clean Trade and Investment Partnership (CTIPs) e Trans-Mediterranean Energy and Clean Tech Cooperation Initiative, previsti nel Clean Industrial Deal come strumenti per raggiungere la decarbonizzazione e la competitività preservando la cooperazione.
Nonostante la transizione giusta non sembri essere esplicitamente integrata in queste misure, queste nuove iniziative rappresentano un test cruciale per la diplomazia climatica dell’UE per favorire una transizione giusta in regioni strategiche. Infatti queste iniziative possono essere strumenti positivi per costruire partnership vantaggiose con paesi terzi, a partire da quelli MENA (Medio Oriente e Nord Africa) e africani, se l’UE integrerà il trasferimento di tecnologia, lo sviluppo di capacità e programmi di formazione per le comunità locali oltre agli accordi energetici e minerari.
Un test importante sarà la cooperazione in merito all’idrogeno coi paesi MENA e africani. Quest’area, strategica per l’UE, ha un grande potenziale di risorse rinnovabili che potrebbe essere utilizzato per lo sviluppo industriale sostenibile. L’UE dovrebbe garantire investimenti lungo la catena del valore, ma anche collaborare con i suoi partner per stimolare la domanda, definendo standard comuni volti a creare un mercato e limitare gli impatti negativi. Allo stesso tempo, queste regioni trarrebbero grande beneficio da queste iniziative in quanto creerebbero prodotti di esportazione ad alto valore aggiunto, favorendo la creazione di posti di lavoro e maggiori ritorni economici per le loro popolazioni giovani e in crescita.
Tale condizione offre un’opportunità per l’Italia di rafforzare il proprio ruolo nella definizione dei futuri partenariati UE-Africa ampliando il suo Piano Mattei. La definizione dei prossimi CTIPs e dell’iniziativa Trans-Med è un’opportunità per l’Italia di essere un attore proattivo e influente nei progetti coordinati nei paesi parte del Piano Mattei. Collaborando e facendo economie di scale, l’Italia potrebbe anche superare i propri limiti finanziari. Per far ciò, Roma dovrebbe puntare a creare piattaforme e punti di contatto nell’ambito del Piano Mattei per riunire le istituzioni e gli Stati membri dell’UE e i paesi africani. La vicinanza geografica e le già presenti infrastrutture e le relazioni energetiche economiche con molti di questi paesi danno la possibilità all’Italia di promuovere partenariati anche su questioni chiave, come l’idrogeno e le emissioni di metano attraverso programmi di formazione, standard condivisi e best practices dal suo settore pubblico e privato.
L’industria italiana alla sfida verde: il dilemma tra competitività e decarbonizzazione
Il Green Deal europeo è ormai entrato in una nuova fase cruciale, in cui competitività e sicurezza economica assumono maggior rilevanza. Con la presentazione del Clean Industrial Deal, la Commissione Europea ha delineato le sue nuove priorità dettate dall’interazione tra politica industriale, competitività e decarbonizzazione alla luce della competizione geopolitica e le crisi energetiche e climatiche.
Oltre a favorire le nuove tecnologie, i governi devono considerare misure per trasformare e proteggere le proprie industrie esistenti in conformità con gli obiettivi di zero emissioni nette, preservando al contempo la competitività e garantendo la sicurezza economica attraverso la capacità manifatturiera. Per far tutto ciò, i dibattiti (e le divisioni) riguardo alla disciplina fiscale e alla creazione di fondi comuni europei riemergono.
Il dilemma è particolarmente evidente per le industrie ad alta intensità energetica. La loro trasformazione sarà essenziale per il raggiungimento della decarbonizzazione, rappresentando circa il 22% delle emissioni di gas serra dell’UE, ma i governi stanno lottando per garantire anche la loro competitività rispetto ai concorrenti internazionali a causa dei prezzi più elevati dell’energia e alla presenza dell’Emission Trading System europeo.
Anche nel contesto italiano, le industrie difficili da decarbonizzare, le cosiddette hard to abate, giocano un ruolo decisivo dal punto di vista sociale, economico ed energetico-ambientale. Per questo, per poter trasformare tali industrie, l’Italia deve perseguire una combinazione di soluzione: favorendo l’elettrificazione laddove possibile, riducendo le emissioni di metano relative al consumo di gas, il crescente utilizzo sostenibile di idrogeno e lo sviluppo della cattura e stoccaggio del carbonio (CCS).
Elettrificazione: il vantaggio competitivo dell’Italia in EuropaL’elettrificazione copre già una quota rilevante del consumo energetico industriale in Italia. Nel 2022, l’elettricità è stata la principale fonte per il settore industriale, rappresentando il 44% del consumo, seguita dal gas naturale (33%). Grazie ai più alti livelli di elettrificazione tra i maggiori paesi europei, l’industria italiana ha uno dei posizionamenti migliori tra i paesi UE27 rispetto all’intensità energetica e carbonica finale per unità di valore aggiunto. Tuttavia, l’Italia deve accelerare l’installazione di impianti rinnovabili, rimuovendo i ritardi autorizzativi e fornendo un quadro normativo chiaro e coerente.
Gas naturale: dipendenza e opportunità nella transizionePoiché la maggior parte delle emissioni del settore industriale proviene dalla combustione, è necessaria una valutazione del ruolo dell’approvvigionamento energetico e in particolare del gas naturale. Il gas gioca un ruolo centrale all’interno del sistema energetico italiano, rappresentando il 40% del consumo energetico e il 50% del consumo elettrico. Tale ruolo è previsto che rimarrà rilevante in base all’ultima versione del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC). Tuttavia, l’Italia deve scontare una forte dipendenza dalle importazioni. Dunque è necessaria una strategia internazionale che tenga conto delle emissioni di metano – una delle azioni più rapide, efficaci e meno costose per l’Italia per accelerare la transizione rafforzando, allo stesso tempo, anche la propria competitività industriale. La riconfigurazione dei flussi e la crescente rilevanza dei paesi MENA (Medio Oriente e Nord Africa) offre un’opportunità per affrontare questa pressante questione ambientale in un’area strategica come il Mediterraneo.
La scommessa dell’idrogeno: sviluppo sostenibile nel MediterraneoPer decarbonizzare le molecole nel lungo periodo, l’Italia deve dare priorità all’uso dell’idrogeno pulito dove l’elettrificazione più efficiente non è fattibile. A novembre 2024, l’Italia ha adottato la sua prima strategia nazionale per l’idrogeno, che prevede diverse traiettorie data l’incertezza sul suo sviluppo e le potenziali migliori prestazioni di altre tecnologie.
Nello sviluppare le necessarie rotte ed infrastrutture per l’approvvigionamento dell’idrogeno, è necessario che l’Italia tenga conto ed affronti i potenziali impatti climatici dell’idrogeno. Infatti, è cruciale limitare non solo le emissioni di anidride carbonica e metano, ma anche le emissioni di idrogeno, poiché l’idrogeno stesso è un gas serra indiretto con potenti impatti di riscaldamento. Infine è doveroso ridurre quanto possibile i rischi ambientali e socioeconomici associati ai sistemi a idrogeno (anche nei paesi terzi). Questo è ancora più rilevante se si tiene conto della possibilità di trasferimenti di capacità manifatturiera fuori dall’Europa a causa delle già citate sfide energetiche. Tuttavia, tale sfida può presentare un’opportunità per l’Italia nel guidare la cooperazione Euro-mediterranea garantendo progetti volti allo sviluppo industriale e l’integrazione delle catene del valore.
CCS: colmare il divario con il Nord Europa partendo da RavennaLo sviluppo della cattura e stoccaggio del carbonio ha riacquistato una rinnovata rilevanza politica perché i governi mirano ad accelerare la transizione energetica preservando al contempo le capacità industriali esistenti. La tecnologia CCS (Carbon Capture and Storage) permette di catturare l’anidride carbonica prodotta da impianti industriali e centrali elettriche prima che venga rilasciata nell’atmosfera, per poi trasportarla e immagazzinarla permanentemente nel sottosuolo.
A livello europeo si può notare un certo divario tra il Mare del Nord e il Mediterraneo in termini di sviluppi CCS; divario che l’Italia ha la possibilità di ridurre. Il PNIEC infatti riconosce un ruolo strategico al progetto di Ravenna, che dovrebbe catturare le emissioni dei settori hard-to-abate.
Strategie per il futuro: sussidi mirati e fondi europeiL’Italia avrà bisogno di una combinazione di misure che favorisca la trasformazione delle industrie energivore esistenti all’interno dei confini europei e nazionali alla luce delle possibili soluzioni tecnologiche ed economiche. Allo stesso tempo, l’Italia deve definire una politica industriale ed estera capace di gestire in maniera ordinata il possibile outsourcing della produzione verso regioni con costi energetici più bassi.
L’allocazione di sussidi volti alla protezione dei produttori nazionale dovrà essere attentamente valutata in base a criteri chiari, come la rilevanza economica (effetti cluster) e la resilienza economica (evitando nuove dipendenze su settori/prodotti critici) – anche alla luce delle ristrettezze fiscali.
Nel trovare un nuovo equilibrio, l’Italia deve lavorare con l’UE nella definizione di priorità, standard e nella creazione di nuovi strumenti, anche relativi agli investimenti, in modo da evitare la frammentazione del mercato europeo. L’Italia deve lavorare alla costruzione di criteri e standard per proteggere i produttori nazionali e esternalizzare parte della produzione. Gli sviluppi positivi e gli sforzi in termini di riduzione dell’intensità di CO2 dovrebbero essere riconosciuti e valorizzati nella progettazione delle caratteristiche per i mercati verdi. Dati i diversi spazi fiscali e gli investimenti necessari per raggiungere la decarbonizzazione, saranno necessari fondi comuni e stabili a livello UE – specialmente per l’Italia. Per poter ottenere ciò, la politica industriale ed energetica dovrà essere definita in maniera chiara, oltre che dimostrare la propria capacità di spendere adeguatamente i fondi esistenti.
Libia: urgente un rinnovato impegno europeo
I recenti scontri a Tripoli a seguito dell’uccisione, il 12 maggio scorso, di Abdul Ghani al-Kikli (detto “Ghaniwa”) capo della milizia Stability Support Apparatus (SSA), hanno riaperto scontri tra fazioni rivali nella capitale libica. Accusato di vari crimini, tra cui assassinii, torture e altre violazioni di diritti umani, al-Kikli controllava l’importante quartiere tripolino di Abu Selim, e la sua uccisione è scaturita dalle rivalità interne tra milizie affiliate al primo ministro del Governo di Unità Nazionale (GNU), Abdul Hamid Dbeibah. Al momento, la situazione pare di nuovo sotto (precario) controllo del governo di Tripoli. Ma notizie di spostamenti di altri gruppi armati all’esterno della capitale, da Zawiya e dall’Est controllato dal generale Khalifa Haftar, hanno fatto temere un conflitto più ampio.
È chiaro, dunque, che la situazione in Libia richiede una rinnovata attenzione da parte della comunità internazionale. Non solo per stabilizzare, ma per sostenere strategicamente il processo guidato dalle Nazioni Unite in un Paese a rischio di collasso. Come ha recentemente sottolineato presso il Consiglio di sicurezza la Rappresentante Speciale del’ONU in Libia, Hanna Tetteh, il sostegno internazionale è essenziale per una svolta politica. Con le istituzioni libiche frammentate, i gruppi armati radicati nell’economia e la Russia che sta rafforzando la sua posizione, un’azione unitaria dell’Europa è vitale, non solo per il futuro della Libia, ma per quello dell’intera regione.
Pur nel linguaggio diplomatico dell’ONU, il recente rapporto del Segretario generale critica fortemente le autorità libiche—sia il GNU riconosciuto dall’ONU che il suo rivale a Est—per il perpetuarsi delle divisioni istituzionali e politiche, che ostacolano la governance e favoriscono l’instabilità. La situazione economica è tra le preoccupazioni principali, a seguito dell’acquisizione forzata della Banca centrale libica (CBL) nel 2024. Nonostante l’aumento della produzione di petrolio, l’economia libica sta ancora risentendo della crisi irrisolta della CBL e dell’ondata di sanzioni internazionali che ne è seguita.
Esiste ovviamente un legame diretto tra il quasi collasso economico e il ruolo dei gruppi armati, radicati nell’economia energetica libica. Questi gruppi dominano zone economiche chiave, incluse strutture petrolifere e valichi di frontiera, traendo profitto dal contrabbando di carburante e dal racket di protezione, e assorbendo risorse statali. L’ONU documenta come le fazioni armate operino nell’economia informale, in particolare a Tripoli, Misurata e nelle città occidentali, sfruttando sussidi energetici e ricavi doganali. Allo stesso modo, le Forze Armate Arabe Libiche (LAAF) e altri gruppi fedeli a Haftar traggono vantaggi da attività illecite e traffici attraverso il controllo dei principali terminal petroliferi, di confini e corridoi del contrabbando nell’est e nel sud del Paese.
Il rapporto ONU fornisce anche informazioni su migrazione illegale e tratta di esseri umani, perpetrata da gruppi armati libici, sia a ovest che a est, con la complicità diretta o indiretta delle autorità statali. Per quanto i leader libici implicati nel crimine guadagnino molto più dal contrabbando di carburante, droga e armi che non dal traffico di migranti, hanno un interesse politico a soddisfare le richieste di governi europei (Italia inclusa) in materia migratoria in cambio di riconoscimento: una strategia che consente loro di restare al potere.
Oltre alle sfide rappresentate da un Paese instabile e mal governato come la Libia per la sicurezza dell’Europa e del Mediterraneo, sviluppi internazionali recenti rendono ancora più urgente un impegno UE. La Russia, presente in Libia da anni sia diplomaticamente che attraverso i mercenari del Gruppo Wagner (ribattezzato Africa Corps), ha recentemente compiuto una svolta strategica, trasferendo truppe e attrezzature dalla Siria alla Libia. I mercenari russi sono coinvolti in attività illecite, come il contrabbando di droga e l’estrazione di minerali. Attraverso una presenza politica, militare ed economica sempre più radicata, allineata con Haftar, Mosca mira a perseguire obiettivi strategici più ampi in Africa: accesso militare, influenza energetica e leva geopolitica contro l’Occidente.
Pertanto, l’UE dovrebbe adottare misure più decise per sostenere la missione UNSMIL nel promuovere elezioni, stabilizzare l’economia, proteggere i diritti umani e affrontare le crisi umanitarie e migratorie. Un impegno europeo coordinato è non solo cruciale per sostenere la stabilità e porre fine all’illegalità, ma anche per contrastare la strategia russa verso il sud del continente africano. Inoltre, l’ambiguità strategica dell’attuale amministrazione statunitense nei confronti della Russia e il suo approccio incoerente in Libia confermano che, non solo sul continente europeo, l’Europa deve fare affidamento sui propri mezzi per affrontare l’aggressivo espansionismo di Mosca.
Le contromisure europee presuppongono che i singoli membri dell’UE abbandonino i loro interessi concorrenti in Libia, che hanno a lungo indebolito l’azione internazionale. Oltre a sostenere con decisione gli sforzi dell’UNSMIL, l’UE dovrebbe fornire una leadership diplomatica aggiuntiva, investimenti finanziari e supporto tecnico mirato, al fine di offrire alternative credibili e sostenibili al popolo libico. A livello economico, l’UE potrebbe ampliare l’assistenza tecnica alla CBL e ad altre istituzioni finanziarie per sostenere l’unificazione del bilancio e riforme anticorruzione.
Inoltre, l’UE dovrebbe migliorare il coordinamento tra gli attori della sicurezza libici, incoraggiando il disarmo delle milizie e promuovendo strategie di riforma per l’unificazione istituzionale. Sulla migrazione, pur tra le difficoltà del clima politico europeo attuale, soluzioni dovrebbero includere l’espansione di percorsi sicuri e legali per i richiedenti asilo, come corridoi umanitari e programmi di integrazione. Smantellare seriamente le reti di traffico di esseri umani e sviluppare meccanismi di protezione comunitaria impone di evitare accordi con politici che traggono profitto dal traffico di esseri umani, nonché garantire l’accesso illimitato dell’ONU e delle ONG a tutti i centri di detenzione.
Per indebolire il ruolo della Russia in Libia occorre, ad esempio, espandere l’Operazione IRINI, la missione navale UE che fa rispettare l’embargo ONU sulle armi in Libia. Questo aiuterebbe a contrastare i traffici illegali di armi (molti dei quali legati agli interessi russi), ma anche a rafforzare lo scambio di intelligence e la sorveglianza sulle attività dei mercenari russi. Andrebbero inoltre avviate iniziative per contrastare la disinformazione russa e sostenere la società civile e le organizzazioni mediatiche libiche nel resistere alle narrazioni promosse dai media russi. Tali azioni potrebbero ricevere supporto dalla NATO, o da singoli membri dell’Alleanza. In generale, una revisione delle strategie regionali UE, da tempo in discussione, dovrebbe puntare a ristrutturare e rafforzare i partenariati con i vicini nordafricani della Libia, come Algeria ed Egitto, ed a cooperare con altri attori coinvolti e potenti, come la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti.
* Andrea Cellino è vicepresidente del Middle East Institute Switzerland ed Executive-in-Residence del Geneva Centre for Security Policy.
Vertice a Istanbul tra Zelensky, Putin e Trump? Scenario incerto e prospettive limitate
Nathalie Tocci, Direttrice dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuta a Spazio Transnazionale, la trasmissione condotta da Francesco De Leo su Radio Radicale.
Durante l’intervento ha fatto il punto sul conflitto in Ucraina, sottolineando i tentativi dell’amministrazione Trump di avviare negoziati. Tocci ha espresso dubbi sulla possibilità di un prossimo incontro a Istanbul tra Zelensky, Putin e Trump, ritenendo improbabile che il presidente russo sia realmente interessato a un cessate il fuoco. Nel corso dell’intervista, ha inoltre condiviso alcune riflessioni sul suo recente viaggio in Ucraina.
Il viaggio di Trump nel Golfo: verso una nuova alleanza tra USA e Arabia Saudita
Maria Luisa Fantappiè, responsabile del Programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuta a Spazio Transnazionale, la trasmissione condotta da Francesco De Leo su Radio Radicale.
Fantappiè ha commentato la visita di Donald Trump nei Paesi del Golfo, sottolineando come essa rappresenti una scommessa per costruire una relazione tra Arabia Saudita e Stati Uniti analoga a quella che Washington intrattiene con Israele. Un cambiamento strategico da parte dell’Arabia Saudita, che punta a diventare — insieme a Israele — uno degli alleati fondamentali degli Stati Uniti nella regione.
La Corte internazionale di giustizia respinge la richiesta del Sudan di misure provvisorie nei confronti degli Emirati Arabi Uniti
La Corte internazionale di giustizia, con ordinanza depositata il 5 maggio, ha respinto la richiesta di misure provvisorie avanzata dal Sudan in base all’articolo 41 dello Statuto nei confronti degli Emirati Arabi Uniti, accusati dal Governo sudanese di complicità nel genocidio nel Darfur occidentale a causa del supporto fornito dagli Emirati Arabi alle Forze paramilitari di supporto rapido (Rapid Support Forces, RDF) nella guerra civile in corso da due anni (ordinanza).
Perché la CIG respinge la richiesta di misure provvisorie?La decisione della Corte è dovuta alla constatazione da parte dei giudici internazionali dell’assenza di giurisdizione a causa della riserva apposta dagli Emirati Arabi al momento della ratifica della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948 (qui l’elenco dei Paesi ratificanti con le riserve https://treaties.un.org/pages/ViewDetails.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=IV-1&chapter=4). In particolare, gli Emirati, nel 2005, avevano posto una riserva (al pari di altri 16 Stati) all’articolo IX escludendo la giurisdizione della Corte circa l’interpretazione, l’applicazione e l’esecuzione della Convenzione, incluse le controversie sulla responsabilità degli Stati per atti di genocidio.
Per la Corte, tenendo conto che le misure possono essere disposte solo se sussiste la giurisdizione prima facie della Corte e che la riserva degli Emirati non pone alcun dubbio interpretativo, ha escluso la propria competenza e ha disposto la cancellazione dal ruolo della causa proprio perché non vi è un fondamento giuridico che legittimi la giurisdizione della Corte. Detto questo, però, i giudici internazionali hanno osservato che al di là dell’assenza di giurisdizione e dell’impossibilità di pronunciarsi nel merito, ordinando così la rimozione del caso dall’elenco dei procedimenti, gli Stati parte sono tenuti a rispettare gli obblighi stabiliti dalla Convenzione per non incorrere in un illecito internazionale.
L’ordinanza e la decisione di rimuovere il caso dal ruoloL’ordinanza è stata adottata con 14 voti favorevoli e due contrari (si tratta del giudice Yusuf (Yusuf) e del giudice ad hoc Simma che ha allegato una dichiarazione Dichiarazione Simma). La Corte si è invece spaccata sulla decisione di rimuovere il caso dal ruolo, scelta effettuata con 9 voti favorevoli e 7 contrari (opinioni, Robledo).
Robert Francis Prevost è diventato Papa Leone XIV
Robert Francis Prevost è diventato Papa Leone XIV dopo che i cardinali di tutto il mondo lo hanno scelto come primo leader americano degli 1,4 miliardi di cattolici del mondo. Una folla di decine di migliaia di persone è esplosa in preghiera e commozione quando Leone, successore del defunto Francesco, si è affacciato al balcone della Basilica di San Pietro per pronunciare il primo discorso del suo ministero.
“A tutte le persone, ovunque si trovino, a tutti i popoli, a tutta la Terra, la pace sia con voi”, ha detto un sorridente Leone alla folla. “Aiutateci a costruire ponti attraverso il dialogo, attraverso l’incontro, per unirci come un unico popolo, sempre in pace”.
Il discorso di Leone è stato accolto con applausi, soprattutto quando il prelato – che ha trascorso molti anni in Perù – ha parlato in spagnolo, e anche quando ha reso un caloroso omaggio al suo popolare predecessore Papa Francesco, morto il mese scorso. “Abbiamo ancora nelle orecchie la voce debole, ma sempre coraggiosa, di Papa Francesco che benedice Roma”, ha detto, riferendosi al discorso della domenica di Pasqua dell’argentino malato, un giorno prima della sua morte. “Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce ponti, che dialoga, che è sempre aperta”.
Un grande onoreIl nome dell’americano era circolato tra i “papabili” – cardinali ritenuti qualificati per il papato – come qualcuno che potesse difendere e portare avanti l’eredità di Francesco. Ma non era una figura riconosciuta a livello mondiale tra i cattolici. I leader mondiali si sono affrettati ad accogliere la sua nomina e a promettere di lavorare con la Chiesa su questioni globali.
Come cardinale Prevost, il nuovo papa aveva difeso i poveri e i diseredati, spesso ripostando articoli critici nei confronti delle politiche anti-migranti del presidente statunitense Donald Trump, ma il capo della Casa Bianca ha comunque accolto con favore l’elezione. “Congratulazioni al cardinale Robert Francis Prevost, che è stato appena nominato Papa”, ha detto Trump in un post sulla sua piattaforma di social media. “È un tale onore rendersi conto che è il primo Papa americano. Che emozione e che grande onore per il nostro Paese”.
In precedenza, la folla si era emozionata quando dal camino della Cappella Sistina era uscito del fumo bianco che segnalava l’elezione nel secondo giorno di votazioni dei cardinali.
Le campane della Basilica di San Pietro e delle chiese di tutta Roma hanno suonato a festa e la folla si è precipitata in piazza per guardare il balcone della basilica, che è stato allestito con tende rosse per il primo discorso al mondo del 267° Papa, che è stato introdotto in latino con il nome papale scelto.
“È una sensazione incredibile”, ha detto un euforico Joseph Brian, un cuoco di 39 anni di Belfast, nell’Irlanda del Nord, venuto a Roma con sua madre per assistere allo spettacolo. “Non sono una persona troppo religiosa, ma essere qui con tutte queste persone mi ha lasciato senza fiato”, ha detto all’AFP mentre la gente intorno a lui saltava per l’eccitazione. Ci sono state scene euforiche quando un sacerdote si è seduto sulle spalle di qualcuno sventolando una bandiera brasiliana e un altro ha sollevato in aria un pesante crocifisso in segno di giubilo.
“Habemus Papam”“Habemus papam, woooo!” ha esclamato Bruna Hodara, 41 anni, brasiliana, facendo eco alle parole che sarebbero state pronunciate sul balcone al momento della presentazione del nuovo Papa. Lei, come altri, ha registrato il momento storico sul suo telefono, mentre altri sventolavano bandiere e gridavano “Viva il Papa!” in italiano.
“È un’opportunità unica nella vita essere qui a vedere il Papa. È davvero speciale… Sono emozionato!” ha detto Florian Fried, un quindicenne di Monaco, in Germania.
Francesco è morto all’età di 88 anni dopo un papato di 12 anni durante il quale ha cercato di forgiare una Chiesa più compassionevole – ma ha provocato la rabbia di molti conservatori con il suo approccio progressista.
Leone XIV si trova ora di fronte a un compito epocale: oltre a far valere la sua voce morale su un palcoscenico globale dilaniato dai conflitti, deve cercare di unire una Chiesa divisa e affrontare questioni scottanti come le continue conseguenze dello scandalo degli abusi sessuali.
Non si sa quante votazioni siano state necessarie per eleggere il nuovo Papa, ma il conclave ha seguito la storia recente concludendosi in meno di due giorni. Anche se i dettagli dell’elezione rimarranno per sempre segreti, il nuovo papa ha dovuto ottenere almeno i due terzi dei voti per essere eletto.
Pastore o diplomaticoL’elezione è avvenuta in un momento di grande incertezza geopolitica, che è stata considerata una questione chiave per il voto, insieme alle spaccature all’interno della Chiesa.
Francesco è stato un riformatore compassionevole che ha dato priorità ai migranti e all’ambiente, ma ha fatto arrabbiare i tradizionalisti che volevano un difensore della dottrina piuttosto che un personaggio da prima pagina.
Circa l’80% dei cardinali elettori è stato nominato da Francesco. Provenendo da 70 Paesi del mondo, è stato il conclave più internazionale di sempre. L’insediamento papale avviene solitamente meno di una settimana dopo l’elezione, con una messa celebrata davanti a leader politici e religiosi di tutto il mondo.
© Agence France-Presse
La campagna di sabotaggi russi in Europa interessa anche l’Italia
Nel corso del 2024 le agenzie di intelligence occidentali hanno lanciato l’allarme sull’aumento delle operazioni clandestine condotte dal regime russo in Europa. In particolare, si sono moltiplicati gli incendi dolosi, le esplosioni e le manomissioni di infrastrutture critiche in tutto il continente.
Nel 2023 l’intelligence militare russa (GU) ha istituito un Dipartimento attività speciali incaricato di organizzare attentati e sabotaggi. Centri commerciali e supermercati sono stati dati alle fiamme in Polonia e nei Paesi baltici da cittadini polacchi, bielorussi e persino rifugiati ucraini, motivati da ricompense economiche e talvolta all’oscuro dei mandanti, che li hanno contattati anonimamente via Telegram. In Germania è stato sventato un attentato ad Armin Papperger, amministratore delegato di Rheinmettal, azienda tedesca che fornisce aiuti militari all’Ucraina. Mentre in Spagna è stato assassinato il pilota russo che aveva disertato a favore di Kyiv e si era stabilito sotto falsa identità nei pressi di Alicante, dove è stato raggiunto da sicari assoldati dall’intelligence di Mosca.
È noto infatti che i servizi di Putin abbiano una collaborazione organica con la mafia russa per operazioni clandestine in Europa. In Francia hanno pagato cittadini moldavi e bulgari affinché disegnassero sessanta stelle di David sulle abitazioni di cittadini ebrei di Parigi all’indomani del 7 ottobre, o lasciassero una bara con la scritta “soldati francesi in Ucraina” davanti alla Torre Eiffel. In Germania hanno versato denaro a quattro balcanici per danneggiare oltre 270 auto alla vigilia delle elezioni e incolpare i Verdi, tra i più convinti sostenitori di Kyiv. Uno degli episodi più preoccupanti riguarda l’arresto di un uomo originario del Donbas, rimasto ferito nell’esplosione di un ordigno che stava assemblando nella sua stanza d’hotel all’aeroporto Charles de Gaulle, poche settimane prima dell’inizio delle Olimpiadi di Parigi.
Proprio i giochi olimpici sono stati funestati da un misterioso attacco che ha colpito tre delle quattro principali direttrici ferroviarie ad alta velocità, generando il caos per migliaia di utenti. Le indagini non hanno ancora identificato i responsabili, ma sarebbe ingenuo ritenere che un’operazione di tale portata sia stata ideata ed eseguita esclusivamente da piccoli gruppi di anarchici o ecologisti radicali. Quel che è certo è che il Cremlino ha dato carta bianca, come dimostra il piano per spedire pacchi esplosivi su voli DHL, che avrebbe potuto provocare disastri aerei e ha richiesto l’intervento dell’amministrazione Biden per minacciare ripercussioni.
Ci sono stati arresti di cittadini tedeschi di origine russa che preparavano attacchi a basi NATO dove passano gli aiuti per l’Ucraina o per avvelenare il sistema idrico di aeroporti militari, mentre in Polonia sono finite in carcere dozzine di persone pagate per installare videocamere sulle linee ferroviarie dirette a Kyiv o per sabotarle. La Scandinavia non è stata risparmiata, con incendi dolosi dalla Norvegia alla Finlandia, ma anche in Svezia, con la costruzione di una chiesa ortodossa russa ritenuta in una posizione sospetta, strategicamente vicina a un aeroporto militare e una centrale elettrica.
Le operazioni e i rischi in ItaliaDal 2016 l’Italia è stata oggetto di numerose operazioni di spionaggio, come dimostrano la condanna a 29 anni dell’ufficiale di Marina Walter Biot, i tentativi di infiltrazione alla base NATO di Napoli con l’agente dell’intelligence militare russa Olga Kolobova smascherata dai giornalisti di Bellingcat, o l’ufficiale francese processato per tradimento che lavorava nella struttura partenopea. La reclutatrice dell’FSB Natalia Burlinova, ricercata dall’FBI, nel 2019 è riuscita a infiltrarsi anche negli ambienti italiani. Allo spionaggio si sommano gli attacchi del gruppo hacker NoName057(16) contro infrastrutture digitali di Farnesina, banche e aeroporti, per rappresaglia alle parole del Capo dello Stato Mattarella, definito “russofobo” per la sua condanna dell’imperialismo di Mosca.
Ma le operazioni di sabotaggio non si sono limitate alla sfera digitale. Prova ne è la fuga dell’oligarca russo Artem Uss dai domiciliari a Milano in attesa dell’estradizione negli Stati Uniti per quattro capi d’accusa. L’evasione è stata materialmente facilitata da criminali balcanici, ma coordinata senz’altro dal Cremlino. La medesima procura, nel 2024, ha ottenuto il processo per due imprenditori brianzoli filorussi, accusati di ricevere criptovalute dai servizi di Mosca per mappare le zone cieche delle telecamere di sorveglianza a Milano e Roma, ma anche per allestire una rete di “safe house” per gli operativi russi e installare dash cam per le cooperative di taxi, con le registrazioni da mandare all’intelligence. Questo caso andrebbe messo in relazione con la notizia del Dossier Center, fondato da Mikhail Khodorkovskij, secondo cui i servizi militari russi hanno ricevuto l’ordine di raccogliere informazioni sui critici del Cremlino in Europa, inclusi politici, giornalisti, ricercatori e attivisti.
La sezione antiterrorismo della procura meneghina ha aperto un fascicolo per spionaggio sull’episodio del misterioso drone ad ala fissa di fabbricazione russa che per cinque volte ha sorvolato il Joint Research Centre UE di Ispra, a Varese, poco distante da stabilimenti sensibili di Leonardo. Non si tratterebbe di una novità, in quanto già in Germania droni russi sono stati avvistati sopra basi militari in cui vengono addestrati i soldati ucraini e simili incidenti si sono verificati anche su basi della RAF in Inghilterra. Volendo tracciare un parallelo con la Svezia, anche a Varese nel 2021 è stata inaugurata una chiesa ortodossa russa, a pochi chilometri dal centro europeo sulla ricerca nucleare di Ispra e dalle sedi Leonardo. Al di là delle speculazioni, è noto che il Cremlino utilizzi la Chiesa ortodossa russa per operazioni clandestine, appoggio logistico e propaganda.
Secondo un’analisi del Center for Strategic and International Studies, il numero di attacchi ibridi russi in Europa è triplicato nel 2024 rispetto al 2023, col 27% indirizzato alla rete dei trasporti e un 21% alle infrastrutture critiche, come le condutture energetiche e i collegamenti internet. Le reti ferroviarie italiane sono vulnerabili a sabotaggi fisici e a cyberattacchi, mentre i cavi sottomarini, come quelli Blue Med in posa a Genova, nel Mar Baltico, sono già stati oggetto di danneggiamenti mirati. Anche i rigassificatori di GNL, fondamentali per emanciparsi dalle forniture russe, sono potenziali bersagli nella guerra ibrida di Mosca. Si tratta di asset strategici che richiedono un’attenzione speciale.
Alla luce di questa situazione, anche in Italia si rende necessario un salto di qualità per la sicurezza interna. Una riforma attesa degli apparati di intelligence e controspionaggio, ma anche un’istituzione dedicata al contrasto delle ingerenze esterne per la sicurezza cognitiva. Inoltre, l’Italia è rimasta l’unico paese del G7 a non avere ancora un consiglio di sicurezza nazionale, perché il Consiglio supremo di difesa ha altre prerogative, e manca una strategia di sicurezza nazionale, elaborata invece dagli altri paesi europei. Insomma, occorre adeguare il modello istituzionale alle nuove sfide poste dalla Russia e da altri regimi che vogliono interferire nei processi democratici, aumentare l’instabilità e avanzare i propri interessi egemonici.