Aggregatore di feed

Una pesante eredità per la Democrazia americana

L’8mbra di Donald Trump si allunga sulle prossime elezioni presidenziali – e per il Congresso – negli Stati Uniti. È un’ombra minacciosa, non soltanto per quanto l’ex presidente potrebbe fare se tornasse in carica, ma anche per l’effetto dirompente sugli equilibri politici e istituzionali degli Stati Uniti dei suoi guai con la giustizia, l’ultimo dei quali potrebbe addirittura vederlo escluso dalla corsa per la Casa Bianca.

Le primarie repubblicane finite prima di iniziare?

I sondaggi accreditano l’ex presidente di un vantaggio abissale (fino al 63%) nella corsa alla nomination repubblicana e lo vedono leggermente in vantaggio sul democratico Joe Biden nella sfida di novembre.

L’idea che un candidato alternativo a Trump possa accumulare da una vittoria nelle primarie in Iowa o New Hampshire un tale slancio da superare l’ex presidente sembra così remota da apparire accademica. I sondaggi a livello statale vedono primeggiare Trump ovunque, già a partire dall’Iowa, quasi sempre con distacchi non troppo dissimili dal voto nazionale. Dopo il ‘super martedì’ 5 marzo, quando ben sedici stati selezioneranno i delegati a sostegno dei candidati per la convention repubblicana di Milwaukee a luglio, l’ex presidente dovrebbe quindi aver già risolto la questione nomination.

Dopo la cattiva performance dei candidati appoggiati da Trump alle elezioni di metà mandato del 2022, si è pensato che il Partito Repubblicano si potesse orientare verso figure meno controverse (sebbene non meno radicali), come il governatore della Florida Ron DeSantis, fresco di trionfale riconferma.

Nei mesi successivi è apparso chiaro tuttavia che quest’ipotesi non aveva una solida base. Invece di insistere sulla sua maggiore ‘eleggibilità’ in base al suo record economico e di resistenza alle regolamentazioni anti-Covid (molto impopolari nella destra Usa), DeSantis ha rilanciato su un’agenda tutta incentrata su una feroce battaglia culturale anti-progressista, spesso spostandosi su posizioni più estreme dello stesso Trump su questioni come l’aborto. Lo stesso hanno fatto altri candidati come l’imprenditore Vivek Ramaswamy. Eppure, in due DeSantis e Ramaswamy raccolgono intorno al 15% dell’elettorato conservatore. Chiaramente gli elettori di destra preferiscono l’originale alle copie.

I candidati non-trumpiani (come l’ex vice-presidente Mike Pence) o dichiaratamente anti-trumpiani (come l’ex governatore del New Jersey Chris Christie) alla nomination repubblicana sono note a piè di pagina nel libro delle primarie. L’unica apparente eccezione è la grande speranza dei conservatori tradizionali, l’ex governatrice della South Carolina ed ex ambasciatrice Usa all’Onu (sotto Trump), Nikki Haley. Per quanto magnificata dalla stampa e sostenuta da un numero crescente di ricchi donatori, Haley non è una candidata forte – è anzi molto debole. Dopotutto, langue a un misero 11% nei sondaggi nazionali. In Iowa, da cui dovrebbe partire l’assalto all’ex presidente, oscilla intorno al 16%, ben 35 punti sotto Trump.

L’opposizione fantasma

La stagione delle primarie dei Repubblicani che si aprirà la settimana prossima sembra avere già un esito scontato. Dal momento in cui la nomination sarà sicura, ogni forma di opposizione residuale a Trump in campo conservatore si scioglierà, e tutto il partito e l’elettorato conservatore si stringeranno attorno all’ex presidente, come del resto hanno largamente fatto negli ultimi anni.

Dopo l’elezione del 2020, quando i tentativi dell’ex presidente di invalidare la vittoria di Biden sono culminati nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 da parte di una folla di suoi sostenitori, era frequente imbattersi in Repubblicani che, soprattutto dietro le quinte, contavano sul fatto che Trump fosse finito. L’evidenza in senso contrario però ha cominciato ad accumularsi ben presto.

La notte stessa dell’attacco al Campidoglio, in cui cinque persone erano rimaste uccise, 139 rappresentanti e otto senatori repubblicani si rifiutarono comunque di certificare la vittoria di Biden, senz’altra giustificazione se non quella di mantenere consenso in una base elettorale convinta nonostante l’evidenza contraria che l’elezione fosse stata truccata.

Poco dopo, l’opposizione dei Repubblicani impedì che il secondo impeachment di Trump sfociasse nella sua formale destituzione.

Solo due Repubblicani, entrambi costretti poi a lasciare il partito, hanno successivamente partecipato all’inchiesta della Camera sull’assalto al Campidoglio, conclusasi con la raccomandazione di incriminare l’ex presidente per insurrezione.

E quando le incriminazioni sono arrivate, Trump non ha perso consensi tra i conservatori. Se un effetto c’è stato, al momento sembra più quello di avere galvanizzato la destra, persuasa che Trump sia vittima di incriminazioni motivate politicamente. L’ex presidente, è il caso di ricordare, è indagato sia a livello federale che in Georgia per aver tentato di invalidare l’elezione del 2020, nonché per trasferimento e possesso illegale di documenti secretati (sempre a livello federale) e violato le leggi sul finanziamento elettorale nello stato di New York.

La forza di Trump è la debolezza di Biden

Sicuro o quasi di ottenere la nomination, Trump può guardare con ottimismo a novembre. L’ex presidente resta un candidato estremamente controverso alla luce dei suoi guai giudiziari, della sua retorica sempre più estrema, dei suoi istinti autoritari. Ciò nonostante, ha guadagnato consensi in settori elettorali chiave per i Democratici, come i maschi neri e latini.

La sua carta vincente è l’impopolarità di Biden, che non riesce a scollarsi dal 40% dei conensi. Nonostante l’economia sia cresciuta a ritmi sostenuti e la disoccupazione sia ai minimi storici, il presidente sconta l’effetto dell’inflazione (tornata sotto controllo, ma dai livelli più alti dai primi anni ’80), l’ansia per la perdurante immigrazione, e soprattutto la percezione che sia troppo avanti negli anni per un altro mandato.

Al contrario del 2016, questa volta Trump può contare su un’infrastruttura organizzativa – il cosiddetto Project 2025, creato dal think tank ultraconservatore Heritage Foundation – per mettere in atto un’agenda di governo radicale. Il piano è quello di svuotare l’amministrazione federale di personale di carriera e sostituirlo (almeno nelle posizioni chiave) con persone selezionate sulla base dell’assoluta lealtà a Trump. Il Dipartimento di Giustizia verrebbe così asservito alla Casa Bianca e usato non solo per eliminare le minacce giudiziarie (Trump potrebbe anche auto-graziarsi dai reati federali se fosse già stato condannato) e perseguire gli avversari politici. Non a caso negli Usa anche pensatori di destra parlano di una prossima deriva autoritaria.

Trump ha creato un conflitto epocale tra volontà popolare e diritto

Una seconda presidenza Trump, tuttavia, non è scontata. Biden potrebbe recuperare terreno e sconfiggere l’ex presidente, come ha fatto nel 2020. Un’eventuale condanna in uno dei quattro processi penali potrebbe intaccarne il consenso tra gli indipendenti e anche i repubblicani (un terzo dei quali si dice indisponibile a sostenerlo in questo caso).

Oppure Trump potrebbe essere escluso a priori, se la Corte Suprema dovesse confermare la sentenza con cui la più alta corte del Colorado ha dichiarato Trump ineleggibile perché colpevole di insurrezione.

La Corte Suprema non dovrebbe esprimersi verosimilmente prima di un paio di mesi. Si tratta forse della sentenza più importante – senz’altro la più attesa – della storia degli Stati Uniti. In sostanza i nove giudici – sei conservatori (la metà dei quali nominati dallo stesso Trump) e tre progressisti – si trovano di fronte alla questione se, in una democrazia costituzionale, il giudizio sull’eleggibilità di un cittadino discenda in ultimo dalla legge o dal corpo elettorale.

Qualunque l’esito, una parte dei cittadini sentirà il verdetto come illegittimo, allargando ulteriormente le divisioni nel già ultra-polarizzato elettorato americano.

Legge o politica? Stato di diritto o volontà popolare? La storia degli Stati Uniti (e non solo) è anche il costante tentativo non solo di far convivere le due cose ma di renderle parti complementari di un insieme organico. Oggi sono separate e anzi in conflitto tra loro. Già prima di concludersi tra un anno o cinque, la vicenda politica di Donald Trump ha lasciato una pesante eredità per la democrazia americana.

“Make America Great Again”. Il remake

“Trump.2: la vendetta”. Sembra solo una battuta facile, di fronte alla possibilità di un ritorno del profeta del populismo americano per un secondo, straordinario, mandato alla Casa Bianca. Ma non è affatto una battuta. La vendetta è esattamente non solo il sapore, ma anche la cifra della nuova impresa di Trump. È stato lui stesso ad evocarla: “sono la vostra vendetta” ha detto ai suoi sostenitori. Ma, nel Trump 2024, la vendetta ha due significati: diversi e coincidenti solo nella narrazione dello stesso Trump. Ed è proprio la capacità o meno di farli coincidere, anche per il suo elettorato, la chiave di un possibile (troppo presto per dire probabile) ritorno alla Casa Bianca.

Il primo significato è quello da sempre implicito nel MAGA, il nostalgico slogan Make America Great Again che ha trascinato le fortune elettorali di Trump. Lo slogan – ricorrente nelle campagne populiste, sempre pronte ad evocare passate età dell’oro –  nella versione trumpiana, in realtà, più che un richiamo nostalgico è un grido di battaglia. Nel tribalismo partigiano che domina l’America di oggi, il MAGA è diventato l’inno della rivolta e della rivalsa di larghe fasce di elettorato, decise ad esigere vendetta da un establishment politico-economico-culturale che sentono lontano, ostile e, soprattutto, estraneo: colletti blu colpiti e piegati dalla globalizzazione, tradizionalisti spaventati dall’affermarsi di nuovi diritti e di nuovi protagonisti sociali, quella Middle America che ce l’ha fatta, ma avverte, con crescente insofferenza, lo stigma di avere solo il diploma e non la laurea.

Ma Trump è, anzitutto, esaltazione egocentrica e questa vendetta sociale è, in realtà, soffocata dalla seconda: la sua, personalissima, vendetta contro chi ha lavorato per spodestarlo. La confusione dei due piani è insistita ed esplicita. L’obiettivo di una nuova presidenza, dice Trump, è “sradicare marxisti, fascisti e i delinquenti radicali di sinistra che mentono, rubano e barano sulle elezioni”. È un’ipoteca pesante e sinistra sul prossimo spoglio elettorale, che rischia di essere già uno spartiacque della democrazia americana, ancor più di tre anni fa. Ma per questa democrazia americana, come la conosciamo, la prova più dura sembra arrivare subito dopo, in caso di vittoria di Trump. L’ex presidente, infatti, si propone di ridisegnare in modo inedito, i confini e le competenze della presidenza, prefigurando una sorta di Casa Bianca in salsa latinoamericana.

Dimenticate il Watergate e tutte le vicende (più un buon quarto della produzione di Hollywood), in cui le istituzioni Usa hanno saputo contrastare e sconfiggere pericolose deviazioni, da qualunque parte venissero. A colpi di decreti presidenziali, se occorre, Trump ha già detto che intende porre fine all’indipendenza del Ministero della Giustizia e dell’Fbi, che non sono “un quarto braccio del potere” e vanno portate sotto l’autorità diretta della Casa Bianca. Contemporaneamente, pensa di eliminare le garanzie e le tutele di migliaia di dipendenti pubblici contro il licenziamento, con l’obiettivo di imbottire la burocrazia di personale leale e fidato. “Dobbiamo evitare – chiarisce il futuro candidato repubblicano – che burocrati senza faccia possano perseguitare conservatori, cristiani o i nemici politici della sinistra”. Il repulisti, in particolare all’Fbi e alla Giustizia, è, cioè, la premessa per scatenare, al contrario, una campagna di inchieste e incriminazioni contro i suoi avversari politici.

Emerge, qui, una fragilità del sistema americano, dove molte garanzie e tutele – come l’indipendenza dell’amministrazione pubblica – sono frutto di consuetudini, tradizioni, buona educazione, si potrebbe dire, piuttosto che di leggi ben fissate e sono, dunque, vulnerabili e scavalcabili. Ma questa offensiva non avverrebbe nel vuoto. Si fa fatica, infatti, ad immaginare, nell’America al calor bianco immediatamente successiva ad una nuova vittoria di Trump, la tempesta di panico e rivalsa che avvilupperebbe una Casa Bianca impegnata ad attaccare ad alzo zero, con tutti i mezzi, i suoi avversari, e a ridisegnare la presidenza, mentre combatte, contemporaneamente, contro tutti i suoi processi e, dal 2025, possibili incriminazioni.

Riuscirebbe a navigare la tempesta una Casa Bianca caotica e contradditoria, come quella del primo Trump? No. Ma il Trump 2 si annuncia molto diverso, disciplinato e coerente. Squadre di avvocati sono già al lavoro per consolidare i nuovi poteri presidenziali, mentre è in corso lo screening per reclutare il personale della nuova amministrazione. Uno screening, ha rivelato la stampa, tutto ideologico, volto ad eliminare qualsiasi nostalgico del partito repubblicano di Reagan o Bush. L’obiettivo dichiarato è mettere in marcia un’amministrazione di destra, questa volta, “efficiente”.

Efficiente, in realtà, è dire poco, per un’amministrazione che dovrebbe essere capace di rastrellare milioni di immigrati illegali, radunare migliaia di homeless in appositi campi (l’alternativa, nel programma, è la prigione), mobilitare anche i militari contro un’ipotetica ondata criminale, mentre intimidisce e riduce al silenzio l’opposizione politica.

In prospettiva, il Trump.2 non avrebbe freni. Non la magistratura, che non è in grado (altro elemento di fragilità) di rendere operative sanzioni e sentenze contro un presidente in carica. Non il vecchio partito repubblicano, i cui esponenti, nella prima presidenza Trump, hanno bloccato o vanificato molte iniziative del presidente: l’obiettivo immediato è proprio di tagliare fuori il vecchio Grand Old Party. Non, infine e soprattutto, il Congresso, dove la sola ricandidatura di Trump segnerà la sconfitta dell’establishment e il riallineamento in blocco di deputati e senatori alla nuova guida populista. Non aspettatevi un altro Mike Pence, capace di rintuzzare la rivolta del 6 gennaio.

Il Green Deal europeo in pericolo

Il Green Deal europeo, nato a fine 2019, ha mostrato grande resilienza dinanzi alle crisi che lo hanno attraversato, dalla pandemia alla crisi energetica. La legge climatica europea adottata nel 2021 ha introdotto per la prima volta un obiettivo vincolante di riduzione delle emissioni di lungo periodo e il pacchetto legislativo Fit for 55 – inclusivo di misure di adeguamento della legislazione precedente e di nuove iniziative –  ha definito standard regolatori internazionali in materia di transizione verde.

In quattro anni, il quadro normativo si è arricchito di molte nuove proposte e rinvigorite misure, facendo dell’Unione Europea un’apripista a livello globale nella definizione delle politiche a sostegno della neutralità climatica. Tra queste misure, la riforma dell’Emission Trading Scheme (ETS), la riforma delle direttive rinnovabili (REDIII), efficienza energetica (EED), performance energetica degli edifici (EPBD), e dei regolamenti sugli standard emissivi per auto e furgoni, sui settori non soggetti all’ETS (ESR) e sull’uso e modifiche d’uso del territorio e delle foreste (LULUCF), la regolamentazione delle emissioni di metano nel settore energetico e l’introduzione del meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (carbon border adjustment mechanism, CBAM).

Nel 2024 si apre per la politica climatica europea una fase delicata. Le proposte del pacchetto Fit for 55 sono per la maggior parte state adottate o hanno raggiunto la fase dell’accordo politico e dunque potranno verosimilmente chiudersi prima delle elezioni europee il prossimo giugno. Guardando alla prossima legislatura però, i maggiori rischi di stallo per il Green Deal Europeo riguarderanno principalmente l’implementazione delle numerose misure approvate in questi anni.

Grande attenzione sarà perciò dedicata ad attutire gli impatti sociali che la transizione, se condotta in modo disordinato, potrà portare con sé. Nel corso dell’anno appena passato a livello europeo si è infatti manifestata una crescente politicizzazione del tema nei dibattiti domestici di molti Stati membri. Mentre in precedenza la politica climatica era concepita come puramente tecnica, c’è ora una maggiore consapevolezza della trasformazione necessaria per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione.

In Olanda nel corso del 2023 si è affermato un movimento di protesta del settore agricolo contro la riduzione del 50%   entro il 2030 di emissioni inquinanti; in Germania, il bando delle caldaie a gas al 2024 ha scatenato reazioni anche all’interno della stessa coalizione di maggioranza. Pur riaffermando l’impegno nel perseguimento degli obiettivi del Green Deal, anche in Italia si è manifestata una crescente polarizzazione politica sul tema della decarbonizzazione. Durante il 2023, rappresentanti della maggioranza di governo hanno per esempio chiesto di diluire una direttiva volta a migliorare l’efficienza energetica degli edifici e di rivalutare i piani di eliminazione graduale dei motori termici alimentati a benzina e diesel.

Questo genere di dinamiche suggeriscono che l’agenda climatica otterrà un’inconsueta centralità nelle prossime elezioni europee e nazionali e che l’eventualità di una crescente polarizzazione sul tema rimane un rischio per la fase di implementazione del Green Deal a livello locale. Uno spostamento a destra dell’asse del Parlamento europeo potrebbe in qualche modo avere un impatto sugli sviluppi delle politiche europee ancora meno toccate dalla legislazione in materia di sostenibilità come, ad esempio, la politica agricola.

Appare invece affrettato ipotizzare una regressione delle politiche energetiche a sostegno della decarbonizzazione, mentre è possibile che ci sia una revisione della pianificazione finanziaria o, non meno preoccupante, delle tempistiche della transizione. Sul piano della governance, il 2024 sarà ugualmente un anno impegnativo: il prossimo esecutivo UE dovrà occuparsi dei target intermedi al 2040 previsti dalla legge europea sul clima.  Come previsto dal Regolamento (UE) 2018/1999 e sulla base dell’obiettivo comunitario di riduzione dei gas serra del -55 % al 2030 rispetto al 1990, i governi nazionali dovranno inoltre consolidare l’aggiornamento dei propri Piani nazionali Energia e Clima (NECPs) entro giugno 2024 secondo le direttive inviate loro dalla Commissione Europea a fine 2023.

Il 2023 è stato anche un anno significativo per un altro obiettivo del Green Deal, quello di rafforzare la competitività dell’UE nella transizione. La normativa sull’industria a zero emissioni nette (Net Zero Industry Act), emersa con la crescente geopolitizzazione e securitizzazione delle catene del valore nel contesto delle tensioni tra USA e Cina, propone una riarticolazione della decarbonizzazione intorno a filiere domestiche. Nel contesto di questo dibattito, è tornato il tradizionale dibattito in merito all’erogazione di nuovi strumenti di sostegno finanziario – con i paesi nordici a favore di schemi di sussidio nazionale, sfruttando allentamenti nella disciplina degli aiuti di stato, e paesi con ridotti margini di manovra fiscale, come l’Italia, che rischiano di non poter sfruttare le opportunità industriali della transizione.

Nel 2024, dunque, la conversazione sul più ampio Piano Industriale dell’Unione continuerà. Sarà, infine, un anno importante anche per la definizione di una più strutturata dimensione esterna del Green Deal. A partire, in particolare, dalla riconfigurazione dei flussi energetici che ha restituito una maggiore centralità al Mediterraneo, con cui la cooperazione resta tuttavia ancora embrionale e frammentata.

Un nuovo anno per le Afriche

Contrassegnato dalla sua diversità, il continente africano deve affrontare sfide significative. Le trasformazioni guidate dalla crescita demografica, dall’urbanizzazione e dalle nuove tecnologie coincidono con gli effetti del cambiamento climatico, delle crisi geopolitiche e delle nuove rivalità strategiche. Molti occhi sono ora rivolti al continente, non solo a causa delle sfide di vecchia data  che le “afriche” devono affrontare, ma soprattutto per le nuove opportunità che offrono.

Alcuni “afro-ottimisti” definiscono l’Africa come la nuova frontiera della geopolitica e dell’economia mondiale, la Cina di domani o un futuro El Dorado. Altri “afro pessimisti” la vedono come la perfetta illustrazione delle “tre parche mortali” di Malthus: guerre, epidemie e carestie.

Più realisticamente, è opportuno analizzare le opportunità, i rischi e le sfide di un continente e di Stati contrastanti, in pieno fermento, che, come un vulcano, portano fertilità, creatività e vulnerabilità. L’Africa raddoppierà la sua popolazione entro il 2050 per raggiungere circa 2 miliardi di abitanti, ovvero più del 20% della popolazione mondiale, con una percentuale crescente di giovani. Ciò può, a seconda delle strategie seguite, costituire una leva per lo sviluppo oppure una bomba a orologeria. Alcune aree verranno integrate nel “sistema mondiale” mentre altre verranno emarginate.

Nelle analisi della  grande transizione che vive il continente, occorre non solo distinguere le aree geografiche che sviluppano ciascuna proprie dinamiche, ma anche gli ambiti economici, politici e geopolitici, tenendo in debita considerazione, nel contempo, le caratteristiche comuni di un continente che sta da 60 anni dentro un processo unitario discontinuo, a tratti deludente, ma che ha finito per porre le basi di una visione panafricana condivisa e destinato  a svilupparsi nel futuro.

Economia ferita ma vivace

L’Africa è il continente più vario del mondo, sia dal punto di vista climatico, ambientale, sociale e politico, sia da quello economico e demografico. Tra i 54 Stati africani ci sono certamente alcuni tratti comuni, come l’economia della rendita, i poteri politici personalizzati, il peso dei referenti identitari rispetto ad una coscienza nazionale. Alcune economie hanno registrato una forte crescita dopo l’indipendenza (Botswana, Mauritius), mentre altre sono regredite (Madagascar, Zimbabwe). Stanno emergendo alcune potenze come il Sudafrica, l’Etiopia o la Nigeria, mentre alcuni stati sono senza sbocco sul mare o in conflitto (come la Somalia,  i due Sudan o alcuni Stati del Sahel).

Secondo il rapporto 2023  della BAD (Banca Africana dello Sviluppo), la crescita media stimata del PIL reale in Africa è rallentata al 3,8% nel 2022, rispetto al 4,8% nel 2021, a fronte delle grandi sfide seguite allo shock del Covid-19 e all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Nonostante questo rallentamento economico, 53 dei 54 paesi africani hanno mostrato una crescita positiva. Le cinque regioni del continente rimangono resilienti con prospettive stabili a medio termine.

Tuttavia, il rapporto invita anche a tener conto degli attuali rischi globali e regionali. Questi rischi includono l’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari e dell’energia, l’inasprimento delle condizioni finanziarie globali e il connesso aumento dei costi del servizio del debito interno. Il cambiamento climatico – con i suoi effetti negativi sulle forniture alimentari e il potenziale rischio di un cambiamento politico nei paesi con elezioni nel 2024 – pone minacce altrettanto temibili.

Nel 2023-24, L’Africa diventerà la seconda regione a più rapida crescita al mondo dopo l’Asia, dimostrando così la continua resilienza della sua economia, nonostante i molteplici shock globali. Ma, secondo l’edizione 2023 del rapporto della Banca africana di sviluppo intitolato “Africa Economic Outlook 2023 – Mobilitare i finanziamenti del settore privato per il clima e la crescita verde”, la crescita prevista dipenderà dalle condizioni globali e dalla capacità del continente di rafforzare la propria resilienza economica.

Si prevede un consolidamento della ripresa dall’impatto della pandemia di COVID-19, con una crescita del PIL del 4,3% nel 2024, rispetto al 3,8% del 2022. Circa 22 paesi registreranno tassi di crescita superiori al 5%. Il rapporto raccomanda azioni politiche vigorose, tra cui l’incoraggiamento delle industrie verdi e la fornitura di garanzie su larga scala per ridurre i rischi associati agli investimenti del settore privato nella gestione delle ricchezze naturali del continente. Pur evidenziandone le sfide, l’African Economic Outlook 2023 si concentra principalmente sulle opportunità per mobilitare investimenti privati ​​e know-how e sfruttare il vasto capitale naturale del continente per combattere il cambiamento climatico e promuovere la transizione verso una crescita verde.

Nel 2023-2024, le  cinque economie africane con le migliori performance nel periodo pre-Covid-19 cresceranno di media oltre il 5,5% e riconquisteranno il loro posto tra le dieci economie più dinamiche del mondo. Questi paesi sono Ruanda (7,9%), Costa d’Avorio (7,1%), Benin (6,4%), Etiopia (6,0%) e Tanzania (5,6%). Ma, più in generale, anche altri paesi africani registreranno la stessa crescita: Repubblica Democratica del Congo (6,8%), Gambia (6,4%), Libia (12,9%), Mozambico (6,5%), Niger (9,6%), Senegal (9,4%) e Togo (6,3%).

Il rapporto raccomanda l’adozione di misure forti per affrontare questi rischi, che includono un mix di politiche monetarie, fiscali e strutturali, tra cui:

– un inasprimento rapido e aggressivo della politica monetaria nei paesi con elevata inflazione e un inasprimento moderato nei paesi con basse pressioni inflazionistiche. Un efficace coordinamento delle azioni fiscali e monetarie ottimizzerà i risultati degli interventi mirati, volti a controllare l’inflazione e le pressioni di bilancio.

– Rafforzare la resilienza attraverso la stimolazione del commercio intra-africano, soprattutto per quanto riguarda i manufatti, al fine di attenuare gli effetti della volatilità dei prezzi delle materie prime sulle economie.

– Accelerare le riforme strutturali per rafforzare la capacità dell’amministrazione fiscale e investire nella digitalizzazione e nella governance elettronica per migliorare la trasparenza, ridurre i flussi finanziari illeciti e aumentare la mobilitazione delle risorse nazionali.

– Migliorare la governance istituzionale e adottare politiche in grado di mobilitare i finanziamenti del settore privato, in particolare nel contesto di progetti completamente nuovi, resistenti ai cambiamenti climatici e alle pandemie, e mobilitare le risorse dell’Africa per uno sviluppo inclusivo e sostenibile.

– Adottare azioni decisive per ridurre i deficit di bilancio strutturali e l’accumulo di debito pubblico nei paesi ad alto rischio di difficoltà debitoria o già in una situazione di difficoltà debitoria.

Questo rapporto evidenzia, inoltre, l’importante ruolo dell’immensa ricchezza naturale dell’Africa e sottolinea l’urgenza di accelerare l’azione per il clima e le transizioni verdi al fine di guidare lo sviluppo inclusivo e sostenibile del continente.

Crescita economica senza sviluppo

Tuttavia, l’attuale mancanza di  crescita economica ha contribuito a ridurre le disuguaglianze solo in modo limitato, e questo solo in un terzo dei paesi della regione. In tal modo, anche a causa della forte crescita demografica, circa un terzo della popolazione continua a vivere in estrema povertà. Attualmente, il 70% dei poveri del pianeta vive in Africa. Inoltre, i progressi compiuti in questi ultimi anni sono stati in parte minacciati dalla pandemia di COVID-19. Quest’ultima, infatti, ha già portato ad un netto calo dei trasferimenti di fondi della diaspora, una manna essenziale per molte persone. Nel 2019, questi pagamenti sono stati complessivamente più di 48 miliardi di dollari, circa l’equivalente dei fondi pubblici e globali destinati agli aiuti allo sviluppo nel continente.

Inoltre, quasi il 90% dei posti di lavoro esistenti in Africa sub-sahariana rientrano nel settore informale. Anche al di fuori dell’agricoltura – che rimane il settore dominante –, questo tasso supera il 75%. La regione soffre anche di carenza di posti di lavoro e mancanza di prospettive per i giovani. Tuttavia, è solo sviluppando il settore formale che  sarà possibile includere i più giovani, aumentare la base imponibile e garantire un’assicurazione sociale, favorendo così l’emergere di una classe media con un certo potere d’acquisto.

L’innovazione è un importante motore di crescita anche in Africa,  dove vive un’imprenditorialità giovane e dinamica, che investe in start up e incubatori. Un altro potenziale motore di crescita risiede nella sua ricchezza di materie prime. La dipendenza da quest’ultimo, però, comporta anche dei rischi, legati alla fragilità del settore di fronte agli shock dei fattori esterni, nonché al debito e alla corruzione. Anche la ricchezza delle materie prime contribuisce solo debolmente alla prosperità della popolazione e rappresenta, seppur parzialmente, un ostacolo alla diversificazione economica. Tuttavia, questa diversificazione è essenziale per lo sviluppo di un’economia sostenibile.

Proprio l’impoverimento di massa, nonostante statistiche ottimiste, merita una profonda analisi per le ripercussioni che ha sui processi politici e geopolitici. Occorre, a nostro avviso,  archiviare gli entusiasmi esagerati dei processi di democratizzazione che non hanno portato democrazia ma “democrature” pressoché’ ovunque, persino in Senegal, una volta vetrina di democrazia. Organizzare elezioni, avere formali istituzioni scimmiottate da modelli extra africani, imitare modelli autocratici cinesi o russi, non rispettare la libertà di stampa, rendere eterna la permanenza al potere, mettere la museruola agli oppositori, clochardizzare un intero popolo nelle città e nelle campagne non significa democratizzare l’Africa.

Trentaquattro anni d’inganno democratico (1990-2024) devono cessare. E, nella loro complessità e ambiguità, i colpi di stato evidenziano la stanchezza e la delusione dei popoli nei confronti di questa parodia di democrazia dell’uomo solo al comando. Si riparta da zero con l’affermazione solenne che non c’è democrazia senza l’accesso di tutti ai beni essenziali. Basic needs are basic rights deve diventare il motto dei processi della nuova democratizzazione del continente. E questa scelta la devono fare gli africani, senza l’alibi del cattivo colonizzatore che opprime. La democrazia, prima ridà la vita alla maggioranza, poi cerca le vie istituzionali per la partecipazione e la gestione del potere. Solo a partire da questo si potranno capire le dinamiche politiche e geopolitiche in corso nel continente e che saranno oggetto della nostra attenzione nelle prossime edizioni dell’Africa che verrà nel 2024.