

Minerali strategici e sicurezza: verso un nuovo accordo USA-RDC
di Iacopo Andreone
A inizio marzo, il consigliere per l’Africa della Casa Bianca Massad Boulos ha incontrato a Kinshasa il presidente della Repubblica Democratica del Congo Félix Tshisekedi, rilanciando la proposta, avanzata precedentemente da parte congolese, di un’intesa bilaterale incentrata su minerali critici e sicurezza. L’accordo, i cui termini sono ancora da definire, prevederebbe l’accesso preferenziale degli Stati Uniti ai giacimenti di minerali dal valore strategico – tra cui cobalto, rame e litio – in cambio di supporto contro l’avanzata dei ribelli dell’M23, attivi nell’est del Paese. Il gruppo ribelle ha esteso negli ultimi mesi il suo controllo su aree ricche di risorse naturali, grazie soprattutto al supporto diretto del Ruanda, come anche confermato da fonti delle Nazioni Unite.
Sul terreno, la situazione resta instabile: l’offensiva dell’M23 ha provocato nuovi sfollamenti, paralizzato le attività economiche e aggravato la crisi umanitaria, mentre l’esercito congolese fatica a contenere l’avanzata del gruppo ribelle. Il 23 aprile, la RDC e l’M23 hanno annunciato un impegno congiunto per raggiungere un cessate il fuoco, grazie alla mediazione del Qatar. Entrambe le parti si sono impegnate a cessare immediatamente le ostilità e a proseguire il dialogo per raggiungere un accordo definitivo. Contemporaneamente, rappresentanti dei governi di Kinshasa e di Kigali si sono incontrati a Washington e si sono impegnati al raggiungimento di un accordo di pace entro maggio, grazie alla mediazione del governo americano.
La RDC detiene oltre il 60% della produzione globale di cobalto, un minerale cruciale per batterie, veicoli elettrici e tecnologie verdi. Ad oggi, la Cina controlla circa il 70% della raffinazione mondiale di cobalto e ha acquisito numerose concessioni minerarie in territorio congolese attraverso una rete di aziende statali e joint ventures. Per Washington, rompere questa egemonia vorrebbe dire costruire filiere alternative, più resilienti e politicamente sicure, a costo però di un maggiore coinvolgimento diretto nel conflitto regionale.
I termini dell’accordoI dettagli dell’intesa tra Stati Uniti e Repubblica Democratica del Congo non sono ancora stati ufficializzati. Tuttavia, da fonti vicine all’esecutivo congolese emergono alcune linee guida. Washington potrebbe essere disposta a investire nel potenziamento della sicurezza congolese, con particolare attenzione all’addestramento delle forze armate congolesi, al supporto tecnico contro i gruppi armati e alla fornitura di intelligence. In cambio, Kinshasa offrirebbe l’accesso diretto – tramite concessioni – a una serie di giacimenti minerari, soprattutto nelle province meridionali di Lualaba e dell’Alto Katanga, dove operano già grandi società multinazionali provenienti da tutto il mondo. Tali aree, peraltro, sono considerate strategiche non solo per la presenza di cobalto e rame, ma anche per la vicinanza a infrastrutture già consolidate.
Un elemento rilevante è l’intenzione americana di strutturare l’intesa come parte di una strategia su più livelli di cooperazione: non solo tramite contratti bilaterali, ma anche investimenti in infrastrutture, energia e digitalizzazione, eventualmente integrati in progetti già avviati dalla Banca Mondiale o dall’International Development Finance Corporation. Il coinvolgimento di partner multilaterali consentirebbe inoltre di ridurre i costi iniziali e aumentare l’appeal dell’accordo presso investitori privati, in particolare nel settore delle tecnologie verdi.
In questo quadro, l’accordo rappresenterebbe una risposta mirata all’influenza cinese, ma anche un banco di prova per un diverso modello di cooperazione. Resta però da capire in che misura le autorità congolesi riusciranno a far valere i propri interessi, evitando che la logica dello scambio risorse-sicurezza finisca per riprodurre schemi già visti in passato, spesso poco vantaggiosi per la parte africana. L’efficacia dell’intesa dipenderà anche dalla sua capacità di generare effetti concreti a livello locale in ambito economico e infrastrutturale.
La posta in giocoLa corsa al controllo dei minerali critici è ormai uno dei principali fattori di tensione nello scenario globale contemporaneo. Il cobalto, elemento indispensabile per la produzione di batterie al litio e tecnologie a basse emissioni, è ormai un fattore centrale della sicurezza energetica delle grandi potenze. La Repubblica Democratica del Congo, da sola, ne produce oltre il 70% a livello mondiale. Un primato che, in assenza di istituzioni stabili e infrastrutture adeguate, si è tradotto in una fragilità sistemica: il settore è dominato da interessi stranieri, segnato da corruzione, sfruttamento e conflitti ricorrenti, in particolare nelle province orientali.
La Cina ha saputo inserirsi in questo vuoto con una strategia di lungo periodo. Attraverso una rete articolata di acquisizioni e joint ventures, Pechino ha consolidato la propria presenza in RDC, spesso approfittando della debolezza contrattuale delle controparti locali. Il gruppo China Molybdenum (primo produttore al mondo), così come altre imprese statali e veicoli di investimento legati al governo come Zijin Mining o Huayou Cobalt, ha ottenuto concessioni minerarie strategiche, in alcuni casi a condizioni opache. Questo le ha consentito di esercitare un controllo quasi monopolistico non solo sull’estrazione, ma anche sulla fase di raffinazione e trasporto, rendendo la Cina un attore imprescindibile per l’intera filiera globale del cobalto.
L’iniziativa americana potrebbe evolvere in un tentativo esplicito di ridefinire gli equilibri nella regione. Non si tratta soltanto di ottenere accesso a nuove risorse, ma di riscrivere le regole di una filiera strategica. Washington punta a creare alternative alla dipendenza cinese, promuovendo standard ambientali e lavorativi più elevati, e integrando la filiera africana in partenariati con Paesi alleati, come previsto anche nel framework del Minerals Security Partnership, approccio mirato a ridurre le asimmetrie attuali, ma che implica sfide rilevanti in termini di tempi, capacità industriale e credibilità politica.
Tuttavia, questa visione si scontra con la realtà sul terreno: i costi logistici, le tensioni etniche e l’instabilità delle province orientali – dove persistono milizie armate come l’M23 – rendono difficile qualsiasi tentativo di intervento diretto. La presenza crescente di attori regionali, come il Ruanda e l’Uganda, accentua la complessità geopolitica e rende difficile delimitare con chiarezza i confini tra interessi economici, dinamiche militari e alleanze politiche. Il controllo delle risorse essenziali per la transizione energetica sta progressivamente assumendo i contorni di una frizione sistemica. Al centro di questo accordo c’è una partita più ampia: l’equilibrio industriale tra Stati Uniti e Cina. Il controllo delle risorse chiave per la transizione energetica sta diventando un nuovo terreno di confronto strategico, dove la superiorità cinese nel settore delle batterie rischia di essere messa in discussione. La RDC si ritrova così al centro di una competizione che ha tutte le caratteristiche di un nuovo fronte di una nuova guerra fredda tecnologica.
Droghe e precursori: giocare d’anticipo sulla traiettoria
È sempre più orientato verso la Cina e l’India il baricentro del sistema mondiale di produzione delle droghe sintetiche. Proprio da questi paesi la criminalità organizzata si rifornisce dei cosiddetti precursori.
Si tratta di sostanze chimiche non necessariamente legate alla produzione di sostanze psicoattive illecite. Da esse si ricavano anche prodotti leciti, come medicinali, materie plastiche, cosmetici… Per questo la criminalità organizzata molto raramente si avventura nella produzione di queste sostanze – che andrebbe ad appesantire la sua infrastruttura produttiva – preferendo rifornirsi dal mercato lecito per piegarlo poi ai propri interessi.
Dalla Terra del Dragone con furoreCina e India – fornitore emergente secondo la DEA (Drug Enforcement Agency) – guidano la produzione di precursori in generale e specificatamente di quelli necessari alla lavorazione del fentanyl da strada, secondo il metodo Siegfried, come 4-anilin-N-fenetilpiperidina (ANPP) e N-fenetil-4-piperidone (NPP), oltre alle sostanze a struttura simile al prodotto ricercato come il butyrfentanyl.
Le modalità di occultamento e spedizione di questi prodotti includono tecniche sempre più raffinate che vanno dall’uso di spedizionieri negli Stati Uniti, false etichette di ritorno, false fatture, affrancature fraudolente e imballaggi ingannevoli. I produttori comunicano abitualmente con i potenziali clienti su piattaforme criptate e accettano pagamenti in criptovaluta, riducendo così il rischio di essere scoperti dalle forze dell’ordine.
I cartelli messicani di Sinaloa e Jalisco Nueva Generaciòn (CJNG), i due più grossi produttori e trafficanti di fentanyl a livello mondiale, si riforniscono direttamente da fornitori cinesi e indiani attraverso un’intricata rete di intermediari al fine di mascherarne ogni possibile traccia utile agli investigatori internazionali.
Insight Crime della DEA per due anni ha condotto un’indagine individuando, tra l’altro, almeno 188 aziende chimiche cinesi che producono e commerciano precursori, concentrate per il 63% nelle province di Hebei e Hubei, a cui si uniscono Guangdong e Zhejiang, realtà che nella Repubblica Popolare Cinese sono tra le province a più alto reddito pro-capite. Nella sola città di Shenzhen, proprio nel Guandong, nel 2015, sono stati contati più miliardari che in tutta l’Italia.
Nel giugno del 2022, nell’Hebei, il governo centrale cinese ha condotto l’operazione “100 giorni” per reprimere le bande e le reti della criminalità organizzata dopo un’ondata di incidenti violenti. Il Ministero della Pubblica Sicurezza ha arrestato più di 27.000 persone nella provincia, ha registrato 297 reati legati alla droga, smantellato 41 bande locali, iniziando a indagare su 15 funzionari pubblici accusati di proteggere queste organizzazioni criminali, secondo quanto riportato dal Global Times, agenzia di notizie cinesi in lingua inglese.
Negli ultimi dieci anni, l’industria biofarmaceutica cinese ha visto una notevole crescita, con previsioni che indicano un possibile aumento dai 345,7 miliardi di renminbi (47,60 miliardi di dollari) del 2020 a 811,6 miliardi di renminbi (111,76 miliardi di dollari) nel 2025 (+135% in cinque anni). Analogamente, la capitalizzazione di mercato delle aziende biofarmaceutiche cinesi è cresciuta da 1 miliardo di dollari nel 2016 a oltre 200 miliardi di dollari nel 2020.
Dal 2010 al 2020, in Cina sono state lanciate 141 nuove aziende farmaceutiche e biotecnologiche, il doppio rispetto al decennio precedente, beneficiando di investimenti internazionali, tra i quali quelli statunitensi, non immuni da rischi legati a possibili conflitti geopolitici.
Se, per ovvie ragioni, non è possibile fermare la commercializzazione di questi prodotti, gli stessi possono rappresentare, però, importanti tracce rispetto al disvio, in grado di condurre gli investigatori alla catena globale di approvvigionamento del fentanyl e di altre produzioni di sostanze illecite.
Nella Repubblica Popolare Cinese sono in vigore diverse normative sui precursori chimici. Tra queste figurano: il Regolamento sull’amministrazione dei precursori chimici, emanato nel 2005 dal Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese; le Disposizioni sull’amministrazione dell’importazione e dell’esportazione di precursori chimici e sull’amministrazione del controllo internazionale sull’importazione e l’esportazione di precursori chimici e le Misure di autorizzazione per la produzione e l’esercizio di precursori chimici non farmaceutici (2006) e la Legge sul controllo degli stupefacenti della Repubblica Popolare Cinese (2007). Questi regolamenti classificano le sostanze chimiche in tre categorie: sostanze ad alto rischio, precursori e altre materie prime. Tuttavia, le normative rimangono poco rigorose per quanto riguarda i precursori chimici del fentanyl. L’attuazione di queste norme resta di difficile monitoraggio soprattutto a livello locale.
Basti dire che in Cina potrebbero esserci fino a 160.000 aziende chimiche che operano legalmente o illegalmente. L’applicazione delle leggi esistenti per questi settori è spesso cooptata dalla corruzione che rappresenta un ostacolo soprattutto al monitoraggio sulle azioni dei grandi industriali.
È necessaria una cooperazione a livello internazionale così come politiche locali mirate non a colpire i consumatori ma a tutelarli dai rischi e dai danni del consumo.
Non si arresta il narcotraffico con velleitarie politiche di dazi e inasprimento di pene e sanzioni, gli interessi globali legati alle droghe necessitano di misure articolate e multidirezionali.
Non comprendere o misconoscere tutto ciò significa assumersi una complicità forse indiretta ma certamente non meno colpevole rispetto a chi non è disposto ad accontentarsi delle trite e ideologiche narrazioni su consumo e dipendenza patologica.
Le missioni italiane all’estero nel 2025: focus geografico e priorità strategiche
Il decreto missioni, accompagnato dall’audizione davanti alle Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato del Capo di Stato Maggiore della Difesa Luciano Portolano, fornisce un quadro dettagliato dell’impegno del dispositivo militare italiano nelle missioni all’estero. Partendo dalle priorità delineate dal Generale Portolano, si riscontrano degli aspetti rilevanti, tra i quali: l’impegno in Africa e Medio Oriente con riferimento al contrasto di attori destabilizzanti, alla sicurezza energetica e alla garanzia di accesso all’approvvigionamento di materie prime; l’istituzione di forze ad altissima prontezza operativa per il fianco est NATO; il dibattito circa l’opportunità della continuazione di Strade Sicure.
Per quanto riguarda il focus geografico dell’impegno militare all’estero il Mediterraneo allargato rappresenta il fulcro delle attività italiane, che orientare a garantire la sicurezza in un’area caratterizzata da un accresciuto livello di volatilità. Le priorità si delineano nel contributo alla stabilizzazione in Medio Oriente, nel Sahel e nel Golfo di Guinea, e nella partecipazione agli sforzi relativi alla sicurezza e alla stabilizzazione nel Corno d’Africa e nel Mar Rosso. Al tempo stesso, alla luce della guerra in Ucraina il fianco est dell’alleanza rimane al centro degli sforzi italiani nel contribuire alla deterrenza nella cornice dell’Alleanza Atlantica, in particolare nelle Repubbliche Baltiche e in Bulgaria.
In termini di risorse il decreto prevede uno stanziamento complessivo di 1,92 miliardi, che segnano un aumento rispetto ai 1,82 del 2024 e 1,72 del 2023, confermando il trend crescente. Le missioni attualmente in corso secondo quanto riferito dal Generale Portolano sono 39. Il decreto riporta inoltre una consistenza media di 7.750 unità ed un contingente massimo autorizzato di 12.100 unità.
Le novità: forze ad alta e ad altissima prontezza operativaPer quanto concerne le nuove schede il decreto ne presenta una sola, relativa all’istituzione di una forza ad alta e ad altissima prontezza operativa. Con una consistenza massima pari a 2.867 unità ed una composizione degli assetti che si configura in 359 mezzi terrestri, 4 mezzi navali, 15 mezzi aerei, queste forze rispondono alla necessità di maggiore flessibilità e tempestività nella proiezione internazionale dello strumento militare, per far fronte alla crescente mutevolezza ed imprevedibilità del quadro strategico. Questo pone la loro istituzione in linea con le logiche della riforma della legge 145/2006, ovvero con l’adattamento delle dinamiche di impiego dello strumento militare all’estero ad un contesto caratterizzato da sempre maggiore volatilità ed incertezza.
La costituzione di queste forze risponde alle necessità espresse in ambito NATO, ed in particolare il documento esplicita che possano alimentare il contingente nazionale nelle Allied Reaction Forces (ARF). Nonostante il documento faccia riferimento ad un’area di impiego particolarmente ampia, in quanto corrispondente con quella interessata da una presenza di personale nazionale, è evidente come una tale capacità sia concepita come elemento di rafforzamento per il fianco orientale dell’Alleanza. L’istituzione delle forze ad alta e ad altissima prontezza operativa rappresenta dunque un contributo diretto all’impegno in termini di deterrenza e difesa in seno all’Alleanza.
L’impegno (bilaterale) in AfricaL’impegno in Africa conferma la visione strategica per il continente già espressa nel Documento Programmatico Pluriennale, ed in particolare la sinergia dell’impiego dello strumento militare con il Piano Mattei. La presenza in Africa è funzionale al contrasto dei traffici illeciti, al contenimento degli effetti destabilizzanti della presenza di attori come Russia e Cina e conseguentemente alla stabilizzazione dei Paesi partner nella regione, con un ruolo chiave sia nel garantire la stabilità del fianco sud sia nell’attuazione del Piano Mattei. In Africa si riscontra un’enfasi sull’approccio bilaterale, soprattutto in aree come il Sahel, dove in Niger il contingente italiano è l’unico occidentale a permanere con la missione MISIN a seguito del colpo di stato che ha portato all’estromissione degli altri contingenti stranieri. La presenza italiana si estende anche al confinante Burkina Faso con una missione di supporto bilaterale che congiuntamente a MISIN prevede l’invio di 550 unità. Questo impegno dovrebbe rafforzare la presenza italiana nella fascia Saheliana, che allo stato attuale vede una forte influenza russa, come testimoniato dalle partnership in materia di sicurezza e difesa siglate da diverse giunte militari con Mosca.
In un’ottica di stabilizzazione della sponda sud del Mediterraneo e di contrasto alla migrazione illegale sono state prorogate le missioni bilaterali in Tunisia e in Libia, nonché la missione ONU UNSMIL in Libia e la missione Nato denominata “Implementation of Enhancement of the Framework for the South”. Per queste quattro missioni è previsto l’invio di 223 unità e 10 mezzi terrestri. L’impiego militare sia in una dimensione bilaterale che in una multilaterale conferma l’impegno dell’Italia nel mantenere le attività di stabilizzazione in questo quadrante nell’agenda delle organizzazioni internazionali, mentre lavora al rafforzamento delle relazioni su base bilaterale anche in considerazione di una progressiva entrata in crisi dell’approccio multilaterale al continente africano, che per il momento è maggiormente accentuata nella fascia sub-sahariana.
Medio Oriente e missioni navaliIn Libano prosegue l’impegno su base multilaterale con la missione UNIFIL, e a livello bilaterale con la missione MIBIL. Impegno divenuto particolarmente complesso a seguito dell’avvio di operazioni militari da parte delle forze armate israeliane nel sud del Paese ad ottobre 2024, il che ha portato ad una richiesta di revisione delle regole di ingaggio da parte del Ministro Crosetto. Alla presenza in Libano si aggiunge quella dell’operazione bilaterale MIADIT in Cisgiordania, consolidando la presenza italiana in un’area che dall’ottobre 2023 è stata caratterizzata da un conflitto in espansione, da Gaza al Libano. L’Italia mira a profilarsi come attore direttamente coinvolto nelle dinamiche di interposizione e stabilizzazione e come fornitore di sicurezza, con un’ambizione di mediazione a livello politico. Per le tre missioni nell’area è previsto l’impiego di 1.650 unità, la maggior parte delle quali dedicata ad UNIFIL.
Nell’area mediterranea e mediorientale rileva poi la proroga delle missioni navali interforze ASPIDES e ATLANTA, volte a garantire la libertà dei traffici marittimi nell’arteria che conduce al Mar Mediterraneo attraverso il Mar Rosso, oltre alla missione IRINI, il cui obiettivo principale è la verifica del rispetto dell’embargo sulle armi imposto alla Libia, ma che fornisce anche un supporto significativo al contrasto alla migrazione illegale, dossier sempre più politicamente rilevante anche a livello europeo.
L’impegno sul fianco est dell’AlleanzaIl decreto prevede un consolidamento del contributo italiano al mantenimento della deterrenza sul fianco orientale della NATO. In particolare, verrà data priorità all’innalzamento a livello di brigata del Forward Land Forces Battle Group in Bulgaria di cui l’Italia è framework nation, un’operazione già avviata dalla Germania in Lituania nell’aprile 2024. E’ confermato inoltre il contingente italiano nei battle group in Lettonia e Ungheria. Il dispiegamento complessivo in ambito NATO nei tre Paesi è pari a 2.323 unità e 1.046 mezzi terrestri. Viene inoltre rafforzato il contributo all’Air Policing a all’Air Shielding della NATO, con 15 mezzi aerei e 375 unità di personale, rispetto ai 12 mezzi e alle 300 unità del 2024.
Relativamente al fianco est viene inoltre ribadito il supporto all’Ucraina, in particolare con riferimento alla missione di addestramento EUMAM-Ucraina, che si svolge sul territorio degli stati membri dell’Unione Europea, e alla missione NATO di supporto e addestramento NSATU. Per queste due missioni, rispetto al 2024 il dispiegamento di unità ha subito un incremento significativo, passando da 80 a 231, in linea con il più volte ribadito impegno a livello politico a favore dell’Ucraina.
La necessità di riconfigurare l’operazione Strade SicureDurante l’audizione del Generale Portolano è stata dibattuta l’effettiva opportunità del persistere dell’Operazione Strade Sicure, che secondo quanto previsto dalla Legge di Bilancio 2025 vede confermata la dotazione di 6.000 unità, e che dal 2025 al 2027 vedrà un’integrazione di 800 unità ogni anno per il controllo e la sicurezza delle principali infrastrutture ferroviarie. A fronte, dunque, di una maggiore enfasi sulla preparazione per un conflitto ad alta intensità e di un proliferare di focolai di instabilità all’estero, prosegue l’impegno dell’esercito in attività di polizia particolarmente drenanti a livello di personale e risorse, oltre che molto lontane dai pilastri che dovrebbero definire le logiche di impiego delle forze armate, prima fra tutte la difesa territoriale.
Il Generale Portolano ha riconosciuto la necessità di elaborare valutazioni sulla persistenza della minaccia che ha portato all’istituzione di questa missione, ed ha espresso l’opportunità di rivalutare le modalità di impiego per diminuire il personale ad essa dedicato ed aumentarne l’efficienza e l’efficacia. Da questo punto di vista una possibile soluzione da lui prospettata è quella del passaggio dal pattugliamento statico a quello dinamico, che permetterebbe di ridurre il numero di unità dedicate al presidio di una data area.
Uno sguardo in avantiAnche per il 2025, si conferma un elevato grado di ambizione, rappresentato da un alto numero di missioni in molteplici quadranti, dal Maghreb al Baltico. Nonostante la conferma di un trend crescente per quanto concerne il finanziamento si riscontra ancora una discrepanza tra obiettivi e risorse, che rispecchia la necessità a livello più ampio di un effettivo incremento della spesa per la difesa.
Inoltre, relativamente alle missioni in cui è impegnato il dispositivo militare emerge un’evidente idiosincrasia nella persistenza di un’operazione come Strade Sicure mentre ci si adegua alle necessità di un conflitto ad alta intensità con l’istituzione delle forze ad alta e ad altissima prontezza operativa. E’ dunque necessario raggiungere una maggiore omogeneità e chiarezza a livello di valutazioni strategiche, adeguando di conseguenza la preparazione e l’impiego delle forze armate.
I liberali di Carney vincono le elezioni in Canada
Martedì 29 aprile, dopo aver vinto le elezioni canadesi e aver riportato il suo partito liberale a un altro mandato al potere, il primo ministro Mark Carney si è impegnato a battere gli Stati Uniti nella guerra commerciale di Donald Trump.
La Cina ha risposto alla vittoria di Carney dicendosi disponibile a migliorare i legami, mentre il Regno Unito si è congratulato con lui e il capo dell’Unione Europea ha dichiarato che il blocco lavorerà con lui per “sostenere un commercio libero ed equo“.
Dopo una campagna elettorale dominata dai dazi e dalle minacce di annessione di Trump, Carney ha promesso di tracciare “un nuovo percorso” in un mondo “fondamentalmente cambiato” da Stati Uniti nuovamente ostili al libero scambio. “Abbiamo superato lo shock del tradimento americano, ma non dovremmo mai dimenticare la lezione”, ha dichiarato Carney, che ha guidato le banche centrali di Canada e Gran Bretagna prima di entrare in politica all’inizio di quest’anno. “Vinceremo questa guerra commerciale e costruiremo l’economia più forte del G7”, ha dichiarato.
I liberali di Carney hanno ottenuto la maggioranza in parlamento, ma potrebbero non raggiungere la maggioranza assoluta. Questo richiederà accordi con i partiti più piccoli, ma segna comunque una straordinaria rimonta per i liberali, che all’inizio dell’anno sembravano destinati a una sonora sconfitta elettorale.
Il Partito Conservatore di Pierre Poilievre era sulla buona strada per ottenere la vittoria, ma gli attacchi di Trump, uniti alla partenza dell’impopolare ex primo ministro Justin Trudeau, hanno trasformato la situazione.
Carney, che ha sostituito Trudeau come primo ministro solo il mese scorso, ha convinto gli elettori che la sua esperienza nella gestione delle crisi economiche lo rendeva il candidato ideale per affrontare Trump.
Poilievre, il cui partito era sulla buona strada per formare una forte opposizione, ha ammesso la sconfitta e ha promesso di collaborare con i liberali per contrastare Trump. “Metteremo sempre il Canada al primo posto”, ha dichiarato Poilievre ai sostenitori a Ottawa. “I conservatori lavoreranno con il primo ministro e con tutti i partiti con l’obiettivo comune di difendere gli interessi del Canada e di ottenere un nuovo accordo commerciale che ci lasci alle spalle questi dazi proteggendo la nostra sovranità”.
Il leader britannico Keir Starmer si è congratulato con Carney, aggiungendo che il Regno Unito e il Canada sono “i più stretti alleati, partner e amici”. “La nostra partnership si basa su storia e valori condivisi e non vedo l’ora di rafforzare i nostri legami”, ha dichiarato il Primo Ministro Starmer in un comunicato.
La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha dichiarato di essere impaziente di lavorare con Ottawa per “difendere i nostri valori democratici condivisi, promuovere il multilateralismo e sostenere un commercio libero ed equo”.
Il Ministero degli Esteri cinese si è detto “pronto a sviluppare le relazioni Cina-Canada basate sul rispetto reciproco, l’uguaglianza e il mutuo beneficio”. Negli ultimi anni, tuttavia, le relazioni tra i due Paesi sono state difficili: Ottawa e Pechino sono attualmente coinvolte in una disputa commerciale riguardante le esportazioni di tecnologia e agricoltura.
La vittoria dei liberaliQuando è stata annunciata la vittoria dei liberali, nella sede di Ottawa i sostenitori del partito hanno iniziato a festeggiare. “Abbiamo qualcuno che può parlare con il signor Trump alla sua maniera”, ha dichiarato Dorothy Goubault, 72 anni. “Il signor Trump è un uomo d’affari. Anche il signor Carney è un uomo d’affari, e credo che entrambi possano relazionarsi”.
Il legislatore liberale e membro del gabinetto di Carney, Steven Guilbeault, ha associato il risultato a Trump. “I numerosi attacchi del Presidente Trump all’economia canadese, ma non solo all’economia, anche alla nostra sovranità e alla nostra stessa identità, hanno davvero mobilitato i canadesi”, ha dichiarato alla CBC. Ha affermato che i canadesi vedono Carney come “un esperto di economia”.
Carney ha guidato la Banca del Canada durante la crisi finanziaria del 2008-2009 e ha diretto la Banca d’Inghilterra durante le turbolenze legate al voto sulla Brexit del 2016.
Le dimissioni di TrudeauLa partenza di Trudeau è stata cruciale per la vittoria dei liberali, che ha segnato una delle svolte più drammatiche della storia politica canadese.
Il 6 gennaio, giorno in cui Trudeau ha annunciato le sue dimissioni, i conservatori erano in vantaggio sui liberali di oltre 20 punti nella maggior parte dei sondaggi, mentre l’opinione pubblica, esasperata dall’aumento dei costi durante il decennio di governo di Trudeau, manifestava la propria rabbia.
Carney si è distanziato da Trudeau per tutta la campagna elettorale. Ha affermato che l’ex primo ministro non si è concentrato abbastanza sulla crescita dell’economia canadese e ha eliminato la controversa carbon tax di Trudeau, cosa che ha fatto infuriare molti elettori.
Per Poilievre, quarantacinquenne in parlamento da due decenni, il risultato è stato una sconfitta bruciante. Poilievre è stato criticato per la sua apparente mancanza di reazione nei confronti di Trump, ma ha dichiarato di voler mantenere l’attenzione sulle questioni interne. Ha cercato di convincere gli elettori che Carney avrebbe semplicemente offerto una continuazione del fallimentare governo liberale.
Al watch party dei conservatori a Ottawa, Jason Piche ha dichiarato all’Afp di essere rimasto sorpreso dal risultato. “Speravo di poter festeggiare alla grande stasera”, ha dichiarato Piche.
di Michel Comte e Ben Simon
© Agence France-Presse
Cento giorni di Donald Trump alla Casa Bianca
Cento giorni di Donald Trump alla Casa Bianca: un bilancio che lui giudica “trionfale”, ma che elettori, giudici ed analisti bocciano. La popolarità del magnate presidente è in calo, quella di Elon Musk va a picco.
Le proposte di Trump difficilmente realizzabili per porre fine alla guerra russo-ucraina
Nona Mikhelidze, responsabile di ricerca del programma Attori Globali dell’Istituto Affari Internazionali, è intervenuta alla trasmissione Spazio Transnazionale di Radio Radicale, condotta da Francesco De Leo. Mikhelidze ha commentato le proposte avanzate da Donald Trump per l’avvio di negoziati tra Russia e Ucraina, soffermandosi in particolare sulla questione della Crimea, sul gasdotto Nord Stream 2 e sulle narrative mediatiche riguardanti le prospettive di una trattativa.
Palestina: il Consiglio per i diritti umani invoca il rispetto del diritto all’autodeterminazione.
Il conflitto nella Striscia di Gaza continua senza sosta e alle organizzazioni internazionali non resta altro che ribadire alcuni punti di diritto e questo malgrado, al di là dei crimini nella Striscia di Gaza, continui senza sosta l’occupazione dei Territori palestinesi in totale disprezzo, da parte di Israele, degli obblighi di diritto internazionale. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha diffuso un’infografica a marzo 2025 che tiene conto della situazione in Cisgiordania dal 1° novembre 2023 al 31 ottobre 2024 (infografica). Nella zona di West Bank i coloni israeliani sono ben 737,332, con un boom di nuove case e di appropriazione dei territori. Non solo. Sono aumentate le restrizioni alla libertà di circolazione a danno dei palestinesi con numerosi checkpoint e gravi ripercussioni sulla situazione economica dei palestinesi, senza dimenticare che il 50% degli agricoltori palestinesi è stata privata della possibilità di continuare a coltivare gli alberi di ulivo. Sono state 1.179 le strutture abitative distrutte. Il Consiglio per i diritti umani dell’ONU prova ad accendere nuovamente i riflettori sulla situazione e ha adottato, nel corso della 58esima sessione, una risoluzione sugli insediamenti israeliani nei territori occupati, inclusa Gerusalemme est e le alture del Golan, in cui gli insediamenti dei coloni sono arrivati a 20.000 (Palestina).
Sempre il 5 aprile, il Consiglio per i diritti umani ha approvato la risoluzione sul diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione (autodeterminazione). Eppure, anche in questo caso, in cui non si fa altro che ribadire principi codificati nell’ordinamento internazionale, la Repubblica Ceca e la Macedonia del Nord hanno votato contro e Congo e Repubblica domenicana si sono astenuti. Quarantatré i voti a favore.
La risoluzione, approvata nel corso della 58esima sessione, non aggiunge molto altro rispetto ad altri atti già approvati in passato, ribadisce che dopo 57 anni non è stata posta ancora fine all’occupazione israeliana e che dalla risoluzione n. 181 dell’Assemblea generale del 29 novembre 1947 sono passati 77 anni senza che la questione palestinese sia stata risolta. Nella risoluzione si chiede a Israele, in quanto potenza occupante, di cessare dall’occupazione, inclusa quella di Gerusalemme est. Inoltre, il Consiglio ha espresso profonda preoccupazione per i cambiamenti demografici nei Territori palestinesi occupati dovuti all’incremento degli insediamenti israeliani e del trasferimento forzato della popolazione palestinese.
Il Consiglio, ribadito che l’unica soluzione è quella di due Stati, invita i Governi a non riconoscere le situazioni territoriali frutto di una violazione di norme imperative del diritto internazionale al fine di garantire l’autodeterminazione del popolo Palestinese e chiede a Israele la cessazione di tutte le pratiche in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite.
Il dilemma Starlink: le implicazioni dell’accordo per l’Italia
Dopo la rivelazione di Bloomberg di un potenziale accordo da €1,5 miliardi tra il governo Meloni e Starlink, servizio di connettività satellitare offerto da SpaceX, la compagnia aerospaziale di proprietà di Elon Musk, si è creata molta confusione nell’opinione pubblica italiana circa quale sarebbe l’utilizzo di Starlink in Italia e quali sarebbero i rischi e benefici connessi. Per quanto non abbia rivali da un punto di vista tecnologico, Starlink comporta dei rischi circa la sicurezza dei dati, il mantenimento del servizio e l’incolumità da attacchi informatici che rendono il suo utilizzo nell’ambito governativo-militare molto più problematico di un eventuale utilizzo civile.
Ma cos’è Starlink?Starlink è un sistema satellitare privato che permette connessione internet a banda larga tramite una ‘costellazione’ di settemila satelliti in orbita terrestre bassa (500 km dalla terra). È slegato quindi dalla tradizionale infrastruttura a terra come ripetitori e cavi ottici e consente l’accesso a internet da qualsiasi luogo in qualsiasi momento. Queste caratteristiche, insieme alla riduzione dei costi di lancio, dovuta all’uso dei razzi riutilizzabili Falcon 9 di SpaceX, hanno permesso a Starlink di avere oggi una posizione quasi monopolistica nel mercato delle comunicazioni satellitari. Le alternative europee non forniscono prestazioni concorrenziali rispetto a quelle di Starlink: il progetto europeo Iris2 diventerà disponibile solo nel 2030, mentre la franco-britannica Oneweb attualmente dispone solo di 640 satelliti e risulta molto più costosa.
Per cosa verrebbe utilizzato in Italia?Posto che in Italia Starlink è già disponibile per i privati, un eventuale accordo con il governo potrebbe coprire due ambiti.
Da un lato, l’indipendenza dall’infrastruttura a terra rende Starlink adatto per l’utilizzo in ambito civile, soprattutto per fornire connessione internet alle zone più remote del paese e in situazioni emergenziali. Starlink ha già provato la sua utilità durante l’alluvione in Emilia-Romagna (2023), riuscendo a garantire connessione non solo ai privati, ma anche alle amministrazioni locali e agli ospedali. La fornitura di internet a banda larga nelle zone meno connesse del paese è già un obiettivo del Piano Italia a 1 Giga, finanziato dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e affidato a Open Fiber e Fibercop in seguito a gara regolarmente svolta. Per quanto queste aziende stiano avendo difficoltà nel completare il progetto in tempo, affidare un incarico simile a Starlink, che non ha partecipato formalmente alla gara, comporterebbe per il governo problemi di legalità e di compatibilità con le condizioni per ricevere i fondi Ue (velocità di trasmissione di almeno 1 GB al secondo).
Dall’altro lato, l’accordo rivelato da Bloomberg riguardava un sistema di comunicazione crittografata per le comunicazioni governative e militari. Per ora le forze armate e le ambasciate italiane usano Sicral per le comunicazioni strategiche, un sistema composto da due satelliti geostazionari (35.000 km dalla terra) che offrono però una connessione più lenta e minor copertura geografica.
La guerra in Ucraina ha dimostrato l’alto livello di digitalizzazione dei conflitti, il che impone alle forze armate di dotarsi (almeno) di adeguate connessioni a banda larga. Inoltre, il sistema Sicral risulta inefficiente nelle zone lontane dal continente europeo, come l’Indo-Pacifico, verso cui l’Italia si sta rivolgendo per diversificare i mercati per l’export (Piano d’Azione per l’export) e creare catene di approvvigionamento alternative (Imec), oltre che per mantenere una comunanza di obiettivi di politica estera con l’amministrazione Trump (Dichiarazione congiunta Trump-Meloni).
La necessità di una dotazione Starlink per le comunicazioni governative e militari dipende quindi dall’agenda del governo per i prossimi anni. Un tale utilizzo però solleva questioni di sicurezza che non possono essere ignorate.
Quali sono i rischi di Starlink?In primo luogo, le minacce di Musk di scollegare l’Ucraina da Starlink hanno aperto alla possibilità di un blocco arbitrario del servizio. Nonostante Musk stesso abbia poi aggiunto che “non faremo mai una cosa del genere” e non sia passato ai fatti, diversamente è successo nel 2023, quando l’azienda ha unilateralmente deciso di sospendere il servizio in Crimea e di bandirlo per il controllo di droni e veicoli senza equipaggio. Questi precedenti, senza contare l’imprevedibilità e la scarsa sensibilità istituzionale di Musk, sollevano dubbi legittimi sulla possibilità che il servizio venga limitato anche dopo la chiusura del contratto.
In secondo luogo, incertezze sorgono circa la sicurezza dei dati. Nonostante il referente di Musk in Italia, Andrea Stroppa, abbia dichiarato che Starlink utilizza i protocolli di crittografia più avanzata e che esistono “configurazioni che permettono di avere il pieno controllo dei dati e una completa sovranità sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista legale”, incognite rimangono circa la possibilità che i dati che transitano sui sistemi Starlink possano venire alterati, penetrati o duplicati da possibili intercettatori o dal produttore stesso. Roberto Cingolani, AD di Leonardo, sostiene che “la protezione e l’accesso al contenuto delle comunicazioni sarebbero del tutto sotto la sovranità nazionale”, ma allo stesso tempo la legge federale statunitense Cloud Act (2018) impone alle aziende statunitensi di consegnare alle autorità i dati che transitano sulle loro infrastrutture, se richieste. Questo dettaglio legale, unito alla specializzazione in decrittazione della NSA (National Security Agency, l’agenzia di intelligence Usa dei segnali elettronici) i precedenti degli Usa nella sorveglianza delle comunicazioni di altri paesi creano incertezza circa l’effettiva protezione dei dati italiani più sensibili, come quelli governativi e militari.
In terzo luogo, la competizione geopolitica tra Cina e Usa potrebbe minare la sicurezza della connessione per gli utenti finali. La Cina infatti vede la resilienza di Starlink come una minaccia per la sua sicurezza nazionale. Alcune pubblicazioni consigliano al governo cinese di adottare sistemi di sorveglianza per tracciare i movimenti dei satelliti e di sviluppare capacità anti-satellite per colpirne l’efficienza. Per quanto ad ora non esista tecnologia che possa distruggere fisicamente la costellazione di Starlink al punto da minarne l’operatività, articoli scientifici mostrano come la connessione Starlink non protegga sufficientemente da casi di spoofing (attacchi per rubare dati e informazioni) e distributed denial of service (attacchi che rendono difficile o impossibile l’utilizzo del servizio). Dato il recente aumento degli attacchi cinesi alle telecomunicazioni Usa e l’inasprirsi del contrasto tra i due Stati con l’amministrazione Trump, incognite sorgono circa la possibilità che Starlink diventi bersaglio di operazioni ibride o informatiche che comprometterebbero l’utilizzo del servizio per gli utenti finali.
Diventa quindi legittimo chiedersi fino a che punto l’indipendenza dall’infrastruttura fisica a terra e dalla posizione geografica dell’utente finale renda Starlink affidabile per le comunicazioni strategiche se i rischi implicano la possibilità che altri stati ottengano accesso a dati sensibili e che gli utenti finali non riescano ad utilizzare pienamente il servizio a causa di limitazioni imposte dall’azienda stessa o da attacchi informatici.
Qual è l’attuale posizione del governo?Il governo continua a negare l’esistenza di un accordo con SpaceX, complice anche l’opinione pubblica: il 47% si oppone a un accordo tra Musk e il governo e il 51% trova le ingerenze di Musk negative per l’Italia.
In pratica il governo sembra intenzionato ad adottare Starlink in modo indiretto. Il Ministro per i Rapporti col Parlamento Luca Ciriani in Parlamento ha spiegato che il governo non stringerebbe accordi direttamente con SpaceX, ma con aziende italiane che garantiscono la fornitura. Una di queste potrebbe essere Telespazio (partecipata al 67% da Leonardo), che nel 2024 ha annunciato una partnership con SpaceX per la distribuzione dei servizi offerti da Starlink. Teodoro Valente, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), ricorda che “qualsiasi affidamento sarebbe comunque da intendersi come una soluzione ponte, non un’alternativa contrapposta a costellazioni come Iris2”, la quale è pensata appositamente per proteggere le comunicazioni governative e militari dei paesi europei. Resta quindi da vedere se il governo stringerà un accordo, eventualmente con quale azienda e per quale ambito di utilizzo.
Acqua, conflitti e migrazioni: il potere dell’oro blu in Asia centrale
L’Asia centrale è una regione incastonata tra la Russia, la Cina e l’Iran ed è composta da 5 Paesi (Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan). È una regione caratterizzata da forti dinamiche migratorie sia interne che internazionali, è estremamente vulnerabile al cambiamento climatico, è esposta a importanti sfide economiche, conflitti latenti e tensioni politiche. In particolare, è una delle regioni più scarse d’acqua al mondo. Attualmente, 82 milioni di persone in questa regione soffrono di insicurezza idrica. Per accaparrarsi la poca acqua che rimane, gli Stati dell’Asia Centrale stanno ricorrendo sempre più spesso alle armi. Scontri armati, instabilità politica e cambiamento climatico stanno già influenzando le migrazioni dentro e fuori l’Asia Centrale.
Papa Francesco, il leader radicale che ha rotto gli schemi papali
Papa Francesco, morto lunedì 21 aprile all’età di 88 anni, passerà alla storia come un pontefice radicale, un campione degli “sfavoriti” che ha forgiato una Chiesa cattolica più compassionevole, pur senza rivedere dogmi secolari.
Soprannominato “il Papa della gente”, il pontefice argentino amava stare in mezzo al suo gregge ed era popolare tra i fedeli, anche se ha dovuto affrontare un’aspra opposizione da parte dei tradizionalisti all’interno della Chiesa.
Primo Papa proveniente dalle Americhe e dall’emisfero meridionale, ha difeso strenuamente i più svantaggiati, dai migranti alle comunità colpite dal cambiamento climatico, che ha avvertito essere una crisi causata dall’uomo.
Tuttavia, mentre affrontava di petto lo scandalo globale degli abusi sessuali da parte dei sacerdoti, i gruppi di sopravvissuti sottolineavano l’inefficienza delle misure concrete messe in atto.
Fin dalla sua elezione nel marzo 2013, Jorge Mario Bergoglio ha manifestato l’intenzione di lasciare il segno come leader della Chiesa cattolica. È diventato il primo Papa a prendere il nome di Francesco, in onore di San Francesco d’Assisi, un mistico del XIII secolo che rinunciò alle sue ricchezze e si dedicò agli ultimi. “Come vorrei una chiesa povera per i poveri”, ha dichiarato tre giorni dopo la sua elezione a 266° papa.
Era una figura umile che indossava abiti semplici, evitava i sontuosi palazzi papali e telefonava da solo, per lo più a vedove, vittime di stupro o prigionieri. L’ex arcivescovo di Buenos Aires, amante del calcio, è stato anche più accessibile dei suoi predecessori, chiacchierando con i giovani su temi che vanno dai social media alla pornografia e parlando apertamente della sua salute.
Come il suo predecessore Benedetto XVI, che nel 2013 è diventato il primo pontefice dal Medioevo a dimettersi, anche Francesco ha sempre lasciato aperta la possibilità di ritirarsi. Dopo la morte di Benedetto nel dicembre 2022, Francesco è diventato il primo papa in carica nella storia moderna a presiedere un funerale papale.
Le sue condizioni di salute sono peggiorate progressivamente dall’intervento al colon nel 2021 all’ernia nel giugno 2023, fino a bronchiti e dolori al ginocchio che lo hanno costretto a usare la sedia a rotelle.
I migranti e la diplomazia vaticanaPrima della sua prima Pasqua in Vaticano, si è recato in un carcere di Roma per lavare e baciare i piedi dei detenuti. È stato il primo di una serie di potenti gesti simbolici che hanno aiutato il pontefice a ottenere l’entusiastica ammirazione globale che era sfuggita al suo predecessore.
Per il suo primo viaggio all’estero, Francesco ha scelto l’isola italiana di Lampedusa, luogo di ingresso per decine di migliaia di migranti che sperano di raggiungere l’Europa, e ha denunciato la “globalizzazione dell’indifferenza”.
Ha anche condannato i piani del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, durante il suo primo mandato, di costruire un muro di confine contro il Messico, definendoli “non cristiani”. Dopo la rielezione di Trump, papa Francesco ha denunciato le deportazioni di migranti previste come una “grande crisi” che “finirà male”.
Nel 2016, quando la crisi migratoria europea aveva raggiunto il suo apice, Papa Francesco ha fatto visita all’isola greca di Lesbo, portando con sé tre famiglie di musulmani siriani richiedenti asilo e tornando a Roma.
Si è anche impegnato per la riconciliazione interreligiosa, baciando il patriarca ortodosso Kirill di Mosca in uno storico incontro nel febbraio 2016 e lanciando, nel 2019, un appello congiunto per la libertà di credo con il principale chierico sunnita, Sheikh Ahmed al-Tayeb.
Francesco ha rivitalizzato la diplomazia vaticana anche in altri modi, contribuendo a facilitare il riavvicinamento storico tra Stati Uniti e Cuba e incoraggiando il processo di pace in Colombia. Ha inoltre cercato di migliorare i legami con la Cina, raggiungendo un accordo storico nel 2018 sulla nomina dei vescovi, accordo che però è stato criticato.
Appello per il climaGli esperti hanno attribuito a Francesco il merito di aver influenzato gli storici accordi sul clima di Parigi del 2015 con la sua enciclica “Laudato si'”, un appello all’azione sul cambiamento climatico basato sulla scienza. Egli ha sostenuto che le economie sviluppate sono responsabili di un’imminente catastrofe ambientale e, in un nuovo appello del 2023, ha affermato che alcuni dei danni sono ormai irreversibili.
Sostenitore della pace, il pontefice ha ripetutamente denunciato i produttori di armi e ha affermato che è in corso una Terza guerra mondiale, a causa della miriade di conflitti che si registrano in tutto il mondo. Tuttavia, i suoi interventi non hanno sempre riscosso consensi e ha scatenato l’indignazione di Kyiv dopo aver elogiato coloro che, nell’Ucraina devastata dalla guerra, hanno avuto il “coraggio di alzare bandiera bianca e negoziare”.
Nelle sue modeste stanze nella foresteria vaticana di Casa Santa Marta, Francesco affrontava lo stress scrivendo i suoi problemi in lettere a San Giuseppe. “Dal momento in cui sono stato eletto, ho provato una sensazione molto particolare di pace profonda. E questo non mi ha mai abbandonato”, ha dichiarato nel 2017.
Amava anche la musica classica e il tango, tanto che una volta si era fermato in un negozio di Roma per acquistare dei dischi.
Chi sono io per giudicare?Gli ammiratori di Francesco gli attribuiscono il merito di aver trasformato la percezione di un’istituzione che, al momento del suo insediamento, era afflitta da scandali, riportando all’ovile i fedeli che si erano allontanati.
Sarà ricordato come il Papa che, in merito ai cattolici gay, ha affermato: “Chi sono io per giudicare?”.
Ha permesso ai divorziati e ai risposati di ricevere la comunione, ha approvato il battesimo dei transgender e la benedizione delle coppie omosessuali.
Tuttavia, ha abbandonato l’idea di permettere ai sacerdoti di sposarsi, dopo un’ondata di proteste, e, nonostante abbia nominato diverse donne a posizioni di rilievo all’interno del Vaticano, ha deluso le aspettative di chi auspicava l’ordinazione delle donne.
I critici lo hanno accusato di aver manomesso pericolosamente i principi dell’insegnamento cattolico e le sue riforme hanno sollevato una forte opposizione.
Nel 2017, quattro cardinali conservatori hanno lanciato una sfida pubblica senza precedenti alla sua autorità, affermando che le sue riforme avevano seminato confusione dottrinale tra i credenti.
Tuttavia, la sua Chiesa non ha mostrato alcuna intenzione di allentare il divieto di contraccezione artificiale o di modificare la propria posizione riguardo al matrimonio gay, ribadendo che l’aborto è “omicidio”.
Francesco ha anche spinto le riforme all’interno del Vaticano, come permettere ai cardinali di essere processati da tribunali civili o rivedere il sistema bancario della Santa Sede.
Ha anche cercato di affrontare il problema enormemente dannoso degli abusi sessuali da parte dei sacerdoti, incontrando le vittime e giurando di chiamare i responsabili a risponderne. Ha aperto gli archivi vaticani ai tribunali civili e ha reso obbligatorio segnalare alle autorità ecclesiastiche i sospetti di abusi o il loro insabbiamento. Tuttavia, i critici affermano che la sua eredità sarà una Chiesa che fatica a consegnare i preti pedofili alla polizia.
Prima di divenire PapaJorge Mario Bergoglio è nato in una famiglia di emigranti italiani a Flores, un quartiere borghese di Buenos Aires, il 17 dicembre 1936. Primogenito di cinque figli, come scrive il biografo Paul Vallely, è “nato argentino ma cresciuto a pasta”.
A partire dai 13 anni lavorò in una fabbrica di calze nel pomeriggio, mentre di mattina studiava per diventare tecnico chimico. In seguito, per un breve periodo, fece il buttafuori in un locale notturno.
Si dice che gli piacessero il ballo e le ragazze, al punto da chiederne una in sposa prima che, all’età di 17 anni, scoprisse la vocazione religiosa. In seguito, Francesco raccontò di un periodo di agitazione durante la sua formazione gesuita, quando si invaghì di una donna incontrata a un matrimonio di famiglia.
A quel punto era sopravvissuto a un’infezione quasi mortale che aveva comportato l’asportazione di parte di un polmone. L’insufficienza respiratoria aveva compromesso le sue speranze di diventare missionario in Giappone. Fu ordinato sacerdote nel 1969 e nominato provinciale dei Gesuiti in Argentina solo quattro anni dopo.
Il suo periodo alla guida dell’ordine, che ha coinciso con gli anni della dittatura militare in Argentina, è stato difficile. I critici lo accusarono di aver tradito due sacerdoti radicali che erano stati imprigionati e torturati dal regime. Non è mai emersa alcuna prova convincente di questa affermazione, ma la sua guida dell’ordine ha creato divisioni e, nel 1990, fu degradato ed esiliato a Córdoba, la seconda città più grande dell’Argentina.
Poi, a 50 anni, la maggior parte dei biografi lo descrive come un uomo che ha attraversato una crisi di mezza età. Ha deciso di intraprendere una nuova carriera nel mainstream della gerarchia cattolica, reinventandosi prima come il “vescovo dei bassifondi” di Buenos Aires e poi come il papa che avrebbe rotto gli schemi.
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