

Un altro passo avanti verso un’Unione europea più resiliente
Il territorio europeo è colpito sempre più spesso da emergenze di diversa natura: inondazioni e terremoti, incidenti industriali e atti intenzionali, e più recentemente la pandemia da Covid-19. A questi si sono aggiunte azioni di guerra ibrida che mirano a colpire tutti i livelli della società, le sue istituzioni e infrastrutture, con l’obiettivo di causare l’interruzione dei servizi vitali. Inoltre, più recentemente, il conflitto in Ucraina ha riportato da un lato il rischio dell’arma atomica, e dall’altro la possibilità che materiali pericolosi di diversa natura possano diffondersi in aree popolate. Questi episodi dimostrano un’evoluzione delle minacce verso eventi spesso considerati improbabili. Si tratta, inoltre, di emergenze con gravi conseguenze che superano i confini nazionali e richiedono il coordinamento tra più attori. Ne emerge la necessità di un rinnovato dibattito sulla preparazione della società alle crisi e di un sistema adeguato a non farci cogliere impreparati di fronte alle minacce attuali e alle crisi future nelle loro molteplici dimensioni.
Le iniziative europee nella gestione delle emergenzeL’Ue ha adottato negli anni numerose iniziative volte ad aumentare il sostegno europeo, incoraggiare la collaborazione e coordinare l’assistenza tra gli Stati membri. Fra queste, va ricordato il Meccanismo di Protezione Civile dell’Ue (EU Civil Protection Mechanism – EUCPM), lanciato nel 2001 e basato sulla condivisione di risorse quali equipaggiamenti, mezzi e personale, messi volontariamente a disposizione dagli Stati partecipanti. Nel 2019, l’EUPCM è stato ulteriormente rafforzato da rescEU, una programma di scorte aggiuntive (fra cui articoli medici e dispositivi di protezione) finanziate al 100% dall’Ue.
A livello nazionale, alcuni Stati membri si contraddistinguono, inoltre, per il loro approccio onnicomprensivo alla sicurezza, che si riflette in misure locali indirizzate a tutta la società. Ne sono un esempio la Finlandia e la Svezia, le cui politiche di resilienza comprendono corsi erogati a livello nazionale e regionale per insegnare la preparazione e la difesa civile, rivolti al settore privato e alle organizzazioni della società civile, ai giornalisti e ai media. Particolare attenzione è data al mantenimento dell’autosufficienza dei cittadini in situazioni di emergenza, istruiti su come affrontare in modo autonomo una crisi, anche in assenza di assistenza statale.
La Preparedness Union StrategyL’approccio onnicomprensivo e l’importanza di coinvolgere maggiormente i cittadini nella costruzione della sicurezza, sono alcuni dei punti chiave del rapporto elaboratolo scorso ottobre dall’ex Presidente finlandese, Sauli Niinistö, nel suo ruolo di Special Adviser alla Presidente della Commissione europea. Il rapporto ha fornito, a sua volta, la base della Strategia europea Preparedness Union Strategy presentata lo scorso 26 marzo 2025.
La Strategia comprende 30 azioni chiave che gli Stati membri dell’Ue devono intraprendere per aumentare il loro livello di preparazione (“preparedness”) contro potenziali crisi future, dalle catastrofi naturali agli incidenti industriali, agli attacchi informatici e militari. Il documento comprende un Piano d’Azione per promuovere gli obiettivi di resilienza dell’Unione, nonché per sviluppare una cultura della preparazione fin dalla pianificazione di tutte le politiche dell’UE.
La Strategia si basa su tre pilastri: un approccio integrato a tutti i rischi (multi-hazard approach), un approccio che coinvolge gli attori governativi di tutti i livelli di governo (whole-of-government) e un approccio che coinvolga l’intera società (whole-of-society), riunendo privati, società civile, imprese, oltre che la comunità scientifica e accademica.
Questo triplice approccio è necessario per raggiungere gli obiettivi chiave della Strategia. Tali obiettivi comprendono: la protezione e il mantenimento delle funzioni essenziali della società, anche tramite la fornitura di scorte aggiuntive a quelle del già citato programma rescEU, a livello nazionale, o nella forma accordi con il settore privato; il rafforzamento del coordinamento della risposta alle crisi; l’aumento delle capacità di valutazione e prevenzione della minaccia; l’aumento della cooperazione pubblico-privata e civile-militare; e l’adozione di misure di preparedness per tutta la popolazione, inclusa una formazione dedicata nelle scuole.
Come ricordato dalla Presidente Von der Leyen, i cittadini, che Stati membri e le imprese hanno bisogno degli strumenti giusti sia per prevenire le crisi che per reagire rapidamente. Chiunque si trovi un territorio a rischio, deve essere formato e preparato in quanto esso stesso attore di sicurezza. Da questa consapevolezza deriva una delle azioni che ci riguarda i cittadini più da vicino, ovvero la disponibilità di kit di emergenza che consentano ai singoli di essere autosufficienti per un minimo di 72 ore. È prevista, inoltre, l’elaborazione di una valutazione dei rischi e delle minacce entro il 2026 e l’istituzione di Centro di coordinamento delle crisi dell’Ue, che dovrebbe migliorare l’integrazione fra i centri di coordinamento europei già esistenti.
Con la Preparedness Union Strategy, l’Ue, che da anni svolge un ruolo cruciale nella protezione e nell’assistenza alle persone e ai paesi colpiti da gravi emergenze, si sta evolvendo di fronte alla crescente evidenza che le crisi richiedono azioni e di prevenzione e preparazione mirate, forti e coordinate. Un approccio a livello europeo svolge e continuerà a svolgere un ruolo chiave nell’armonizzare le capacità di gestione delle crisi, facilitando il coordinamento e sostenendo lo sviluppo coerente di programmi. Allo stesso modo, è fondamentale una gestione delle crisi flessibile, che unisca una componente sovranazionale al ruolo dello Stato e del singolo cittadino, come fornitori ed attori di sicurezza.
Attacco all’opposizione. La spirale autoritaria in Turchia
L’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, ha scosso la politica turca e riacceso i riflettori internazionali sulla progressiva erosione dello stato di diritto nel Paese. Una spirale ormai conosciuta da tempo, e per la quale il paese è stato etichettato di “autoritarismo competitivo”, formalmente democratico, ma privo delle condizioni minime per garantire pluralismo, concorrenza politica e indipendenza delle istituzioni.
Sebbene İmamoğlu sia stato assolto dalla maggior parte dei capi d’accusa — escluse le imputazioni legate al terrorismo, restano in piedi quelle per corruzione — l’azione giudiziaria contro di lui appare come l’ultimo tassello di una strategia perseguita da tempo dal presidente Recep Tayyip Erdoğan, volta a neutralizzare ogni forma di opposizione e concentrare sempre più potere nelle mani dell’esecutivo.
Le accuse e gli altri politici dietro le sbarreDa Istanbul, a Trabzon sul Mar Nero, passando per Ankara e fino a Izmir, sulle coste del Mediterraneo, le proteste stanno infiammando le piazze turche, in una situazione così critica che ricorda le atmosfere di post golpe.
İmamoğlu non è l’unico personaggio di spicco ad essere oggi in carcere in Turchia: dalle purghe dopo le rivolte a Gezi Park nel 2013, si contano, tra gli altri, il giornalista Can Dundar (oggi in esilio in Germania), il filantropo Osman Kavala, Selahattin Demirtas, leader del partito filo-curdo nel Parlamento, e Ümit Özdağ, leader del Zafer Partisi (il partito della Vittoria). Ma İmamoğlu è certamente il rivale più importante di Erdoğan, che in questo momento prova a tenere saldo il suo potere (e quello del suo partito, l’AKP), anche grazie ad accordi con parti politiche lontane e nemiche. L’appello al PKK per il disarmo lanciato dal leader Ocalan al momento non sta ricevendo alcuna risposta positiva. Erdoğan, dunque, pensa probabilmente di andare ad elezioni anticipate, per evitare di terminare il suo mandato nel 2028 e non avere più la possibilità di ricandidarsi.
Domenica scorsa, İmamoğlu è comunque risultato vincitore delle primarie del CHP (Partito Repubblicano), a cui era stato candidato dal partito in maniera simbolica, poiché già in carcere, rafforzando così la propria legittimità politica.
L’accentramento del potere nelle mani di Erdoğan ha in questi anni scosso anche l’economia del paese, che, pur mostrando segnali di resilienza in alcuni settori, resta minacciata da scelte populiste e da una struttura produttiva squilibrata. La politica estera, inoltre, riflette un’ambizione di autonomia strategica, che ha spesso rasentato il rischio di isolare Ankara dai suoi partner tradizionali.
Per l’Unione Europea, quest’ultima evoluzione interna della Turchia pone una questione di fondo: è possibile costruire un partenariato di sicurezza con un governo che, nei fatti, si allontana sempre più dai principi democratici?
Gli equilibri internazionali: una lezione per l’Europa?Dopo il disallineamento nei rapporti transatlantici, la Turchia ha rafforzato la sua posizione di partner strategico per la sicurezza europea e di attore chiave nei dossier migratori ed energetici. Importante snodo per l’export di petrolio e gas, Ankara intrattiene scambi commerciali con l’Unione Europea per un valore superiore ai 200 miliardi di euro annui. Dall’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022, ha assunto un ruolo chiave nel controllo degli accessi al Mar Nero e nell’attuazione delle sanzioni contro Mosca. Membro della “Coalizione dei volenterosi”, recentemente è stata anche indicata come potenziale contributore di rilievo a un’eventuale missione di peacekeeping in Ucraina.
Erdoğan sfrutta dunque questa posizione a proprio vantaggio: in particolare, punta al fatto che Trump non si preoccupi più di tanto della situazione interna e dei diritti umani in Turchia, e che sia invece più interessato che Erdoğan mantenga stabile la Siria e il governo provvisorio di Mohammad al-Bashir.
Tuttavia, la lezione dell’esperienza con la Russia di Vladimir Putin dovrebbe far riflettere: costruire cooperazione economica e strategica con regimi autoritari non garantisce stabilità, anzi, espone l’Europa a rischi imprevedibili. L’Unione Europea deve affermare con forza che la cooperazione con la Turchia resta auspicabile, ma condizionata al rispetto dello stato di diritto. Un partenariato strategico duraturo non può prescindere da un impegno condiviso verso la democrazia. Restare in silenzio di fronte a episodi come l’arresto di İmamoğlu significherebbe tradire non solo i cittadini turchi, ma anche i fondamenti stessi dell’integrazione europea. L’esperienza con la Russia di Vladimir Putin dimostra i rischi di scommettere sulla stabilità attraverso la cooperazione economica con regimi autoritari. Un’Europa che oggi cerca maggiore autonomia strategica non può fondare le proprie alleanze su regimi imprevedibili e privi di trasparenza.
Il Mar Rosso e il conflitto in Yemen: andare oltre la sicurezza marittima
Il 23 gennaio 2025 gli Houthi hanno liberato i venticinque membri della ciurma della nave mercantile MV Galaxy Leader, sequestrati nel novembre 2023 a seguito delle dichiarazioni di guerra da parte del gruppo non statale nei confronti di Israele e di tutte le navi in qualche modo legate ad esso. L’equipaggio della nave, sequestrata per la nazionalità israeliana del comproprietario della società madre associata ad essa, è stato rilasciato come diretta conseguenza dell’accordo per un cessate-il-fuoco a Gaza, raggiunto il 15 gennaio 2025 e reso operativo nei giorni seguenti. Gli Houthi hanno liberato la ciurma con il caveat di ritenersi garanti dell’accordo, e di limitare, ma non terminare completamente, gli attacchi, con un occhio fisso sul rispetto dei termini della tregua. Il rilascio è stato percepito con prudenza dal mondo mercantile europeo, che ancora non ha ripreso a pieno ritmo la rotta per il Mar Rosso, abbandonata dall’inizio degli attacchi in favore della più lunga ma sicura rotta intorno al Capo di Buona Speranza. Una nuova escalation tra Houthi, Stati Uniti ed Israele, a seguito della ripresa delle operazioni militari israeliane su Gaza a metà marzo 2025, ha reso ancora più lontana la prospettiva di un ritorno ad un utilizzo pre-crisi della rotta per il Mar Rosso.
Non confondere gli attacchi degli Houthi con attacchi di pirateriaNell’ultimo anno, la parziale inagibilità del Mar Rosso ha creato forti reazioni nel mondo mercantile, diplomatico, e della difesa italiano, che ha serrato i ranghi per mostrarsi tra i più ferventi sostenitori dei principi di libertà di navigazione e sicurezza della navigazione, in linea con il diritto internazionale garantito dalla convenzione UNCLOS.
Dal punto di vista sia operativo che mediatico, l’approccio nei confronti degli attacchi Houthi nel Mar Rosso è stato affrontato in maniera simile a come sono stati affrontati gli attacchi di pirateria a largo del Corno d’Africa, attraverso l’Operazione EUNAVFOR Atalanta. Eppure, la situazione è molto diversa. Un atto di pirateria si caratterizza principalmente per il suo obiettivo, cioè il profitto privato ricavato dall’attacco. In questo caso, il fatto che gli attacchi siano stati lanciati da un attore non statale non deve distrarre dalla valenza prettamente politica e bellica di queste azioni. Pur trattandosi di un attore non-statale non riconosciuto dalla comunità internazionale, il gruppo Houthi controlla da oltre dieci anni la parte nord-occidentale del paese, inclusa la capitale Sanaa. Come attore politico con il potere de facto di governo su un territorio, gli Houthi hanno agito come uno stato dichiarando guerra contro Israele—includendo attacchi missilistici direttamente su territorio israeliano—ed hanno esplicitamente condizionato la fine dei loro attacchi nel Mar Rosso al raggiungimento di una tregua a Gaza. Il fatto che il gruppo sia sospettato di aver tratto comunque profitto da parte di quelle navi mercantili disposte a pagare per la propria sicurezza non riduce le operazioni a quelle di bande criminali, e il considerarle tali non lascia comprendere la natura della situazione così come la sua potenziale soluzione.
Andare oltre la sicurezza marittimaIn questo contesto, è stato politicamente scivoloso da parte degli attori europei il far riferimento unicamente alla questione della sicurezza marittima e protezione della libertà di navigazione, trattandoli come principi oggettivi e ‘neutrali’ di diritto internazionale, senza soffermarsi abbastanza sul versante politico della questione. A poco è valso agli occhi dell’audience regionale cercare di distinguere l’operazione a guida europea Aspides dalla più offensiva Poseidon Archer a guida anglo-statunitense, sottolineando come nel caso europeo si tratti di una semplice operazione difensiva a garanzia della libertà di navigazione, non includendo attacchi su territorio yemenita contro le postazioni Houthi.
Infatti, le azioni a supporto della sicurezza marittima hanno generato frustrazione tra gli attori regionali verso quelli che sono spesso percepiti come doppi standard attuati dall’Occidente, ma anche tra quei partner, come le monarchie del Golfo, da tempo impegnati a gestire gli effetti della guerra in Yemen con poco supporto internazionale.
Il messaggio che è arrivato sulle sponde del Mar Rosso e fino al Golfo Persico è stato che l’Unione Europea ha cominciato a mostrare interesse per risolvere le cause che hanno portato agli attacchi Houthi solo nel momento in cui i propri interessi commerciali sono stati messi in pericolo, quando per anni—dal fallimento della conferenza per il dialogo nazionale in poi—il conflitto in Yemen è passato in secondo piano, senza un attivo impegno internazionale nei confronti di una soluzione di lungo periodo.
Risolvere i nodi del conflitto in YemenCi sono alcuni nodi fondamentali che rendono la situazione nel Mar Rosso ancora precaria e che hanno contribuito ad esacerbare quella che per anni è stata definita la peggiore crisi umanitaria al mondo dovuta alla mancata risoluzione del conflitto in Yemen, soprattutto negli anni dell’intervento militare a guida saudita. Il principale nodo riguarda la riattivazione del processo di dialogo nazionale in Yemen, possibilmente sotto l’egida delle Nazioni Unite, che includa tutti gli attori e portatori di interessi coinvolti, dal governo internazionalmente riconosciuto, al movimento separatista del Sud, agli Houthi.
Di questo si è parlato a lungo tra gli addetti ai lavori dal 2011 in poi, e soprattutto dal 2014, quando gli Houthi hanno preso il controllo della capitale lasciando intendere di essere lì per restare, e di non poter continuare ad essere esclusi dai negoziati ufficiali. Solo attraverso un processo di riconciliazione inclusivo gli Houthi possono venire esautorati della loro portata rivoluzionaria, che facilmente può appigliarsi e sfruttare più ampi conflitti regionali per mostrarsi dal lato degli ‘oppressi’, ed evitare di doversi focalizzare sul rendere conto alla popolazione delle effettive capacità di governo del territorio.
Continuare il gioco ondivago della designazione/rimozione del gruppo dalla lista delle organizzazioni terroristiche, da parte degli Stati Uniti, rende ovviamente il nodo particolarmente difficile da sciogliere, ed è su questo punto che l’Italia potrebbe giocare una funzione attiva di facilitazione al dialogo, sfruttando il proprio auto-dichiarato interesse di svolgere un ruolo di ponte tra gli Stati Uniti dell’Amministrazione Trump, l’Europa, e il Mediterraneo Allargato. Per attuare questa strategia, è però necessario che l’Italia vada oltre la retorica della sicurezza marittima nell’area e prenda piena consapevolezza della dimensione politica della crisi e delle sue ramificazioni.
Questo articolo è stato scritto nell’ambito del progetto Rotte di distensione: sicurezza marittima e scenari di cooperazione attraverso il Mar Rosso, con il supporto del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e della Fondazione Compagnia di San Paolo.
Un ruolo guida per l’Italia nel Mar Rosso
Il 14 febbraio 2025, a un anno dall’avvio dell’operazione EUNAVFOR Aspides, il Consiglio dell’Unione Europea ha deciso di rinnovarne il mandato fino al 28 febbraio del 2026. Una buona notizia per l’Italia, che fin dai primi giorni degli attacchi Houthi contro navi commerciali nel Mar Rosso ha cercato di mobilitare una risposta dell’UE ad una minaccia che colpisce le economie di tutto il continente. Per Roma, la salvaguardia del principio di libertà di navigazione è infatti un obiettivo strategico fondamentale considerando che oltre il 60% delle importazioni e il 50% delle esportazioni nazionali passano dal mare. Non a caso il Mediterraneo allargato è ad oggi il punto focale della proiezione operativa delle Forze Armate, con gli stretti di Suez e Bab-el-Mandeb come sorvegliati speciali.
Con poche eccezioni negli ultimi decenni, l’Italia ha voluto agire all’interno di coalizioni preferibilmente inquadrate in strutture di comando NATO o UE. In tale contesto, che la libera navigazione sulle rotte tra Mar Rosso e Golfo Persico sia un interesse fondamentale per l’Italia e la sua economia è ben evidenziato dal fatto che oltre al ruolo guida in Aspides, la Marina Militare fornisce spesso e volentieri un contributo abilitante ad altre operazioni di sicurezza marittima nel Mediterraneo allargato. In primis EU Naval Force (EUNAVFOR) Atalanta, attualmente a guida Italiana, che dal 2008 contrasta la pirateria al largo del Corno d’Africa, e l’ora conclusa operazione AGENOR – componente militare della European-led Maritime Awareness in the Strait of Hormuz (EMASoH).
Insicurezza marittimaTuttavia, l’attuale scenario geopolitico, caratterizzato dalla competizione tra stati e crescente instabilità, è foriero di un contesto dove la libertà di navigazione diventa sempre meno un aspetto inviolabile del diritto internazionale. Dal Mar Rosso fino al Mar Cinese Meridionale assistiamo a un marcato processo di territorializzazione dei mari e in generale al ritorno del mare come punto di incontro (e potenziale scontro) tra grandi potenze. Di fronte ad un proliferare di crisi e minacce non è scontato che NATO e UE riescano sempre a garantire l’unità e tempestività necessarie per mobilitare i rispettivi strumenti.
In tale contesto, gli attacchi a navi commerciali per mano degli Houthi, e la frammentata risposta occidentale, rappresentano una svolta preoccupante per due motivi. Prima di tutto, gli Houthi si sono dimostrati capaci di adoperare sistemi d’arma relativamente avanzati in grado di minacciare e, in alcuni casi, colpire navi anche a centinaia di chilometri di distanza. Missili da crociera, missili balistici e droni sono infatti strumenti ben diversi dalle armi tipiche dei pirati somali che pur hanno messo a soqquadro la libera navigazione intorno al Corno D’africa nello scorso decennio. In secondo luogo, è apparso evidente come, di fronte ad una minaccia tale da richiedere un intervento militare, dai Paesi occidentali non sia scaturito un approccio unitario. Gli Stati Uniti, seguiti dal Regno Unito, hanno infatti prediletto una strategia più aggressiva con la missione Poseidon Archer (in parallelo all’operazione Prosperity Guardian) per di colpire obiettivi Houthi sulla terraferma. Nel fondare Aspides i Paesi partecipanti, Italia e Francia in primis, hanno invece preferito mantenere una postura più difensiva, con regole di ingaggio più restrittive e che permettevano fondamentalmente soltanto di intercettare missili e droni già in volo.
Se da una parte l’operazione anglo-americana non è realmente riuscita a dissuadere gli attacchi degli Houthi, dall’altra l’approccio ostentatamente difensivo imposto ad Aspides non può rappresentare un’idea di deterrenza a lungo termine contro nuovi attacchi da Houthi o altri attori statuali o non statuali. Anche a diversi mesi dall’inizio di entrambe le operazioni il traffico di navi portacontainer nel Mar Rosso ha continuato a calare, arrivando a dicembre 2024 a superare il meno 80% rispetto all’anno precedente. Aspides, che nel suo primo anno di operazioni ha scortato da vicino più di 370 navi, in diversi casi neutralizzando fisicamente missili e droni Houthi, non è evidentemente bastata a riportare fiducia nel settore dello shipping, che nella maggior parte dei casi ha continuato a preferire la rotta alternativa intorno all’Africa, che resta però più dispendiosa in termini di tempo e costi – nonché di emissioni di CO2. Se è vero che non è possibile analizzare questa crisi rimuovendola dal più ampio contesto dell’escalation in Medio Oriente, evocata ripetutamente dalla leadership degli Houthi, è comunque importante riflettere sul segnale che una risposta occidentale eterogenea e – dati alla mano – poco efficace in entrambe le sue declinazioni possa aver lanciato a livello regionale e globale.
L’importanza di una leadership italianaIl lavoro della Marina italiana e di Aspides in generale è di assoluto valore, e anzi ha dimostrato la capacità dei Paesi dell’Unione di operare in teatri complessi come lo è stato il Mar Rosso nell’ultimo anno, proteggendo con successo tutte le navi mercantili scortate anche sotto il tiro degli Houthi. L’operazione stessa, a ben vedere, simboleggia un enorme passo avanti per l’avanzamento dell’ideale di una difesa europea in quanto rappresenta la prima volta che forze UE sono state dispiegate in un teatro operativo ostile fin da subito. Anche il processo decisionale per la creazione di Aspides è stato relativamente veloce rispetto al passato.
Per l’Italia si delinea dunque un futuro più incerto per ciò che riguarda la sicurezza delle rotte marittime, ma al contempo l’opportunità di costruirsi un ruolo di leadership nella salvaguardia della libera navigazione dei punti caldi del Mediterraneo Allargato, forte della sua Marina e del carattere expeditionary di tutta la Difesa. Un’Italia più decisa e decisiva sarebbe sicuramente un asset importante per l’Europa, in gran parte concentrata esclusivamente sulla minaccia russa ma spesso pronta a seguire i Paesi disposti a tracciare la strada in un Mediterraneo allargato sempre più agitato.
Questo articolo è stato scritto nell’ambito del progetto Rotte di distensione: sicurezza marittima e scenari di cooperazione attraverso il Mar Rosso, con il supporto del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e della Fondazione Compagnia di San Paolo.
Messico e Stati Uniti: come si sono evoluti i rapporti bilaterali tra Trump e Sheinbaum
Il passaggio dall’amministrazione Biden a quella Trump ha segnato un drastico e prevedibile cambio di rotta in numerose politiche adottate negli ultimi quattro anni. Con l’insediamento della sua seconda amministrazione lo scorso gennaio, Trump ha avviato una nuova fase della politica americana, con particolare attenzione al settore commerciale. L’aumento dei dazi doganali sulle importazioni ha generato tensioni con i Paesi coinvolti, che ora si interrogano sul futuro delle loro relazioni bilaterali con Washington.
Il Messico è stato tra i primi Paesi presi di mira da Trump con queste misure, confermandosi ancora una volta un bersaglio ricorrente della sua politica estera. A febbraio, il tycoon ha annunciato tariffe del 25 per cento, sostenendo che fossero necessarie per responsabilizzare i Paesi con cui gli Stati Uniti intrattengono accordi commerciali e ribadendo che l’accesso al mercato americano è un privilegio. Nel caso specifico del Messico, questi provvedimenti rientrerebbero in una strategia più ampia volta a contenere l’immigrazione irregolare verso gli Stati Uniti e a rafforzare la sicurezza nazionale.
Sheinbaum: un nuovo equilibrio politicoQuesto approccio ha aperto un nuovo capitolo nelle relazioni tra Stati Uniti e Messico dove, nell’ottobre scorso, è stata eletta la nuova presidente Claudia Sheinbaum. Prima donna a ricoprire l’incarico, Sheinbaum è stata descritta dal New York Times come una «riservata tecnocrate», in netto contrasto con il suo predecessore Andrés Manuel López Obrador, il cui stile politico, caratterizzato da una forte presenza mediatica, trovava un parallelo in quello di Donald Trump.
Il cambio di leadership ha portato con sé un’evoluzione nell’approccio del Messico verso Washington. Se López Obrador tendeva a privilegiare il compromesso per mantenere rapporti stabili con gli Stati Uniti, accettando molte delle decisioni provenienti da nord del confine, Sheinbaum sembra intenzionata a difendere con maggiore fermezza gli interessi messicani.
Narcotraffico e immigrazioneIn un momento delicato, in cui il Messico è accusato dall’amministrazione Trump di non contrastare efficacemente i cartelli del narcotraffico – responsabili dell’esportazione di droghe letali negli Stati Uniti – e di non gestire adeguatamente i flussi migratori, Sheinbaum è riuscita a far sentire la propria voce. Il suo atteggiamento più assertivo segna un cambio di passo nelle relazioni bilaterali e potrebbe ridefinire il dialogo tra i due Paesi nei prossimi anni.
La Presidenta ha tuttavia dimostrato apertura e collaborazione su questioni di interesse comune, a partire dalla lotta contro il traffico illegale di fentanyl proveniente dal Messico, che sta alimentando un’epidemia di tossicodipendenza negli Stati Uniti. Sheinbaum ha raggiunto un accordo con Donald Trump per l’invio di almeno diecimila membri della Guardia Nazionale messicana lungo la frontiera con gli Stati Uniti, con il compito di monitorare il passaggio di migranti e stupefacenti. L’operazione è stata seguita da un confronto telefonico in cui la presidente messicana ha illustrato a Trump i risultati ottenuti. In cambio, Sheinbaum ha chiesto una revisione delle tariffe imposte al Messico, sottolineando come tali misure rischino di compromettere il consenso interno alla cooperazione con Washington. Trump ha accolto positivamente la richiesta, escludendo alcune categorie di beni dai dazi doganali. Durante la telefonata che ha portato alla conclusione dell’accordo, il presidente statunitense ha definito Sheinbaum «una dura» e, poco dopo, ha espresso su X rispetto e ammirazione nei suoi confronti.
La questione del muroNonostante questa nuova fase di collaborazione, il progetto di estensione del muro al confine tra Stati Uniti e Messico prosegue. La U.S. Customs and Border Protection (CBP) ha siglato un contratto con la Granite Construction Co. per l’ampliamento della barriera di altre sette miglia nella contea di Hidalgo, in Texas – il primo contratto assegnato da quando Trump è tornato alla Casa Bianca. Anche il Segretario per la Sicurezza Interna, Kristi Noem, ha confermato l’avvio dei lavori a marzo, ribadendo che la situazione al confine continua a essere considerata un’emergenza nazionale.
La seconda amministrazione MAGA si trova dunque di fronte a un vicino di casa cambiato, guidato da una leader determinata a mettere sempre al primo posto gli interessi del suo Paese e che ribadisce chiaramente che il Messico non potrà essere trattato come una colonia. In questo contesto, la questione dei dazi doganali rappresenta un banco di prova cruciale per verificare se il nuovo approccio di Sheinbaum possa dare vita a un’alleanza più solida e bilanciata tra Stati Uniti e Messico, in grado di superare le differenze e costruire un rapporto diplomatico più equo e strategico.
Donald Trump da 50 giorni alla Casa Bianca
Donald Trump da 50 giorni alla Casa Bianca: una marcia (non proprio) trionfale, tra corse in avanti e dietrofront. Ma le critiche, per ora, toccano soprattutto a Elon Musk.
Prospettive di pace in Medio Oriente
Stefano Silvestri, Consigliere scientifico dello IAI e direttore editoriale di AffarInternazionali, è stato ospite di Francesco De Leo a “Spazio Transnazionale” su Radio Radicale, dove ha discusso le prospettive di ripresa dei negoziati di pace in Medio Oriente.
I colloqui a Riad tra Russia e Stati Uniti per un cessate il fuoco in Ucraina
Ettore Greco, Vicepresidente esecutivo dello IAI, è stato ospite a Spazio Transnazionale su Radio Radicale, il programma condotto da Francesco De Leo, per parlare dei colloqui a Riad tra Russia e Stati Uniti sul cessate il fuoco in Ucraina.
Riscaldamento globale e migrazioni nell’era di Trump
Nel gennaio 2025 è ufficialmente iniziata la seconda amministrazione Trump. In 3 mesi, il presidente statunitense ha ordinato (di nuovo) il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sul Clima e ha dichiarato di voler smantellare la politica climatica statunitense. Nonostante gli ultimi inconfutabili dati sul riscaldamento globale, Trump ha definito il cambiamento climatico una “bufala” e ha annunciato di voler mettere mano alle norme statunitensi che regolano l’inquinamento e l’emissione di gas serra. Nel frattempo, Trump ha congelato per 90 giorni i finanziamenti alla cooperazione e allo sviluppo, il cui scopo era quello di rispondere ai bisogni umanitari di comunità fragili, mitigando la migrazione verso gli Stati Uniti.
“Clima e Migrazioni” è un podcast dell’Istituto Affari Internazionali scritto da Chiara Scissa, ricercatrice del programma Clima, energia e risorse dello IAI, che analizza il legame tra cambiamento climatico e migrazione. La supervisione tecnica è a cura di Alessandra Darchini, Ufficio Stampa dello IAI.
Zelensky in Finlandia, un crocevia necessario e fondamentale
La visita breve in Finlandia del presidente ucraino Zelensky ha dimostrato di essere un’utile prova per tastare la reazione e la posizione ucraina dopo la telefonata tra Trump e Putin ed i dubbi esiti di essa. La Finlandia e il presidente Stubb sono tra i paladini più vicini a Zelensky nella vicenda bellica in corso in un angolo di Europa, sostenendo la resistenza del paese aggredito in modo chiaro e senza ambiguità, il che discende anche dalla secolare storia stessa dei rapporti finno-russi, rapporti geograficamente evidenziati dal lungo confine tra i due Stati.
Se il periodo della ‘finlandizzazione’ del dopoguerra fu contrassegnato da prudenza e neutralità, ben gestite dal carismatico presidente Uhro Kekkonen, la caduta del regime sovietico contrassegnò l’avvio del percorso di integrazione europea del Paese baltico, culminato un paio d’anni fa proprio nell’ingresso, insieme alla Svezia, nella Nato. Ingresso che però potrebbe non rassicurare troppo in questo momento storico in cui l’amministrazione Trump sembra insofferente agli impegni assunti nell’alleanza atlantica.
Kekkonen riassunse in una frase la politica da lui perseguita all’epoca: “l’unico modo per rimanere indipendenti accanto ad una grande potenza è conoscere i propri limiti”, frase che rifletteva il suo approccio pragmatico e realistico nei rapporti con Mosca, sottolineando la necessità di equilibrio tra indipendenza nazionale e cooperazione con l’allora URSS, per garantire la sicurezza della Finlandia. Questa ricetta sarebbe stata possibile per prevenire la guerra in corso tra due popoli che in comune hanno di certo più elementi che tra russi e finlandesi? Una ricetta valida per un’epoca specifica può essere obsoleta per una diversa e la storia, come si sa, non si fa con i ‘se’.
Nei numerosi incontri a Helsinki con il presidente Stubb e altri politici ed esponenti locali, culminati nella conferenza stampa all’Università della capitale – ove a risposto anche a domande di studenti -, Zelensky è stato categorico su un punto: la sovranità e l’integrità territoriale del suo paese sono di fondamentale importanza, aggiungendo che l’Ucraina non intende cedere alcun territorio occupato dalla Russia dalla sua invasione poco più di tre anni fa. Affrontando una domanda analoga, Stubb ha fatto riferimento alle concessioni che la Finlandia fu costretta a fare in seguito alle guerre d’inverno e di continuazione negli anni ’40, “L’Ucraina non deve ritrovarsi nella stessa situazione della Finlandia dopo le guerre, perdendo la sua sovranità e i suoi territori”. Per Zelensky, “l’unica soluzione è che la Russia ponga fine alla sua guerra d’aggressione in Ucraina”.
Stando così le cose, sembrerebbe un dialogo tra sordi, e la telefonata Trump-Putin un inutile tassello su una scacchiera molto intricata. L’unico impegno di Putin di non bombardare per un mese infrastrutture civili è stata l’unica concessione, ma non il cessate il fuoco richiesto da Trump.
Zelensky ha ricordato che la Russia ha continuato a bombardare l’Ucraina nonostante i negoziati in corso, il che ” dimostra che la Russia non è pronta a porre fine alla guerra. Le parole e le azioni della Russia non coincidono”. Tuttavia, anche apparenti fallimenti di questo tipo di contatti diretti non devono essere ritenuti definitivi, pur nella scarsa fiducia di Zelensky, e Stubb, negli impegni di Putin. Il presidente finlandese ha anche ribadito il continuo supporto della Finlandia all’Ucraina: sottolineando come “l’Ucraina fa parte dell’Europa e l’Ucraina è europea”. Zelensky ha ringraziato la Finlandia per il continuo sostegno militare e umanitario fornito all’Ucraina dall’invasione della Russia nel febbraio 2022 aggiungendo che “stiamo lottando per la nostra sovranità e la nostra indipendenza: vinceremo questa guerra”. La notizia della visita del presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Helsinki ha dominato i giornali finlandesi mercoledì, con una copertura che spaziava dai dettagli del suo alloggio alle ampie misure di sicurezza e agli argomenti chiave in programma per la discussione. Un editoriale del quotidiano Iltalehti ha evidenziato il potente simbolismo della visita, sottolineando che la presenza di Zelensky in Finlandia non è solo un gesto diplomatico, ma una dichiarazione di valori condivisi e una “difesa della sovranità europea di fronte all’aggressione russa”.
Durante l’incontro nell’Università con studenti e giornalisti, Zelensky ha ribadito che “L’Ucraina non è sola. La Russia è sola, aggiungendo che ammira le decisioni della Finlandia di unirsi sia all’UE che alla NATO. Il presidente Stubb ha detto al pubblico che l’Ucraina e il resto dell’Europa vogliono un cessate il fuoco e in definitiva la pace, ma la Russia deve ancora inviare un messaggio simile. “Non siamo sicuri che lo vogliano”, ha detto Stubb. Nonostante la serietà dell’argomento, Zelensky ha sorriso e fatto battute durante l’evento, dicendo al pubblico composto principalmente da studenti che è importante essere positivi, soprattutto nei momenti difficili.
Con un 27° pacchetto di aiuti in termini di rifornimenti bellici approvato di recente, raggiungendo un totale dio 3,3 miliardi di euro, la Finlandia si colloca tra i principali sostenitori dell’Ucraina, l’Italia ha erogato circa 3 miliardi di euro.
Le ombre sulla democrazia americana
Prima del voto di novembre, la candidata democratica Kamala Harris ha molto insistito sul rischio che il ritorno di Donald Trump avrebbe comportato per la tenuta delle istituzioni democratiche degli Stati Uniti. Dati alla mano, esperti di opinione pubblica hanno rilevato come questo sia stato un errore, visto che le questioni che più hanno determinato il voto erano economia e inflazione. È possibile che la campagna di Harris abbia sbagliato strategia elettorale. Ma il rischio su cui l’ex vicepresidente ammoniva non era per questo meno reale.
Tutto il potere alla Casa BiancaNelle ultime settimane hanno tenuto banco le iniziative di politica estera di Trump: dal tentativo di riavvicinarsi alla Russia a discapito dell’Ucraina ad appelli sempre più espliciti per la pulizia etnica a Gaza; dalle mire espansionistiche su Panama, Groenlandia e Canada alle tariffe, ora adottate ora sospese poi di nuovo minacciate in un disegno che non sembra avere alcun senso economico, ma che risponde a un’idea di esercizio del potere attraverso un sistema tributario di relazioni estere in cui chi si piega è (momentaneamente) risparmiato e chi resiste viene punito.
Ma l’azione di governo è stata non meno spregiudicata – e allarmante – sul fronte interno. Sarebbe inutile cercare una coerenza ideologica o una strategia politica nel frenetico attivismo mostrato dall’amministrazione. Non che manchino elementi ideologici nell’azione presidenziale – al contrario, sono molto importanti; ma non sono questi a darle senso. L’azione di Trump diventa più comprensibile se la si considera volta a sovrapporre relazioni personali a quelle di natura istituzionale e formale, e conseguentemente ad accentrare il potere sull’esecutivo e in particolare sul presidente.
Il corollario di quanto sopra è l’indebolimento del sistema di pesi e contrappesi che caratterizza la democrazia americana: il Congresso e le corti, ma anche funzionari federali di nomina non politica che garantiscono contro la politicizzazione delle funzioni ordinarie del governo; agenzie indipendenti che dovrebbero prevenire la concentrazione monopolistica di potere di mercato ed evitare conflitti di interesse; un sistema di istruzione e ricerca fondato sul principio dell’autonomia, e la libera stampa.
Lo smantellamento dello stato amministrativoOggi l’intera amministrazione federale dipende da una persona senza carica formale, il multimiliardario Elon Musk, che dirige un ufficio, il famigerato Dipartimento per l’Efficienza del Governo (DOGE), al quale Trump ha dato un’autorità senza precedenti. Il DOGE ha avuto accesso a informazioni sensibili di milioni di cittadini americani; sta tentando di controllare o forse già controlla (è impossibile stabilirlo con certezza data l’opacità con cui opera) sistemi di pagamento ordinari del governo federale; si è arrogato il diritto di licenziare centinaia di migliaia di funzionari governativi, perseguendo una dichiarata strategia volta a traumatizzare la burocrazia federale, in modo da sfoltirla di chi non è allineato e rinnovarla con un esercito di lealisti.
Dipartimenti federali che perseguono finalità contrarie all’agenda ideologica dell’amministrazione in carica come USAID, l’agenzia per lo sviluppo, o il Dipartimento per l’Istruzione sono stati smantellati con fiat presidenziale, nonostante siano stati costituiti per legge dal Congresso e solo da quest’ultimo eliminabili. Agenzie indipendenti create per garantire il rispetto di standard di salute, ambiente e lavoro e per la protezione dei consumatori, alcune delle quali avevano avviato indagini contro le aziende di Musk, sono state depotenziate o di fatto passate sotto il controllo della Casa Bianca.
Conflitti di interesse e intimidazione di stampa e universitàNel frattempo, le aziende di Musk continuano ad assicurarsi ricchissime commissioni pubbliche. Musk non è però l’unico multimiliardario dell’high-tech che si sta adeguando alla logica clientelare che domina la Casa Bianca di Trump. Jeff Bezos, proprietario di Amazon, ha pagato oltre 40 milioni di dollari per produrre un documentario su Prime sulla first lady Melania. In campagna elettorale, Bezos aveva impedito al Washington Post, di cui è proprietario, di pubblicare una raccomandazione di voto per Harris e ha poi ordinato che la pagina degli editoriali affrontasse tematiche gradite all’amministrazione in carica. Il caso è emblematico di una stampa indebolita da anni di incessante campagna contro le presunte fake news (ovvero la stampa non allineata) da parte del presidente e di tutta la galassia mediatica del conservatorismo di destra americano.
Trump sta usando la mano pesante anche nei confronti dell’alta istruzione. La Columbia University di New York si è piegata alle pretese del governo di introdurre durissime regole contro le proteste pro-Palestina, adottare una definizione di antisemitismo che si teme possa abbracciare ogni forma di critica a Israele e di privare il Dipartimento di Studi Mediorientali di autonomia nel tentativo – peraltro non ancora riuscito – di non perdere 400 milioni in finanziamenti governativi. Similmente, il governo ha lasciato intendere che l’Università di Pennsylvania potrebbe perdere 175 milioni in sussidi se non si adegua a un’agenda anti-DEI (ovvero a difesa di diversità, inclusione ed equità).
L’attacco allo stato di dirittoNel frattempo, l’amministrazione ha attaccato gli studi legali che hanno rappresentato oppositori politici di Trump o semplicemente perorato cause invise all’amministrazione. Il presidente ha proibito ai funzionari federali di avere ogni contatto con questi studi, che rischiano pertanto di non poter più rappresentare i loro clienti, in massima parte aziende che lavorano col governo. Uno di questi studi, Paul, Weiss, Rifkind, Wharton & Garrison, ha accettato di difendere in tribunale iniziative governative per evitare di fallire (l’accordo prevede che la difesa sia offerta pro bono fino a un valore di 40 milioni). L’azione intimidatoria del governo sta creando panico negli ambienti legali – e non solo – americani.
Anche le misure adottate sul fronte della migrazione sconfinano nell’indebolimento dello stato di diritto. Il caso più eclatante è quello di Mohammed Khalil, un ricercatore della Columbia di origine palestinese che si è visto arrestare e revocare il regolare permesso di soggiorno non per aver commesso un reato ma per avere espresso critiche nei confronti di Israele che l’amministrazione, senza alcuna evidenza, ha liquidato come pro-Hamas. Il caso di Khalil non è isolato, e ci sono stati diversi episodi in cui turisti sono stati trattenuti per giorni o respinti alla frontiera. Né si può mancare di menzionare l’intenzione di usare come centro di detenzione per migranti Guantanamo, la tristemente famosa prigione militare dove l’amministrazione Bush mandava sospetti terroristi per sottrarli alla giurisdizione civile, o la deportazione di centinaia di venezuelani (accusati di essere membri di una gang) in base a una legge del 1798 che autorizzerebbe l’espulsione di cittadini di stati con cui l’America è in guerra.
In cerca di una resistenzaLa rapidità e la spregiudicatezza dell’azione intimidatoria dell’amministrazione hanno tramortito tanto gli oppositori quanto i sostenitori. Il Partito Democratico, privo di una leadership unificante, è in minoranza in entrambe le camere del Congresso e quindi incapace di opporre un argine legislativo. I Repubblicani sono docilmente allineati alla linea dell’amministrazione (e chi non lo è, è troppo spaventato per protestare pubblicamente). Pertanto, nessuna opposizione degna di questo nome arriva dal Congresso.
Finora, l’unico argine è stato opposto dai tribunali. Giudici federali hanno negato che l’amministrazione abbia l’autorità di privare USAID di un bilancio appropriato dal Congresso; di licenziare funzionari governativi attraverso il DOGE; di bloccare i pagamenti federali; di precludere a uno studio legale di avere contatti con funzionari federali; e di espellere migranti senza giusta causa.
L’effetto di queste sentenze, tuttavia, è non è risolutivo. Al contrario, l’amministrazione sta adottando tattiche dilatorie per evitare di rispettarle in pieno o addirittura di ignorarle (come è stato il caso dei venezuelani deportati). Mentre nei tribunali gli avvocati dell’amministrazione questionano di cavilli legali, a livello politico la risposta è molto più netta. La Segretaria alla Giustizia Pam Bondi ha accusato un giudice di interferire negli affari del governo. Trump si è spinto a richiedere l’impeachment dei giudici che annullano i suoi ordini esecutivi, provocando una reprimenda pubblica – circostanza estremamente rara – da parte del presidente della Corte Suprema John Roberts.
È difficile anticipare quanto sia sostenibile per l’amministrazione continuare su questa strada. Non è implausibile supporre che voglia evitare una crisi costituzionale, ignorando le sentenze dei tribunali, ma per ora non ha fatto passi indietro. Se la crisi si dovesse aprire, è possibile che emerga una forte resistenza politica anche a destra, e che pertanto il sistema di pesi e contrappesi torni a funzionare. Ma la facilità e la rapidità con cui è stato indebolito in soltanto due mesi di presidenza Trump gettano una lunga ombra sulla democrazia americana.
La profezia che non deve avverarsi
Poco dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, commentando la rapida quanto inaspettata unità della risposta occidentale, Ivan Krastev emise la profezia che il momento più difficile per il mantenimento dell’unità sarebbe coinciso con la prospettiva della cessazione delle ostilità. La frattura che si è creata fra gli Usa e l’Europa in seguito all’iniziativa unilaterale di Trump di cercare un dialogo con Putin sulle spalle dell’Ucraina è sembrata dar ragione a Krastev. Tuttavia, la frattura transatlantica non si è tradotta in una significativa divisione dell’Europa. A parte il caso dell’Ungheria, la reazione complessiva è stata abbastanza coerente. Abbandonata dall’alleato americano, l’Europa sembra aver preso coscienza di un doppio imperativo: dare finalmente senso alla prospettiva di una maggiore “autonomia strategica“, ma anche acquisire la consapevolezza che l’aggressione all’Ucraina è una componente della minaccia russa che è di lunga durata e che investe tutti. Si tratta quindi di affrontare in condizioni di estrema urgenza due sfide. La prima è quella di assumersi la principale responsabilità delle garanzie da dare all’Ucraina dopo la cessazione delle ostilità tenendo conto del rifiuto americano di prevederne un’adesione alla Nato. La seconda è quella di costruire finalmente quel “pilastro europeo” di cui si parla da molto tempo e di “europeizzare” l’alleanza; porre fine a una dipendenza, ma senza rompere con l’alleato.
Il fatto che la reazione europea possa apparire faticosa e a tratti confusa non deve indurre in errore. Lungi dall’essere velleitaria, essa prende gradualmente forma affrontando i numerosi problemi nella loro evidente complessità: il ritardo tecnologico, l’eccessiva dipendenza dalle forniture americane, la necessità di liberare risorse finanziarie in una situazione spesso difficile dei bilanci pubblici, l’evidente vantaggio che si avrebbe con acquisti e finanziamenti comuni. C’è soprattutto il complesso rapporto fra una difesa che si vorrebbe “europea” e la nostra appartenenza alla Nato; la consapevolezza che poco di veramente autonomo può avvenire nell’immediato, ma anche il fatto che nell’organizzazione delle necessarie catene di comando sarà molto utile approfittare dell’esperienza accumulata in 70 anni di appartenenza alla Nato. Il tutto con un alleato diventato improvvisamente a tratti ostile e sotto la pressione della necessità di far fronte in tempi rapidissimi alla questione delle garanzie all’Ucraina. Nella consapevolezza che, se si fallisce l’obiettivo immediato, cade anche la credibilità del programma più a lunga scadenza.
In questa situazione era inevitabile che le iniziative si muovessero al di fuori degli schemi prestabiliti. Assistiamo infatti a un processo parallelo ma sostanzialmente convergente che coinvolge da un lato le istituzioni europee e dall’altro un gruppo di “volonterosi” guidato da Francia e Regno Unito; un gruppo che per alcune questioni coinvolge anche altri membri della Nato come il Canada, la Norvegia e la Turchia e persino alleati asiatici dell’America. Nulla ci autorizza a dire che questo processo è destinato ad avere sicuro successo, ma possiamo però constatare che è sulla buona strada. Potremo dichiararci soddisfatti solo quando ne saranno chiariti gli aspetti finanziari e operativi e soprattutto quando sarà definitivamente chiaro che esso è sostenuto da un numero coeso di paesi sufficienti a fare “massa critica”.
Il ritorno della profezia?Smentito finora, Krastev potrebbe tuttavia avere ragione nel momento in cui appariranno chiari i contorni di un accordo di “pace” fra Trump e Putin. Ciò che la conclusione dell’accordo metterebbe in gioco non sono tanto le motivazioni del progetto in atto da parte dei “volonterosi”, quanto le basi del consenso politico che lo ha finora sostenuto. L’insidia è doppia. In primo luogo, è infatti plausibile che l’accordo sia accompagnato da una decisione americana di sospendere in tutto o in parte le sanzioni contro la Russia. Non sarebbe una mossa facile a causa degli stretti legami della Russia con la Cina e l’Iran, ma plausibile nel quadro di un accordo ambizioso; sarebbe coerente con progetti di una imprecisata collaborazione economica e con una strategia volta a separare la Russia dalla Cina. Sollecitata a fare altrettanto, l’Europa si troverebbe in una situazione difficile. Tre terreni sarebbero particolarmente critici. Il primo è quello delle sanzioni finanziarie che sono state finora il pilastro principale e il più efficace. È inutile negare che sarebbe molto difficile per gli europei mantenerle unilateralmente in modo efficace; il che porrebbe tra l’altro la questione del destino degli averi russi che sono stati sequestrati e che si trovano in gran parte in Europa. Il secondo terreno è quello dell’embargo sull’esportazione verso la Russia di tecnologie critiche, embargo largamente aggirato dalla Russia, ma a un costo molto elevato e quindi nonostante tutto abbastanza efficace. Tutto può succedere, ma è difficile immaginare che persino Trump correrebbe il rischio dell’abolizione dell’embargo alla luce degli stretti rapporti che esistono fra la Russia e la Cina.
C’è infine la questione più importante per l’Europa: quella delle importazioni europee di idrocarburi russi, in particolare di gas. Importazioni mai completamente cessate, ma ormai molto minoritarie. È difficile prevedere la posizione americana a questo proposito; ci potrebbero essere motivazioni contrastanti che metterebbero in gioco l’interesse di Trump a calmare le pressioni inflazionistiche, ma d’altro canto la competitività del gas americano. Il buon senso e la coerenza dovrebbero portarci alla conclusione che in nessun caso l’Europa dovrebbe cedere a questa tentazione.
La seconda insidia è politica e forse anche più pericolosa. La parola “pace”, quali che fossero le sue reali condizioni e la sua credibilità, risveglierebbe le forze politiche e sociali che in vari paesi europei si sono finora opposte da posizioni di minoranza al sostegno all’Ucraina, oppure che l’hanno subito in silenzio, oppure che sono comunque fondamentalmente reticenti a lanciare i rispettivi paesi in uno sforzo di riarmo con innegabili costi politici oltre che finanziari; posizioni che hanno in comune l’argomento che un programma di rafforzamento della difesa europea ha senso solo se si considera reale e prioritaria la minaccia russa. In altri termini, si avrebbe un tentativo di mettere in discussione il consenso politico che si è creato finora, con il doppio argomento di compiacere l’alleato americano e che “con la Russia comunque bisogna convivere”.
Qual è la gravità del pericolo? Per cominciare, esso sarà tanto più ridotto quanto più avanzato e consolidato sarà il progetto di costruzione di una difesa comune. È comunque molto probabile che la Polonia, i paesi scandinavi e i baltici ne sarebbero esenti. Lo stesso vale probabilmente anche per il Regno Unito. All’altro estremo, il paese più vulnerabile è sicuramente l’Italia. “Sul piano economico a causa dei suoi antichi legami con la Russia, della sua recente dipendenza dalle importazioni di gas e della situazione dei suoi conti pubblici. Sul piano politico, entrerebbero in gioco la volontà di Giorgia Meloni di essere il più possibile vicina a Trump, la tradizionale posizione filo-russa di Salvini e la forte componente pacifista presente nell’opposizione; tutto sarebbe confortato dai sondaggi che mostrano un’Italia molto reticente della maggioranza degli europei nel sostegno all’Ucraina come per il progetto di riarmo. Una defezione dell’Italia, paese di cui l’appartenenza piena e convinta ai “volonterosi” non è del resto ad oggi ancora acquisita, sarebbe grave ma non catastrofica. Il successivo pericolo, molto più grave, è invece in Francia. La prospettiva di compiacere Trump non avrebbe nessun ruolo, ma le voci che reclamano una posizione più accomodante con la Russia sono forti sia a destra (non necessariamente solo estrema) che a sinistra. D’altro canto, la Francia è attualmente alla guida dei “volonterosi”; la caduta del progetto rappresenterebbe un colpo gravissimo per la posizione internazionale del paese.
È però ragionevole concludere che il paese chiave sarà la Germania. Le posizioni filo-russe vi sono tradizionalmente forti all’estrema destra ma anche fra i socialisti e persino nella CDU. Dopo tutto la politica che l’attuale strategia europea sta abbandonando è proprio quella ispirata per anni da Angela Merkel. Inoltre, uno degli elementi fondamentali del cambiamento di strategia sarebbe la riattivazione del gasdotto Nord Stream 2, le cui chiavi stanno in Germania. Forse con eccessivo ottimismo, sono però tentato di pensare che la maturazione delle convinzioni della coalizione che si appresta a governare e del suo futuro Cancelliere, sono sufficientemente profonde per non essere abbandonate in seguito ad avvenimenti che è già oggi possibile anticipare. Non si modifica la Costituzione per abbandonare dopo poco la strategia che ha ispirato il cambiamento. Si sarebbe quindi tentati di concludere che, se la Germania tiene la rotta, gli altri paesi e in particolare la Francia e forse l’Italia, non potranno fare altrimenti. In caso contrario, assisteremmo non solo ala conferma della profezia di Krastev, ma probabilmente anche a una crisi esistenziale del sistema europeo.
Garanzie europee del Fondo InvestEU per la difesa
Al Consiglio Europeo del 20 marzo è stato raggiunto un accordo parziale sulla proposta della Commissione Europea Rearm Europe – Readiness 2030. Le posizioni divergenti dei Paesi Membri non riguardano l’approccio generale bensì le questioni sull’indebitamento e la flessibilità di bilancio per finanziare l’aumento della spesa, e sui prestiti in merito ai criteri di eleggibilità e alla partecipazione di Paesi terzi. Le Conclusioni del Consiglio sottolineano la necessità di avviare urgentemente l’attivazione di strumenti per rafforzare le capacità, e di proseguire i lavori sulle opzioni di finanziamento. Su questo aspetto la Commissione è invitata a considerare la possibilità di utilizzare ulteriormente i programmi UE, ad esempio basandosi sull’esperienza dei Paesi Membri con InvestEU. La Presidente del Consiglio ha sottolineato che è stata accettata la richiesta di abbinare agli strumenti esistenti anche garanzie europee per stimolare capitali privati.
In precedenza, al Consiglio Economia e Finanza dell’11 marzo l’Italia ha avanzato l’idea di un sistema di garanzie europee di 16 miliardi ispirato dal meccanismo finanziario InvestEU, con l’obiettivo di attrarre capitali privati. L’effetto moltiplicatore di una garanzia pubblica con questo valore mobiliterebbe 200 miliardi € di investimenti privati in un periodo di 3 o 5 anni. Parimenti sono state sollevate criticità circa l’idea di una clausola di esenzione degli investimenti difesa dal Patto di Stabilità, in quanto i suoi effetti risulterebbero differenziati in funzione dei livelli di indebitamento pubblico e quindi dello spazio fiscale disponibile tra i 27 Paesi UE. In assenza di garanzie come il debito comune europeo o a nuovi prestiti nazionali si dovrebbero ridurre voci sociali prioritarie dei bilanci nazionali. Questa prospettiva non è considerata accettabile; da qui la ricerca di opzioni alternative con meccanismi di garanzie europee ex bilancio UE e BEI che siano “appealing” per gli investitori privati.
Una riflessione sul dossier InvestEU anche per la difesa può fornire elementi di comprensione e attenzione nell’attuale processo legislativo del dossier Rearm Europe. Nel 2019-2020 la CE, ECFIN – Commissario Gentiloni – anticipò il tema delle misure finanziarie per l’industria della difesa, avviando un dialogo innovativo con stakeholders pubblici e privati(Banche di Promozione Nazionale come la CDP di Paesi Membri, Ministeri del Tesoro, fondi di investimento, industrie della difesa. L’iniziativa dei workshops ECFIN “designing new financial instruments to support EDTIB within the MFF” riguardava modelli e modalità di impiego di strumenti equity e debito, poi estesi a fondi e strumenti europei specifici per sostenere le fasi del ciclo di vita di un sistema difesa, e focus sull’adattamento dei fondi BEI e alle garanzie InvestEU in vista del suo nuovo Regolamento.
Si ricorda che InvestEU è un meccanismo finanziario che si fonda su garanzie fornite dal bilancio UE per stimolare l’investimento privato. Coinvolge intermediari finanziari, con la BEI (Banca Europea degli Investimenti) come principale attore e le Banche Pubbliche Nazionali complementari, per fornire un portafoglio ad esempio di garanzie e investimenti in equity in alcune aree tematiche. L’effetto leva per mobilitare risorse aggiuntive sulla falsariga del Piano Juncker è stato indicato in 1:12 volte. È previsto lo “sviluppo dell’industria della difesa per contribuire all’autonomia strategica dell’UE, il sostegno alla catena di approvvigionamento di PMI e imprese a media capitalizzazione anche per le collaborazioni in EDF come spazio e cyber sicurezza, i settori duali disrupting, le infrastrutture per formazione e ricerca.”
Nel 2021, a seguito del deterioramento della situazione securitaria fu varato il Fondo InvestEU che include gli investimenti in settori strategici per la UE di EFSI (European Fund for Strategic Investment).
Tuttavia, il risultato non è stato all’altezza delle aspettative della CE e delle imprese per l’inflessibilità del Consiglio e di Berlino. InvestEU è stato ridimensionato in favore di Next Generation EU che prevede grants e loans, mentre InvestEU riguarda garanzie su prestiti delle Banche di Promozione Nazionale e della BEI. Il budget per le garanzie è stato ridotto da 74 a 26 Mld€. Non sono state accettate proposte per la nuova area “New Strategic European Investment Window” da 32 Mld€, dedicata ad aree chiave per l’autonomia UE, quali criticalinfrastructures (ad es. aerospazio, difesa, comunicazioni digitali, sensitive facilities), tecnologie digitali (es. AI, robotics, cybersecurity, advancedmaterials), ICT components and devices, criticaltechnologies(security, defense, space, dual-use). Queste attività sono state ridimensionate e incluse orizzontalmente nelle aree su cui è strutturato InvestEU.
Alcune istanze industriali sono state comunque recepite, come la necessità di specifici strumenti per la difesa non limitati alle PMI duali. Ma l’approccio innovativo per una modifica radicale del Fondo è rimasta lettera morte. Riguardava un’inversione di ruoli tra le Banche e la BEI, mirando a superare i noti vincoli BEI sull’eleggibilità dei progetti di difesa, prevedendo la preminenza (ruolo primario) o un ruolo autonomo per le Banche di Promozione Nazionale e un ruolo complementare alla BEI.
I prossimi sviluppi sono promettenti. All’inizio dell’anno la CE ha annunciato una riforma di InvestEU con una proposta di Regolamento sulle garanzie UE, mirato a obiettivi di maggiore efficienza e semplificazione nell’ambito del pacchetto legislativo Omnibus, prevedendo fondi supplementari per 2,5 miliardi. L’incremento della garanzia pubblica UE beneficerà tre Policy Areas, Clean Industrial Act, Competitiveness Compass, Investments for EU policy priorities, includendo “any potential new initiatives in priority areas such as defence industrial policy, including space assets, dual-use activities or military mobility.” La CE prevede che le risorse aggiuntive mobiliteranno 25 miliardi di investimenti pubblici e privati entro il 2027, e ulteriori 25 miliardi considerando l’efficientamento di InvestEU e combinazioni degli altri programmi di supporto a debito EFSI, CEF e InnovFin.
Il White Paper per la difesa europea tra narrazione e concretezza
L’Ue ha storicamente faticato a trasformare i buoni propositi in azioni concrete nel campo della difesa. Buona parte dei Paesi membri sono generalmente d’accordo sull’importanza di un deterrente solido, credibile, e coadiuvato da una base tecnologica e industriale variegata e innovativa, ma è sempre stato difficile tracciare una strada chiara e condivisa da tutti a livello europeo.
La Bussola Strategica del 2022, uscita poco dopo la seconda invasione russa ai danni dell’Ucraina, ha rappresentato un passo avanti importante per l’Unione lungo il difficile e tortuoso percorso verso una maggiore capacità decisionale e operativa. Tuttavia il documento restava affetto da una buona dose di timidezza, spesso limitandone l’ambizione al minimo comun denominatore di accettabilità fra tutti i Paesi.
Il Joint White Paper for European Defence Readiness 2030, firmato dalla Commissione e dall’Alto Rappresentante e pubblicato il 19 marzo 2025, rappresenta – almeno sulla carta – una significativa evoluzione per il ruolo delle istituzioni Ue (Commissione in primis) nel processo di integrazione della difesa europea. Tre sono gli elementi innovativi rispetto a documenti passati: il linguaggio utilizzato in termini di riarmo e deterrenza, la presa di coscienza di quelli che sono gli ostacoli strutturali a questo processo, e soprattutto l’esplicitazione senza mezzi termini dei gap capacitivi a livello militare e industriale.
Una narrazione al passo con tempi difficiliIl documento cerca di mettere a sistema una raccolta di iniziative già esistenti e alcune di nuova concezione. In un certo senso, oltre agli aspetti più concreti del White Paper, si tratta del tentativo di creare una narrazione sul ruolo dell’Ue quanto a difesa che sia all’altezza della minaccia russa in un’epoca in cui le garanzie di sicurezza di Washington perdono solidità. La premessa si fonda infatti sulla consapevolezza che qualora Mosca dovesse raggiungere i suoi obiettivi in Ucraina le ambizioni territoriali del Cremlino si allargheranno ulteriormente, arrivando a minacciare i Paesi Baltici sottomessi dall’Unione Sovietica fino al 1991 e dal 2004 parte dell’Unione
Pur dovendo specificare che i Paesi Membri avranno sempre l’esclusiva responsabilità sulle proprie forze armate per quel che riguarda le considerazioni dottrinali, operative e di requisiti, e in ultima istanza l’impiego in teatri di crisi o conflitti, il documento vuole consolidare il ruolo di supporto e coordinamento che le istituzioni Ue possono giocare per rafforzare la base industriale della difesa. Da notare come White Paper non si limiti alle questioni puramente industriali, ma guarda anche ai gap capacitivi più critici per le forze armate europee, seppur questo ruolo sia formalmente appannaggio della European Defence Agency (EDA) in quanto unico ente dell’Unione che rappresentanza direttamente i ministeri della difesa – ma che non è stata sostanzialmente coinvolta nella stesura del documento. Difficile dunque non chiedersi come sarà possibile in futuro armonizzare veramente il ruolo della Commissione con quello dell’EDA alla luce di un’evidente e crescente preponderanza della prima.
I punti concreti del White Paper UEOltre ai gap capacitivi esposti dal conflitto ucraino, a partire da un sistema integrato e multi-strato di difesa missilistica e artiglieria a lungo raggio fino alle tecnologie emergenti e dirompenti, il documento sottolinea la centralità degli investimenti per la military mobility – ovvero la capacità di spostare rapidamente truppe e assetti all’interno dell’Unione per rafforzare il fianco orientale in caso di escalation russa. Questo tema è ancora oggi al centro di un progetto della Permanent Structured Cooperation (PESCO), avviato diversi anni fa e spesso elevato a portabandiera informale del programma, che però ha sempre faticato ad avanzare in mancanza di fondi sostanziali e di volontà politica per metter mano rispettivamente a infrastrutture e regolamenti. Se, come promettono nel White Paper, la Commissione e l’Alto Rappresentante riuscissero davvero a smuovere questo processo essenziale per la prontezza delle forze europee rispetto alla minaccia russa, che operino in ambito NATO o in altro formato, la deterrenza europea e transatlantica ne uscirebbe significativamente rafforzata.
Il documento dà ovviamente grande spazio all’Ucraina e alla necessità di aumentare lo sforzo collettivo per sostenerne le capacità difensive. Tra le novità c’è la volontà di allargare i futuri sforzi nell’ambito della mobilità militare a Kyiv, ma anche di rafforzare l’accesso dell’Ucraina ai servizi e assetti spaziali dell’Ue – tema quanto mai attuale visto il clima di incertezza che caratterizza l’approccio della seconda amministrazione Trump verso lo stato ucraino. Significativo è anche l’esplicito slancio verso una graduale integrazione dell’industria ucraina nel mercato della difesa europeo, aprendo ad essa i finanziamenti dell’European Defence Industry Programme (EDIP).
Un’Italia più pragmaticaDa una prospettiva italiana, il White Paper sembra essere un passo obbligato anche se assolutamente non scontato per l’Ue verso una maggiore integrazione nel campo della difesa in un clima di crescente instabilità. Sarà essenziale non farsi spaventare da quello che può a tutti gli effetti essere un cambio di passo che rischia di lasciare indietro i Paesi e le industrie nazionali che non potranno o vorranno sfruttarne le opportunità – a partire dalla cooperazione con l’industria ucraina, ma anche per quel che riguarda la mobilità militare e soprattutto gli incentivi a cooperare con altri Paesi per riempire quei gap capacitivi ritenuti critici.
Se è vero che alcuni partner europei hanno indubbie ambizioni di leadership all’interno di un processo di integrazione quanto mai imprescindibile per la nostra sicurezza, è altrettanto vero che queste sono sostenute e giustificate da una forte spinta politica. Il dibattito pubblico italiano deve superare l’atavica difficoltà a capire che l’Italia non è condannata a seguire (e a volte subire) l’impeto altrui, ma ha tutte le carte in regola per giocare un ruolo di leadership in Europa.
Non ci si può dunque permettere che iniziative come il piano ReArm Europe, annunciato poche settimane prima della pubblicazione del White Paper e largamente frainteso nel dibattito pubblico italiano, distragga ulteriormente dall’importanza di rendere l’Europa e l’Italia più capaci di difendersi da minacce esterne, sostenendo l’Ucraina e diminuendo la dipendenza dagli Stati Uniti.
Il futuro dell’Europa e dell’Ue
Nathalie Tocci, Direttore dello IAI, è stata ospite a Spazio Transnazionale su Radio Radicale, il programma condotto da Francesco De Leo. Durante l’intervista, ha discusso delle sfide future per l’Europa, dell’evoluzione dell’Unione europea e della difesa europea, considerando il contesto della guerra in Ucraina e le dinamiche transatlantiche. Infine, Tocci ha commentato le dichiarazioni di Giorgia Meloni in merito al Manifesto di Ventotene e alla sua visione dell’Europa.
Il Manifesto di Ventotene e il riscatto dell’Europa
Un progetto dichiaratamente “rivoluzionario”, come quello federalista del “Manifesto di Ventotene”, non richiedeva solo audacia di pensiero. Non rappresentava solo un’ardita rottura con gli schemi tradizionali delle prassi e delle ideologie del tempo. Gli autori del “Manifesto” – Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli – seppero anche indicare un concreto programma di azione che ha ispirato generazioni di europeisti. L’obiettivo era la costruzione di un assetto federale che potesse garantire una pace duratura sul continente e rendere l’Europa padrona del suo destino.
Una fiducia laica nelle sorti dell’EuropaCerto, ci voleva coraggio per concepire e dare forma a un progetto così avanzato in un momento – siamo all’inizio del 1941 – in cui gran parte dell’Europa era sotto il giogo nazista e l’esercito hitleriano continuava la sua marcia di conquista. Colorni, Rossi e Spinelli non erano solo fiduciosi nella vittoria finale contro il nazifascismo. Speravano anche che nella “crisi rivoluzionaria”, che, prevedevano, avrebbe fatto seguito alla fine della guerra, maturassero circostanze favorevoli all’ideale europeista. Erano anzi convinti che “gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato a una riorganizzazione federale”. L’esperienza della guerra e dell’oppressione totalitaria era stato troppo dura, le miserie e le sofferenze che aveva provocato troppo vaste e strazianti per non indurre a un ripensamento sulle storture irrimediabili degli ordinamenti statali, che in nome del principio di nazionalità, avevano precipitato l’Europa nel baratro. Ma non erano degli ingenui. Sapevano che le cose avrebbero potuto andare diversamente, che le “vecchie abitudini, leggi, istituzioni, apparati di forza” avrebbero potuto tornare in auge e che le masse popolari, in preda alle passioni, avrebbero potuto essere di nuovo manipolate dalle “forze reazionarie” del nazionalismo. Il Manifesto è tutto permeato da questo senso di urgenza, della necessità imperativa di non sprecare l’occasione “rivoluzionaria” che si sarebbe presentata una volta abbattuto il nazifascismo.
Spiriti sommamente laici, gli autori del Manifesto respingevano ogni visione provvidenzialistica della storia, ogni storicismo fatalistico o consolatorio che potesse indurre alla passività o fiaccare l’azione. E non erano dei settari, tutt’altro: erano pronti a collaborare con tutti coloro che lottavano contro il totalitarismo nazista e avrebbero potuto contribuire alla sua disgregazione. ma “senza lasciarsi irretire dalla loro prassi politica”.
Critica del collettivismoGli autori del Manifesto erano anche ben consapevoli che l’ideologia collettivistica avrebbe potuto emergere in una posizione di forza dal conflitto mondiale e dedicarono nel testo molto spazio alla critica della “statizzazione generale dell’economia”, mettendo in guardia contro i regimi “in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia”. Il Manifesto propugna un “socialismo” dai contorni non ben definiti, ma d’impronta liberale, e prende nettamente posizione contro la “collettivizzazione di tutti gli strumenti di produzione” in quanto “utopistica” e destinata inevitabilmente a sfociare in un regime oppressivo e dittatoriale. Vi si auspica un sistema economico in cui “possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica”. “La proprietà privata – vi si legge – deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso”. Non è affatto un inno al collettivismo, come ha lasciato intendere la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Tutto il contrario. È, peraltro, un’asserzione perfettamente in linea con il dettato della Costituzione italiana. Il sistema economico misto, a forte presenza dello Stato, costruito in Italia nel dopoguerra, coincide in larga parte con quello abbozzato nel Manifesto. Ernesto Rossi, uno degli artefici della ricostruzione post-bellica, ne fu dei più attivi promotori.
La via federalista alla paceMa l’importanza e l’originalità del Manifesto non stanno nella visione dei rapporti economici e sociali che avrebbero potuto o dovuto instaurarsi nel dopoguerra. La sua idea forza, quella che ne ha fatto una pietra miliare del pensiero politico contemporaneo, è un’altra: è l’idea che le guerre, in quanto conseguenza dell’anarchia internazionale, possono essere evitate solo attraverso la costruzione di un’entità politica federale che limiti la “sovranità assoluta” degli Stati nazionali. È quest’ultima, infatti, all’origine di quel “bellum omnium contra omnes” che rende strutturalmente instabile e precario qualsivoglia assetto dei rapporti internazionali, anche quelli regolati da accordi o regimi di cooperazione, ma che non prevedano autorità sovranazionali, come dimostra ad abundantiam la storia europea. Solo il trasferimento di poteri ad autorità politiche sovranazionali può far cessare lo stato di perenne anarchia che genera le guerre. È questa teoria delle cause della guerra, e dei benefici che i cittadini europei possono trarre da un compiuto assetto federale, il nucleo teorico originale del Manifesto. Originale, indubbiamente, anche se debitore delle riflessioni di Luigi Einaudi e di altri teorici, soprattutto anglosassoni, sull’applicabilità del modello federale degli Usa all’Europa. Le correnti ideologiche e di pensiero dominanti all’epoca teorizzavano altre cause della guerra: i liberisti puntavano il dito contro il mercantilismo economico; i democratici contro il dispotismo; i marxisti contro il sistema capitalistico. Gli autori del Manifesto ponevano invece l’accento sulla precarietà strutturale del sistema dei rapporti internazionali, proponendo, come rimedio, una sua radicale trasformazione attraverso una complessa e organica costruzione istituzionale.
Attualità del programma federalista di VentoteneNella prefazione al Manifesto scritta nel 1944, Eugenio Colorni riassumeva così i punti principali del programma federalista: “esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli stati appartenenti alla Federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica”. Sono passati più di 80 anni dalla pubblicazione del Manifesto. Non sono pochi. Ma, a ben vedere, punti importanti di questo programma, far cui alcuni di carattere schiettamente federale, sono stati realizzati: dal mercato unico all’euro, dal sistema di Schengen all’elezione diretta del Parlamento europeo. Altri, come un’unica politica estera, che presuppone il superamento dell’unanimità, rimangono inattuati. Altri ancora, come un unico esercito europeo, non appaiono al momento realizzabili. Per molti versi, la costruzione europea rimane incompleta. Il parlamento europeo, per esempio, ha solo alcuni dei poteri che Spinelli avrebbe voluto gli venissero attribuiti e per i quali si è tenacemente battuto. Alcune conquiste, come la libera circolazione delle persone, sono oggi minacciate. Ma progressi significativi, ancorché incrementali, sono stati fatti in molti settori, compresa la difesa e la politica estera. L’UE ha inoltre dimostrato una notevole capacità di reazione alle ripetute crisi degli ultimi anni, creando una serie di nuovi strumenti di azione comune, basati su ulteriori condivisioni di sovranità. L’idea federalista del Manifesto di Ventotene rimane, quindi, più che mai viva e attuale. Non è solo una generica fonte di ispirazione, ma un programma concreto che può orientare l’azione nel presente e aiutare a mettere a fuoco gli obiettivi futuri.
Usare bene la Storia
Le ricorrenze del passato vanno di moda. Quel “piano di riarmo” dell’Unione europea che con un’infelice espressone, ma con un’idea giusta, è stato proposto da Ursula von der Leyen richiama come riferimento storico il progetto della CED (la Comunità di difesa europea), ideato da Jean Monnet nel 1952 e accantonato due anni dopo dal voto congiunto dei comunisti e dei gollisti (e un po’ di socialisti) nel parlamento francese. Il confuso dibattito italiano su come operare nell’UE nell’attuale difficile frangente si aggrappa ad un ancor più lontano riferimento, il Manifesto di Ventotene, 1941, come documento ispiratore del movimento per l’integrazione sovranazionale oppure come oggetto di critica da parte dei sovranisti più o meno nazionalisti. La venuta sulla scena dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) e il ruolo da esso svolto con i suoi studi, i suoi interventi e le sue collaborazioni con partner di altri paesi, lungo ormai sessant’anni, aiutano a dare un senso, che non sia una fuga dalla realtà, a questi riferimenti storici.
Il progetto di un istituto di affari internazionali sul modello dell’inglese Chatham House e dell’americano Council on Foreign Relations si colloca nella convergenza di più stimoli. Il primo era la percezione che la costruzione comunitaria, realizzata da Jean Monnet sulle ceneri della CED e sulla scelta della sfera economica per l’integrazione dei sei Paesi detti fondatori, anch’essa resistita da un De Gaulle ora Presidente della Repubblica, richiedeva di essere inquadrata in una più ampia strategia di politica estera, comprendente le opportunità dell’interdipendenza crescente fra le nazioni non meno che i rischi della Guerra Fredda, compreso quello nucleare. Un secondo stimolo veniva dall’aver preso forma, in quei primi anni ’60 un’alleanza progressista, europeista e internazionalista sulle due sponde dell’Atlantico, incoraggiata dal progetto di una partnership fra Stati Uniti ed Europa, lanciato da John F. Kennedy, e promotrice di una prima distensione con il blocco sovietico.
Dell’uno e dell’altro sentì la spinta Altiero Spinelli, autore del Manifesto di Ventotene (insieme ad Ernesto Rossi e a Eugenio Colorni) e ispiratore presso Alcide De Gasperi dell’articolo da lui introdotto nel trattato CED per contemplare il successivo sviluppo in comunità politica con un percorso costituente. Spinelli, leader fino ad allora del movimento federalista europeo, percepiva la necessità del superamento della fase militante per entrare in quella strategica e politologica. Donde la fondazione dello IAI nel 1965.
Da allora l’istituto ha percorso una linea coerente che richiederebbe volumi ripercorrere, ma di cui vale la pena rimarcare qui per sommissimi capi alcuni passaggi fra i più significativi. Un primo è l’aver favorito nel quadro politico italiano la più larga convergenza sulle linee guida della politica estera nazionale, di cui un passaggio importante fu l’approvazione di una risoluzione in tal senso da parte di una larga maggioranza parlamentare nel 1977. Qualcosa che, pur con qualche tentennamento è poi rimasto, magari anche grazie all’influenza dei successivi Capi dello Stato. E che è bene tener presente nella fase politica attuale.
Un altro passaggio da menzionare è quello della caduta del Muro di Berlino e annessa fine della Guerra Fredda, con le straordinarie opportunità che ne derivarono per l’ampliamento dell’orizzonte della democrazia e dell’integrazione. Lo IAI accompagnò con le sue iniziative l’allargamento delle istituzioni comuni a nuovi stati membri, compresi alcuni che avevano prima appartenuto al blocco sovietico, e la nascita della moneta comune, non priva di dolori di parto soprattutto per paesi oberati da un eccessivo debito pubblico, come il nostro. Ma fu anche fautore della necessità che le stesse istituzioni resistessero alla deriva intergovernativa che ne costringeva il funzionamento e insieme contemplassero anche la sfera politica e di sicurezza. Di nuovo, qualcosa di cui si sente drammaticamente la necessità nelle contingenze presenti.
Il passaggio al nuovo secolo (segnato dall’attacco alle Torri Gemelle di New York) ha indicato che alle opportunità si contrapponevano dei rischi e che purtroppo questi hanno finito per prevalere. La suddetta alleanza progressista, liberale e multilateralista è entrata in crisi: negli Stati Uniti sotto la pressione sia dell’ultra-neoliberismo (donde la crescita esponenziale delle diseguaglianze) sia del neo-conservatorismo (donde gli sloga di estendere la NATO e di diffondere la democrazia con conseguenti disastrose guerre in Iraq e Afganistan); in Europa per il crescere dell’egoismo della xenofobia, ma anche della “frugalità”, nonché per il fiorire del populismo nelle sue vare forme e del sovranismo nelle sue vene nazionaliste. Conseguenze in successione: la Grande Recessione, la Brexit, il primo Trump alla Casa Bianca, la pandemia cui resiste un po’ l’Ue ma non le Nazioni Unite, per venire alla Russia che aggredisce l’Ucraina. Tutte tendenze che hanno visto il ruolo dello IAI esercitarsi in senso critico e di articolazione delle alternative.
Il contesto si è fatto ancor più difficile nei giorni che viviamo, le trasformazioni del quadro mondiale e di conseguenza europeo e italiano essendo divenute, letteralmente, “epocali”. Per cui far riferimento alla storia anche lontana, se non è per eludere le realtà o, peggio, essere utilizzato come trucco polemico, come ha fatto la Presidente del Consiglio, può essere appropriato, anzi utile. Il Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941, resta come testo visionario per contemplare istituzioni dotate delle porzioni di sovranità delegate necessarie oggi nel 2025. L’esperienza del come e del perché il trattato per una difesa comune dell’Europa dei Sei fu accantonato nel 1954 resta come ammonimento e insegnamento a fronte delle nuove condizioni strategiche in cui si trovano i Ventisette (o quanti si considerino interessati) in questo marzo 2025.
L’Istituto non conformista
Altiero Spinelli ha fondato l’Istituto Affari Internazionali nel 1965, in un periodo di grandi mutamenti globali e di forti divisioni europee. In quegli anni, prima la costruzione del muro di Berlino, poi la crisi dei missili a Cuba, avevano portato il mondo sull’orlo del baratro nucleare. Due nuovi leader, Kennedy e Krusciov, ne avevano approfittato per iniziare a trasformare i rapporti tra le superpotenze. Il processo venne poi rallentato dall’assassinio di Kennedy, dal peso crescente della guerra in Vietnam nella politica americana, e infine dalla rimozione dello stesso Krusciov.
Ma intanto l’Europa doveva fronteggiare il mutamento senza avere gli strumenti adatti, specie nel campo militare, e profondamente divisa dalle scelte del generale De Gaulle di opporsi ad una crescita delle istituzioni comunitarie (come quella proposta dall’allora Presidente della Commissione Hallstein), prima difendendo una visione strettamente intergovernativa (piano Fouchet) e poi attuando la strategia della “sedia vuota”, che paralizzava il Consiglio dei Ministri.
Spinelli era certo in primo luogo un politico, con una visione di lungo termine di un’Europa integrata e democratica, ma era anche un realista, con una grande capacità di cogliere, in ogni situazione, gli spazi che avrebbero potuto aprire nuove prospettive. E la sua idea fu che in questa fase l’Italia, allora governata da deboli coalizioni di centro-sinistra, dovesse entrare di più e meglio nel grande dibattito internazionale, non tanto tra i governi, dove era comunque, bene o male, rappresentata, quanto nella società civile, dove era quasi del tutto assente, a fronte di una folta partecipazione europea e transatlantica.
Lo IAI servì da porta di accesso al dibattito e insieme da centro di formazione di giovani esperti, lasciando fuori, nelle sue parole, le “eminenze” e la loro “autorevole insipienza”. I giovani ricercatori, tra cui il sottoscritto, dovevano conoscere i problemi ed individuare politiche al loro riguardo che non fossero né immobiliste né nazionaliste: i due peccati mortali che bisognava evitare. Per il resto non vi era alcuna censura, salvo quelle legate al rispetto dei fatti, alla logica dell’argomentazione e alla pulizia dello stile.
Non sempre era facile, né questo assicurava facilmente appoggi o consensi a livello internazionale. Ricordo ancora uno dei miei primi convegni internazionali, negli anni ‘60, durante il quale un Assistant Secretary General della Nato mi aveva preso di punta perché avevo osato scrivere che nel Mediterraneo, regione meridionale della Nato, l’Alleanza si riduceva sostanzialmente ai soli rapporti bilaterali, ben distinti tra loro, che gli Stati Uniti mantenevano con gli alleati di Portogallo, Italia, Grecia e Turchia. La cosa era imbarazzante anche perché a chiudere il convegno sarebbe venuto Manlio Brosio, l’unico italiano che abbia mai ricoperto il ruolo di Segretario Generale. Venni però salvato in extremis da un intervento del rappresentante permanente turco al Consiglio Atlantico, che appoggiò la mia tesi, inclusa l’idea che un allargamento della Comunità europea avrebbe forse mutato la situazione.
Complicati anche i rapporti con gli studiosi italiani e la pubblica amministrazione. Oggi il legame tra lo IAI egli istituti universitari è intenso e continuo, ma agli inizi eravamo ascoltati solo da pochi professori “amici”. Ancora più complesso il rapporto con le amministrazioni “vicine” ai nostri interessi come gli Esteri o la Difesa.
Spinelli aveva preso molto sul serio il campo degli studi strategici, anche perché erano centrali nel dibattito americano ed erano invece uno dei punti di maggiore debolezza nel dibattito europeo. Avevamo pochissimi interlocutori italiani, ma in compenso eravamo in stretto contatto con molti interlocutori esteri a loro volta influenti nei loro paesi, e questo cominciò ad aprire alcune porte. Anche in quel caso con effetti a volte sconcertanti.
Alla fine degli anni ‘60 venni distaccato come ricercatore al prestigioso Istitute of Strategic Studies di Londra (Spinelli era membro del suo Consiglio direttivo). Tra i mie compiti c’era anche quello di aiutare a compilare la pubblicazione più nota dell’Iss, l’annuario The Military Balance, che ancora oggi descrive in dettaglio le capacità militari di ogni paese al mondo. L’Italia era considerata un paese “difficile” perché non rispondeva mai alle richieste di chiarimento. Venne quindi deciso di spedire il ricercatore italiano a Roma per ottenere qualche risposta. Per facilitarmi il compito, l’Iss inviò tramite l’ambasciata una lettera ufficiale al Ministro della Difesa, annunciando il mio arrivo e lo scopo della visita. Fu così che, arrivando al portone di via XX Settembre trovai un carabiniere che mi spiegò in inglese che mi stavano aspettando. Venni ricevuto in una grande sala con tavolo rotondo da una trentina circa di generali ed un interprete. La cosa più delicata fu spiegare che il mio italiano era di livello “madrelingua”.
Anche in questo campo, la capacità di Spinelli di rigirare il problema in modi nuovi ed inaspettati portò ad un dibattito interessante. Erano, con l’inizio della distensione, l’adozione della strategia nucleare della risposta flessibile e i negoziati per il controllo degli armamenti, anni in cui gli alleati europei si domandavano dove volessero andare gli americani, e se lo avrebbero mai fatto sapere in tempo utile agli alleati. In quell’occasione Alistair Buchan, fondatore dell’Iss, osservò che, se veramente si voleva partecipare al dibattito americano, in tempo reale, bisognava essere a Washington e non a Bruxelles, e proponeva quindi di spostare nella capitale americana i ministri europei della Difesa. In effetti la tesi era che la difesa europea era solo una sezione della difesa americana e come tale dovesse essere gestita.
Spinelli non contestò affatto questa tesi, ma osservò che per partecipare bisogna anche contare: che cioè gli americani avrebbero comunque continuato ad ignorare gli europei se questi non avevano un diritto di voto sulle decisioni finali. In sostanza l’ambiguità dell’Alleanza era destinata a durare, a meno che l’Alleanza stessa non si fosse trasformata in una organizzazione sovranazionale. Altrimenti la via maestra restava quella dello sviluppo di alcune capacità autonome europee.
Si può dire che il realismo di Spinelli non fu mai acquiescenza, ma spunto critico per liberarsi di molti orpelli retorici e pessimismi reazionari, per concentrarsi là dove poteva valere la pena.