

Usare bene la Storia
Le ricorrenze del passato vanno di moda. Quel “piano di riarmo” dell’Unione europea che con un’infelice espressone, ma con un’idea giusta, è stato proposto da Ursula von der Leyen richiama come riferimento storico il progetto della CED (la Comunità di difesa europea), ideato da Jean Monnet nel 1952 e accantonato due anni dopo dal voto congiunto dei comunisti e dei gollisti (e un po’ di socialisti) nel parlamento francese. Il confuso dibattito italiano su come operare nell’UE nell’attuale difficile frangente si aggrappa ad un ancor più lontano riferimento, il Manifesto di Ventotene, 1941, come documento ispiratore del movimento per l’integrazione sovranazionale oppure come oggetto di critica da parte dei sovranisti più o meno nazionalisti. La venuta sulla scena dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) e il ruolo da esso svolto con i suoi studi, i suoi interventi e le sue collaborazioni con partner di altri paesi, lungo ormai sessant’anni, aiutano a dare un senso, che non sia una fuga dalla realtà, a questi riferimenti storici.
Il progetto di un istituto di affari internazionali sul modello dell’inglese Chatham House e dell’americano Council on Foreign Relations si colloca nella convergenza di più stimoli. Il primo era la percezione che la costruzione comunitaria, realizzata da Jean Monnet sulle ceneri della CED e sulla scelta della sfera economica per l’integrazione dei sei Paesi detti fondatori, anch’essa resistita da un De Gaulle ora Presidente della Repubblica, richiedeva di essere inquadrata in una più ampia strategia di politica estera, comprendente le opportunità dell’interdipendenza crescente fra le nazioni non meno che i rischi della Guerra Fredda, compreso quello nucleare. Un secondo stimolo veniva dall’aver preso forma, in quei primi anni ’60 un’alleanza progressista, europeista e internazionalista sulle due sponde dell’Atlantico, incoraggiata dal progetto di una partnership fra Stati Uniti ed Europa, lanciato da John F. Kennedy, e promotrice di una prima distensione con il blocco sovietico.
Dell’uno e dell’altro sentì la spinta Altiero Spinelli, autore del Manifesto di Ventotene (insieme ad Ernesto Rossi e a Eugenio Colorni) e ispiratore presso Alcide De Gasperi dell’articolo da lui introdotto nel trattato CED per contemplare il successivo sviluppo in comunità politica con un percorso costituente. Spinelli, leader fino ad allora del movimento federalista europeo, percepiva la necessità del superamento della fase militante per entrare in quella strategica e politologica. Donde la fondazione dello IAI nel 1965.
Da allora l’istituto ha percorso una linea coerente che richiederebbe volumi ripercorrere, ma di cui vale la pena rimarcare qui per sommissimi capi alcuni passaggi fra i più significativi. Un primo è l’aver favorito nel quadro politico italiano la più larga convergenza sulle linee guida della politica estera nazionale, di cui un passaggio importante fu l’approvazione di una risoluzione in tal senso da parte di una larga maggioranza parlamentare nel 1977. Qualcosa che, pur con qualche tentennamento è poi rimasto, magari anche grazie all’influenza dei successivi Capi dello Stato. E che è bene tener presente nella fase politica attuale.
Un altro passaggio da menzionare è quello della caduta del Muro di Berlino e annessa fine della Guerra Fredda, con le straordinarie opportunità che ne derivarono per l’ampliamento dell’orizzonte della democrazia e dell’integrazione. Lo IAI accompagnò con le sue iniziative l’allargamento delle istituzioni comuni a nuovi stati membri, compresi alcuni che avevano prima appartenuto al blocco sovietico, e la nascita della moneta comune, non priva di dolori di parto soprattutto per paesi oberati da un eccessivo debito pubblico, come il nostro. Ma fu anche fautore della necessità che le stesse istituzioni resistessero alla deriva intergovernativa che ne costringeva il funzionamento e insieme contemplassero anche la sfera politica e di sicurezza. Di nuovo, qualcosa di cui si sente drammaticamente la necessità nelle contingenze presenti.
Il passaggio al nuovo secolo (segnato dall’attacco alle Torri Gemelle di New York) ha indicato che alle opportunità si contrapponevano dei rischi e che purtroppo questi hanno finito per prevalere. La suddetta alleanza progressista, liberale e multilateralista è entrata in crisi: negli Stati Uniti sotto la pressione sia dell’ultra-neoliberismo (donde la crescita esponenziale delle diseguaglianze) sia del neo-conservatorismo (donde gli sloga di estendere la NATO e di diffondere la democrazia con conseguenti disastrose guerre in Iraq e Afganistan); in Europa per il crescere dell’egoismo della xenofobia, ma anche della “frugalità”, nonché per il fiorire del populismo nelle sue vare forme e del sovranismo nelle sue vene nazionaliste. Conseguenze in successione: la Grande Recessione, la Brexit, il primo Trump alla Casa Bianca, la pandemia cui resiste un po’ l’Ue ma non le Nazioni Unite, per venire alla Russia che aggredisce l’Ucraina. Tutte tendenze che hanno visto il ruolo dello IAI esercitarsi in senso critico e di articolazione delle alternative.
Il contesto si è fatto ancor più difficile nei giorni che viviamo, le trasformazioni del quadro mondiale e di conseguenza europeo e italiano essendo divenute, letteralmente, “epocali”. Per cui far riferimento alla storia anche lontana, se non è per eludere le realtà o, peggio, essere utilizzato come trucco polemico, come ha fatto la Presidente del Consiglio, può essere appropriato, anzi utile. Il Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941, resta come testo visionario per contemplare istituzioni dotate delle porzioni di sovranità delegate necessarie oggi nel 2025. L’esperienza del come e del perché il trattato per una difesa comune dell’Europa dei Sei fu accantonato nel 1954 resta come ammonimento e insegnamento a fronte delle nuove condizioni strategiche in cui si trovano i Ventisette (o quanti si considerino interessati) in questo marzo 2025.
L’Istituto non conformista
Altiero Spinelli ha fondato l’Istituto Affari Internazionali nel 1965, in un periodo di grandi mutamenti globali e di forti divisioni europee. In quegli anni, prima la costruzione del muro di Berlino, poi la crisi dei missili a Cuba, avevano portato il mondo sull’orlo del baratro nucleare. Due nuovi leader, Kennedy e Krusciov, ne avevano approfittato per iniziare a trasformare i rapporti tra le superpotenze. Il processo venne poi rallentato dall’assassinio di Kennedy, dal peso crescente della guerra in Vietnam nella politica americana, e infine dalla rimozione dello stesso Krusciov.
Ma intanto l’Europa doveva fronteggiare il mutamento senza avere gli strumenti adatti, specie nel campo militare, e profondamente divisa dalle scelte del generale De Gaulle di opporsi ad una crescita delle istituzioni comunitarie (come quella proposta dall’allora Presidente della Commissione Hallstein), prima difendendo una visione strettamente intergovernativa (piano Fouchet) e poi attuando la strategia della “sedia vuota”, che paralizzava il Consiglio dei Ministri.
Spinelli era certo in primo luogo un politico, con una visione di lungo termine di un’Europa integrata e democratica, ma era anche un realista, con una grande capacità di cogliere, in ogni situazione, gli spazi che avrebbero potuto aprire nuove prospettive. E la sua idea fu che in questa fase l’Italia, allora governata da deboli coalizioni di centro-sinistra, dovesse entrare di più e meglio nel grande dibattito internazionale, non tanto tra i governi, dove era comunque, bene o male, rappresentata, quanto nella società civile, dove era quasi del tutto assente, a fronte di una folta partecipazione europea e transatlantica.
Lo IAI servì da porta di accesso al dibattito e insieme da centro di formazione di giovani esperti, lasciando fuori, nelle sue parole, le “eminenze” e la loro “autorevole insipienza”. I giovani ricercatori, tra cui il sottoscritto, dovevano conoscere i problemi ed individuare politiche al loro riguardo che non fossero né immobiliste né nazionaliste: i due peccati mortali che bisognava evitare. Per il resto non vi era alcuna censura, salvo quelle legate al rispetto dei fatti, alla logica dell’argomentazione e alla pulizia dello stile.
Non sempre era facile, né questo assicurava facilmente appoggi o consensi a livello internazionale. Ricordo ancora uno dei miei primi convegni internazionali, negli anni ‘60, durante il quale un Assistant Secretary General della Nato mi aveva preso di punta perché avevo osato scrivere che nel Mediterraneo, regione meridionale della Nato, l’Alleanza si riduceva sostanzialmente ai soli rapporti bilaterali, ben distinti tra loro, che gli Stati Uniti mantenevano con gli alleati di Portogallo, Italia, Grecia e Turchia. La cosa era imbarazzante anche perché a chiudere il convegno sarebbe venuto Manlio Brosio, l’unico italiano che abbia mai ricoperto il ruolo di Segretario Generale. Venni però salvato in extremis da un intervento del rappresentante permanente turco al Consiglio Atlantico, che appoggiò la mia tesi, inclusa l’idea che un allargamento della Comunità europea avrebbe forse mutato la situazione.
Complicati anche i rapporti con gli studiosi italiani e la pubblica amministrazione. Oggi il legame tra lo IAI egli istituti universitari è intenso e continuo, ma agli inizi eravamo ascoltati solo da pochi professori “amici”. Ancora più complesso il rapporto con le amministrazioni “vicine” ai nostri interessi come gli Esteri o la Difesa.
Spinelli aveva preso molto sul serio il campo degli studi strategici, anche perché erano centrali nel dibattito americano ed erano invece uno dei punti di maggiore debolezza nel dibattito europeo. Avevamo pochissimi interlocutori italiani, ma in compenso eravamo in stretto contatto con molti interlocutori esteri a loro volta influenti nei loro paesi, e questo cominciò ad aprire alcune porte. Anche in quel caso con effetti a volte sconcertanti.
Alla fine degli anni ‘60 venni distaccato come ricercatore al prestigioso Istitute of Strategic Studies di Londra (Spinelli era membro del suo Consiglio direttivo). Tra i mie compiti c’era anche quello di aiutare a compilare la pubblicazione più nota dell’Iss, l’annuario The Military Balance, che ancora oggi descrive in dettaglio le capacità militari di ogni paese al mondo. L’Italia era considerata un paese “difficile” perché non rispondeva mai alle richieste di chiarimento. Venne quindi deciso di spedire il ricercatore italiano a Roma per ottenere qualche risposta. Per facilitarmi il compito, l’Iss inviò tramite l’ambasciata una lettera ufficiale al Ministro della Difesa, annunciando il mio arrivo e lo scopo della visita. Fu così che, arrivando al portone di via XX Settembre trovai un carabiniere che mi spiegò in inglese che mi stavano aspettando. Venni ricevuto in una grande sala con tavolo rotondo da una trentina circa di generali ed un interprete. La cosa più delicata fu spiegare che il mio italiano era di livello “madrelingua”.
Anche in questo campo, la capacità di Spinelli di rigirare il problema in modi nuovi ed inaspettati portò ad un dibattito interessante. Erano, con l’inizio della distensione, l’adozione della strategia nucleare della risposta flessibile e i negoziati per il controllo degli armamenti, anni in cui gli alleati europei si domandavano dove volessero andare gli americani, e se lo avrebbero mai fatto sapere in tempo utile agli alleati. In quell’occasione Alistair Buchan, fondatore dell’Iss, osservò che, se veramente si voleva partecipare al dibattito americano, in tempo reale, bisognava essere a Washington e non a Bruxelles, e proponeva quindi di spostare nella capitale americana i ministri europei della Difesa. In effetti la tesi era che la difesa europea era solo una sezione della difesa americana e come tale dovesse essere gestita.
Spinelli non contestò affatto questa tesi, ma osservò che per partecipare bisogna anche contare: che cioè gli americani avrebbero comunque continuato ad ignorare gli europei se questi non avevano un diritto di voto sulle decisioni finali. In sostanza l’ambiguità dell’Alleanza era destinata a durare, a meno che l’Alleanza stessa non si fosse trasformata in una organizzazione sovranazionale. Altrimenti la via maestra restava quella dello sviluppo di alcune capacità autonome europee.
Si può dire che il realismo di Spinelli non fu mai acquiescenza, ma spunto critico per liberarsi di molti orpelli retorici e pessimismi reazionari, per concentrarsi là dove poteva valere la pena.