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Il negoziato sul nucleare iraniano

21/03/2013, Roma

All’indomani della ripresa del negoziato sul nucleare tra l’Iran e i P5+1 (i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania), lo IAI e lo European Council on Foreign Relations (ECFR) hanno discusso la questione in un evento congiunto presso la biblioteca dello IAI. Per l’ECFR sono intervenuti Aniseh Bassiri Tabrizi, dottoranda presso il King’s College di Londra, e Lapo Pistelli, candidato a far parte della Commissione Esteri della Camera dei Deputati in procinto di formarsi. Lo IAI è stato rappresentato da Riccardo Alcaro, responsabile di ricerca del Programma Transatlantico, che ha anche moderato il dibattito.

Bassiri Tabrizi ha illustrato gli aspetti tecnici del round negoziale di febbraio 2013, il primo dopo otto mesi di impasse, soffermandosi in particolare sulla reazione iraniana alle richieste dei P5+1 di porre severe restrizioni all’arricchimento dell’uranio e di acconsentire ad un regime di ispezioni più intrusive da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Bassiri Tabrizi ha sostenuto che l’apparente riluttanza dell’Occidente di revocare o almeno allentare il regime di sanzioni alimenta un forte scetticismo a Teheran sull’effettiva volontà di Usa ed Europa di negoziare su una base di reciprocità.

Alcaro ha sostenuto che, in questo momento, il negoziato serve più a congelare che a risolvere la crisi. Nessuna delle parti sembra infatti disposta a fare significative concessioni. Obama sconta la resistenza di diversi attori interni, Congresso in testa, a contemplare un accordo col regime clericale iraniano. L’Iran, da parte sua, non è però incline a compiere azzardi per paura di un inasprimento delle sanzioni o peggio. Russia e Cina, certamente preoccupate dalla prospettiva di un Iran armato di bombe nucleari, puntano comunque a mantenere il paese al di fuori dell’influenza Usa. L’Europa sembra aver rinunciato a prendere ogni iniziativa. Persino Israele può ritenere lo status quo accettabile, dal momento che la sua superiorità strategica nella regione non ne risulta davvero minacciata. E gli stati arabi del Golfo, mentre sono allarmati dalle ambizioni nucleari dell’Iran, temono anche che la risoluzione della disputa possa aprire la strada ad una normalizzazione dei rapporti Usa-Iran, che ridimensionerebbe loro importanza agli occhi degli americani. Infine, nessuno è davvero pronto a far fronte alle conseguenze di un attacco contro l’Iran. Pertanto il mantenimento dello status quo risulta quasi automaticamente l’unica opzione con cui tutte le parti in causa possono convivere. Quest’opzione tuttavia può funzionare solo nel breve periodo, perché lo status quo poggia su un equilibrio precario.

Pistelli ha sostenuto che il vero problema non è tanto il programma nucleare dell’Iran, bensì la sua leadership. La sua opinione tuttavia è che il regime sia un attore razionale, influenzabile pertanto sulla base di considerazioni di di costi-opportunità. In questo senso, il programma nucleare è più una carta negoziale per ottenere garanzie di sicurezza per l’Iran (e il regime) che un fine in sé. Pistelli ha quindi sostenuto l’opportunità di una strategia per l’Iran che ne riconosca il ruolo fondamentale nella gestione di questioni regionali come la stabilità dell’Iraq, i rapporti coi Talebani in Afganistan e la pacificazione della Siria.

Gli interventi hanno dato vita ad un acceso dibattito. Alcuni hanno sollevato la questione del timore di Israele che gli Usa perdano progressivamente interesse nella regione, il che motiverebbe la pressione di Israele stesso su Washington perché risolva la questione nucleare al più presto, anche con le armi. Altri hanno sostenuto la necessità che i P5+1 adottino una strategia di lungo termine che fissi in dettaglio i vari passaggi verso una risoluzione consensuale della disputa. Si è inoltre discusso dei vantaggi e svantaggi di una strategia di contenimento Infine, è stata sottolineata la natura atipica del programma nucleare dell’Iran, tutto basato sull’arricchimento dell’uranio, mentre storicamente i paesi che hanno sviluppato un’industria militare nucleare hanno preferito affidarsi alla produzione di plutonio.