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Can Syria be saved?

20/03/2013, Roma

A pochi giorni dal secondo anniversario dello scoppio della rivoluzione siriana, il regime di Assad non sembra cedere il passo, mentre la comunità internazionale resta a guardare incapace di districare il complicato groviglio di interessi politici ed economici che impediscono il raggiungimento di una soluzione condivisa. Di questo si è parlato il 20 marzo allo IAI, dove si è tenuta una conferenza presieduta dal professor Daniel Serwer, accademico del Middle East Institute di Washington e ricercatore presso l’università John Hopkins di Baltimore.

Il dibattito si è concentrato principalmente su di un'analisi politica del contesto nazionale e regionale all’interno del quale si muovono i protagonisti di questa sanguinosa rivoluzione. Dopo un breve commento sulle recenti elezioni del primo ministro ad interim dell’opposizione siriana Ghassan Hitto, il professor Serwer ha analizzato dettagliatamente il ruolo che il governo di Washington ha svolto, e continua a svolgere nella crisi siriana. L’indecisione delle potenze occidentali nel sostenere il fronte rivoluzionario, sempre più debole e frammentato, è infatti da considerarsi frutto di una strategia diplomatica che vede come prioritari gli interessi della politica estera statunitense. Le ragioni alla base della decisione di non intervenire militarmente a fianco dei ribelli si trovano, secondo Serwer, nei forti interessi che gli Stati Uniti detengono nella regione mediorientale, e non certo nel mancato appoggio del Consiglio di sicurezza Onu. Obama ha infatti adottato una politica moderata per evitare lo scontro diretto con il Cremlino, prezioso alleato della Casa Bianca nelle delicate fasi transitorie di Afghanistan e Iraq. Inoltre Washington non può rischiare di perdere l’appoggio russo sulla questione nucleare iraniana; all’interno del Consiglio di sicurezza Onu il voto di Mosca è decisivo per mantenere in vigore le pesanti sanzioni economiche contro il regime di Tehran. Dopo aver criticato fortemente la politica di Mosca a sostegno del regime di Assad, il professor Serwer, ha quindi sottolineato come la Russia rappresenti la chiave di volta di qualsiasi soluzione diplomatica della crisi. Sulla base di queste considerazioni appare dunque difficile che gli Stati Uniti possano sposare la decisione del governo britannico e francese di sostenere militarmente il fronte rivoluzionario siriano. Nonostante questa opzione sarebbe economicamente vantaggiosa per il bilancio statale statunitense rispetto alla politica di sostegno dei civili adottata finora, la Casa Bianca teme fortemente che gli armamenti possano finire nelle mani sbagliate.

Il dibattito si è quindi concentrato sull’importante questione, troppo spesso sottovalutata, della fase di transizione che farà seguito a un eventuale caduta del regime di Assad. Il fallimento americano nelle fasi transitorie di Iraq e Libia, dove gli interventi militari non sono stati seguiti da una pianificazione coerente in grado di garantire alla popolazione la sicurezza necessaria e di evitare ulteriori spargimenti di sangue, deve servire da lezione per il caso siriano. Sebbene il fronte dei ribelli siriani sia più omogeneo e meglio organizzato di quello iracheno, divisioni religiose e etniche rischiano di minarne la compattezza. Le spaccature interne all’opposizione, con le forze Islamiche pronte a reclamare il loro compenso per aver preso parte alle ostilità, potrebbero non essere le sole a ostacolare un dialogo pacifico tra le parti. Molti analisti temono il prolungamento della guerra civile alimentata dai soldati dell’esercito fedeli al dittatore, che difficilmente accetteranno di deporre le armi. È necessario dunque che la comunità internazionale si assuma le sue responsabilità, sostenendo un intervento delle Nazioni Unite volto a garantire i diritti primari e la sicurezza della popolazione, già vessata da due anni di guerra civile. Nel delineare i possibili scenari della Siria post-Assad, Serwer ha ricordato ancora una volta l’importanza di mantenere aperto il dialogo con il Cremlino, che giocherà un ruolo centrale nella transizione politica. In fase conclusiva è stata sollevata la problematica delle minoranze, specialmente di quella curda, per le quali sarà necessario garantire un’adeguata protezione per ottenere una stabilità non solo interna ma dell’intera regione.

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