

Robert Francis Prevost è diventato Papa Leone XIV
Robert Francis Prevost è diventato Papa Leone XIV dopo che i cardinali di tutto il mondo lo hanno scelto come primo leader americano degli 1,4 miliardi di cattolici del mondo. Una folla di decine di migliaia di persone è esplosa in preghiera e commozione quando Leone, successore del defunto Francesco, si è affacciato al balcone della Basilica di San Pietro per pronunciare il primo discorso del suo ministero.
“A tutte le persone, ovunque si trovino, a tutti i popoli, a tutta la Terra, la pace sia con voi”, ha detto un sorridente Leone alla folla. “Aiutateci a costruire ponti attraverso il dialogo, attraverso l’incontro, per unirci come un unico popolo, sempre in pace”.
Il discorso di Leone è stato accolto con applausi, soprattutto quando il prelato – che ha trascorso molti anni in Perù – ha parlato in spagnolo, e anche quando ha reso un caloroso omaggio al suo popolare predecessore Papa Francesco, morto il mese scorso. “Abbiamo ancora nelle orecchie la voce debole, ma sempre coraggiosa, di Papa Francesco che benedice Roma”, ha detto, riferendosi al discorso della domenica di Pasqua dell’argentino malato, un giorno prima della sua morte. “Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce ponti, che dialoga, che è sempre aperta”.
Un grande onoreIl nome dell’americano era circolato tra i “papabili” – cardinali ritenuti qualificati per il papato – come qualcuno che potesse difendere e portare avanti l’eredità di Francesco. Ma non era una figura riconosciuta a livello mondiale tra i cattolici. I leader mondiali si sono affrettati ad accogliere la sua nomina e a promettere di lavorare con la Chiesa su questioni globali.
Come cardinale Prevost, il nuovo papa aveva difeso i poveri e i diseredati, spesso ripostando articoli critici nei confronti delle politiche anti-migranti del presidente statunitense Donald Trump, ma il capo della Casa Bianca ha comunque accolto con favore l’elezione. “Congratulazioni al cardinale Robert Francis Prevost, che è stato appena nominato Papa”, ha detto Trump in un post sulla sua piattaforma di social media. “È un tale onore rendersi conto che è il primo Papa americano. Che emozione e che grande onore per il nostro Paese”.
In precedenza, la folla si era emozionata quando dal camino della Cappella Sistina era uscito del fumo bianco che segnalava l’elezione nel secondo giorno di votazioni dei cardinali.
Le campane della Basilica di San Pietro e delle chiese di tutta Roma hanno suonato a festa e la folla si è precipitata in piazza per guardare il balcone della basilica, che è stato allestito con tende rosse per il primo discorso al mondo del 267° Papa, che è stato introdotto in latino con il nome papale scelto.
“È una sensazione incredibile”, ha detto un euforico Joseph Brian, un cuoco di 39 anni di Belfast, nell’Irlanda del Nord, venuto a Roma con sua madre per assistere allo spettacolo. “Non sono una persona troppo religiosa, ma essere qui con tutte queste persone mi ha lasciato senza fiato”, ha detto all’AFP mentre la gente intorno a lui saltava per l’eccitazione. Ci sono state scene euforiche quando un sacerdote si è seduto sulle spalle di qualcuno sventolando una bandiera brasiliana e un altro ha sollevato in aria un pesante crocifisso in segno di giubilo.
“Habemus Papam”“Habemus papam, woooo!” ha esclamato Bruna Hodara, 41 anni, brasiliana, facendo eco alle parole che sarebbero state pronunciate sul balcone al momento della presentazione del nuovo Papa. Lei, come altri, ha registrato il momento storico sul suo telefono, mentre altri sventolavano bandiere e gridavano “Viva il Papa!” in italiano.
“È un’opportunità unica nella vita essere qui a vedere il Papa. È davvero speciale… Sono emozionato!” ha detto Florian Fried, un quindicenne di Monaco, in Germania.
Francesco è morto all’età di 88 anni dopo un papato di 12 anni durante il quale ha cercato di forgiare una Chiesa più compassionevole – ma ha provocato la rabbia di molti conservatori con il suo approccio progressista.
Leone XIV si trova ora di fronte a un compito epocale: oltre a far valere la sua voce morale su un palcoscenico globale dilaniato dai conflitti, deve cercare di unire una Chiesa divisa e affrontare questioni scottanti come le continue conseguenze dello scandalo degli abusi sessuali.
Non si sa quante votazioni siano state necessarie per eleggere il nuovo Papa, ma il conclave ha seguito la storia recente concludendosi in meno di due giorni. Anche se i dettagli dell’elezione rimarranno per sempre segreti, il nuovo papa ha dovuto ottenere almeno i due terzi dei voti per essere eletto.
Pastore o diplomaticoL’elezione è avvenuta in un momento di grande incertezza geopolitica, che è stata considerata una questione chiave per il voto, insieme alle spaccature all’interno della Chiesa.
Francesco è stato un riformatore compassionevole che ha dato priorità ai migranti e all’ambiente, ma ha fatto arrabbiare i tradizionalisti che volevano un difensore della dottrina piuttosto che un personaggio da prima pagina.
Circa l’80% dei cardinali elettori è stato nominato da Francesco. Provenendo da 70 Paesi del mondo, è stato il conclave più internazionale di sempre. L’insediamento papale avviene solitamente meno di una settimana dopo l’elezione, con una messa celebrata davanti a leader politici e religiosi di tutto il mondo.
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La campagna di sabotaggi russi in Europa interessa anche l’Italia
Nel corso del 2024 le agenzie di intelligence occidentali hanno lanciato l’allarme sull’aumento delle operazioni clandestine condotte dal regime russo in Europa. In particolare, si sono moltiplicati gli incendi dolosi, le esplosioni e le manomissioni di infrastrutture critiche in tutto il continente.
Nel 2023 l’intelligence militare russa (GU) ha istituito un Dipartimento attività speciali incaricato di organizzare attentati e sabotaggi. Centri commerciali e supermercati sono stati dati alle fiamme in Polonia e nei Paesi baltici da cittadini polacchi, bielorussi e persino rifugiati ucraini, motivati da ricompense economiche e talvolta all’oscuro dei mandanti, che li hanno contattati anonimamente via Telegram. In Germania è stato sventato un attentato ad Armin Papperger, amministratore delegato di Rheinmettal, azienda tedesca che fornisce aiuti militari all’Ucraina. Mentre in Spagna è stato assassinato il pilota russo che aveva disertato a favore di Kyiv e si era stabilito sotto falsa identità nei pressi di Alicante, dove è stato raggiunto da sicari assoldati dall’intelligence di Mosca.
È noto infatti che i servizi di Putin abbiano una collaborazione organica con la mafia russa per operazioni clandestine in Europa. In Francia hanno pagato cittadini moldavi e bulgari affinché disegnassero sessanta stelle di David sulle abitazioni di cittadini ebrei di Parigi all’indomani del 7 ottobre, o lasciassero una bara con la scritta “soldati francesi in Ucraina” davanti alla Torre Eiffel. In Germania hanno versato denaro a quattro balcanici per danneggiare oltre 270 auto alla vigilia delle elezioni e incolpare i Verdi, tra i più convinti sostenitori di Kyiv. Uno degli episodi più preoccupanti riguarda l’arresto di un uomo originario del Donbas, rimasto ferito nell’esplosione di un ordigno che stava assemblando nella sua stanza d’hotel all’aeroporto Charles de Gaulle, poche settimane prima dell’inizio delle Olimpiadi di Parigi.
Proprio i giochi olimpici sono stati funestati da un misterioso attacco che ha colpito tre delle quattro principali direttrici ferroviarie ad alta velocità, generando il caos per migliaia di utenti. Le indagini non hanno ancora identificato i responsabili, ma sarebbe ingenuo ritenere che un’operazione di tale portata sia stata ideata ed eseguita esclusivamente da piccoli gruppi di anarchici o ecologisti radicali. Quel che è certo è che il Cremlino ha dato carta bianca, come dimostra il piano per spedire pacchi esplosivi su voli DHL, che avrebbe potuto provocare disastri aerei e ha richiesto l’intervento dell’amministrazione Biden per minacciare ripercussioni.
Ci sono stati arresti di cittadini tedeschi di origine russa che preparavano attacchi a basi NATO dove passano gli aiuti per l’Ucraina o per avvelenare il sistema idrico di aeroporti militari, mentre in Polonia sono finite in carcere dozzine di persone pagate per installare videocamere sulle linee ferroviarie dirette a Kyiv o per sabotarle. La Scandinavia non è stata risparmiata, con incendi dolosi dalla Norvegia alla Finlandia, ma anche in Svezia, con la costruzione di una chiesa ortodossa russa ritenuta in una posizione sospetta, strategicamente vicina a un aeroporto militare e una centrale elettrica.
Le operazioni e i rischi in ItaliaDal 2016 l’Italia è stata oggetto di numerose operazioni di spionaggio, come dimostrano la condanna a 29 anni dell’ufficiale di Marina Walter Biot, i tentativi di infiltrazione alla base NATO di Napoli con l’agente dell’intelligence militare russa Olga Kolobova smascherata dai giornalisti di Bellingcat, o l’ufficiale francese processato per tradimento che lavorava nella struttura partenopea. La reclutatrice dell’FSB Natalia Burlinova, ricercata dall’FBI, nel 2019 è riuscita a infiltrarsi anche negli ambienti italiani. Allo spionaggio si sommano gli attacchi del gruppo hacker NoName057(16) contro infrastrutture digitali di Farnesina, banche e aeroporti, per rappresaglia alle parole del Capo dello Stato Mattarella, definito “russofobo” per la sua condanna dell’imperialismo di Mosca.
Ma le operazioni di sabotaggio non si sono limitate alla sfera digitale. Prova ne è la fuga dell’oligarca russo Artem Uss dai domiciliari a Milano in attesa dell’estradizione negli Stati Uniti per quattro capi d’accusa. L’evasione è stata materialmente facilitata da criminali balcanici, ma coordinata senz’altro dal Cremlino. La medesima procura, nel 2024, ha ottenuto il processo per due imprenditori brianzoli filorussi, accusati di ricevere criptovalute dai servizi di Mosca per mappare le zone cieche delle telecamere di sorveglianza a Milano e Roma, ma anche per allestire una rete di “safe house” per gli operativi russi e installare dash cam per le cooperative di taxi, con le registrazioni da mandare all’intelligence. Questo caso andrebbe messo in relazione con la notizia del Dossier Center, fondato da Mikhail Khodorkovskij, secondo cui i servizi militari russi hanno ricevuto l’ordine di raccogliere informazioni sui critici del Cremlino in Europa, inclusi politici, giornalisti, ricercatori e attivisti.
La sezione antiterrorismo della procura meneghina ha aperto un fascicolo per spionaggio sull’episodio del misterioso drone ad ala fissa di fabbricazione russa che per cinque volte ha sorvolato il Joint Research Centre UE di Ispra, a Varese, poco distante da stabilimenti sensibili di Leonardo. Non si tratterebbe di una novità, in quanto già in Germania droni russi sono stati avvistati sopra basi militari in cui vengono addestrati i soldati ucraini e simili incidenti si sono verificati anche su basi della RAF in Inghilterra. Volendo tracciare un parallelo con la Svezia, anche a Varese nel 2021 è stata inaugurata una chiesa ortodossa russa, a pochi chilometri dal centro europeo sulla ricerca nucleare di Ispra e dalle sedi Leonardo. Al di là delle speculazioni, è noto che il Cremlino utilizzi la Chiesa ortodossa russa per operazioni clandestine, appoggio logistico e propaganda.
Secondo un’analisi del Center for Strategic and International Studies, il numero di attacchi ibridi russi in Europa è triplicato nel 2024 rispetto al 2023, col 27% indirizzato alla rete dei trasporti e un 21% alle infrastrutture critiche, come le condutture energetiche e i collegamenti internet. Le reti ferroviarie italiane sono vulnerabili a sabotaggi fisici e a cyberattacchi, mentre i cavi sottomarini, come quelli Blue Med in posa a Genova, nel Mar Baltico, sono già stati oggetto di danneggiamenti mirati. Anche i rigassificatori di GNL, fondamentali per emanciparsi dalle forniture russe, sono potenziali bersagli nella guerra ibrida di Mosca. Si tratta di asset strategici che richiedono un’attenzione speciale.
Alla luce di questa situazione, anche in Italia si rende necessario un salto di qualità per la sicurezza interna. Una riforma attesa degli apparati di intelligence e controspionaggio, ma anche un’istituzione dedicata al contrasto delle ingerenze esterne per la sicurezza cognitiva. Inoltre, l’Italia è rimasta l’unico paese del G7 a non avere ancora un consiglio di sicurezza nazionale, perché il Consiglio supremo di difesa ha altre prerogative, e manca una strategia di sicurezza nazionale, elaborata invece dagli altri paesi europei. Insomma, occorre adeguare il modello istituzionale alle nuove sfide poste dalla Russia e da altri regimi che vogliono interferire nei processi democratici, aumentare l’instabilità e avanzare i propri interessi egemonici.
Merz eletto cancelliere tedesco
Friedrich Merz, leader conservatore tedesco, ha ottenuto una maggioranza assoluta di 325 voti contro 289 nel secondo voto segreto della Camera bassa del Parlamento per diventare il nuovo Cancelliere della più grande economia europea. Tuttavia, la sua vittoria è stata agrodolce, dopo che la sconfitta iniziale aveva fatto presagire malumori all’interno della sua coalizione.
Merz guiderà una coalizione tra la sua alleanza CDU/CSU e i socialdemocratici di centro-sinistra (SPD) del cancelliere uscente Olaf Scholz.
Il presidente Frank-Walter Steinmeier ha nominato Merz il decimo cancelliere della Germania del dopoguerra. “Accetto questa responsabilità con umiltà, ma anche con determinazione e fiducia”, ha dichiarato Merz. “È un bene che la Germania abbia di nuovo un governo federale con una maggioranza parlamentare”, ha aggiunto, promettendo che la sua coalizione centrista sarà in grado di affrontare i problemi nazionali, dall’economia all’immigrazione.
In un’intervista al canale di informazione NTV, Merz ha anche promesso di essere un leader “molto europeo”, auspicando che la Germania assuma un ruolo più importante a livello internazionale.
Nel suo primo giorno di mandato, il nuovo cancelliere si recherà prima in Francia e poi in Polonia, con l’obiettivo di rafforzare i legami con i vicini europei che hanno cercato di presentarsi uniti nel momento in cui il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha messo in discussione i legami diplomatici e di sicurezza di lunga data, di fronte a una Russia ostile.
Dopo il crollo del governo dell’ex cancelliere Scholz a novembre, la Germania è rimasta per lo più in disparte, con la politica paralizzata in attesa di un nuovo leader.
Alla domanda su come la Germania potrebbe cercare di influenzare i colloqui su un possibile accordo di pace nella guerra in Ucraina, Merz ha risposto che esiste un “formato collaudato” di Berlino che lavora con Francia e Gran Bretagna. “La Germania è stata piuttosto reticente negli ultimi mesi a causa della transizione da un governo all’altro”, ha dichiarato Merz all’emittente pubblica ZDF, prima di aggiungere che d’ora in poi intende “consultarsi intensamente” con Londra e Parigi.
Il rapporto con gli Stati UnitiIl nuovo cancelliere ha promesso di rilanciare l’economia tedesca in difficoltà e di rafforzare il ruolo di Berlino in Europa, rispondendo ai rapidi cambiamenti avvenuti dopo la vittoria di Trump alle elezioni di gennaio.
Il presidente degli Stati Uniti ha esercitato pressioni sugli alleati europei, affermando che spendono troppo poco per le capacità di difesa della NATO e imponendo tariffe particolarmente dolorose alla Germania, potenza esportatrice.
Durante la campagna elettorale tedesca, gli alleati di Trump, tra cui il principale consigliere e miliardario tecnologico Elon Musk e il vicepresidente JD Vance, hanno offerto un forte sostegno al partito di estrema destra e anti-immigrazione Alternativa per la Germania (AfD). Dopo che la scorsa settimana l’agenzia di spionaggio nazionale tedesca ha definito l’AfD un partito “estremista di destra”, il segretario di Stato americano Marco Rubio ha definito la mossa “una tirannia mascherata” e ha affermato che “la Germania dovrebbe invertire la rotta”.
Merz ha condannato le recenti “osservazioni assurde” degli Stati Uniti senza specificare particolari affermazioni e ha dichiarato di “vorrebbe incoraggiare il governo americano a rimanere ampiamente fuori dalla politica interna tedesca”. Politico con legami di lunga data con gli Stati Uniti, Merz ha affermato di aver sempre percepito “dall’America che sanno distinguere chiaramente tra partiti estremisti e partiti di centro politico”.
Vuoto di potere risoltoIl primo voto parlamentare segreto di martedì 6 maggio era atteso come una formalità, ma si è trasformato in un disastro per Merz, che ha mancato per appena sei voti la maggioranza assoluta necessaria per ottenere l’incarico. Tuttavia, il suo trionfo significa che “il vuoto di potere di sei mesi nel cuore dell’Europa è finito”, ha dichiarato l’analista Holger Schmieding della Berenberg Bank.
Schmieding ha affermato che la battuta d’arresto iniziale di Merz “suggerisce che non può contare sul pieno sostegno dei due partiti che sostengono la sua coalizione… Questo seminerà qualche dubbio sulla sua capacità di portare avanti l’agenda politica”. Nonostante il temporaneo sconvolgimento di oggi, ha aggiunto, “Merz ha una comprovata capacità di riprendersi da battute d’arresto temporanee. Per esempio, gli sono occorsi tre tentativi per diventare capo del suo partito CDU, ma alla fine ce l’ha fatta”.
L’AfD ha esultato soprattutto per il voto iniziale contro Merz, che ha promesso di riportare la stabilità a Berlino. Si è anche impegnato a intensificare i controlli sull‘immigrazione irregolare, in parte per ridurre l’appeal dell’AfD. Ha promesso di “fare di tutto” per “ripristinare la fiducia dei cittadini nel centro politico e impedire che votino per un partito come l’AfD”.
La lunga ambizione di Merz di diventare cancelliere della Germania, sventata per la prima volta decenni fa dalla rivale di partito Angela Merkel, che ha poi ricoperto il ruolo di cancelliere per 16 anni, si è finalmente realizzata.
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Scenari di crisi e trasformazioni della difesa italiana
Alessandro Marrone, responsabile del Programma Difesa, Sicurezza e Spazio dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), è intervenuto a Spazio Transnazionale, la trasmissione condotta da Francesco De Leo su Radio Radicale.
Nel corso dell’intervista, Marrone ha analizzato l’escalation militare tra India e Pakistan e il piano israeliano per l’occupazione o lo sfollamento forzato della popolazione nella Striscia di Gaza. Ha inoltre commentato l’evoluzione del contesto geopolitico in Medio Oriente, con particolare attenzione al ruolo degli Houthi e alle implicazioni più ampie per la sicurezza regionale e internazionale.
Un focus importante è stato dedicato anche all’evoluzione della difesa italiana, che si sta adattando a una nuova fase storica caratterizzata da minacce complesse e scenari in rapida trasformazione. Marrone ha citato in particolare l’AeroSpace Power Conference, evento dedicato alla riflessione strategica sulle capacità future necessarie per affrontare le sfide internazionali, di cui lo IAI è partner scientifico.
L’escalation delle tensioni tra India e Pakistan
Da quando, il 22 aprile scorso, un commando terroristico ha ucciso 26 civili a Pahalgam, nel Kahsmir indiano, la tensione tra India e Pakistan ha superato i livelli di guardia. L’India ha accusato il Pakistan di essere indirettamente responsabile. L’attacco sarebbe stato infatti portato avanti da uno dei gruppi terroristici che, secondo l’intelligence indiana, riceve supporto logistico e protezione politica da parte dei servizi di sicurezza pachistani. Islamabad, dal canto suo, nega qualsiasi coinvolgimento.
La reazione indiana è stata immediata e decisa: il governo ha sospeso il trattato del 1960 che regolamenta la gestione delle acque del bacino dell’Indo; ridotto al minimo la presenza diplomatica pachistana; interrotto il commercio, anche attraverso paesi terzi; annullato tutti i visti concessi a cittadini pachistani e intimato loro di lasciare il paese; vietato alle navi pachistane di attraccare ai porti indiani; bandito i canali YouTube pachistani; e chiuso i valichi di confine. Il Pakistan ha reagito con misure simili e ha dichiarato che l’accordo di cessate il fuoco in vigore dal 1972 è da considerarsi sospeso. Come di solito avviene in queste situazioni, gli scontri al confine lungo la Linea di Controllo (il confine di fatto tra i due paesi) si sono intensificati. Il premier indiano Narendra Modi ha dato il “via libera” all’esercito di reagire come meglio crede per difendere la sicurezza nazionale.
Nella notte tra il 6 e il 7 maggio, l’India ha sferrato un attacco missilistico contro nove sospette basi terroristiche, causando danni relativamente limitati (anche se Islamabad ha dichiarato che gli attacchi avrebbero causato 26 morti civili). Il Pakistan ha reagito colpendo il Kashmir indiano con colpi d’artiglieria che avrebbero causato almeno nove morti civili. Inoltre, secondo le autorità pachistane alcuni jet dell’aviazione indiana sarebbero stati abbattuti (il governo indiano non ha confermato). Il rischio di un’escalation è alto, anche se alcuni elementi portano a pensare che i due paesi non hanno intenzione di sprofondare in un conflitto su larga scala.
India, Pakistan e la crisi del 2019L’ultima volta che India e Pakistan si sono trovate sull’orlo della guerra (dopo l’attentato di Pulwama, a pochi mesi dalle elezioni generali indiane del 2019), la situazione non è degenerata per le forti pressioni esercitate dal governo americano su entrambi i paesi, ma anche per una serie di circostanze fortunate: da un lato infatti i raid aerei indiani non causarono danni o vittime – forse intenzionalmente? – e, dall’altro, il pilota indiano catturato dall’esercito pachistano sopravvisse e fu prontamente rimandato in patria. Entrambi i governi, grazie anche al controllo che esercitavano sui media, furono in grado di presentare la propria reazione come una vittoria.
La situazione di oggi presenta qualche somiglianza ma anche notevoli differenze. Come nel 2019, entrambi i governi esercitano un notevole controllo sui media, che gli permetterebbe di presentare scenari molto diversi fra loro come una vittoria. Come nel 2019, Modi è sotto pressione da parte dell’elettorato per mostrare i muscoli, anche in vista delle importanti elezioni statali del Bihar (il terzo stato più popoloso del paese) previste per l’autunno. D’altro canto il capo dell’esercito pachistano Asim Munir, a differenza del suo predecessore che aveva perseguito una linea conciliatrice, sta cercando di rafforzare la sua posizione con una retorica molto aggressiva nei confronti dell’India già da prima dell’eccidio del 22 aprile. Inoltre, gli Stati Uniti non sembrano volersi occupare della questione, non solo per l’apparente disinteresse del presidente Donald Trump, ma anche perché, a differenza del 2019, non hanno più truppe in Afghanistan. Naturalmente, è assai probabile il Dipartimento di Stato americano sia al lavoro per assicurarsi che la tensione tra i due paesi, entrambi dotati di armi nucleari, non salga oltre una certa soglia.
Prospettive di risoluzione e rischi geopoliticiNonostante l’estrema pericolosità della situazione, al momento un’uscita dalla crisi simile a quella del 2019, quando agli attacchi mirati indiani segui una risposta altrettanto mirata da parte pachistana, sembra la più plausibile. Gli attacchi del 6-7 maggio potrebbero aver soddisfatto le aspettative dell’opinione pubblica indiana e soprattutto dei nazionalisti indù, e la base elettorale del partito del primo ministro, che chiedevano una reazione militare forte. Il Pakistan ha a sua volta dichiarato di aver obbligato il nemico ad alzare “bandiera bianca”, il che potrebbe placare la propria opinione pubblica.
Quel che è certo è che una guerra prolungata avrebbe costi altissimi per entrambi i paesi. Il Pakistan è da anni ingolfato in una grave crisi economica e politica che una guerra non farebbe che aggravare. L’India d’altro canto non può ignorare la possibilità che la Cina, storica alleata di Islamabad, decida di intervenire. Piccoli spostamenti di truppe cinesi nel settore orientale del confine conteso tra i due paesi richiederebbero un immediato dispiegamento di forze indiane su due fronti e cioè il venire in essere del più temuto incubo strategico dell’establishment militare indiano. Molto dipenderà da come i due paesi decideranno di leggere la reazione dell’altro e dalla chiarezza con la quale Cina e Stati Uniti comunicheranno a India e Pakistan la propria soglia di tolleranza.
Francesco: “un Papa giunto dalla fine del mondo”
Ci ha lasciato un Papa con una visione del mondo che gli esperti hanno definito “geopolitica”. In effetti Papa Francesco, per dirla con le sue prime parole di nuovo vicario di Cristo, veniva “dalla fine del mondo” cioè dalla natia Argentina. Un modo per sottolineare che il suo approccio agli affari mondiali era meno “eurocentrico” dei suoi predecessori. Ma fino a un certo punto. Sicuramente diverso da quello tutto incentrato sulla fine della contrapposizione fra Est ed Ovest, fra comunismo e liberalismo, periodo che aveva contraddistinto i 26 anni del lungo papato di Wojtyla fino a portarci al superamento della guerra fredda.
Ma di guerra, quella vera, è stato invece testimone diretto Papa Francesco che in anticipo su tutti gli altri aveva ammonito i governi, non solo europei, sul precipizio cui stavano per cadere: “la terza guerra mondiale a pezzi”. Ben 56 conflitti, diretti e spesso sconosciuti, contraddistinguono questi tormentati anni e sembra che nessuno sia davvero in grado di porvi freno. Certamente non le Nazioni Unite che non hanno né la forza né l’autorità per adempiere alla loro missione costitutiva di mediare fra le parti in lotta. Nessuno dei grandi temi mondiali, dal dramma delle immigrazioni al deteriorarsi dell’ambiente, dal crescere delle disuguaglianze all’indebolimento della difesa dei diritti umani, viene affrontato e gestito con sufficiente credibilità dal Palazzo di Vetro. Ormai emerge un insopprimibile individualismo nazionalistico, come denunciava Papa Francesco, in base al quale ciascun paese decide di affrontare l’altro senza cercare né accettare mediazioni esterne. Lo ha sperimentato lo stesso Papa Bergoglio quando ha cercato la via della mediazione fra Russia e Ucraina. I ripetuti viaggi a Kyiv e Mosca del Cardinale Matteo Zuppi hanno ottenuto assai poco, anche perché la Chiesa ortodossa di Russia, tramite il patriarca Kirill, si è nettamente schierata a sostegno dell’aggressore Vladimir Putin respingendo i buoni uffici del Vaticano. Insomma una situazione internazionale fuori controllo che non poco disagio ha creato a Papa Francesco, che nelle sue omelie ha sempre ricordato e pregato per la fine delle guerre nel mondo, arrivando a citare nel corso degli Angelus anche conflitti poco conosciuti dalle nostre opinioni pubbliche.
L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca non ha fatto altro che aggravare quell’individualismo governativo che tanto si scontrava con la filosofia del Papa di mantenere aperto il dialogo e di cercare a tutti i costi la salvaguardia di una convivenza pacifica in ogni parte del mondo. Pur non essendo “eurocentrico” il Papa, di fronte alla crescente povertà delle istituzioni multilaterali e ai rischi di terza guerra mondiale, ha rivolto il proprio sguardo e le proprie speranze anche all’Unione europea, come progetto di pace ancora valido. Ne rappresenta ancora oggi testimonianza il suo ispirato discorso davanti al Parlamento europeo del 25 novembre 2014. In quei mesi era già scoppiato il primo conflitto intorno ai confini ad est dell’Ucraina e vi era stata l’improvvisa annessione della Crimea da parte della Russia. Insomma la terza guerra mondiale a pezzi veniva confermata nel cuore stesso dell’Europa. Un’Unione europea che già allora appariva nelle parole di Francesco “invecchiata e compressa”, cioè senza quel dinamismo che ne aveva contraddistinto la nascita e la crescita, e che non sembrava quindi in grado di dare risposte convincenti. Ritornare allo spirito pionieristico e di pace dei padri fondatori era più che mai necessario. Anche perché non è possibile che l’Unione ruoti solo intorno allo sviluppo dell’economia. Il suo compito deve essere invece quello di abbandonare i timori crescenti di un’Europa impaurita e piegata su sé stessa e promuovere invece un’Unione protagonista che guarda, difende e tutela l’uomo. Anche perché lo sviluppo disordinato del multipolarismo non permette al mondo di affrontare i problemi globali, dal clima alle enormi diseguaglianze, dalla lotta alla povertà all’accoglimento degli immigrati, tutti temi che premevano a Papa Francesco.
L’Europa, allora, deve puntare secondo Bergoglio a divenire punto di riferimento dell’umanità per il raggiungimento della pace sulla base della sussidiarietà, della solidarietà reciproca e della tutela dei diritti umani e delle libertà. Parole allora profetiche vista l’evoluzione recente dello scenario europeo, ormai condizionato dal proseguimento dell’assurdo conflitto fra Russia e Ucraina e allo stesso tempo dall’allontanamento ormai strutturale del nostro maggiore alleato americano. Davvero un pensiero profondo e di sostegno del progetto di integrazione europea da parte di un Papa che, come dicevamo, veniva considerato meno eurocentrico dei suoi predecessori. Ma Francesco aveva intuito già nel 2014 che l’àncora per il mantenimento della democrazia poteva essere proprio l’Ue, unica realtà politica multilaterale ove i diritti umani venivano considerati un bene comune e dove la dignità umana poteva trovare il giusto contesto per essere sostenuta e sviluppata. Non tutta l’Ue, purtroppo, ma certamente la gran parte di essa rispondeva a questo messaggio pastorale e alla volontà di contrastare il crescente nazionalismo. Purché si abbia la forza di salvaguardare i grandi valori che sono alla base del processo di integrazione europea. Manteniamo quindi, per riprendere il discorso di Papa Francesco, la nostra “unità che vive della ricchezza della sua diversità” e tuteliamo quindi il bene più prezioso della nostra democrazia minacciata sia dall’interno che dall’esterno, ma ancora capace di dare accoglienza alla dignità delle persone.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI VESCOVI DEGLI STATI UNITI D’AMERICA
Cari Fratelli nell’Episcopato,
Vi scrivo oggi per rivolgervi alcune parole in questo delicato momento che state vivendo come Pastori del Popolo di Dio che pellegrina negli Stati Uniti d’America.
- Il cammino dalla schiavitù alla libertà compiuto dal Popolo d’Israele, così come narrato nel libro dell’Esodo, ci invita a guardare alla realtà del nostro tempo, così chiaramente segnata dal fenomeno della migrazione, come a un momento decisivo nella storia per riaffermare non soltanto la nostra fede in un Dio che è sempre vicino, incarnato, migrante e rifugiato, ma anche nella dignità infinita e trascendente di ogni persona umana.
- Queste parole con cui esordisco non sono un costrutto artificiale. Anche un rapido esame della dottrina sociale della Chiesa mostra con enfasi che Gesù Cristo è il vero Emanuele (cfr. Mt1, 23); ha vissuto anche lui la difficile esperienza di essere cacciato dalla propria terra a causa di un pericolo imminente per la sua vita e l’esperienza di rifugiarsi in una società e una cultura estranee alla sua. Il Figlio di Dio, nel farsi uomo, ha scelto anche di vivere il dramma dell’immigrazione. Mi piace ricordare, tra le altre cose, le parole con cui Papa Pio XII ha iniziato la sua Costituzione apostolica sulla cura dei migranti, che è considerata la “Magna Carta” del pensiero della Chiesa sulla migrazione:
«La Famiglia di Nazaret in esilio, Gesù, Maria e Giuseppe, emigranti in Egitto e ivi rifugiati per sottrarsi alle ire di un re empio, sono il modello, l’esempio e la consolazione degli emigranti e dei pellegrini di ogni tempo e di ogni Paese, di tutti i profughi di ogni condizione che, spinti dalla persecuzione o dal bisogno, sono costretti a lasciare la loro patria, l’amata famiglia e i cari amici e recarsi in terra straniera».
- Parimenti, Gesù Cristo, amando tutti di un amore universale, ci educa al riconoscimento permanente della dignità di ogni essere umano, senza eccezioni. Di fatto, quando parliamo di “dignità infinita e trascendente”, desideriamo sottolineare che il valore più importante che la persona umana possiede supera e sostiene ogni altra considerazione giuridica che si possa fare per regolare la vita nella società. Pertanto, tutti i fedeli cristiani e le persone di buona volontà sono chiamati a riflettere sulla legittimità di norme e politiche pubbliche alla luce della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali, e non il contrario.
- Sto seguendo da vicino la grande crisi che si sta verificando negli Stati Uniti con l’avvio di un programma di deportazioni di massa. La coscienza rettamente formata non può non compiere un giudizio critico ed esprimere il suo dissenso verso qualsiasi misura che tacitamente o esplicitamente identifica lo status illegale di alcuni migranti con la criminalità. Al tempo stesso, bisogna riconoscere il diritto di una nazione a difendersi e a mantenere le comunità al sicuro da coloro che hanno commesso crimini violenti o gravi durante la permanenza nel Paese o prima del loro arrivo. Detto ciò, l’atto di deportare persone che in molti casi hanno abbandonato la propria terra per ragioni di povertà estrema, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave deterioramento dell’ambiente, lede la dignità di molti uomini e donne, e di intere famiglie, e li pone in uno stato di particolare vulnerabilità e incapacità di difendersi.
- Non si tratta di una questione di poca importanza: uno Stato di diritto autentico si dimostra proprio nel trattamento dignitoso che tutte le persone meritano, specialmente quelle più povere ed emarginate. Il vero bene comune viene promosso quando la società e il governo, con creatività e rigoroso rispetto dei diritti di tutti — come ho affermato in numerose occasioni — accolgono, proteggono, promuovono e integrano i più fragili, indifesi, vulnerabili. Ciò non ostacola lo sviluppo di una politica che regolamenti una migrazione ordinata e legale. Tuttavia, tale sviluppo non può avvenire attraverso il privilegio di alcuni e il sacrificio di altri. Ciò che viene costruito sul fondamento della forza e non sulla verità riguardo alla pari dignità di ogni essere umano incomincia male e finirà male.
- I cristiani sanno molto bene che è solo affermando la dignità infinita di tutti che la nostra identità di persone e di comunità giunge a maturazione. L’amore cristiano non è un’espansione concentrica di interessi che poco a poco si estendono ad altre persone e gruppi. In altre parole: la persona umana non è un mero individuo, relativamente espansivo, con qualche sentimento filantropico! La persona umana è un soggetto dotato di dignità che, attraverso la relazione costitutiva con tutti, specialmente con i più poveri, un po’ alla volta può maturare nella sua identità e vocazione. Il vero ordo amorische occorre promuovere è quello che scopriamo meditando costantemente la parabola del “Buon Samaritano” (cfr. Lc10, 25-37), ovvero meditando sull’amore che costruisce una fratellanza aperta a tutti, senza eccezioni.
- Ma la preoccupazione per l’identità personale, comunitaria o nazionale, al di là di queste considerazioni, introduce facilmente un criterio ideologico che distorce la vita sociale e impone la volontà dei più forti come criterio di verità.
- Riconosco i vostri preziosi sforzi, cari fratelli vescovi degli Stati Uniti, mentre lavorate a stretto contatto con migranti e rifugiati, proclamando Gesù Cristo e promuovendo diritti umani fondamentali. Dio vi ricompenserà abbondantemente per tutto ciò che fate a protezione e difesa di quanti sono considerati meno preziosi, meno importanti o meno umani!
- Esorto tutti i fedeli della Chiesa cattolica, come anche tutti gli uomini e le donne di buona volontà, a non cedere a narrative che discriminano e causano inutili sofferenze ai nostri fratelli e sorelle migranti e rifugiati. Con carità e chiarezza siamo chiamati a vivere in solidarietà e fratellanza, a costruire ponti che ci avvicinino sempre più, a evitare muri di ignominia e a imparare a dare la nostra vita così come l’ha data Gesù Cristo per la salvezza di tutti.
- Chiediamo a Nostra Signora di Guadalupe di proteggere le persone e le famiglie che vivono nella paura o nel dolore a causa della migrazione e/o della deportazione. Possa la “Virgen morena”, che sapeva come riconciliare i popoli quando tra loro c’era inimicizia, concedere a tutti noi di incontrarci di nuovo come fratelli e sorelle, nel suo abbraccio, e quindi compiere un passo avanti nell’edificazione di una società più fraterna, inclusiva e rispettosa della dignità di tutti.
Fraternamente,
Francesco
Vaticano, 10 febbraio 2025
Bilal Wahab: Sulaimani Forum, interrogarsi e governare
Cari ospiti, colleghi e amici. Buongiorno!
Benvenuti al 9° Forum di Sulaimani: è un grande onore ospitarvi qui all’American University of Iraq, Sulaimani, specialmente in una giornata così bella.
Il Forum di Sulaimani è ciò che Hoshyar Zebari una volta definì il “Davos del Medio Oriente”: un luogo in cui ci riuniamo non in una qualche capitale lontana, ma proprio qui per affrontare direttamente le sfide della nostra regione. Questa è stata la sua descrizione al primo Forum di Sulaimani nel 2013.
Il Forum di Sulaimani, come lo chiamiamo, è uno spazio raro in cui coltivare un dialogo aperto e orientato alla politica in una regione che ne ha bisogno più che mai. E c’è una ragione per cui si svolge qui all’American University of Iraq, Sulaimani (AUIS). Permettetemi di raccontarvi qualcosa su chi siamo. AUIS è un esperimento audace che ha avuto successo. Costruita sul modello delle arti liberali americane, l’università offre un’educazione basata sul pensiero critico, la responsabilità civica e la libertà accademica. I nostri studenti provengono da tutte le province e regioni dell’Iraq e sempre più dai paesi vicini, non solo per ottenere una laurea, ma per essere coinvolti in modo diretto, per interrogarsi e per governare. Siamo orgogliosi dei nostri ex studenti, molti dei quali ricoprono cariche pubbliche, lanciano startup e difendono la giustizia. Probabilmente conoscete anche alcuni di loro perché effettivamente potrebbero lavorare per voi.
Ciò che rende AUIS unica è la sua resilienza: siamo indipendenti, imparziali e senza scopo di lucro, e ci impegniamo non solo per costruire un’università migliore, ma per costruire un miglior Kurdistan e un miglior Iraq. Un esempio di questo impegno è la nostra piattaforma di ricerca culturale Kashkul, uno spazio per raccontare storie, coltivare la memoria e l’immaginazione. Attraverso narrazioni, poesia, pubblicazioni e mostre, Kashkul preserva le voci di comunità spesso cancellate dalla storia. Iniziative come Shingal Lives e Mosul Maqam sfidano il terrorismo attraverso la cultura. E stiamo condividendo questo patrimonio con il mondo traducendo in inglese poeti come Mahwi e Nalî.
Permettetemi anche di evidenziare Iris, il nostro centro di ricerca e padrone di casa, l’organizzatore di questo forum. Iris si è guadagnato una reputazione per affrontare le questioni più difficili dell’Iraq, dall’intersezione tra cambiamento climatico e conflitti, al miglioramento degli investimenti iracheni in ambito ambientale. Sono ovviamente di parte, perché sono orgoglioso di essere stato uno dei primi borsisti di Iris.
Sono anche entusiasta di condividere alcune nuove iniziative che approfondiranno il nostro impatto qui all’AUIS: il lancio di un nuovo centro per l’energia, un laboratorio di intelligenza artificiale all’avanguardia che prepara i nostri studenti per le economie del futuro. E lo sviluppo del primo ampio modello linguistico in curdo che garantirà l’ingresso della nostra lingua e cultura nel futuro digitale.
Eccellenza accademica, impatto sulla comunità e leadership degli ex studenti: questi sono i pilastri del nostro lavoro qui all’AUIS. Il forum di quest’anno affronterà sia le sfide urgenti che quelle a lungo termine, navigando in un paesaggio geopolitico in cambiamento, rafforzando le economie dell’Iraq e del Kurdistan e preparandoci per le elezioni future.
In conclusione, AUIS e il Forum di Sulaimani riflettono una visione condivisa, una visione in cui le università servono la società, dove l’apprendimento alimenta la leadership e dove il dialogo è il primo passo verso soluzioni reali. Questa visione è radicata nel miglior modello educativo americano. Questa visione è nata qui a Sulaimani grazie al nostro fondatore, il Dr. Barham Salih.
Il discorso di apertura di Bilal Wahab, Presidente dell’American University of Iraq, Sulaimani
La regione MENA in un ordine globale in evoluzione
In un mondo sempre più multipolare, la regione del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA) sta navigando tra dinamiche di potere mutevoli, alleanze frammentate e centri di influenza emergenti. Il primo panel del Sulaimani Forum, moderato da Maria Luisa Fantappiè, responsabile del programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dello IAI, ha esplorato come l’Iraq e gli attori regionali si stiano adattando all’erosione delle tradizionali alleanze geopolitiche e dei centri di potere.
Victoria Taylor, vice assistente del Segretario di Stato per l’Iraq e l’Iran
Maria Luisa Fantappiè: Negli ultimi due anni e mezzo la regione MENA ha vissuto cambiamenti incredibili. Ci sono diversi progetti regionali in competizione tra loro: Israele ha il suo modo di vedere la regione, l’Iran un suo modo concorrente di vedere la regione, la Turchia e il Golfo. A ciò si aggiunge un sistema multilaterale in crisi, con attori globali come gli Stati Uniti che si trovano nel momento cruciale della loro storia per definire il loro ruolo nella regione MENA. Vorrei allora iniziare in modo concreto e chiederti di aggiornarci sulla situazione attuale. Sappiamo che l’amministrazione Trump, ha intenzione di dare una possibilità alla diplomazia e di riavviare i negoziati sull’accordo nucleare con l’Iran. Quindi potresti aggiornarci su quanto sta accadendo e a che punto siamo con i negoziati sul nucleare tra Stati Uniti e Iran, soprattutto dopo l’incontro in Oman?
Victoria Taylor: Penso che siamo agli inizi. Naturalmente, il Presidente Trump ha ribadito chiaramente che l’obiettivo degli Stati Uniti è impedire all’Iran di sviluppare un’arma nucleare e un programma di arricchimento di uranio. Ma è stato anche molto chiaro e aperto riguardo al suo interesse a risolvere le divergenze con l’Iran attraverso il dialogo e la diplomazia. La scorsa settimana a Muscat abbiamo avuto l’opportunità di discutere questi temi con gli iraniani e credo che questo sia un primo passo molto positivo. Tuttavia, la strada da percorrere è ancora lunga e, come sappiamo, nel corso di molti decenni ci è sfuggita l’opportunità di raggiungere un accordo duraturo con l’Iran sul suo programma nucleare. Tuttavia, questo primo round è stato positivo e costruttivo e c’è consenso sul fatto che ci saranno colloqui nei prossimi giorni, anche se non ho ulteriori informazioni su quando e dove si terranno. Tuttavia, nei prossimi colloqui ci aspettiamo di sviluppare un quadro più ampio su come procedere con i negoziati.
Maria Luisa Fantappiè: Il Presidente Trump, infatti, ha sempre detto di voler fare un accordo migliore del JCPOA. Quali opzioni ci sono per raggiungere un accordo migliore a questo punto?
Victoria Taylor: Penso che siamo ancora agli inizi e che non abbiamo ancora definito i parametri di questi negoziati. Pertanto, ritengo che il prossimo ciclo di discussioni ci sarà utile per definire la strada da seguire. Ma credo sia anche importante ricordare che, oltre alle preoccupazioni che gli Stati Uniti nutrono per il programma nucleare iraniano, continuiamo a nutrire profonde preoccupazioni per le attività destabilizzanti dell’Iran in tutta la regione, incluse le sue attività di sostegno al terrorismo attraverso i suoi proxy e i complotti letali contro dissidenti all’estero e ex funzionari statunitensi. Queste rimangono dunque preoccupazioni costanti. Credo sia anche importante notare che la massima pressione è ancora in vigore, anche se stiamo portando avanti i negoziati con l’Iran sul suo programma nucleare. Il Presidente ha ordinato agli Stati Uniti di cercare tutte le opportunità per negare all’Iran l’accesso alle entrate che utilizza per finanziare le sue attività nucleari e il sostegno al terrorismo. Pertanto, il modo migliore per l’Iran di ottenere un sollievo economico e di vedere le sanzioni rimosse è quello di interrompere le attività che ci hanno spinto a metterle in atto.
Maria Luisa Fantappiè: La massima pressione è stata ovviamente in gioco, ma a un certo punto si è anche ritorta contro di noi. Intendo dire che in alcuni contesti, come l’Iraq, potrebbe anche rafforzare alcuni gruppi di fronte al governo. Vorrei quindi chiederle se non ci sia spazio per una pressione meno intensa e un approccio più diplomatico, soprattutto quando si tratta di un accordo sul nucleare che potrebbe includere alcuni degli attori regionali inizialmente esclusi dai negoziati, in particolare gli Stati del Golfo.
Victoria Taylor: Credo che ciò dipenda dai parametri dei negoziati. Tuttavia, credo anche che dipenderà dai passi che l’Iran compirà mentre portiamo avanti queste discussioni. Naturalmente, il continuo sostegno dell’Iran a proxy e milizie è una preoccupazione non solo per gli Stati Uniti, ma anche per i Paesi della regione. Anche in questo caso, credo che il modo più rapido per l’Iran di ottenere un sollievo economico sia quello di interrompere le attività che ci hanno spinto ad applicare le sanzioni.
Maria Luisa Fantappiè: È d’accordo con quanti affermano che anche Israele ha un ruolo destabilizzante nella regione? Inoltre, secondo lei, l’amministrazione Trump ha maggiore peso o dispone di più strumenti per fare pressione su Israele affinché accetti un accordo nucleare?
Victoria Taylor: Credo di poter affermare con certezza che la politica degli Stati Uniti è quella di garantire il diritto di Israele a difendersi e gli Stati Uniti continueranno a fornire sostegno alla difesa e alla sicurezza di Israele. C’è una partnership di lunga data. Per quanto riguarda il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, credo che questo dimostri l’importanza della discussione in corso con Israele per risolvere le preoccupazioni relative al suo programma nucleare e alle sue attività destabilizzanti, ma anche la chiara intenzione e il messaggio del Presidente di voler dare alla diplomazia una reale possibilità.
Krikor Der-Hagopian, Direttore delle Relazioni Internazionali dell’Ufficio del Primo Ministro
Maria Luisa Fantappiè: Lei ha lavorato con il Primo Ministro in un momento molto difficile, in cui l’Iraq si è trovato ad affrontare un ambiente geopolitico mutevole e in cui Israele ha avviato operazioni militari aggressive in tutta la regione. Può descrivermi come avete affrontato questo momento difficile in qualità di governo iracheno? Mi riferisco in particolare al fatto che, ad esempio, alcuni gruppi non sottoposti al controllo del governo iracheno hanno intrapreso iniziative offensive contro Israele, mettendo a repentaglio la politica estera autonoma dell’Iraq.
Krikor Der-Hagopian: Innanzitutto, per poter avere una politica estera solida, l’Iraq ha bisogno di organizzarsi internamente. Uno dei modi per riuscirci è il monopolio dei mezzi di violenza, che è uno degli elementi essenziali della statualità. Questo è stato uno degli elementi del programma di formazione del governo, in cui i partiti politici che hanno vinto le elezioni si sono riuniti per discutere il programma di governo che affidava al capo dell’esecutivo, il comandante in capo, il compito di condizionare progressivamente il processo EDR al fine di mantenere questo monopolio sui mezzi di violenza. Fin dal primo giorno, il governo ha lavorato in collaborazione con i partiti politici per ottenere il sostegno della popolazione irachena e, ad essere onesti, l’autorità religiosa ha giocato un ruolo centrale a questo scopo, rafforzando il potere del governo nel mantenere il monopolio sui mezzi di violenza. Per questo motivo, dalla formazione del governo fino al 7 ottobre, l’Iraq ha vissuto un’era di sicurezza e stabilità senza precedenti. Tuttavia, quello che è successo il 7 ottobre è stato uno shock sistemico che ha messo a repentaglio l’Iraq e l’intera regione. Una situazione che non dipendeva da noi, ma che ci avrebbe comunque colpito. Di conseguenza, il Primo Ministro, in collaborazione con i suoi partner di coalizione, ha affrontato la questione innanzitutto dal punto di vista politico e, a mio avviso, questo è stato uno dei passi più importanti per entrambe le parti: sia per chi era a favore di trascinare l’Iraq in questo conflitto militare, sia per chi era contrario. Il governo, il Primo Ministro e i suoi sostenitori hanno espresso con chiarezza che l’Iraq sarà sempre all’altezza della sua responsabilità morale.
Maria Luisa Fantappiè: Quando parla di chi è a favore, cosa intende?
Krikor Der-Hagopian: I membri della coalizione che erano contrari a trascinare l’Iraq in questo conflitto militare, pur essendo all’altezza delle responsabilità dell’Iraq nei confronti del popolo palestinese e delle sue rimostranze in termini di responsabilità morale, umanitaria, legale e di cui l’Iraq si è fatto carico. Quindi, tutte queste responsabilità hanno trascinato l’Iraq in un conflitto militare e dobbiamo comprendere la storia dell’Iraq per capire perché è stata presa questa decisione. L’Iraq è stato un Paese all’avanguardia nella regione, molti Paesi e molte persone nella regione guardavano all’Iraq come a un modello. Tuttavia, a seguito di errori, guerre e colpi di stato, la situazione si è ribaltata. Molti iracheni hanno iniziato a guardare a questi Paesi come a un modello e questo ha creato una sorta di amarezza. Inoltre, il popolo iracheno è molto giovane: circa il 30% della popolazione ha meno di quattordici anni. Credo che il 60% abbia meno di sessantaquattro anni. Queste persone hanno bisogno di opportunità di lavoro, vogliono una vita dignitosa e per poterlo fare abbiamo bisogno di pace, sicurezza e stabilità. Questi elementi hanno guidato i calcoli dei governi e della coalizione di governo nel tentativo di isolare l’Iraq dal conflitto militare. Alla fine, il governo iracheno è riuscito a prevalere e la pace e la sicurezza sono state riaffermate.
Maria Luisa Fantappiè: Posso chiederle se, osservando la rapidità con cui le cose sono cambiate, ad esempio in Siria dopo l’8 dicembre, e come anche in pochi mesi abbiamo assistito a una trasformazione senza precedenti in tutta la regione, si temeva che l’Iraq sarebbe stato il prossimo dopo le azioni di Israele in Libano e poi in tutta la regione. Se venisse intrapresa un’azione offensiva di questo tipo, quali conseguenze ci sarebbero?
Krikor Der-Hagopian: In primo luogo, data la relativa sicurezza e stabilità in cui versa l’Iraq, non c’è alcuna minaccia militare da parte di Israele. Si tratterebbe di un’aggressione palese contro l’Iraq, contro il governo e contro il popolo iracheno. Si tratterebbe quindi di una palese aggressione e di una violazione del diritto internazionale: non ce l’aspettiamo e non l’accettiamo. Se ciò accadesse, l’Iraq ne uscirebbe molto destabilizzato. In Iraq si stanno registrando progressi significativi, ma sono sempre fragili e reversibili e credo che si ritorcerebbero contro l’intera regione e anche contro chi li ha provocati. Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo importante nell’evitare uno scenario così catastrofico. Spero che non si arrivi a questo, la coalizione di governo irachena sta facendo tutto il possibile per isolare l’Iraq da un simile conflitto militare; un’aggressione di questo tipo non sarebbe accettabile.
Maria Luisa Fantappiè: Le relazioni tra Stati Uniti e Iraq hanno avuto una storia travagliata, ma anche una storia di graduale comprensione di come possano cooperare. Dopo i cambiamenti avvenuti nella regione, c’è l’idea di ripensare il piano di riduzione della presenza statunitense o siete ancora fermi al programma che prevede un primo ritiro per settembre 2025? A questo proposito, quanto è importante mantenere la presenza della coalizione guidata dagli Stati Uniti sia in Iraq che in Siria per la stabilità del Paese e per contrastare il rischio di una potenziale recrudescenza dell’ISIS?
Krikor Der-Hagopian: Gli Stati Uniti sono stati responsabili del cambiamento, della liberazione dall’oppressione della dittatura e dell’avvio dell’Iraq verso un modello di democrazia pluralistica in Medio Oriente, in cui persone di diverse etnie, religioni e provenienza politica possono incontrarsi e condividere il potere. Naturalmente, per definizione, le transizioni sono processi molto spinosi. Richiedono tempi molto lunghi; se si osserva la storia americana, si scopre che dopo un secolo è scoppiata una guerra civile. Credo che l’Iraq stia prendendo una scorciatoia.
Perciò, penso che questa relazione sia una sorta di ancora di salvezza: se gli americani vogliono impegnarsi in modo costruttivo con l’Iraq e continuare a sostenerlo per completare la transizione in atto, come hanno fatto con la coalizione globale per combattere l’ISIS, penso che sia un elemento importante. Tra i due Paesi c’è stato un annuncio che prevedeva tre condizioni: la prima è la capacità delle forze di sicurezza irachene, la seconda è il livello di minaccia dell’ISIS, la terza è la minaccia ambientale.
E credo che due delle tre condizioni possano cambiare in modo significativo: l’ISIS ha potuto ottenere il controllo di alcune armi in Siria e il livello di minaccia è aumentato; i cambiamenti avvenuti in Siria hanno offerto loro un punto d’appoggio e un trampolino di lancio che deve essere preso in considerazione. Ora, si tratta di una coalizione globale di cui gli Stati Uniti sono un elemento importante, se non il pilastro. Pertanto, stiamo ancora aspettando che le nostre controparti nella coalizione globale esprimano il loro parere politico, affinché la coalizione possa prendere forma e potremo tracciare la nostra strada. Finora non si è discusso di cambiamenti nelle tempistiche; forse si è discusso delle piattaforme, dato il cambiamento della minaccia. In precedenza, il livello di minaccia era localizzato nel nord-est della Siria, mentre ora si è spostato a sud, dai confini iracheni fino alla località di Cervi a Palmera, a sud di Damasco. È possibile che si stiano riconsiderando le piattaforme in cui devono svolgersi le operazioni di contrasto all’ISIS, ma stiamo ancora aspettando che gli americani formulino la loro politica per poter tracciare la nostra strada. Le discussioni sono in corso, ma in ultima analisi si tratta di una decisione politica.
S.E. Ann Linde, ex ministro degli Esteri svedese
Maria Luisa Fantappiè: Siamo in un momento critico non solo per il Medio Oriente, ma anche per le relazioni transatlantiche tra gli Stati Uniti e l’Europa: come vede l’evolversi della situazione e come immagina si evolveranno le relazioni Ue-Usa, soprattutto per quanto riguarda l’approccio alla regione MENA? A questo proposito, mi viene in mente il ruolo dell’Ue nel negoziato sul nucleare degli Stati Uniti: l’E3 è ancora parte del JCPOA e questo è un elemento importante. Come vede lo sviluppo delle relazioni Europa-Iran?
S.E. Ann Linde: Sono una responsabile delle politiche dell’Ue e in effetti l’Europa ha a lungo considerato le relazioni transatlantiche come la pietra angolare delle alleanze, in particolare per quanto riguarda la politica estera e di sicurezza, ma anche i legami economici e così via. Oggi, però, questa base si sta spostando e stiamo assistendo a una sorta di erosione delle alleanze tradizionali, il che significa che dobbiamo accettare il fatto che gli Stati Uniti stanno di fatto facendo un passo indietro rispetto al loro ruolo di leadership di lunga data, non solo per quanto riguarda le relazioni con gli Stati Uniti, ma anche per quanto riguarda il loro ruolo di leadership a livello globale. Lo vediamo ogni giorno con le nuove decisioni dell’amministrazione Trump che li stanno di fatto allontanando da un ruolo di leadership nel mondo. Penso che questo non abbia solo grandi implicazioni per l’Ue, ma anche per questa regione del Medio Oriente e Nord Africa (MENA). C’è bisogno di un ribilanciamento e forse anche di una ricalibrazione di con chi cooperare e su cosa farlo. Anche la questione dell’Iraq, che ha una forte relazione con l’Occidente e gli Stati Uniti, è rilevante.
Ora, nel momento in cui gli Stati Uniti stanno tornando indietro, entrano in scena nuovi attori: Turchia, Cina e Arabia Saudita. L’Ue, inoltre, deve considerare il Medio Oriente e l’Africa settentrionale in modo diverso: non possiamo più considerarlo solo come una zona cuscinetto o una fonte per questioni come la migrazione e l’energia, ma dovremmo anche formare un partenariato strategico tra l’Ue e l’area MENA che in realtà non abbiamo mai avuto prima. Dobbiamo costruire resilienza, sostenibilità e transizione verde, temi molto importanti, e accettare il fatto che l’area MENA è un attore che sta plasmando un ordine globale.
Maria Luisa Fantappiè: Ritiene che le relazioni Ue-Golfo possano essere uno dei motori di questo nuovo bilanciamento? E, sempre in relazione alla transizione, come vede il ruolo della Siria nello specifico?
S.E. Ann Linde: Di sicuro il legame transatlantico si è indebolito: era l’inizio di tutto. Era una pietra miliare e ora non lo è più, come si può notare dal fatto che il commissario al commercio è tornato a casa da Washington con le mani vuote. Credo che sarà molto difficile capire quanto siano profonde le implicazioni di queste tariffe. La Svezia è un Paese di 10 milioni di persone e siamo il decimo investitore negli Stati Uniti. Questo significa che, anche se in questa pausa verranno applicati dazi del 25% sull’acciaio, sull’alluminio, sulle automobili e del 10% su tutto il resto, la pausa non porterà a grandi cambiamenti e ora dobbiamo espandere la partnership con altre aree del mondo. Per la prima volta in assoluto, l’Unione europea ha avuto qualche giorno fa un dialogo ad alto livello con l’Autorità Palestinese: non era mai successo prima. L’Ue aveva instaurato rapporti solo con Israele, non con la Palestina: ora è la prima volta e l’aumento del budget per il sostegno alle infrastrutture e al buon governo in Palestina rappresenta un grande cambiamento.
Bader Al-Saif, professore assistente presso l’Università del Kuwait e associato alla Chatham House
Maria Luisa Fantappiè: In questo grande caos che stiamo vivendo, a volte sembra che i Paesi del Golfo siano quelli che hanno capito come navigare in questo ordine multipolare a livello globale e multi-allineamento anche a livello regionale. È vero?
Bader Al-Saif: Assolutamente d’accordo. Penso che in questo momento nel Golfo ci sia il senso di rivendicare il fatto che abbiamo sempre avuto ragione e che si percepisca la sensazione che il Golfo si sia sempre più visto come un centro a sé stante. Non c’è momento più significativo di questo per quanto riguarda la centralità del Golfo, se si osserva come si sta muovendo il mondo. Se posso ribattere sull’idea che stiamo entrando in un mondo multipolare, penso che molti nel Golfo non la pensino così e che questo sia probabilmente parte della loro storia di successo. Ci sono delle battute d’arresto, naturalmente, niente è perfetto, ma stanno cercando di muoversi lungo una certa traiettoria e l’argomentazione che ho esposto è che stiamo vivendo in un ordine mondiale frammentato e tale frammentazione richiede un senso di fluidità e agilità nel muoversi.
In questa frammentazione, si osservano diversi ordini mondiali in competizione tra loro, pertanto non si può affermare che stiamo passando rapidamente da un sistema unipolare americano a un sistema multipolare. Ci sono molte commistioni tra i due: prendiamo ad esempio il momento unipolare, che credo sia molto presente in questo periodo. L’America non sta per scomparire. Lo guardo dalla prospettiva del Golfo: guardate le alleanze di sicurezza che abbiamo, guardate i tre dossier più importanti degli Stati Uniti in materia di negoziazione e mediazione; stanno avvenendo nel Golfo, sia che si tratti della questione palestinese e israeliana, sia che si tratti dei colloqui tra Russia e Stati Uniti con gli ucraini a Riyadh, o più recentemente dei colloqui tra Stati Uniti e Iran a Muscat. C’è dunque la sensazione che questo momento stia evolvendo.
Ora, c’è anche la sensazione che ci sia un ordine imperiale che potrebbe andare oltre. La guerra della Russia all’Ucraina ne è stato un esempio, ma ora anche gli Stati Uniti stanno segnalando alcuni Paesi come parte dei loro interessi più ampi, che si tratti della Groenlandia, di Panama o del Canada. Sì, potrebbe trattarsi di un bluff, ma credo che, una volta esposto, ci siano molte cose da tenere a mente.
Maria Luisa Fantappiè: Mi chiedevo, ad esempio, se quando ha detto che in fondo è un po’ il vecchio mondo che esiste ancora nell’unipolarismo statunitense e un po’ il nuovo mondo che si sta realizzando allo stesso tempo, si riferisse anche al fatto che il nuovo mondo sta emergendo proprio mentre il vecchio mondo sta scomparendo. Per quanto riguarda il Golfo, tutti ci chiediamo quanto ancora abbiano importanza le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti per i Paesi del Golfo. Ho quindi una domanda su questo punto e anche riguardo al potenziale ruolo degli Stati del Golfo in un nuovo accordo nucleare. Come la vede?
Bader Al-Saif: Permettetemi di spiegarvi come ci vediamo all’interno di questo ordine globale in evoluzione. Credo che il modo migliore per riassumerlo sia dire che vediamo il mondo con una lente apolare e che non dovrebbe esistere. Pensare alla polarità, infatti, ci riporterebbe al passato. Si tratta di un’unità di analisi stanca e pigra. Dobbiamo andare oltre: quando si pensa al di là di questo, si fa un salto nel futuro e nei modi in cui possiamo connetterci gli uni con gli altri al di là dello Stato nazionale. Decentriamo lo Stato nazionale. Ci sono reti che si stanno sviluppando, connettività e agende che possono fungere da strade di sviluppo. Credo che i modi per andare avanti siano molti.
Le intese sulla sicurezza degli Stati Uniti? Sì, ci sono, e credo che stiamo anche lavorando per aggiornarli. Penso che ci sia stata una certa percezione, tra le varie amministrazioni sia repubblicane che democratiche, che gli interessi degli Stati Uniti si stessero allontanando. Ora, però, entrambi i partiti hanno capito che c’è un riorientamento con più comprensione del fatto che gli Stati del Golfo stanno prendendo in mano la situazione.
Per quanto riguarda i colloqui tra Iran e Stati Uniti, credo che molti Paesi del Golfo, se non tutti, abbiano rilasciato dichiarazioni di sostegno. Questo è l’obiettivo che vogliamo raggiungere. Ma, ancora una volta, non si dovrebbe concentrare eccessivamente sulle questioni nucleari. Credo che ci siano tre settori e che, se li consideriamo nel loro insieme, non siano nell’interesse solo dell’Iran e degli Stati Uniti, ma anche di tutti gli altri paesi coinvolti, e che riguardino anche l’attività missilistica e la rete di proxy. Ora, c’è chi dice che nel 2024 l’Iran sarà più debole; c’è chi sostiene che i proxy non siano più quelli di una volta, ma io non sono d’accordo.
Maria Luisa Fantappiè: Ma in Europa avreste il missile come parte dell’accordo? Intendo dal punto di vista del Golfo.
Bader Al-Saif: Credo che un accordo globale sia nell’interesse di tutte le parti coinvolte. Vogliamo una regione normalizzata in cui tutti possano prosperare insieme.
Renad Mansour, direttore dell’Iniziativa Iraq di Chatham House
Maria Luisa Fantappiè: Se domani lei fosse il consigliere del Primo Ministro Sudani, e lo fosse anche per il prossimo anno, visto che ha annunciato che si ricandiderà, cosa gli suggerirebbe come piano di politica estera per i prossimi cinque anni?
Renad Mansour: Prima di rispondere a questa difficile domanda vorrei riprendere quanto affermato da Al-Saif. Attualmente, a livello globale, si stanno verificando due dinamiche. In primo luogo, se si osservano i dati sui conflitti negli ultimi 10 anni, si può notare che i conflitti a livello globale sono raddoppiati: nel 2025 i conflitti nel mondo sono due volte superiori a quelli del 2015. La seconda dinamica è la frammentazione dell’ordine internazionale e la presenza di un sistema non propriamente unipolare né multipolare, ma quello che credo si stia definendo come multi-allineamento. Di conseguenza, le medie potenze della regione possono scegliere, di volta in volta, come approcciarsi. Non ci sono poli. Non si tratta di noi contro loro, dell’Est contro l’Ovest o dei comunisti contro la democrazia. Dipende dalle situazioni.
Come possiamo quindi unire queste due dinamiche per dare loro un senso? È possibile che il multi-allineamento sia in realtà la causa del raddoppio dei conflitti? Il Medio Oriente è il luogo in cui il cambiamento dell’ordine mondiale si sta manifestando in modo violento. È la prima linea del cambiamento delle dinamiche globali ed è per questo che stiamo assistendo alla violenza odierna. Non esistono sfere d’influenza rigide e l’Occidente, gli Stati Uniti e l’Europa hanno ancora una mentalità da Guerra Fredda nel comprendere i conflitti.
Ciò che sta accadendo nella regione da parte delle medie potenze, che si tratti del Golfo, della Turchia o, in qualche misura, dell’Iraq, è una presa di coscienza del fatto che non possiamo essere un Paese con politiche diverse basate su questioni diverse. Guardate l’Iraq. Per quanto riguarda il settore della sicurezza, in Iraq è presente una significativa missione della NATO, ci sono ancora delle missioni degli Stati Uniti e il governo iracheno continua ad avere accordi militari e di sicurezza con la Russia – tutti a Baghdad – e con altri Paesi. Quindi il Paese è multi-allineato e non viene spinto verso un solo orientamento.
Maria Luisa Fantappiè: Dunque secondo lei l’Occidente ha ancora una mentalità da guerra. Come è possibile? Intende dire che non si investe molto nella diplomazia? Invece, le potenze regionali hanno dimostrato di saper gestire le cose meglio.
Renad Mansour: Sì, le gestiscono in base alle situazioni. Un altro esempio che viene spesso usato: gli Stati Uniti, sotto massima pressione, stanno cercando di impedire all’Iran di esportare alcunché. Tuttavia, non sta accadendo. Anzi, in alcuni settori, come quello del GPL, l’Iran ha aumentato le sue esportazioni proprio quando le pressioni erano al massimo. Il motivo non è solo perché l’Iran fa parte dell’asse della resistenza. Oltre all’asse di resistenza, l’Iran può contare sul multi-allineamento. Ciò significa che l’Iran può inviare il suo carburante e il suo gas verso la Cina o verso altre parti dell’Africa, lavorando con alleati e avversari allo stesso tempo, perché su questo tema il panorama è diverso. Se si osserva la geoeconomia, il settore militare e la geopolitica, il rapporto tra il Golfo e l’Iraq, e persino con l’Iran, è un nuovo scenario. È un nuovo momento. Molti nel Golfo non sostengono più l’idea di dover “contenere l’Iran”. Anzi, ora sostengono l’impegno. Il punto è che, poiché il raddoppiamento del conflitto si è verificato in Medio Oriente, le potenze mediorientali stanno cercando di assumere il controllo della situazione per poter dire: “Come possiamo allontanarci da quel mondo multipolare, bipolare e unipolare della Guerra Fredda?”
Maria Luisa Fantappiè: L’azione aggressiva e l’uso della forza offensiva non funzionano sempre, e dobbiamo sempre investire nel multi-allineamento e nella diplomazia, o esiste una via di mezzo? Lo chiedo perché c’è un punto di vista secondo il quale, in realtà, Israele ha causato così tanta morte e distruzione, ma ora potrebbe nascere un nuovo Libano. Quindi, alcuni potrebbero dire: “Beh, sai, c’è stata molta distruzione, ma alcune dinamiche sono cambiate e l’uso della forza è legittimo”.
Renad Mansour: Penso che alcune tecnologie e tattiche di guerra impiegate da Israele, come gli attacchi con i cercapersone contro Hezbollah, mostrino un nuovo volto della guerra, un futuro da brivido. Inoltre, dimostra che il sistema giuridico internazionale e i sistemi dei diritti umani, costruiti dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono messi in discussione e contraddittori. Non credo che una soluzione militare possa risolvere davvero un problema politico e l’Iraq è un caso emblematico.
Maria Luisa Fantappiè: Spero che abbiamo fatto un po’ di chiarezza sul fatto che il mondo sta cambiando in base alle alleanze legate ai temi piuttosto che ai poli. Penso che tutti noi abbiamo notato che, dopo 20 anni, l’Iraq sta finalmente iniziando a definire una chiara linea di politica estera e che c’è una nuova visione che proviene dal Golfo che può sostenere l’integrazione regionale e l’Iraq, nonché potenzialmente un nuovo tipo di partenariato regionale dell’Ue in fase di sviluppo.
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Iran, Iraq e Medio Oriente
Con gli importanti sviluppi politici in Siria e Libano, il corridoio strategico che collega l’Iran al Levante sta subendo cambiamenti che un anno fa sarebbero stati impensabili. Il secondo panel del Sulaimani Forum, moderato da Zeinab Badawi, Presidente della SOAS, Università di Londra, ha esaminato cosa significano questi cambiamenti per le dinamiche politiche e di sicurezza in Medio Oriente e le prospettive di nuovi allineamenti o di ulteriore instabilità. Tra i partecipanti al panel S.E. Saeed Khatibzadeh, Vice Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Islamica dell’Iran, S.E. Rebar Ahmed Khalid, Ministro degli Interni del Governo Regionale del Kurdistan e Amb. Barbara A. Leaf, senior fellow presso il Middle East Institute, Assistente segretario di Stato per gli affari del Vicino Oriente degli Stati Uniti.
I principali cambiamenti critici nella regione
Zeinab Badawi: Abbiamo assistito a grandi cambiamenti politici in Siria, Libano e in altre parti del Medio Oriente. Vogliamo quindi esaminare le implicazioni di tutto questo per le dinamiche politiche e di sicurezza di questo corridoio strategico che collega l’Iraq al Levante e capire se porterà a nuovi allineamenti o se invece potrà creare ulteriore instabilità.
Saeed Khatibzadeh: Il Medio Oriente è probabilmente la regione più internazionalizzata che la politica internazionale abbia mai conosciuto. Qualsiasi cosa accada in questa regione avrà ripercussioni sulla politica internazionale. Tutti sanno cosa è successo dal 7 ottobre e quali cambiamenti ha portato. È evidente a tutti che questa regione sta attraversando profondi cambiamenti. Non sappiamo se questa sia l’ultima fase dei cambiamenti o se siamo in una fase di passaggio. Quello che posso dire è che stiamo assistendo sia alla continuità che al cambiamento. Non si tratta solo di cambiamenti e mutamenti, ma ci sono anche elementi di continuità nella nostra regione. Ciò che sta accadendo in questo momento è molto allarmante e in continuo cambiamento. Dobbiamo aspettare e vedere cosa succederà in futuro. La parte più importante di ciò che sta accadendo è il linguaggio nudo della forza: la situazione di guerra permanente che stiamo vedendo nella nostra regione, le atrocità che stiamo vedendo a Gaza, in Palestina, e anche questa illegalità, se posso dire, passata o post pactum, che stiamo vedendo in questa regione, è molto allarmante.
Rebar Ahmed Khalid: Quando parliamo del Medio Oriente, dobbiamo affrontare i problemi alla radice. I problemi in Medio Oriente sono iniziati molto tempo fa, all’inizio della formazione degli Stati nazionali in questa regione, dopo la prima guerra mondiale. Quindi, non era giusto per le nazioni che vivono in Medio Oriente. Quando parliamo di stabilità e sicurezza e di qualsiasi tipo di movimento dinamico in Medio Oriente, dobbiamo tenere in considerazione l’equilibrio tra le nazionalità che vivono qui e che appartengono alla prospettiva curda. Dobbiamo occuparci del futuro di tutte le nazioni della regione. Soprattutto quando si tratta di pace, sicurezza, stabilità e sviluppo della regione.
Noi, come nazione, siamo uno dei principali partner del Medio Oriente, in particolare il Kurdistan come nazione curda. Purtroppo, però, nel corso della storia non è mai stata trovata una soluzione equa per la nostra nazione e per il futuro della regione. Pertanto, quando parliamo di stabilità, dobbiamo tenere a mente il futuro di questa nazione. In Medio Oriente ci sono quasi 14 milioni di persone senza alcuna entità politica. Come ha affermato con forza il Presidente Neçîrvan Barzanî nel suo discorso, abbiamo bisogno di pace e stabilità per tutti. Questo si potrà ottenere attraverso il dialogo e il confronto pacifico con tutti, compresa la nostra nazione. In questo momento specifico abbiamo dimostrato di poter essere un fattore di stabilità e crediamo che i nostri diritti in Iraq debbano essere conformi alla Costituzione e in ogni singolo Paese della regione che comprende la nazione curda. Hanno il diritto di negoziare pacificamente con i loro governi, di assumere atteggiamenti e di affrontare le loro situazioni. Saremo più che felici di avere un Medio Oriente stabile e sicuro, senza milizie e senza conflitti, in cui tutti possano trarre vantaggio dalla stabilità.
Barbara Leaf: Lascerò trapelare un po’ dell’ottimismo che c’è in me, perché quello che vedo è quanto segue. Negli ultimi sei mesi abbiamo assistito a un cambiamento sismico in un’area molto vasta e fragile, ovvero il Libano e la Siria. Un cambiamento sismico che avviene forse una volta ogni due generazioni e che ha, in un certo senso, liberato sia i libanesi che i siriani dai pesi interni che gravavano sulla loro sovranità sotto forma di Hezbollah e sotto forma di procuratori dell’uomo che hanno disseminato il paesaggio siriano. La cosa più opprimente di tutte è stato il governo di Assad per 50 anni. Ora ci sono straordinarie opportunità, ma anche rischi e pericoli per queste persone e per i paesi vicini. Penso che sia molto importante che gli Stati chiave della regione, in particolare i vicini, ma non solo, si impegnino ad aiutare il popolo libanese e quello siriano a superare questo periodo di pericolo, perché, onestamente, le sfide, le minacce e le probabilità sono contro il successo delle transizioni in luoghi di così straordinaria fragilità e trauma. D’altra parte, che mondo nuovo si prospetta per il popolo siriano e per quello libanese? Sono preoccupata per entrambi gli Stati, ma credo anche che ci siano enormi opportunità per l’intera regione, nella misura in cui queste transizioni avranno successo.
La situazione in Siria
Zeinab Badawi: Barbara Leaf è stata uno dei primi funzionari statunitensi a incontrare Ahmad al-Shara e abbiamo sentito cose contrastanti su di lui. Lui stesso si presenta come un uomo con cui è possibile fare affari. Vuole aumentare i legami con l’Occidente e così via. Il suo governo è inclusivo, mentre lui ha una costituzione provvisoria con le protezioni civili e cose simili. Poi, c’è chi dice che in passato ha avuto legami con Al Qaeda e l’ISIS. L’avete conosciuto. Ci si può fidare di lui?
Barbara Leaf: Mi rifaccio a Ronald Reagan che diceva: “Fidati, ma verifica”. Ahmad al-Shara mi sembra un uomo profondamente pragmatico e moderato. È indubbiamente un leader politico, non semplicemente un capo milizia o un comandante militare. Questo è il modo in cui ha colpito non solo me o alcuni diplomatici europei a dicembre, ma anche molte altre persone nella regione che hanno avuto incontri simili e che hanno avuto modo di farsi un’idea di persona. Alla fine, sarà giudicato in base alla sua risposta alle numerose prove che si accumuleranno al di là della nostra vista. Quali sono queste prove? Le avete viste a marzo, con le terribili atrocità sulla costa e gli assalti ai civili innocenti che non avevano nulla a che fare con gli attacchi iniziali di elementi del regime di Assad. Questa risposta non è stata diretta da Damasco, ma è evidente che Damasco non aveva il controllo della situazione. Ha affermato di avere il controllo. Ha promesso di assumersi le proprie responsabilità. Vedremo, ma questa è una delle pericolose minacce che potrebbero ostacolare il successo della transizione, guidata da al-Shara o da chiunque altro, dopo 50 anni e, soprattutto dopo 14 anni di desiderio represso di vendetta e di rappresaglia. Quindi, tenere sotto controllo questo aspetto è importante. Essere responsabili e trasparenti è un altro paio di maniche. Il modo in cui affronterà la questione della sicurezza mostrerà il suo vero volto. Ma soprattutto, cosa farà per rendere concreta l’inclusività? Potrebbe avere una definizione diversa. Una definizione più ristretta di quella che i siriani stessi auspicano. Ma, ancora una volta, sta dicendo e facendo le cose giuste. Sta facendo un’ottima impressione sui leader regionali. Tuttavia, credo che sia logico aspettarsi che, quando sarà messo alla prova da queste diverse sfide per il successo della transizione, si vedrà se è davvero un uomo pragmatico.
Zeinab Badawi: Viceministro Saeed Khatibzadeh, qual è l’opinione di Teheran sulla Siria? Avrete sicuramente assistito alla rimozione del regime di Assad e ora vedete gruppi che erano alleati di Hayat Tahrir al-Sham, il gruppo guidato da Ahmad al-Shara. I sunniti negli Eserciti dell’Opposizione e così via. Avete assistito a un vero e proprio esaurimento dell’influenza iraniana in Siria. Quanto la preoccupa questo fatto?
Saeed Khatibzadeh: Nel 2013 ero di base a Berlino e ricordo di aver avuto colloqui ravvicinati e discreti con l’opposizione siriana. Nel 2013 non era il momento migliore per Assad e le sue truppe. Ci siamo incontrati in un hotel. Cinque leader dell’opposizione siriana, appartenenti a diverse fazioni e sezioni, hanno partecipato all’incontro. Io ero tra gli iraniani che li hanno incontrati. Durante tutti questi anni, abbiamo cercato di raggiungere diverse opposizioni genuine e anche alcuni esponenti del governo. Ricordo che all’epoca seppi che una delle persone chiave di quell’incontro era morta. Era una persona di grande spessore e non so se la notizia sia corretta, ma la signora era presente all’incontro. Probabilmente non è contenta che io la nomini se è ancora viva, ma durante l’incontro mi ha chiesto: “Perché insisti tanto su Assad?” Era il 2013. Era una sorta di ministro degli Esteri ad interim dell’opposizione. Le ho detto: “Senti, siamo molto preoccupati per il dopo Assad, perché si verificherà un’occupazione, l’ISIS prenderà il sopravvento, i combattenti non siriani prenderanno il potere e gli elementi estremisti salafiti avranno l’opportunità di escludere gli altri”. Ho fatto un elenco delle nostre preoccupazioni.
Ora, rispondendo alla sua domanda. Vedo la situazione in Siria e vorrei essere ottimista, ma è davvero il caso? Ora si registra una minore occupazione in Siria? Gli israeliani non solo hanno occupato le alture del Golan, ma si trovano anche a 40 km da Damasco. Miei cari amici, qualsiasi Paese sotto occupazione non può godere di prosperità, stabilità, pace e sviluppo. Gli israeliani non hanno alcuna intenzione di andarsene. Sono lì per restare. Una parte della Siria è occupata dagli Stati Uniti, un’altra parte dalla Turchia, eppure crediamo in un governo inclusivo? Vorrei davvero crederci e avere fiducia nella trasformazione. C’è speranza, ma abbiamo bisogno di qualcosa in più. La speranza si trasformerà presto in frustrazione se continueremo a concentrarci su questi elementi. Per quanto riguarda l’Iran, al momento siamo un po’ lontani dalla Siria, stiamo osservando con cautela l’evolversi della situazione e sosteniamo il popolo siriano. Questo è ciò che faremo. Daremo il nostro sostegno con la buona volontà e con il buon ufficio, cercando di aiutare il governo siriano a essere il più inclusivo possibile e a cercare di ridurre gli errori nella costruzione del governo siriano in questi giorni.
Non stiamo affrettando le cose. Siamo pronti a impegnarci, siamo pronti ad aiutarli, siamo pronti a sostenerli. Se l’Iran non fosse in Siria, ora nessuno parlerebbe di HTS. Al-Qaeda sarebbe stato al potere in questo momento. Speriamo che l’HTS possa presto formare un governo inclusivo e cercare di allontanare quegli elementi siriani non combattenti che in realtà facevano parte dell’HTS. L’HTS era composto da siriani, ceceni, uiguri e molti altri combattenti non siriani. Non sappiamo ancora con certezza dove si trovino e non conosciamo il loro ruolo preciso. Siamo pronti a impegnarci se necessario.
Barbara Leaf: Il governo iraniano ha intenzione di sostenere il popolo siriano e di rimandare i combattenti stranieri in Siria. Ovviamente l’Iran ha portato afghani, pakistani, iracheni e altri. Quelli se ne sono andati e i combattenti stranieri nella grande tenda della coalizione con l’HTS sono un problema.
Il ritorno dell’ISIS in Siria
Zeinab Badawi: Sappiamo dai rapporti che l’ISIS è davvero riemerso in Siria. Il Soufan Center, il think tank con sede a New York, dice che gli attacchi compiuti dall’ISIS in Siria l’anno scorso sono triplicati, circa 700, e che sono più dispersi. Il think tank esprime anche preoccupazione per gli operativi dell’ISIS, migliaia dei quali sono detenuti in centri di detenzione e varie forze stanno cercando di tenerli sotto controllo. Questa minaccia è reale non solo per la Siria, ma per l’intera regione.
Rebar Ahmed Khalid: Vorrei parlare della lotta al terrorismo nella regione in generale. Più in particolare, in Iraq e in Siria. Noi curdi, attraverso le forze Peshmerga, siamo stati le prime forze a sconfiggere l’ISIS sul campo, grazie al sostegno ricevuto dalle forze della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, e questo sostegno è molto apprezzato in generale in Iraq e, in particolare, nel Kurdistan. L’ISIS rappresenta un problema nella regione da molto tempo. Non è la causa principale. Il terrorismo è una conseguenza di altri problemi politici, economici e sociali nella regione. È un problema di convinzioni. Credo che dobbiamo affrontare l’ideologia alla base di tutto ciò. Altrimenti, il terrorismo continuerà a manifestarsi in forme diverse, con nomi diversi e in tempi diversi, come è successo in passato. Tuttavia, quando si parla della Siria, bisogna considerare i cambiamenti positivi avvenuti di recente nel Paese: sì, c’è un vuoto e il terrorismo ne approfitta. L’ISIS è più attivo in alcune aree vicine al confine iracheno e noi siamo tutti pronti a sostenere la nuova amministrazione siriana e a Damasco.
Di recente, come tutti sanno, si è tenuto un incontro tra i Paesi vicini, tra cui Iraq, Turchia, Libano, Giordania e Siria. L’incontro, molto produttivo, si è tenuto in Giordania per affrontare la questione specifica siriana. Tuttavia, per poter cooperare efficacemente e scambiare informazioni, è necessaria una coalizione a livello locale o globale. La base dovrebbe essere lo scambio reciproco e la creazione di un database contenente tutte queste informazioni e i dati dei membri, in particolare quelli relativi al campo di al-Hol. Questa è una delle principali minacce e sfide per la sicurezza e la stabilità di tutto il mondo, non solo della Siria. All’interno dei campi di al-Hol si trova un gran numero di combattenti stranieri e migliaia di famiglie irachene e di membri del terrorismo vi hanno soggiornato. Di recente abbiamo collaborato in modo eccellente con il nostro partner di Baghdad e con i nostri partner regionali per affrontare questa problematica, cooperando con le forze della coalizione globale e con quelle siriane. Come possiamo mantenere queste aree sicure e protette per tutti? È una vera e propria sfida per il nostro confine e la situazione non sarà di supporto se si verificherà un qualsiasi punto debole in questo Paese.
Zeinab Badawi: L’Iran sta lavorando per cercare di destabilizzare la transizione politica in Siria?
Saeed Khatibzadeh: Penso che la questione non riguardi più l’Iran. Deviare la vera questione non aiuterà nessuno. Ora tutto è in mano a coloro che sostengono HTS e al-Shara. L’Iran è presente? Non ci siamo mai resi conto che il governo centrale siriano non era più interessato a difendere il Paese nel momento in cui abbiamo lasciato la Siria. Non siamo mai stati in un Paese per combattere per conto del governo centrale di quel Paese. Siamo lì su richiesta del governo centrale di quel Paese. Quindi, potete vedere che abbiamo una politica coerente di sostegno al governo centrale del Qatar, che è completamente contrario all’Arabia Saudita. Ricordate che, su richiesta del governo centrale del Qatar, gli Emirati Arabi Uniti sostenevano molto l’HTS, mentre noi non eravamo dalla stessa parte. Con la Turchia, quando è avvenuto il colpo di Stato, avevamo il meccanismo di aiutarci a vicenda e di cercare di coordinare le nostre differenze sulla Siria attraverso questo processo. Siamo rimasti svegli tutta la notte per aiutare i nostri fratelli e amici in Turchia. Questa è una politica coerente dell’Iran che mira sempre a garantire la stabilità in questi Paesi, a prescindere da ciò che gli altri cercano di rappresentare.
Le accuse arrivano sempre quando c’è frustrazione. Quando le persone sono deluse, cercano una scusa. Ora, tutto è nelle mani di al-Shara e di coloro che lo hanno sponsorizzato per essere al potere in quel Paese. Questo è quanto. L’Iran non c’entra nulla. Siamo lontani da ciò che sta accadendo in Siria e stiamo osservando con cautela. Raccomando a chi sta sostenendo il governo siriano in questo momento di agire con responsabilità. Cercate di agire in modo responsabile. L’Iran, ancora una volta, è pronto ad aiutare il governo siriano e a trasformarlo in un governo inclusivo migliore, se ci sarà una richiesta in tal senso, e questo è il messaggio ufficiale che vi sto trasmettendo in questo momento.
La situazione in Libano
Zeinab Badawi: L’Iran ha visto diminuire la sua influenza in Libano, ovviamente con i problemi che Hezbollah ha avuto con l’assassinio di Nasrallah e tutto il resto. Ora vediamo il presidente libanese Joseph Aoun e altri membri del governo impegnati con i parlamentari di Hezbollah sulla questione dell’arsenale di Hezbollah e sull’elaborazione di una nuova strategia di difesa nazionale. Tuttavia, ci giungono notizie che Hezbollah si starebbe riarmando tramite le rotte marittime. E che l’Iran sia coinvolto in questo. Mi chiedevo quindi se potesse commentare la posizione del suo governo nei confronti di Hezbollah e del Libano e le nuove dinamiche in quel Paese.
Saeed Khatibzadeh: Quello che sta accadendo in Libano è un argomento che tutti stanno seguendo da vicino, compreso l’Iran, e credo che tutti coloro che sono interessati alla stabilità e alla pace in Medio Oriente lo stiano facendo. Hezbollah è nato dall’invasione israeliana del Libano del 1981. Prima del 1981 non c’era nessun Hezbollah. Hezbollah è nato quando gli israeliani hanno iniziato l’occupazione e l’invasione del Libano. Finché c’è un’invasione, un’aggressione o un’occupazione, c’è una resistenza. Chiunque sia al di fuori della regione, chiunque siano le forze extra regionali che costringono la resistenza ad accettare l’occupazione fallirà. Con o senza l’Iran, la resistenza rimarrà. Coloro che vengono da fuori della nostra regione, probabilmente, stanno solo leggendo e vivendo con noi, cercando di seguire ciò che sta accadendo. Ma noi viviamo in questa regione. Viviamo la profonda frustrazione che c’è nel cuore di tutti in questa regione e le ferite che si riaprono al solo pensiero di un palestinese dopo che il primo ministro di Israele ha ucciso e massacrato almeno 50.000 persone. Cosa è successo a Gaza? Avete sentito qualcosa dagli Stati Uniti in questi giorni? Per sentire coloro che sostengono il Primo Ministro israeliano, egli esce allo scoperto e dice davanti a tutti “finiamo il lavoro”. Chi sta pensando che “finiamo il lavoro” si riferisca all’Iran? Lui sa che l’Iran è capace di cosa? Quindi non sta parlando dell’Iran. Forse sta parlando del fatto che gli Stati Uniti si confrontano direttamente con l’Iran, ma la cosa più importante che sta suggerendo è di “finire il lavoro”, rendendo impossibile la creazione di uno Stato palestinese. Come? Ma senza nazione e senza territorio. Questa è la realtà sul campo. Quello che vedo ora in Libano è molto simile a questo. Il braccio di Hezbollah è una questione molto interna. Spetta a Hezbollah, come forza politica libanese in Parlamento e agli altri, pensiamo che tutti abbiano visto gli sviluppi all’interno del territorio libanese.
Barbara Leaf: Quello che sta accadendo in Libano è che lo Stato sta riuscendo a riaffermare la propria autorità nei confronti di un’istituzione parallela. Il Libano ha sofferto per 40 anni a causa di uno Stato parallelo e di uno Stato predatore, Hezbollah. Molto tempo dopo che gli israeliani hanno lasciato il Libano meridionale, Hezbollah ha continuato a operare come tale e rappresenta una minaccia per la sovranità e l’autorità dello Stato. È quanto ha dichiarato la nuova leadership del Libano, che sta cercando di riprendersi la sovranità del Paese. Questo è un punto. Per quanto riguarda la Siria, l’Iran ha sostenuto il regime di Assad e il governo centrale nel suo tentativo di brutalizzare milioni di siriani. Quindi, ancora una volta, è positivo sentire che l’Iran sta ora cercando di sostenere con cautela il popolo siriano, ma vorrei solo dire che avete molto da insegnare ad altri Paesi riguardo all’occupazione e al portare proxy sul loro territorio. Per ora, il governo di Damasco non ci ha accusato di occupare il territorio siriano. Piuttosto, stiamo aiutando a combattere lo Stato Islamico e promuovendo la riconciliazione.
Rebar Ahmed Khalid: Cercherò di creare un collegamento tra tutte queste parti del puzzle in Libano, in Siria, in Iraq e in Iran e di trarre vantaggio dall’esperienza maturata in Medio Oriente, dove diversi Paesi cercano di armare la regione. Questo non è positivo per la stabilità e la sicurezza dell’area, perché non si tratta solo di interessi locali. È una questione che coinvolge le forze internazionali e le superpotenze di tutto il mondo. Quando parliamo di armamenti in Libano, in Siria e, in precedenza, in Iraq, si è verificata la stessa situazione e ora in Iran. Quindi, tutti spendono un gran numero di miliardi di dollari per queste armi. In fin dei conti, però, non ne traggono alcun beneficio. Il loro obiettivo è distruggere la stabilità, la pace e la coesistenza in Medio Oriente. Dobbiamo quindi concentrarci sul rafforzamento delle nostre capacità interne e sull’integrazione reciproca in Medio Oriente nell’ambito del processo economico e delle aree di sviluppo.
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Il Sud Globale ha perso il suo Papa. Il mondo ha perso la sua coscienza
Papa Francesco non era un liberale, ma ha incarnato uno spirito di solidarietà internazionale sempre più raro. La sua morte, avvenuta il giorno dopo l’incontro con il Vice-Presidente statunitense, JD Vance, ha assunto connotazioni ancora più sinistre quando la deputata Repubblicana Marjorie Taylor Greene – sostenitrice di Trump e autoproclamata “nazionalista Cristiana” – sembrava accogliere con favore la sua scomparsa come un “segno della sconfitta del male”.
A dispetto di una serie di tensioni con la Casa Bianca, Francesco non è stato affatto un liberale. Nonostante cercasse di astenersi dal giudicare l’omosessualità, ha espresso chiaramente la sua disapprovazione verso le riforme liberali della Chiesa Cattolica in Germania, che nel 2023 aveva stabilito che i dipendenti ecclesiastici non potessero essere licenziati sulla base del loro orientamento omosessuale o per essersi risposati dopo un divorzio. Su temi come l’aborto, l’eutanasia, i diritti delle donne e quelli LGBTQ+, Francesco ha deluso le grandi aspettative che i liberali e i progressisti avevano riposto in lui.
I liberali hanno anche criticato la sua posizione in merito alla guerra in Ucraina: Francesco sembrava simpatizzare con la narrazione russa del conflitto, suggerendo che fosse stata causata, riportando le sue parole, dall’“abbaiare della NATO alla porta della Russia”. Ciò non significa che fosse insensibile alla sofferenza ucraina: il pontefice, specialmente grazie agli sforzi del Cardinale Matteo Zuppi, ha instancabilmente cercato di mediare sulle questioni umanitarie legate alla guerra, a partire dai rapimenti di bambini ucraini da parte della Russia, per cui la Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto per Vladimir Putin.
Il papa argentino è stato inequivocabilmente una delle voci più potenti del Sud globale, se non la più potente: non è stato solo il primo papa proveniente dall’America Latina, ma anche il primo non europeo a guidare la Chiesa da Papa Gregorio III, nato in Siria, nell’ottavo secolo.
Francesco è stato anche un papa guidato da principi saldi. Sulla questione del Medio Oriente, e in particolare a Gaza, ha sostenuto con fermezza l’urgenza di rispettare i diritti umani e il diritto internazionale. Ciò che colpiva non era solo la sua posizione morale, ma la sua irremovibile vicinanza alla sofferenza palestinese: ogni sera, anche quando era ormai fragile e malato, chiamava l’unica parrocchia cattolica nella devastata Striscia di Gaza.
Un pilastro fondamentale del pontificato di Francesco è stato il dialogo interreligioso, attraverso cui ha cercato di ripristinare i rapporti tra cristiani e musulmani dopo le frizioni causate da Benedetto XVI. Il suo impegno si è concretizzato in gesti storici: dalla prima visita di un pontefice nel Golfo alla firma di un documento sulla fraternità umana con i leader sunniti nel 2019. Un impegno che si è esteso anche agli Sciiti, con l’incontro storico a Najaf, in Iraq, con il Gran Ayatollah Ali al-Sistani nel 2021.
Francesco si è fatto papa del Sud globale anche grazie alla sua costante attenzione verso temi come salute, povertà, clima e migrazione. Nella sua enciclica del 2015, Laudato Si’, ha elevato la protezione ambientale allo stesso livello della giustizia sociale nella dottrina vaticana. Essendo figlio di migranti e portavoce degli ultimi, è stato severo nella sua critica all’ “Europa fortezza”. Il suo primo viaggio da pontefice è stato sull’isola di Lampedusa, al largo della quale decine di migliaia di migranti hanno perso la vita. Più recentemente, ha criticato le deportazioni di massa di Trump, contestando l’interpretazione distorta del principio cattolico ordo amoris da parte di Vance, secondo il quale la compassione dovrebbe essere mostrata prima alla propria famiglia e ai propri connazionali, e solo successivamente al resto del mondo.
Francesco ha parlato di questioni vicine a chi è stato lasciato indietro, sostenendo un livello di principi che raramente è stato dimostrato dai leader del Nord o del Sud globale, incarnando quello spirito di solidarietà internazionale che nacque con gli accordi di Bandung del 1955 e che oggi scarseggia dappertutto. Quando i 135 cardinali si riuniranno in conclave per scegliere il prossimo pontefice, ci sono buoni motivi per credere che la direzione apocalittica auspicata dal mondo dell’estrema destra MAGA non prevarrà. La Chiesa cattolica sotto Francesco è molto cambiata, e gran parte dei cardinali considerati “papabili” provengono dall’emisfero Sud o sono vicini alle cause promosse durante il suo papato. Raccogliere l’eredità di Francesco come voce coerente e radicata nei principi del Sud globale non sarà facile. Ma il mondo ne ha bisogno più che mai.
La scarsa abilità negoziale pesa sui colloqui per la tregua in Ucraina
L’immagine di Donald Trump e Volodymir Zelensky seduti uno di fronte all’altro al centro della basilica di San Pietro conserverà a lungo tutto il suo impatto emotivo. Due mesi dopo la penosa scenata nello Studio Ovale, si riannoda un filo di comunicazione tra Stati Uniti e Ucraina e nella cornice solenne delle esequie del Pontefice sembra aprirsi uno spiraglio di dialogo. In tanti vorrebbero credere in un primo passo per una tregua, resa oggi ancor più necessaria dalla stanchezza e dagli orrori della guerra voluta da Mosca. Qualcuno ipotizza addirittura un miracolo del Papa appena scomparso. È il segno di quanto sia diffusa la domanda di pace.
Siamo indotti a pensare che le armi potrebbero davvero tacere e che le dispute siano riconducibili a un tavolo negoziale, anziché essere risolvibili nelle trincee o con missili e droni. Se tutto questo è plausibile e giustificato dal desiderio che sia posta fine a una guerra insensata, occorre separare i desideri dalla realtà, soprattutto quando questa è costellata di minacce gravi e di ostacoli grandi come macigni.
Le mosse della nuova amministrazione americana per una soluzione diplomatica e rapida della guerra sinora hanno allontanato la meta, anziché ravvicinarla. Lo sbrigativo allineamento iniziale di Trump con le condizioni poste dalla Russia ha complicato l’esercizio e nuociuto alla mediazione americana: non si può mettere il peso su un solo piatto della bilancia, tanto meno a sostegno delle posizioni di chi ha avviato la guerra. Né è produttivo un negoziato in cui prima ancora del suo inizio si fissino a favore di una parte concessioni unilaterali, non bilanciate da elementi a favore della controparte, come quelle imposte a Kyiv, quali la rinuncia de jure alla sovranità sulla Crimea, la perdita definitiva delle regioni ucraine orientali occupate (o annesse) dalla Russia, la cancellazione delle sanzioni alla Russia.
Anche se può apparire un aspetto marginale, difficoltà derivano anche da un certo divario di abilità negoziale. L’inviato di Trump, Steve Witkoff, è un immobiliarista poco esperto di diplomazia, che saluta Putin con la mano sul cuore e deve fronteggiare la grande professionalità dei negoziatori russi. Ma soprattutto a ridimensionare qualche ottimismo di troppo pesa il fatto che sinora Mosca non si è spostata di un centimetro dalle sue rivendicazioni, confermate da poco dal ministro degli Esteri Sergej Lavrov: preclusione definitiva dell’eventuale entrata dell’Ucraina nella Nato, riconoscimento di Crimea e delle quattro regioni orientali (Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhizhia) quali territori russi, eliminazione della sanzioni alla Russia, smilitarizzazione e “denazificazione” dell’Ucraina. Colpisce la quasi totale corrispondenza con le prime indicazioni di Washington.
D’altra parte, negli ultimi giorni Donald Trump non ha nascosto la frustrazione né il timore che il capo del Cremlino lo stia prendendo in giro: parla di pace, ma aumenta i bombardamenti su obiettivi civili ucraini (Sumy, Kyiv e altri centri). Certo, c’è da seguire l’andamento contraddittorio dell’umore presidenziale dai suoi post. Tuttavia, dopo appelli e proposte non risolutivi, il presidente Usa potrebbe ricalibrare la sua linea con una pressione mirata su Mosca. La priorità è sospendere i combattimenti. L’oltranzismo russo, le intermittenti minacce di Mosca e la contrarietà russa all’intesa appena firmata Ucraina-Usa per lo sfruttamento congiunto delle risorse minerarie ucraine potrebbero determinare qualche ripensamento di Trump sulla sua linea accondiscendente con Mosca.
A Kyiv il realismo è d’obbligo ed è gratificato dalla ripresa degli aiuti finanziari americani alla difesa dell’Ucraina, i primi dell’era Trump, anche se relativamente modesti (50 milioni di dollari). Ora Zelensky mira soprattutto a un cessate il fuoco, più lungo dei tre giorni concessi da Putin, su cui avviare finalmente un negoziato equo, con mutue rinunce. Su tutto il resto, territori, garanzie di sicurezza, sanzioni, ricostruzione, collocazione internazionale dell’Ucraina – è il sottinteso – si dovrà trattare a bocce ferme, non sotto le bombe.
A questo punto anche gli europei, esclusi dai colloqui diretti, potrebbero raccomandare a Washington maggior rigore nei confronti di Mosca. Se si vuole davvero mettere fine a questa sciagurata guerra, più che quelli che l’hanno subita e patita sulla loro pelle occorre convincere chi l’ha iniziata. Ma la strada è ancora molto lunga e tutta in salita.
Il GCAP e la via italiana all’airpower
Alla fine del 2022 il programma Tempest, in precedenza avviato da Regno Unito e Italia per lo sviluppo di un velivolo da combattimento di sesta generazione, si è trasformato in un’iniziativa trilaterale con l’ingresso del Giappone, dando vita al Global Combat Air Programme (Gcap). L’ingresso di Tokyo è stato significativo in considerazione della sua capacità finanziaria, dell’allineamento tecnologico e dell’esperienza condivisa nel programma F-35 cui partecipano anche Londra e Roma. Al contrario, l’uscita della Svezia è stata influenzata dalla sua preferenza per lo sviluppo di velivoli senza pilota complementari al Gripen, anziché impegnarsi in una piattaforma con equipaggio completamente nuova. L’emergere del Gcap come iniziativa congiunta tra Regno Unito, Italia e Giappone ha di fatto escluso qualsiasi futura fusione con il programma Future Combat Air System condotto da Francia, Germania e Spagna, data la divergenza nei requisiti militari, nelle strutture di governance e nelle priorità industriali.
Il Gcap ha ampie implicazioni geopolitiche, in particolare nel plasmare le dinamiche trilaterali tra Regno Unito, Italia e Giappone. Mentre i primi due stati condividono l’appartenenza alla Nato, il crescente allineamento del Giappone con l’Alleanza atlantica e il rafforzamento dei legami bilaterali con entrambi i Paesi riflettono l’importanza sempre maggiore della cooperazione sulla sicurezza nell’Indo-Pacifico. Il programma richiede compatibilità con gli standard Nato integrando allo stesso tempo i requisiti specifici dei suoi soci fondatori, aggiungendo così ulteriore complessità alla sua gestione.
Anche le differenze culturali e geografiche rappresentano una sfida. A differenza delle precedenti collaborazioni europee, la cooperazione sul Gcap si estende su due continenti; ciò rende necessario un efficace coordinamento nonostante le diverse prassi industriali e prospettive strategiche. Una possibile soluzione è la decentralizzazione della produzione su più siti, per aumentare la resilienza e ridurre le vulnerabilità della catena di approvvigionamento, una delle lezioni apprese dai problemi causati dal conflitto tra Russia e Ucraina. Il Gcap ha portato alla maturazione di relazioni bilaterali più solide, in particolare tra Italia e Giappone che prima di questa iniziativa avevano una limitata cooperazione nell’ambito della difesa. Roma e Londra vantano una lunga storia di progetti congiunti, supportati da aziende con una presenza in entrambi i Paesi come Leonardo e Mbda, mentre la partecipazione del Giappone segna un cambiamento strategico nell’approccio nipponico alla collaborazione internazionale nella difesa. Il rafforzamento di questi legami evidenzia l’importanza del Gcap non solo per lo sviluppo di un caccia di nuova generazione, ma anche per il ruolo di Regno Unito, Italia e Giappone come attori chiave nel plasmare il futuro delle capacità nel combattimento aereo.
L’impegno dell’Italia nel Gcap è solido e coinvolge governo, forze armate e industria. Nonostante il generale scetticismo dell’opinione pubblica interna sulle spese militari, il governo di Giorgia Meloni ha investito un significativo capitale politico nell’iniziativa. Il ministro della Difesa Guido Crosetto si è distinto come un sostenitore convinto, e sia l’Aeronautica Militare che l’industria dell’aerospazio e difesa hanno promosso attivamente il programma.
I documenti strategici della Difesa sottolineano l’importanza del Gcap. Le Linee di indirizzo 2022 del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare evidenziano come le capacità di combattimento aereo di nuova generazione siano un elemento cruciale per le operazioni multidominio. L’Atto di indirizzo 2025-2027 del Ministero della Difesa considera il Gcap un’opportunità per stimolare investimenti in ricerca e tecnologia. Il Documento programmatico pluriennale (Dpp) 2024-2026, che definisce le priorità strategiche dell’Italia, assegna 8,9 miliardi di euro al Gcap fino al 2050, sottolineandone il ruolo nel rafforzamento delle capacità militari italiane.
A differenza del divisivo programma F-35, il Gcap ha finora incontrato una minima opposizione politica in Italia, in parte grazie all’assenza di un coinvolgimento degli Stati Uniti, il che garantisce all’Italia una maggiore autonomia operativa e tecnologica. Roma ha ottenuto una partecipazione paritaria del 33,3 per cento nel Gcap, come Regno Unito e Giappone, assicurandosi benefici industriali ben superiori a quelli ottenuti con l’F-35. Il ministro Crosetto ha fatto della partnership paritaria una priorità, rafforzando la posizione dell’Italia all’interno del programma.
Roma continua a considerare Londra un partner europeo chiave nella difesa, partnership oggi rafforzata dalla visione più positiva dell’UE da parte del governo laburista britannico. L’inclusione del Giappone nel Gcap rappresenta invece un’ulteriore novità nei partenariati dell’Italia in questo ambito. Il principale focus geopolitico di Roma rimane il cosiddetto Mediterraneo allargato, ma il coinvolgimento di Tokyo nel Gcap amplia la sua prospettiva strategica verso l’Indo-Pacifico. Tale ampliamento viene rafforzato con una maggiore cooperazione militare interregionale, inclusa la partecipazione dell’Italia nell’esercitazione Rising Sun 2024 in Giappone. La natura tripartita del Gcap inoltre supporta indirettamente l’interesse crescente della Nato per la cooperazione nell’Indo-Pacifico e contribuisce ad avvicinare Tokyo all’Europa nel settore della difesa, come sottolineato anche dal nuovo status di osservatore del Giappone nel progetto Eurodrone.
Da una prospettiva militare, il Dpp sottolinea la necessità per l’Italia di sostenere autonomamente conflitti ad alta intensità. La guerra in Ucraina ha aumentato la necessità di un mix di capacità militari alto-basso in termini sia di livello tecnologico che di assetti militari; il Gcap rappresenta la componente alta della gamma. L’Aeronautica Militare prevede che il Gcap sia il fulcro di un sistema di sistemi, che integra diversi assetti collegati in rete, tra cui i velivoli da combattimento senza equipaggio (Uncrewed Combat Air Systems, Ucas) e armamenti come i missili per migliorare le capacità operative. Il programma rappresenta un salto in avanti nelle tecnologie dirompenti e richiede una stretta collaborazione tra tutti i soggetti coinvolti: militari, industriali, università e centri di ricerca.
Il Gcap sarà complementare per un certo periodo alle piattaforme in servizio quali Eurofighter e F-35, mentre nel lungo periodo sostituirà la prima. L’Italia ha acquistato un totale di 118 Eurofighter, comprese le nuove varianti della Tranche 4 da poco ordinate, che rimarranno in servizio fino agli anni ’60 di questo secolo e saranno interoperabili con il Gcap. La flotta italiana di F-35 è in espansione, con piani per operare un totale di 115 aerei, aumentando la padronanza italiana delle tattiche basate sulla bassa osservabilità. Intorno al 2040, l’Aeronautica Militare probabilmente opererà oltre 180 tra F-35 e Eurofighter aggiornati, in concomitanza con l’introduzione del Gcap, consolidando la sua posizione come una delle forze aeree più avanzate d’Europa. Tuttavia, l’Italia è indietro rispetto agli Ucas, un divario che il Gcap potrebbe aiutare a colmare attraverso lo sviluppo dei sistemi ausiliari della piattaforma principale.
Sul fronte industriale, il Gcap presenta importanti opportunità per l’industria dell’aerospazio e difesa italiana, in particolare per Leonardo (Lead Systems Integrator, Lsi), per Avio Aero e Elt Group (Lead Sub-Systems Integrator, Lssi), ma anche per Mbda Italia e per l’intera filiera, comprese le piccole e medie imprese (Pmi), gli istituti di ricerca e le università. Persistono tuttavia delle sfide strutturali, tra cui i limitati investimenti nei settori chiave e la riluttanza di alcuni soggetti civili a impegnarsi in un progetto avanzato e altamente classificato come il Gcap. Il programma potrebbe favorire significativi progressi tecnologici ad ampio spettro e richiede una vasta mobilitazione industriale. Il Ministero della Difesa italiano ha lanciato la Gcap Acceleration Initiative nell’aprile 2023 per promuovere l’innovazione, sfruttando la collaborazione tra industria, università ed enti di ricerca.
Il settore aerospaziale italiano ha mantenuto nel corso dei decenni competenze nel design di aerei militari, ma il Gcap rappresenta un salto significativo. Nonostante il programma Eurofighter abbia fornito un’esperienza importante in termini di design authority, l’Italia ha avuto un ruolo secondario rispetto alla Germania e al Regno Unito. Successivamente, il limitato trasferimento di tecnologia e la presenza di “black box” nel programma F-35 hanno frustrato gli attori italiani. Al contrario, l’impegno del Gcap per un accesso paritario alla tecnologia si allinea con l’insistenza dell’Italia sulla sovranità operativa. Garantire un sistema completamente aperto e condividere tecnologie critiche sarà fondamentale per il successo del programma. Attraverso l’ottenimento di una ripartizione equilibrata del lavoro in termini di qualità e quantità, l’Italia punta a massimizzare i benefici strategici e industriali provenienti dal Gcap. In questo contesto, i principi di Freedom of Action (FoA) e Freedom of Modification (FoM) sono fondamentali per ciascuno dei tre Paesi partner al fine di mantenere la sovranità tecnologica e operativa tramite la completa capacità nazionale di operare e modificare la piattaforma e le sue componenti.
L’AeroSpace Power Conference tra strategia, tecnologia e leadership
La II edizione dell’AeroSpace Power Conference organizzata a maggio 2025 a Roma dall’Aeronautica Militare italiana, con la partnership scientifica dello IAI, si concentra sul presente e futuro del potere aereo e spaziale in un contesto internazionale purtroppo sempre più instabile.
La guerra russa contro l’Ucraina in corso dal 2022 e le sfide crescenti poste dalla Cina nell’Indo-Pacifico (e non solo) hanno reso lo scenario di un conflitto tra pari più probabile rispetto ai precedenti trent’anni per i membri e i partner della NATO, segnando una cesura rispetto al periodo post-Guerra Fredda segnato dalla prevalenza ed espansione del modello occidentale. È prevedibile che la competizione geopolitica globale in corso aumenterà nel medio-lungo termine, e quindi le aeronautiche occidentali, e più in generale le forze armate, devono prepararsi a combattere e vincere conflitti complessi, ad alta intensità e su larga scala, in primo luogo per prevenirli attraverso un’efficace deterrenza e, in secondo luogo, qualora quest’ultima fallisse, per porre fine alla guerra il prima possibile.
Di fronte a questa preoccupante realtà, è necessario migliorare e potenziare il dialogo strategico tra la leadership politica e le forze armate al fine di generare una comprensione condivisa, più chiara e approfondita delle minacce e dei rischi, specialmente in Europa. Comprensione a sua volta necessaria per compiere le scelte migliori al fine di proteggere la popolazione e i territori dei Paesi NATO attraverso il continuum pace-crisi-conflitto, un continuum dai confini labili che segnerà stabilmente il quadro strategico internazionale per i prossimi anni. Tale comprensione dovrebbe essere meglio comunicata all’opinione pubblica dei Paesi membri e dei partner della NATO, nel quadro di una sana dialettica democratica alimentata da un dibattito più approfondito e accurato sulle questioni della sicurezza nazionale ed internazionale.
Il successo passato, presente e probabilmente futuro del potere aereo dipende in larga misura dall’accesso a tecnologie chiave e sistemi d’arma avanzati, il che rende l’industria dell’aerospazio e difesa un partner e un attore cruciale. I partenariati pubblico-privati sono quindi fondamentali per affrontare le sfide poste dalla competizione tecnologica globale, e richiedono alle forze armate una visione chiara del loro futuro e una strategia coerente. È prioritario il mantenimento del vantaggio tecnologico, della sovranità operativa sui mezzi e della sicurezza degli approvvigionamenti in caso di crisi o conflitto, anche affidandosi a una catena di approvvigionamento più ampia, diversificata e globalizzata rispetto al passato. Ciò implica anche la creazione di innovative collaborazioni internazionali con partner vecchi e nuovi, militari e industriali, come nel caso del Global Combat Air Programme (Gcap).
I Paesi occidentali dovranno adattare i propri approcci al procurement al fine di accelerare l’entrata in servizio delle nuove tecnologie e sfruttare l’innovazione trainata dal mercato civile. Inoltre, dovranno dotarsi di equipaggiamenti che siano, allo stesso tempo, “secure by design” e costruiti attraverso un’architettura aperta che consenta aggiornamenti ed upgrade più costanti ed efficienti. L’intera gamma di tecnologie emergenti e dirompenti costituisce il principale campo di competizione strategica a livello globale. L’intelligenza artificiale pone nuove sfide, rischi e opportunità per le forze armate, in primis per quanto riguarda una varietà di droni che saranno massicciamente usati in caso di conflitto. Le capacità ipersoniche alla portata di diverse potenze mondiali alterano l’equazione tra tempo e spazio, influenzando significativamente i tempi di reazione richiesti per fronteggiarle e sottolineando, al contempo, un principio chiave del potere aerospaziale come la velocità. Lo spazio cibernetico e lo spettro elettromagnetico hanno acquisito un’importanza sempre maggiore per le operazioni militari.
L’evoluzione tecnologica non rappresenta l’unico fattore da considerare per lo sviluppo della postura dell’aeronautica e in generale delle forze armate. La dottrina militare si evolve infatti anche grazie alle lezioni tratte dai conflitti passati e presenti. Una guerra su larga scala, ad alta intensità e lunga più di tre anni tra Russia e Ucraina rappresenta uno spartiacque per i membri e i partner della NATO, ma è necessario uno sforzo per trarre i giusti insegnamenti per il potere aereo e spaziale.
Infine, ma non per importanza, a causa delle caratteristiche del dominio aereo, della struttura delle forze e del tipo di piattaforme in servizio, la leadership è fondamentale per le aeronautiche, a vari livelli della catena di comando. Ciò implica la capacità di prendere decisioni tempestive e un’attitudine propensa al rischio. Formazione e addestramento rimarranno cruciali per coltivare questi e altri aspetti della leadership, ma dovranno evolversi alla luce dell’evoluzione dottrinale e tecnologiche.
Leadership e dottrina, tecnologia e industria, strategia e politica, sono tutti binomi in continua e veloce interazione tra loro, a livello nazionale e internazionale. Costituiscono quindi un ecosistema tanto complesso quanto importante da comprendere, anche per l’Italia in quanto attore rilevante a livello europeo, transatlantico, del Mediterraneo allargato e, nel campo dell’aerospazio, sempre più a livello globale.
Gli autogol geostrategici degli Stati Uniti nell’Europa orientale
La vistosa assenza del segretario di Stato americano Marco Rubio alle consultazioni euro-americane a Londra per porre fine alla guerra russo-ucraina ha anticipato l’esito dei negoziati. Il nuovo tentativo americano di mediare tra Mosca e Kyiv, dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca a gennaio, è fallito. Per chiunque abbia familiarità con gli attuali sviluppi nell’Europa orientale, questa conclusione del nuovo approccio di Trump alla ricerca di un compromesso tra Russia e Ucraina era ampiamente prevedibile.
Negli ultimi tre anni, il Cremlino ha presentato all’Ucraina una serie di richieste che violano le regole fondamentali del diritto internazionale post-seconda guerra mondiale in generale e dell’ordine di sicurezza europeo post-comunista in particolare. In sostanza, Mosca ha chiesto e continua a chiedere a Kyiv, Washington e al resto del mondo di ignorare, nei confronti dell’Ucraina, paese membro regolare delle Nazioni Unite, i due principi fondamentali dell’ordine statale moderno: l’integrità territoriale e la sovranità nazionale. Washington, nella sua proposta per l’ultimo round di negoziati, ha in parte accolto le richieste della Russia. L’amministrazione Trump ha offerto, tra l’altro, di riconoscere formalmente l’annessione illegale della Crimea da parte della Russia nel 2014 e di annullare la prospettiva di adesione ufficiale dell’Ucraina alla NATO, stabilita nel 2008.
Queste concessioni degli Stati Uniti non rappresentano solo, nell’ambito delle relazioni internazionali in generale, uno sviluppo sconcertante che mina la sicurezza mondiale ignorando apertamente l’integrità e la sovranità di uno Stato membro regolare dell’ONU, ma sono anche paradossali nel contesto della politica estera delle precedenti amministrazioni repubblicane. Una prospettiva di adesione alla NATO, sebbene formulata in modo vago, era stata offerta all’Ucraina e alla Georgia al vertice NATO di Bucarest all’inizio di aprile 2008, sotto la guida e su insistenza dell’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush, membro del Partito Repubblicano. Ancora più sorprendente è il fatto che il segretario di Stato americano Mike Pompeo, durante la prima amministrazione Trump (2017-2021), abbia rilasciato una dichiarazione ufficiale sulla Crimea nel 2018. In tale dichiarazione, Pompeo affermava a nome del suo Dipartimento di Stato che “gli Stati Uniti respingono il tentativo di annessione della Crimea da parte della Russia e si impegnano a mantenere questa politica fino al ripristino dell’integrità territoriale dell’Ucraina“.
La seconda amministrazione Trump non solo ha clamorosamente ribaltato la precedente politica estera del Partito Repubblicano e una delle prime promesse più esplicite della precedente amministrazione Trump nei confronti dell’Ucraina, ma ha compiuto questi e altri incredibili compromessi nei confronti del Cremlino senza ottenere alcun risultato diplomatico concreto. Finora non si registra alcun allentamento del conflitto russo-ucraino né un’inversione sostanziale delle violazioni russe dell’integrità territoriale e della sovranità ucraina. In realtà, il palese allontanamento degli Stati Uniti dal diritto internazionale, dai principi occidentali e dalle tradizioni di politica estera americana sta producendo effetti opposti a quelli desiderati.
Si teme che il controverso comportamento internazionale di Washington, non solo nei confronti dell’Ucraina, ma anche in altri ambiti, continuerà a incoraggiare Mosca ad agire in modo ancora più avventato e aggressivo di quanto abbia fatto finora. La nuova linea di Trump potrebbe persino ridurre l’esitazione finora mostrata dal Cremlino a rischiare un’escalation militare diretta con uno Stato della NATO. Un candidato ideale per un attacco di questo tipo è l’Estonia, membro dell’alleanza nordatlantica, dove si trova Narva, la città più russa al di fuori della Russia, e che adotta un approccio restrittivo nei confronti dei residenti, del commercio e dei turisti russi.
Un’avanzata russa in un paese come l’Estonia è diventata più probabile dopo la pubblicazione della controversa proposta di Trump all’Ucraina. Un attacco a uno Stato membro della NATO coinvolgerebbe direttamente gli obblighi degli Stati Uniti ai sensi del Trattato di Washington del 1949 che istituisce l’Alleanza. Sebbene il piano di Trump sia apparentemente finalizzato alla pace, esso espone gli Stati Uniti – almeno fintanto che prenderanno sul serio il Trattato di Washington – al rischio di un confronto militare diretto con la Russia. Inoltre, la promessa di sostegno reciproco dell’Alleanza nordatlantica è stata oggi sottoscritta da ben 32 paesi europei e americani. Ciò implica che un conflitto armato di entità relativamente minore, ad esempio nella regione baltica, potrebbe rapidamente degenerare in una guerra europea o addirittura mondiale.
Le conseguenze più profonde del voltafaccia di Trump riguardano il regime mondiale di non proliferazione delle armi di distruzione di massa (WMD). La Russia, il suo alleato politico ufficiale, la Cina, e ora anche il suo quasi collaboratore, gli Stati Uniti, sono tutti Stati ufficialmente dotati di armi nucleari ai sensi del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP). Quando l’Ucraina ha ottenuto l’indipendenza nel 1991, era un Paese con migliaia di testate atomiche, ma ha accettato di diventare uno Stato non nucleare ai sensi del TNP. In cambio ha ricevuto garanzie dai cinque Stati nucleari ufficiali del TNP, che sono anche membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Attualmente solo la Francia e il Regno Unito rispettano ancora le cinque garanzie di sicurezza rilasciate all’Ucraina nel dicembre 1994.
L’accordo pubblico di Washington di riconoscere la Crimea come territorio russo e la sua evidente pressione su Kyiv affinché faccia concessioni a Mosca capovolgono la logica della non proliferazione. Il TNP e le convenzioni sulle armi chimiche e biologiche non appaiono più come accordi mondiali per prevenire la distruzione di massa. Al contrario, questi tre accordi sembrano ora stratagemmi per mantenere gli Stati non dotati di armi nucleari indifesi nei confronti delle grandi potenze espansionistiche. Uno scenario sempre più probabile è che i paesi di tutto il mondo abbandonino ufficialmente o tacitamente il regime di non proliferazione e si dotino di armi di distruzione di massa, innescando così un effetto domino, se non una vera e propria corsa agli armamenti nelle loro regioni.
Come in altri settori della politica interna ed estera degli Stati Uniti, dove la seconda amministrazione Trump sta attualmente stravolgendo consolidati accordi, il nuovo approccio di Washington alla guerra russo-ucraina costituisce, anche nell’ambito degli interessi nazionali americani intesi in senso stretto, uno sviluppo insolito. Gli Stati Uniti stanno prendendo le distanze dall’ordine mondiale che un tempo hanno contribuito a creare e dal quale hanno beneficiato per 80 anni. La sfiducia che Washington sta attualmente seminando nei confronti dell’ordine internazionale basato sulle regole in generale e della politica estera statunitense in particolare avrà conseguenze sempre più svantaggiose o addirittura pericolose per gli stessi Stati Uniti.
Politica estera Usa, Cina e la minaccia democratica dell’AfD
L’Ambasciatore Michele Valensise, Presidente dello IAI, è stato ospite del programma Spazio Transnazionale di Radio Radicale, condotto da Francesco De Leo. Nel corso dell’intervista, Valensise ha tracciato un bilancio in chiaroscuro dei primi 100 giorni della presidenza Trump, soffermandosi in particolare sulla politica estera: dai tentativi falliti di negoziazione con Russia e Ucraina, alle difficoltà nel rilanciare l’accordo sul nucleare con l’Iran. Durante la trasmissione si è discusso anche del ruolo dei rapporti tra Stati Uniti e Cina nel mantenimento dell’equilibrio globale, nonché della recente designazione del partito tedesco AfD come minaccia per la democrazia.
Caos al Pentagono: il Signal-gate colpisce Trump più del previsto
di Laura Gaspari
Gli ultimi due mesi non sono stati decisamente i migliori per il Dipartimento della Difesa statunitense e il suo Segretario Pete Hegseth, ex conduttore di Fox & Friends e fedelissimo di Donald Trump. L’ormai noto caso Signal-gate sta continuando a travolgere l’amministrazione Trump come una bufera ed emergono sempre più dettagli, nell’imbarazzo più totale del Pentagono.
Tutto parte il 24 marzo scorso, quando Jeffrey Goldberg, direttore del magazine The Atlantic, pubblica un articolo esclusivo intitolato The Trump Administration Accidentally Texted Me Its War Plans. Nell’articolo, il giornalista raccontava dettagliatamente, con tanto di screenshot, di essere stato inserito il 13 marzo in una chat di Signal – una app di messaggistica istantanea – con altri diciannove membri appartenenti al gabinetto del presidente Trump direttamente da Michael Waltz, Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Il gruppo, rinominatoHouthi PC small group, contava al suo interno il Vicepresidente JD Vance, il Segretario di Stato Marco Rubio, il Segretario della Difesa Pete Hegseth, il Direttore della CIA John Ratcliffe, la Direttrice dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard, il Segretario del Tesoro Scott Bessent, il Vicecapo del personale della Casa Bianca Stephen Miller, il suo superiore, Susie Wiles e l’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff. Nessuno di loro si è accorto della presenza di un estraneo nella chat. Lì, ha riportato Goldberg, si stava coordinando un attacco aereo, con tanto di dettagli, su alcuni bersagli Houthi in Yemen. Senza ripercorrere i dettagli della vicenda e della conversazione, quello che colpisce è che si tratta di informazioni estremamente importanti e classificate, che di norma dovrebbero stare blindate dietro strati e strati di sicurezza, soprattutto informatica. Signal invece, a opinione di molti esperti, non è una app abbastanza sicura per garantire questo grado di protezione: informazioni simili, se finite nelle mani sbagliate, possono risultare estremamente pericolose. Hegseth, infatti, aveva riportato dettagli sulla posizione dei piloti in volo che, se intercettati, avrebbero potuto essere facilmente colpiti da un banalissimo missile terra-aria. La paura, dunque, è ci sia stata da parte dell’amministrazione una violazione dell’Espionage Act del 1917 in quanto Signal non risulterebbe un’applicazione approvata a livello governativo per la condivisione di informazioni classificate.
La reazione generale si è divisa tra imbarazzo e ilarità, specialmente per le reazioni con emoji di Waltz e Witkoff. L’amministrazione Trump si è difesa screditando Goldberg, tenendo conto che il Presidente ha già avuto in passato problemi con il The Atlantic. Lo stesso Hegseth ha negato di aver condiviso dettagli sui piani di guerra in Yemen, dando a Goldberg del bugiardo. Subito dopo il giornalista ha pubblicato gli screenshot della chat su un altro articolo del 26 marzo, sbugiardando completamente il numero uno del Pentagono. Ovviamente la questione ha fatto scattare subito delle indagini, sia interne al Dipartimento della Difesa sia a livello di Congresso. Il terremoto è stato talmente forte che si vociferava di un licenziamento di Waltz da parte di Trump, cosa poi non avvenuta, con il Presidente fortemente dalla parte della sua amministrazione.
La vicenda però non si conclude qui. In un articolo del Guardian dello scorso 6 aprile, viene spiegato perché – probabilmente – Waltz avesse aggiunto Goldberg a quella chat. Secondo un’indagine dell’ufficio informatico della Casa Bianca, l’incidente sarebbe stato causato da una serie di coincidenze e sfortunati eventi, partiti proprio da un’e-mail di Goldberg alla campagna Trump a ottobre 2024 relativo a un articolo sui veterani feriti. In poche parole, l’iPhone di Waltz avrebbe salvato il numero del giornalista automaticamente a causa dell’inoltro di una mail.
Qualche settimana dopo Hegseth è di nuovo finito nell’occhio del ciclone, questa volta per un articolo del New York Times, in cui si sostiene che sia stata creata una seconda chat su Signal, tra i cui membri si contavano la moglie e il fratello. In questa seconda chat il Segretario della Difesa avrebbe condiviso dettagli su altri attacchi aerei e questioni di difesa. Anche in questo secondo caso è stato tutto categoricamente negato, ma il caos che si è generato al Pentagono non ha lasciato indifferente la stampa. Nel frattempo, Trump ha continuato ad attaccare i giornalisti e i media, screditando la credibilità delle informazioni e bollando tutto come un tentativo di gettare zizzania e ombre sulla bontà del suo circolo. Tuttavia, i dettagli che continuano a uscire sulla scarsità della sicurezza dei dispositivi elettronici o il lassismo dei membri del Gabinetto stanno facendo preoccupare per la sicurezza nazionale e internazionale degli Stati Uniti. Dalla linea internet non protetta dell’ufficio di Hegseth, al furto della borsetta contenente documenti e badge della Segretaria della Sicurezza Interna Kristi Noem, all’abitudine di Waltz di usare Signal per qualsiasi operazione, anche internazionale. Avvenimenti che hanno iniziato a far storcere il naso anche ad alcuni repubblicani, come Mitch McConnell e Don Bacon. Senza contare l’allontamento di Joe Kasper, ex capo del personale al Pentagono, dopo aver richiesto un’indagine sui leak. Il consigliere senior Dan Caldwell, il Vicecapo di gabinetto di Hegseth Darin Selnick e Colin Carroll, capo di gabinetto del Vicesegretario alla Difesa Stephen Feinberg, sono stati sospesi proprio a causa delle indagini sulle fughe di notizie sul Canale di Panama. L’ ex portavoce del Pentagono John Ullyot, in un’opinione su Politico, ha definito la situazione nell’agenzia “un inferno”. Una situazione che non dovrebbe verificarsi in un Paese come gli Stati Uniti, i cui segreti militari, se svelati o acquisiti da mani sbagliate, possono diventare estremamente pericolosi a livello globale. E risulta abbastanza comica la possibilità che il Segretario della Difesa, che dovrebbe essere l’incaricato presidenziale a coordinare l’esercito, diventi il target preferito – o comunque più facile da prendere di mira – dello spionaggio e controspionaggio internazionale. Anche in questo caso, alcune voci vogliono che Trump sia infuriato con Hegseth e da qualche giorno si vocifera di un licenziamento imminente. Staremo a vedere se il Presidente deciderà di scoprire un fianco – di fatto già scoperto – o di tenere saldamente le redini, lasciando però che il caos infuri e sperando che si fermi in fretta.
Minerali strategici e sicurezza: verso un nuovo accordo USA-RDC
di Iacopo Andreone
A inizio marzo, il consigliere per l’Africa della Casa Bianca Massad Boulos ha incontrato a Kinshasa il presidente della Repubblica Democratica del Congo Félix Tshisekedi, rilanciando la proposta, avanzata precedentemente da parte congolese, di un’intesa bilaterale incentrata su minerali critici e sicurezza. L’accordo, i cui termini sono ancora da definire, prevederebbe l’accesso preferenziale degli Stati Uniti ai giacimenti di minerali dal valore strategico – tra cui cobalto, rame e litio – in cambio di supporto contro l’avanzata dei ribelli dell’M23, attivi nell’est del Paese. Il gruppo ribelle ha esteso negli ultimi mesi il suo controllo su aree ricche di risorse naturali, grazie soprattutto al supporto diretto del Ruanda, come anche confermato da fonti delle Nazioni Unite.
Sul terreno, la situazione resta instabile: l’offensiva dell’M23 ha provocato nuovi sfollamenti, paralizzato le attività economiche e aggravato la crisi umanitaria, mentre l’esercito congolese fatica a contenere l’avanzata del gruppo ribelle. Il 23 aprile, la RDC e l’M23 hanno annunciato un impegno congiunto per raggiungere un cessate il fuoco, grazie alla mediazione del Qatar. Entrambe le parti si sono impegnate a cessare immediatamente le ostilità e a proseguire il dialogo per raggiungere un accordo definitivo. Contemporaneamente, rappresentanti dei governi di Kinshasa e di Kigali si sono incontrati a Washington e si sono impegnati al raggiungimento di un accordo di pace entro maggio, grazie alla mediazione del governo americano.
La RDC detiene oltre il 60% della produzione globale di cobalto, un minerale cruciale per batterie, veicoli elettrici e tecnologie verdi. Ad oggi, la Cina controlla circa il 70% della raffinazione mondiale di cobalto e ha acquisito numerose concessioni minerarie in territorio congolese attraverso una rete di aziende statali e joint ventures. Per Washington, rompere questa egemonia vorrebbe dire costruire filiere alternative, più resilienti e politicamente sicure, a costo però di un maggiore coinvolgimento diretto nel conflitto regionale.
I termini dell’accordoI dettagli dell’intesa tra Stati Uniti e Repubblica Democratica del Congo non sono ancora stati ufficializzati. Tuttavia, da fonti vicine all’esecutivo congolese emergono alcune linee guida. Washington potrebbe essere disposta a investire nel potenziamento della sicurezza congolese, con particolare attenzione all’addestramento delle forze armate congolesi, al supporto tecnico contro i gruppi armati e alla fornitura di intelligence. In cambio, Kinshasa offrirebbe l’accesso diretto – tramite concessioni – a una serie di giacimenti minerari, soprattutto nelle province meridionali di Lualaba e dell’Alto Katanga, dove operano già grandi società multinazionali provenienti da tutto il mondo. Tali aree, peraltro, sono considerate strategiche non solo per la presenza di cobalto e rame, ma anche per la vicinanza a infrastrutture già consolidate.
Un elemento rilevante è l’intenzione americana di strutturare l’intesa come parte di una strategia su più livelli di cooperazione: non solo tramite contratti bilaterali, ma anche investimenti in infrastrutture, energia e digitalizzazione, eventualmente integrati in progetti già avviati dalla Banca Mondiale o dall’International Development Finance Corporation. Il coinvolgimento di partner multilaterali consentirebbe inoltre di ridurre i costi iniziali e aumentare l’appeal dell’accordo presso investitori privati, in particolare nel settore delle tecnologie verdi.
In questo quadro, l’accordo rappresenterebbe una risposta mirata all’influenza cinese, ma anche un banco di prova per un diverso modello di cooperazione. Resta però da capire in che misura le autorità congolesi riusciranno a far valere i propri interessi, evitando che la logica dello scambio risorse-sicurezza finisca per riprodurre schemi già visti in passato, spesso poco vantaggiosi per la parte africana. L’efficacia dell’intesa dipenderà anche dalla sua capacità di generare effetti concreti a livello locale in ambito economico e infrastrutturale.
La posta in giocoLa corsa al controllo dei minerali critici è ormai uno dei principali fattori di tensione nello scenario globale contemporaneo. Il cobalto, elemento indispensabile per la produzione di batterie al litio e tecnologie a basse emissioni, è ormai un fattore centrale della sicurezza energetica delle grandi potenze. La Repubblica Democratica del Congo, da sola, ne produce oltre il 70% a livello mondiale. Un primato che, in assenza di istituzioni stabili e infrastrutture adeguate, si è tradotto in una fragilità sistemica: il settore è dominato da interessi stranieri, segnato da corruzione, sfruttamento e conflitti ricorrenti, in particolare nelle province orientali.
La Cina ha saputo inserirsi in questo vuoto con una strategia di lungo periodo. Attraverso una rete articolata di acquisizioni e joint ventures, Pechino ha consolidato la propria presenza in RDC, spesso approfittando della debolezza contrattuale delle controparti locali. Il gruppo China Molybdenum (primo produttore al mondo), così come altre imprese statali e veicoli di investimento legati al governo come Zijin Mining o Huayou Cobalt, ha ottenuto concessioni minerarie strategiche, in alcuni casi a condizioni opache. Questo le ha consentito di esercitare un controllo quasi monopolistico non solo sull’estrazione, ma anche sulla fase di raffinazione e trasporto, rendendo la Cina un attore imprescindibile per l’intera filiera globale del cobalto.
L’iniziativa americana potrebbe evolvere in un tentativo esplicito di ridefinire gli equilibri nella regione. Non si tratta soltanto di ottenere accesso a nuove risorse, ma di riscrivere le regole di una filiera strategica. Washington punta a creare alternative alla dipendenza cinese, promuovendo standard ambientali e lavorativi più elevati, e integrando la filiera africana in partenariati con Paesi alleati, come previsto anche nel framework del Minerals Security Partnership, approccio mirato a ridurre le asimmetrie attuali, ma che implica sfide rilevanti in termini di tempi, capacità industriale e credibilità politica.
Tuttavia, questa visione si scontra con la realtà sul terreno: i costi logistici, le tensioni etniche e l’instabilità delle province orientali – dove persistono milizie armate come l’M23 – rendono difficile qualsiasi tentativo di intervento diretto. La presenza crescente di attori regionali, come il Ruanda e l’Uganda, accentua la complessità geopolitica e rende difficile delimitare con chiarezza i confini tra interessi economici, dinamiche militari e alleanze politiche. Il controllo delle risorse essenziali per la transizione energetica sta progressivamente assumendo i contorni di una frizione sistemica. Al centro di questo accordo c’è una partita più ampia: l’equilibrio industriale tra Stati Uniti e Cina. Il controllo delle risorse chiave per la transizione energetica sta diventando un nuovo terreno di confronto strategico, dove la superiorità cinese nel settore delle batterie rischia di essere messa in discussione. La RDC si ritrova così al centro di una competizione che ha tutte le caratteristiche di un nuovo fronte di una nuova guerra fredda tecnologica.
Droghe e precursori: giocare d’anticipo sulla traiettoria
È sempre più orientato verso la Cina e l’India il baricentro del sistema mondiale di produzione delle droghe sintetiche. Proprio da questi paesi la criminalità organizzata si rifornisce dei cosiddetti precursori.
Si tratta di sostanze chimiche non necessariamente legate alla produzione di sostanze psicoattive illecite. Da esse si ricavano anche prodotti leciti, come medicinali, materie plastiche, cosmetici… Per questo la criminalità organizzata molto raramente si avventura nella produzione di queste sostanze – che andrebbe ad appesantire la sua infrastruttura produttiva – preferendo rifornirsi dal mercato lecito per piegarlo poi ai propri interessi.
Dalla Terra del Dragone con furoreCina e India – fornitore emergente secondo la DEA (Drug Enforcement Agency) – guidano la produzione di precursori in generale e specificatamente di quelli necessari alla lavorazione del fentanyl da strada, secondo il metodo Siegfried, come 4-anilin-N-fenetilpiperidina (ANPP) e N-fenetil-4-piperidone (NPP), oltre alle sostanze a struttura simile al prodotto ricercato come il butyrfentanyl.
Le modalità di occultamento e spedizione di questi prodotti includono tecniche sempre più raffinate che vanno dall’uso di spedizionieri negli Stati Uniti, false etichette di ritorno, false fatture, affrancature fraudolente e imballaggi ingannevoli. I produttori comunicano abitualmente con i potenziali clienti su piattaforme criptate e accettano pagamenti in criptovaluta, riducendo così il rischio di essere scoperti dalle forze dell’ordine.
I cartelli messicani di Sinaloa e Jalisco Nueva Generaciòn (CJNG), i due più grossi produttori e trafficanti di fentanyl a livello mondiale, si riforniscono direttamente da fornitori cinesi e indiani attraverso un’intricata rete di intermediari al fine di mascherarne ogni possibile traccia utile agli investigatori internazionali.
Insight Crime della DEA per due anni ha condotto un’indagine individuando, tra l’altro, almeno 188 aziende chimiche cinesi che producono e commerciano precursori, concentrate per il 63% nelle province di Hebei e Hubei, a cui si uniscono Guangdong e Zhejiang, realtà che nella Repubblica Popolare Cinese sono tra le province a più alto reddito pro-capite. Nella sola città di Shenzhen, proprio nel Guandong, nel 2015, sono stati contati più miliardari che in tutta l’Italia.
Nel giugno del 2022, nell’Hebei, il governo centrale cinese ha condotto l’operazione “100 giorni” per reprimere le bande e le reti della criminalità organizzata dopo un’ondata di incidenti violenti. Il Ministero della Pubblica Sicurezza ha arrestato più di 27.000 persone nella provincia, ha registrato 297 reati legati alla droga, smantellato 41 bande locali, iniziando a indagare su 15 funzionari pubblici accusati di proteggere queste organizzazioni criminali, secondo quanto riportato dal Global Times, agenzia di notizie cinesi in lingua inglese.
Negli ultimi dieci anni, l’industria biofarmaceutica cinese ha visto una notevole crescita, con previsioni che indicano un possibile aumento dai 345,7 miliardi di renminbi (47,60 miliardi di dollari) del 2020 a 811,6 miliardi di renminbi (111,76 miliardi di dollari) nel 2025 (+135% in cinque anni). Analogamente, la capitalizzazione di mercato delle aziende biofarmaceutiche cinesi è cresciuta da 1 miliardo di dollari nel 2016 a oltre 200 miliardi di dollari nel 2020.
Dal 2010 al 2020, in Cina sono state lanciate 141 nuove aziende farmaceutiche e biotecnologiche, il doppio rispetto al decennio precedente, beneficiando di investimenti internazionali, tra i quali quelli statunitensi, non immuni da rischi legati a possibili conflitti geopolitici.
Se, per ovvie ragioni, non è possibile fermare la commercializzazione di questi prodotti, gli stessi possono rappresentare, però, importanti tracce rispetto al disvio, in grado di condurre gli investigatori alla catena globale di approvvigionamento del fentanyl e di altre produzioni di sostanze illecite.
Nella Repubblica Popolare Cinese sono in vigore diverse normative sui precursori chimici. Tra queste figurano: il Regolamento sull’amministrazione dei precursori chimici, emanato nel 2005 dal Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese; le Disposizioni sull’amministrazione dell’importazione e dell’esportazione di precursori chimici e sull’amministrazione del controllo internazionale sull’importazione e l’esportazione di precursori chimici e le Misure di autorizzazione per la produzione e l’esercizio di precursori chimici non farmaceutici (2006) e la Legge sul controllo degli stupefacenti della Repubblica Popolare Cinese (2007). Questi regolamenti classificano le sostanze chimiche in tre categorie: sostanze ad alto rischio, precursori e altre materie prime. Tuttavia, le normative rimangono poco rigorose per quanto riguarda i precursori chimici del fentanyl. L’attuazione di queste norme resta di difficile monitoraggio soprattutto a livello locale.
Basti dire che in Cina potrebbero esserci fino a 160.000 aziende chimiche che operano legalmente o illegalmente. L’applicazione delle leggi esistenti per questi settori è spesso cooptata dalla corruzione che rappresenta un ostacolo soprattutto al monitoraggio sulle azioni dei grandi industriali.
È necessaria una cooperazione a livello internazionale così come politiche locali mirate non a colpire i consumatori ma a tutelarli dai rischi e dai danni del consumo.
Non si arresta il narcotraffico con velleitarie politiche di dazi e inasprimento di pene e sanzioni, gli interessi globali legati alle droghe necessitano di misure articolate e multidirezionali.
Non comprendere o misconoscere tutto ciò significa assumersi una complicità forse indiretta ma certamente non meno colpevole rispetto a chi non è disposto ad accontentarsi delle trite e ideologiche narrazioni su consumo e dipendenza patologica.
Le missioni italiane all’estero nel 2025: focus geografico e priorità strategiche
Il decreto missioni, accompagnato dall’audizione davanti alle Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato del Capo di Stato Maggiore della Difesa Luciano Portolano, fornisce un quadro dettagliato dell’impegno del dispositivo militare italiano nelle missioni all’estero. Partendo dalle priorità delineate dal Generale Portolano, si riscontrano degli aspetti rilevanti, tra i quali: l’impegno in Africa e Medio Oriente con riferimento al contrasto di attori destabilizzanti, alla sicurezza energetica e alla garanzia di accesso all’approvvigionamento di materie prime; l’istituzione di forze ad altissima prontezza operativa per il fianco est NATO; il dibattito circa l’opportunità della continuazione di Strade Sicure.
Per quanto riguarda il focus geografico dell’impegno militare all’estero il Mediterraneo allargato rappresenta il fulcro delle attività italiane, che orientare a garantire la sicurezza in un’area caratterizzata da un accresciuto livello di volatilità. Le priorità si delineano nel contributo alla stabilizzazione in Medio Oriente, nel Sahel e nel Golfo di Guinea, e nella partecipazione agli sforzi relativi alla sicurezza e alla stabilizzazione nel Corno d’Africa e nel Mar Rosso. Al tempo stesso, alla luce della guerra in Ucraina il fianco est dell’alleanza rimane al centro degli sforzi italiani nel contribuire alla deterrenza nella cornice dell’Alleanza Atlantica, in particolare nelle Repubbliche Baltiche e in Bulgaria.
In termini di risorse il decreto prevede uno stanziamento complessivo di 1,92 miliardi, che segnano un aumento rispetto ai 1,82 del 2024 e 1,72 del 2023, confermando il trend crescente. Le missioni attualmente in corso secondo quanto riferito dal Generale Portolano sono 39. Il decreto riporta inoltre una consistenza media di 7.750 unità ed un contingente massimo autorizzato di 12.100 unità.
Le novità: forze ad alta e ad altissima prontezza operativaPer quanto concerne le nuove schede il decreto ne presenta una sola, relativa all’istituzione di una forza ad alta e ad altissima prontezza operativa. Con una consistenza massima pari a 2.867 unità ed una composizione degli assetti che si configura in 359 mezzi terrestri, 4 mezzi navali, 15 mezzi aerei, queste forze rispondono alla necessità di maggiore flessibilità e tempestività nella proiezione internazionale dello strumento militare, per far fronte alla crescente mutevolezza ed imprevedibilità del quadro strategico. Questo pone la loro istituzione in linea con le logiche della riforma della legge 145/2006, ovvero con l’adattamento delle dinamiche di impiego dello strumento militare all’estero ad un contesto caratterizzato da sempre maggiore volatilità ed incertezza.
La costituzione di queste forze risponde alle necessità espresse in ambito NATO, ed in particolare il documento esplicita che possano alimentare il contingente nazionale nelle Allied Reaction Forces (ARF). Nonostante il documento faccia riferimento ad un’area di impiego particolarmente ampia, in quanto corrispondente con quella interessata da una presenza di personale nazionale, è evidente come una tale capacità sia concepita come elemento di rafforzamento per il fianco orientale dell’Alleanza. L’istituzione delle forze ad alta e ad altissima prontezza operativa rappresenta dunque un contributo diretto all’impegno in termini di deterrenza e difesa in seno all’Alleanza.
L’impegno (bilaterale) in AfricaL’impegno in Africa conferma la visione strategica per il continente già espressa nel Documento Programmatico Pluriennale, ed in particolare la sinergia dell’impiego dello strumento militare con il Piano Mattei. La presenza in Africa è funzionale al contrasto dei traffici illeciti, al contenimento degli effetti destabilizzanti della presenza di attori come Russia e Cina e conseguentemente alla stabilizzazione dei Paesi partner nella regione, con un ruolo chiave sia nel garantire la stabilità del fianco sud sia nell’attuazione del Piano Mattei. In Africa si riscontra un’enfasi sull’approccio bilaterale, soprattutto in aree come il Sahel, dove in Niger il contingente italiano è l’unico occidentale a permanere con la missione MISIN a seguito del colpo di stato che ha portato all’estromissione degli altri contingenti stranieri. La presenza italiana si estende anche al confinante Burkina Faso con una missione di supporto bilaterale che congiuntamente a MISIN prevede l’invio di 550 unità. Questo impegno dovrebbe rafforzare la presenza italiana nella fascia Saheliana, che allo stato attuale vede una forte influenza russa, come testimoniato dalle partnership in materia di sicurezza e difesa siglate da diverse giunte militari con Mosca.
In un’ottica di stabilizzazione della sponda sud del Mediterraneo e di contrasto alla migrazione illegale sono state prorogate le missioni bilaterali in Tunisia e in Libia, nonché la missione ONU UNSMIL in Libia e la missione Nato denominata “Implementation of Enhancement of the Framework for the South”. Per queste quattro missioni è previsto l’invio di 223 unità e 10 mezzi terrestri. L’impiego militare sia in una dimensione bilaterale che in una multilaterale conferma l’impegno dell’Italia nel mantenere le attività di stabilizzazione in questo quadrante nell’agenda delle organizzazioni internazionali, mentre lavora al rafforzamento delle relazioni su base bilaterale anche in considerazione di una progressiva entrata in crisi dell’approccio multilaterale al continente africano, che per il momento è maggiormente accentuata nella fascia sub-sahariana.
Medio Oriente e missioni navaliIn Libano prosegue l’impegno su base multilaterale con la missione UNIFIL, e a livello bilaterale con la missione MIBIL. Impegno divenuto particolarmente complesso a seguito dell’avvio di operazioni militari da parte delle forze armate israeliane nel sud del Paese ad ottobre 2024, il che ha portato ad una richiesta di revisione delle regole di ingaggio da parte del Ministro Crosetto. Alla presenza in Libano si aggiunge quella dell’operazione bilaterale MIADIT in Cisgiordania, consolidando la presenza italiana in un’area che dall’ottobre 2023 è stata caratterizzata da un conflitto in espansione, da Gaza al Libano. L’Italia mira a profilarsi come attore direttamente coinvolto nelle dinamiche di interposizione e stabilizzazione e come fornitore di sicurezza, con un’ambizione di mediazione a livello politico. Per le tre missioni nell’area è previsto l’impiego di 1.650 unità, la maggior parte delle quali dedicata ad UNIFIL.
Nell’area mediterranea e mediorientale rileva poi la proroga delle missioni navali interforze ASPIDES e ATLANTA, volte a garantire la libertà dei traffici marittimi nell’arteria che conduce al Mar Mediterraneo attraverso il Mar Rosso, oltre alla missione IRINI, il cui obiettivo principale è la verifica del rispetto dell’embargo sulle armi imposto alla Libia, ma che fornisce anche un supporto significativo al contrasto alla migrazione illegale, dossier sempre più politicamente rilevante anche a livello europeo.
L’impegno sul fianco est dell’AlleanzaIl decreto prevede un consolidamento del contributo italiano al mantenimento della deterrenza sul fianco orientale della NATO. In particolare, verrà data priorità all’innalzamento a livello di brigata del Forward Land Forces Battle Group in Bulgaria di cui l’Italia è framework nation, un’operazione già avviata dalla Germania in Lituania nell’aprile 2024. E’ confermato inoltre il contingente italiano nei battle group in Lettonia e Ungheria. Il dispiegamento complessivo in ambito NATO nei tre Paesi è pari a 2.323 unità e 1.046 mezzi terrestri. Viene inoltre rafforzato il contributo all’Air Policing a all’Air Shielding della NATO, con 15 mezzi aerei e 375 unità di personale, rispetto ai 12 mezzi e alle 300 unità del 2024.
Relativamente al fianco est viene inoltre ribadito il supporto all’Ucraina, in particolare con riferimento alla missione di addestramento EUMAM-Ucraina, che si svolge sul territorio degli stati membri dell’Unione Europea, e alla missione NATO di supporto e addestramento NSATU. Per queste due missioni, rispetto al 2024 il dispiegamento di unità ha subito un incremento significativo, passando da 80 a 231, in linea con il più volte ribadito impegno a livello politico a favore dell’Ucraina.
La necessità di riconfigurare l’operazione Strade SicureDurante l’audizione del Generale Portolano è stata dibattuta l’effettiva opportunità del persistere dell’Operazione Strade Sicure, che secondo quanto previsto dalla Legge di Bilancio 2025 vede confermata la dotazione di 6.000 unità, e che dal 2025 al 2027 vedrà un’integrazione di 800 unità ogni anno per il controllo e la sicurezza delle principali infrastrutture ferroviarie. A fronte, dunque, di una maggiore enfasi sulla preparazione per un conflitto ad alta intensità e di un proliferare di focolai di instabilità all’estero, prosegue l’impegno dell’esercito in attività di polizia particolarmente drenanti a livello di personale e risorse, oltre che molto lontane dai pilastri che dovrebbero definire le logiche di impiego delle forze armate, prima fra tutte la difesa territoriale.
Il Generale Portolano ha riconosciuto la necessità di elaborare valutazioni sulla persistenza della minaccia che ha portato all’istituzione di questa missione, ed ha espresso l’opportunità di rivalutare le modalità di impiego per diminuire il personale ad essa dedicato ed aumentarne l’efficienza e l’efficacia. Da questo punto di vista una possibile soluzione da lui prospettata è quella del passaggio dal pattugliamento statico a quello dinamico, che permetterebbe di ridurre il numero di unità dedicate al presidio di una data area.
Uno sguardo in avantiAnche per il 2025, si conferma un elevato grado di ambizione, rappresentato da un alto numero di missioni in molteplici quadranti, dal Maghreb al Baltico. Nonostante la conferma di un trend crescente per quanto concerne il finanziamento si riscontra ancora una discrepanza tra obiettivi e risorse, che rispecchia la necessità a livello più ampio di un effettivo incremento della spesa per la difesa.
Inoltre, relativamente alle missioni in cui è impegnato il dispositivo militare emerge un’evidente idiosincrasia nella persistenza di un’operazione come Strade Sicure mentre ci si adegua alle necessità di un conflitto ad alta intensità con l’istituzione delle forze ad alta e ad altissima prontezza operativa. E’ dunque necessario raggiungere una maggiore omogeneità e chiarezza a livello di valutazioni strategiche, adeguando di conseguenza la preparazione e l’impiego delle forze armate.