Aggregatore di feed

Piano Mattei: come lanciare una nuova strategia Italia-Africa

Con la votazione alla Camera dei deputati si è concluso in questi giorni l’iter del decreto legge sul cosiddetto piano Mattei, decreto che istituisce i meccanismi politico-burocratici per la sua gestione. Il piano Mattei è, fino ad oggi, un oggetto piuttosto misterioso, sia nei contenuti che nelle vere e proprie finalità. A chiarirlo, forse, sarà il successivo passaggio a fine mese nel Vertice Italia-Africa, nel corso del quale saranno finalmente svelati, in collaborazione con i partner africani, alcuni obiettivi della futura cooperazione bilaterale.

L’Italia al centro delle relazioni Africa-Europa

Nelle intenzioni del nostro governo, l’iniziativa dovrebbe avere un contenuto strategico, mettendo l’Italia al centro di un sistema complesso di relazioni fra Africa ed Europa: la funzione di “ponte” o “hub” spesso evocata dalla nostra premier Giorgia Meloni. Ponte di cosa? Per il momento si parla essenzialmente del trasporto di idrocarburi dal Nord Africa e dal Caucaso del Sud (l’Azerbaijan) attraverso il nostro paese verso l’Europa centrale. Un hub energetico, appunto, che nasce dall’emergenza seguita all’invasione russa dell’Ucraina e dal conseguente drastico taglio delle forniture di gas da Mosca.

Già Mario Draghi, come è noto, aveva cominciato ad avvicinare i governi del Nord Africa, a cominciare dall’Algeria, allo scopo di aumentare i flussi di idrocarburi attraverso le pipeline già esistenti, nate proprio dalle politiche di Enrico Mattei negli anni ’50. Lui lo faceva per sottrarsi al monopolio delle Sette Sorelle americane, Draghi e poi Meloni per diversificare le fonti energetiche.

Va detto che queste attività hanno avuto un discreto successo riuscendo, in effetti, a diminuire dal 40% al 16% nel 2022 la nostra dipendenza da Vladimir Putin. Tuttavia, è necessario aggiungere che nemmeno i governi algerino e libico (nella sua attuale complessità interna) hanno realmente rispettato gli accordi sottoscritti con l’Eni. Nel caso algerino, ad esempio, rispetto ai promessi 6 miliardi di metri cubi all’anno, siamo a stento arrivati a 3 miliardi. Meglio è andato con l’Azerbaijan attraverso la pipeline Tap e con l’accordo di raddoppiarla entro il 2027.

Per una nuova strategia Italia-Africa

Quindi, da un piano emergenziale si cerca di cogliere l’occasione per lanciare una nuova strategia Italia-Africa. Di qui l’esigenza di una legge che ne codifichi obiettivi e meccanismi di gestione. Per quanto riguarda questi ultimi va sottolineato come il tutto sia strettamente nelle mani del Presidente del Consiglio. È vero che subito sotto questo livello esiste una “cabina di regia”, ma talmente pletorica e numerosa (spaziando dai rappresentanti dei ministeri a quelli delle regioni, dalle università agli enti pubblici e privati e così via) che di regia sarà difficile parlare: semmai ne scaturirà una raccolta di proposte disorganiche e di richieste di vario tipo.

Più efficace sembra la configurazione del successivo livello, il segretariato di coordinamento, composto da 19 membri di supporto alle iniziative della presidenza del consiglio. Anche le dotazioni finanziarie sono estremamente limitate: 500 mila euro per consulenze ad esperti inserite in un budget complessivo di 2.643.949,28 euro. Se davvero si intendono raddoppiare, rinnovare e potenziare le necessarie pipeline, le cifre da mettere in ballo saranno enormemente superiori.

Dove si potranno reperire tali risorse è ancora tutto da immaginare. Sarebbe piuttosto naturale pensare ad un coinvolgimento massiccio dell’UE, ma nel decreto se ne parla assai poco. Anche l’UE, fra il resto, ha da anni un piano strategico Africa-Europa e anch’essa parla di partnership su basi di parità con i paesi africani. È quello che Giorgia Meloni ha definito come un atteggiamento italiano “non predatorio”. Ma per ora legami organici fra l’iniziativa italiana e quella europea non si intravvedono.

Strategie energetiche e geopolitiche nel piano Mattei

È utile, poi, aggiungere un’altra riflessione. Per il momento il piano Mattei pone l’enfasi sulla distribuzione dall’Africa all’Europa di idrocarburi classici, gas e petrolio. Forse sarebbe meglio gettare lo sguardo un po’ più lontano, al di là della contingenza del momento di diversificare le fonti di approvvigionamento. Pensare, cioè, in termini di fonti rinnovabili. Anche su questo tema è oggi attiva l’Unione europea con il suo Repower EU, all’interno del quale sta per nascere un’iniziativa lanciata da Germania e Austria e chiamata SoutH2.

Si tratta, in breve, dell’importazione dall’Africa di idrogeno verde prodotto in quei paesi, attraverso l’utilizzo di pipeline già esistenti o costruendone di nuove che attraversano il nostro paese. Promuovere, in altre parole, un Green Deal euromediterraneo con un triplice vantaggio: aumentare la nostra sicurezza energetica; incentivare l’Agenda climatica dell’UE; rafforzare le relazioni con i paesi produttori fornendoli delle tecnologie appropriate per trasformare sole e vento in idrogeno verde. Sarebbe questo davvero il modo migliore per eliminare qualsiasi sospetto di atteggiamenti predatori attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali, gas e petrolio, dei paesi del Nord Africa e al contempo di fornirli degli strumenti adatti allo sviluppo delle loro economie. Infine, un paio di notazioni conclusive.

Il piano Mattei ha anche un secondo obiettivo dichiarato: disciplinare l’immigrazione nel Mediterraneo attraverso vantaggi economici per i paesi di origine e transito. È questo un argomento da affrontare con grande prudenza. Il pessimo risultato di una politica del genere sperimentato con la Tunisia con l’offerta di denaro (anche comunitario) a fronte del blocco delle partenze è un campanello d’allarme. La parziale soluzione di questo immenso problema sta in una vera e propria politica comune dell’UE (ancora di là da venire) e nei suoi rapporti strategici con l’Africa: pensare di fare da soli non ci porterà molto lontani.

Vi è infine il tema delle alleanze. Se non troviamo un partner o dei partner nell’UE che sostengano le nostre esigenze sarà difficile smuovere più di tanto Bruxelles. Da questo punto di vista non si intravvede nessun approccio verso la Francia, ormai in ritirata dal centro Africa e indebolita anche in Libia dove fino a poco tempo fa ci ha fatto una feroce concorrenza. Un accordo forte con Parigi potrebbe rafforzare la nostra posizione nell’UE e costituire un interessante punto di passaggio per promuovere il piano Mattei al di là dei confini nazionali.

L’Ecuador è sprofondato in un “conflitto armato interno” con le bande della droga

Spari in diretta televisiva, guardie carcerarie e poliziotti presi in ostaggio, scuole e negozi chiusi: secondo il suo presidente, Daniel Noboa, l’Ecuador è sprofondato in un “conflitto armato interno” con bande di narcotrafficanti, che ha già causato almeno 10 morti.

In un decreto emanato ieri, terzo giorno di una crisi di sicurezza senza precedenti, il presidente Noboa ha ordinato “la mobilitazione e l’intervento delle forze armate e della polizia nazionale” per “garantire la sovranità e l’integrità nazionale contro la criminalità organizzata, le organizzazioni terroristiche e i belligeranti non statali”. Dopo aver dichiarato lo stato di emergenza, in seguito alla fuga di un temuto leader di una gang, Noboa ha ordinato la “neutralizzazione” delle bande criminali, di cui ha fornito un elenco esaustivo, sottolineando la necessità che le forze armate agiscano “nel rispetto dei diritti umani”.

L’Ecuador, con una popolazione di 18 milioni di abitanti e un tempo oasi di pace, è devastato dalla violenza dopo essere diventato il principale punto di esportazione della cocaina prodotta nei vicini Perù e Colombia. Gli omicidi di strada sono aumentati dell’800% tra il 2018 e il 2023, passando da 6 a 46 ogni 100.000 abitanti. Nel 2023 sono stati registrati 7.800 omicidi e sono state sequestrate 220 tonnellate di droga.

Adolfo Macias, alias “Fito”, leader dei Choneros – una banda di circa 8.000 uomini secondo gli esperti – è evaso domenica 7 gennaio dal carcere di Guayaquil (sud-ovest). Martedì 9 è evaso anche Fabricio Colon Pico, leader dei Los Lobos, un’altra potente banda.

Le reazioni internazionali

Già domenica sera, il Perù ha annunciato di aver dichiarato lo stato di emergenza lungo oltre 1.400 km di confine con l’Ecuador e di aver intensificato la sorveglianza.

Oggi, la Francia ha consigliato ai suoi cittadini di “rimandare” i viaggi in Ecuador, noto per le isole Galapagos, mentre la Cina ha sospeso le visite pubbliche alla sua ambasciata e al suo consolato in Ecuador. Come dichiarato da Mao Ning, portavoce della diplomazia cinese, si sta “valutando la situazione della sicurezza” in Ecuador, aggiungendo che Pechino “sostiene” gli sforzi delle autorità locali per ripristinare l’ordine.

La Russia ha chiesto ai suoi cittadini di “tenere conto dell’instabilità della situazione quando si considera di viaggiare in Ecuador” e di “evitare di recarsi in luoghi pubblici”. Mosca ha fiducia nelle autorità ecuadoriane affinché ristabiliscano la legge e l’ordine “con i propri mezzi, senza interferenze esterne”, ha aggiunto la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova.

Gli Stati Uniti sono “estremamente preoccupati per la violenza” e “pronti a fornire assistenza”, ha dichiarato Brian Nichols, capo della diplomazia statunitense per l’America Latina. Brasile, Cile, Colombia e Perù hanno espresso il loro sostegno all’Ecuador.

Irruzione armata e ostaggi

Martedì 9 gennaio, alcuni uomini armati hanno fatto irruzione sul set di una stazione televisiva pubblica di Guayaquil, prendendo brevemente in ostaggio giornalisti e personale. Dai primi rilevanti, pare che nessuno sia stato ucciso o ferito nel raid, mentre tredici assalitori sono stati arrestati. “Sono giorni estremamente difficili”, ha ammesso Roberto Izurieta, segretario alle comunicazioni presidenziali, mentre l’esecutivo ha preso “l’importante decisione di combattere a testa alta queste minacce terroristiche”.

Dopo l’evasione di “Fito”, una serie di ammutinamenti e prese di ostaggi da parte delle guardie ha colpito diverse carceri: a raccontarli alcuni video postati sui social, che mostrano prigionieri minacciati da detenuti mascherati e armati di coltelli. Video successivi mostrano anche l’esecuzione di almeno due guardie, tramite fucilazione e impiccagione. L’amministrazione penitenziaria (SNAI) ha riferito che 139 membri del suo personale sono ancora tenuti in ostaggio in cinque carceri del Paese.

Lo stato di emergenza

Lo stato di emergenza dichiarato lunedì 8 gennaio da Noboa – eletto a novembre con la promessa di ripristinare la sicurezza – si estende a tutto il Paese per 60 giorni. L’esercito è autorizzato a mantenere l’ordine nelle strade (con un coprifuoco notturno) e nelle carceri. Tuttavia, sono stati segnalati numerosi incidenti, tra cui il rapimento di sette agenti di polizia.

Nella città portuale di Guayaquil, dove i gruppi criminali sono onnipotenti, la violenza ha causato otto morti e tre feriti, secondo il capo della polizia. Anche due poliziotti sono stati “ferocemente uccisi da criminali armati” a Nobol, vicino a Guayaquil. Immagini di attacchi con molotov, auto date alle fiamme, spari casuali contro gli agenti di polizia, scene di panico circolano sui social, suggerendo che il caos si stia gradualmente affermando in diverse località.

In risposta, a Guayaquil, alcuni alberghi e ristoranti sono stati chiusi e l’esercito sta pattugliando le strade. Anche nella capitale, Quito, attanagliata dalla paura, negozi e centri commerciali hanno chiuso in anticipo. Inoltre, dal Ministero dell’Istruzione è giunto anche l’ordine di chiusura di tutte le scuole del Paese fino a venerdì.

I criminali “hanno commesso atti sanguinosi senza precedenti nella storia del Paese (…) ma questo tentativo fallirà”, ha dichiarato l’ammiraglio Jaime Vela, capo del Comando congiunto delle Forze armate, dopo una riunione del Consiglio di sicurezza a Quito, sotto l’egida del presidente.

a cura di Par Paola Lopez
© Agence France-Presse

La Corte Suprema del Colorado e il destino politico di Trump nel 2024

Una decisione senza precedenti quella assunta dalla Corte Suprema del Colorado per impedire all’ex presidente Donald Trump di partecipare alle primarie. Una decisione che è però stata sospesa in attesa della risoluzione del caso da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha infatti deciso di esaminare il ricorso presentato da Trump lo scorso 5 gennaio.

Il 19 dicembre 2023,  la Corte del Centennial State – lo stato del centenario, così chiamato perché ammesso come trentottesimo stato dal presidente Ulysess Grant nel 1876, esattamente cent’anni dopo la Dichiarazione d’Indipendenza – aveva deciso di escludere l’ex presidente dalle elezioni presidenziali 2024 nel suo territorio, ricorrendo a una clausola del quattordicesimo emendamento della Costituzione Americana, per la prima volta usata contro un candidato alle primarie presidenziali.

La norma risale alla fine della Guerra Civile e venne introdotta per bloccare il rientro nelle cariche elettive federali di figure politiche compromesse con la Confederazione sudista, che potessero destabilizzare il fragile ordine costituito sulle ceneri del conflitto, magari per tentare nuovamente colpi di mano secessionisti. L’esclusione di Trump contenuta nella sentenza della Corte Suprema del Colorado, infatti, è data dal suo riconoscimento quale leader effettivo e in pieno supporto dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, riconosciuto come atto d’insurrezione.

A pochissimi giorni dall’inizio della tornata di elezioni primarie, che porteranno alla scelta dei candidati che si fronteggeranno per la disputa presidenziale di novembre 2024, questo colpo di scena sicuramente lascia aperta la porta a dibattiti, considerazioni e previsioni.

«La Corte Suprema dello Stato del Colorado ha delegittimato Donald Trump a comparire sulla scheda elettorale delle elezioni generali, cioè ad essere candidato alla Presidenza degli Stati Uniti», afferma Alessandro Tapparini, giurista ed esperto di Stati Uniti. «Di conseguenza essa ha stabilito anche che Trump non può partecipare alle primarie Repubblicane».

Vale la pena ricordare che le primarie non sono elezioni che coinvolgono il Partito di riferimento esclusivamente dal punto di vista interno. «A differenza del nostro Paese, negli Stati Uniti le primarie hanno un risvolto pubblico, sono regolate dalla legge e non sono affidate totalmente all’autonomia dei partiti. Hanno, quindi, rilevanza pubblica anche sul piano giuridico normativo», spiega Tapparini. Il Partito Repubblicano, quindi, non può ignorare questa storica decisione.

Attualmente, la Corte Suprema federale è composta da nove giudici, eletti da diversi Presidenti nel corso degli ultimi decenni. Ben sei di questi sono di area Repubblicana, come ci ricorda Tapparini. Tra questi, tre sono stati eletti proprio da Donald Trump (Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett). L’ufficio stampa di Donald Trump aveva fatto sapere, già immediatamente dopo la decisione della Corte Suprema del Colorado, che si sarebbero avvolti dell’appello. «Trump, quando si rivolge alla Corte Suprema degli Stati Uniti, parte dal presupposto di giocare in casa. Questo però non gli dà assolutamente garanzia di sentirsi dare ragione ogni volta. Anzi, in passato è accaduto anche il contrario. Tuttavia, ci sono i presupposti per provarci», afferma Tapparini.

Le domande a questo punto sono molteplici: l’appello di Trump alla Corte Suprema riuscirà a ribaltare veramente la situazione? Quanto questa decisione storica rimarrà puramente simbolica o sarà effettiva a livello giuridico?

Secondo Tapparini non ci sono dubbi, con un’alta probabilità che la Corte Suprema degli Stati Uniti ribalti la sentenza e che questa storia rimanga simbolica. «Non dimentichiamoci che la decisione della Corte del Colorado è stata presa a maggioranza di un solo voto contro tre (4 – 3), che è abbastanza borderline. La maggior parte degli analisti ritiene probabile che la Corte Suprema degli Stati Uniti la cassi», spiega.

Quello che rimarrà, dunque, è «la sensazione che ha provocato, più che un effetto giuridico che potrebbe non arrivare mai a prodursi concretamente», come puntualizza Alessandro Tapparini. Inoltre, il Colorado è da diversi anni un blue state, dove i Repubblicani vengono dati per perdenti: non impatterà perciò moltissimo sulla candidatura alla Casa Bianca. Tutto, dunque, si esaurirebbe sul piano dell’immagine e della reputazione.

Trump, d’altra parte, non è neanche uno che demorde facilmente per vie legali e la sua campagna elettorale potrebbe essere costellata di procedimenti giudiziari nei suoi confronti. Quanto sarà cruciale quindi alle urne elettorali? Come reagiranno i Trumpiani? «Noi italiani sappiamo per esperienza che questo tipo di situazioni non fanno che ringalluzzire lo zoccolo duro dei simpatizzanti del politico sotto procedimenti giudiziari, perché viene visto come un tentativo di fargli lo sgambetto usando una via alternativa al processo democratico del voto, falsando quindi la campagna elettorale», spiega Tapparini. «Ciò renderebbe gli elettori fedeli a Donald Trump più motivati ad esserlo».

Dall’altra parte, coloro che non volevano in partenza votare Trump saranno ancora meno propensi a farlo, mossi dal danno alla reputazione che darà loro ulteriori conferme. «Sullo sfondo, resta da capire se ai suoi avversari Democratici, come Joe Biden, conviene avere Trump candidato oppure no», riflette Tapparini. «Si potrebbe pensare che a Biden giovi avere come avversario Trump: lo stesso Presidente ha recentemente dichiarato pubblicamente che lui non si sarebbe ricandidato per un secondo mandato se Trump non fosse stato lo sfidante principale».

La questione riflette esclusivamente quindi sulla reputazione con cui Trump affronterà la lunga marcia verso le presidenziali del 2024. «Il tema non sta tanto sull’esclusione di Trump dalle elezioni, come stabilito dalla sentenza, ma che ci partecipi con tanto piombo nelle ali, con un ruolo di persona con molti guai giudiziari, non pulita, non affidabile e non corretta», spiega Tapparini.

A cura di Laura Gaspari

Un’ Europa sempre più lontana dall’arte di Jean Monnet

Il secondo semestre del 2023 ha visto lo sgretolarsi delle ambizioni “geopolitiche” dell’Unione europea, annunciate dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen all’inizio del suo mandato. L’Unione ha superato bene le crisi scatenate dalla pandemia e dall’invasione russa dell’Ucraina, a patire dalla militarizzazione dell’energia da parte di Mosca, ma ora pare abbia perso la bussola, dimenticando l’arte di Jean Monnet, padre fondatore dell’Europa unita, di trasformare le crisi in opportunità per una maggiore integrazione.

Internamente, le forze nazionalpopuliste che remano contro il Green deal europeo si fanno più forti, sostenendo che la transizione energetica non sia che una ricetta fatta di lacrime e sangue. Insomma, tutt’altro che la via per un’Europa più sostenibile, prospera e giusta.

Anche la spinta verso una politica industriale europea si è affievolita, con la decisione di eliminare dall’eventuale revisione del bilancio europeo (sempre che a gennaio Victor Orban sia ridotto a più miti consigli) nuove fonti di finanziamento destinate a tali fini. Il rischio è infatti l’opposto: senza finanziamenti comuni e con il costante ricorso agli aiuti di Stato (da parte degli Stati membri che possono permetterselo), c’è la minaccia concreta dell’indebolimento del mercato unico europeo, che certo non gioverà all’industria europea.

Esternamente la situazione è ancora più critica. Nella guerra in Ucraina, mentre la Russia si è ristrutturata in un’economia di guerra, determinata a portare avanti uno scontro perpetuo contro l’Occidente (oggi in Ucraina, domani chissà), le potenze occidentali stanno aprendo gli occhi solamente ora riguardo al fatto che la loro strategia, mirata a non far perdere Kyiv ma non a farla vincere, sia arrivata al capolinea. Ci stiamo svegliando ora – chi più e chi meno – riguardo al fatto che non esiste un magico mondo di negoziati con Mosca frutto di uno “stallo”, ma che questa è una guerra che o si perde o si vince. Se dovessimo perderla per “stanchezza”, le vittime non sarebbero solo gli ucraini ma tutti gli europei. L’Europa sa che l’Ucraina è oramai parte integrante della sicurezza europea e l’avvio dei negoziati di adesione con Kyiv e Chişinău, per quanto l’inizio di un lungo viaggio, ne sono testimonianza. Siamo tuttavia ben lontani dall’agire di conseguenza, specie in materia di difesa.

Al di là del continente europeo, la posizione dell’Unione è ancor più critica. La guerra in Ucraina ha reso evidente sia l’importanza delle opinioni e posizioni del sud globale, sia  la reputazione tutt’altro che positiva dell’Europa in molte parti del mondo . La guerra in Medio Oriente, in cui l’Europa è divisa e debole, a traino di una Casa Bianca strattonata da forze di politica interna e dettata dalla testardaggine di un presidente ottantunenne, non “solo” sta generando un massacro senza precedenti di palestinesi, ma non può che ridurre a medio e lungo termine anche la sicurezza di Israele. Il mondo ci osserva, convinto sempre più della nostra debolezza e ipocrisia.

Tutto questo sarebbe già molto, eppure il 2024 rischia di aggiungere altro al menù delle sfide. A partire dalle elezioni europee che vedono le forze nazionalpopuliste di destra con il vento in poppa. Per non parlare degli Stati Uniti, dove la rielezione di Donald Trump è quanto meno verosimile. E anche se nulla di tutto ciò dovesse accadere in questo nuovo anno, la sola eventualità complicherà enormemente l’agenda politica nel primo semestre, aumentando il rischio di uno stallo sull’agenda climatica, dando manforte a Viktor Orban nel suo tentativo di sabotare l’Europa, riducendo l’ambizione e l’attenzione sull’Ucraina e sulle riforme interne all’Unione, mentre rimaniamo inermi riguardo a una guerra in Medio Oriente sull’orlo della regionalizzazione.

Se andrà tutto bene, il 2024 sarà un anno difficile in cui l’Europa al massimo rimarrà a galla, ma poco più. Una condizione certamente necessaria ma tutt’altro che sufficiente per riscoprire l’arte di Jean Monnet.

“Global South” VS Occidente

Il 2023 è stato un anno difficile che termina con due sanguinosi conflitti internazionali ancora irrisolti e i cui sviluppi influenzeranno pesantemente il futuro del sistema internazionale.

L’anno che si apre è soprattutto un anno elettorale: dalla Russia, dove il risultato dell’elezione del futuro Presidente sembra ad oggi scontato, agli Stati Uniti dove invece la competizione è apertissima, non solo tra i due attuali “front runners”, ma anche per il possibile emergere di uno o più “dark horses”.

Quest’anno vedremo anche l’elezione di un nuovo Parlamento Europeo, in un periodo di relativa debolezza delle grandi famiglie politiche che hanno sinora guidato i destini europei e di crescita di formazioni nazionaliste e populiste.

È difficile che, in un simile scenario, vengano privilegiate visioni di largo respiro o quanto meno lungo periodo e vengano tracciati grandi disegni di ordine e di governo internazionale. Eppure è quello di cui il mondo avrebbe più bisogno.

Nei mesi scorsi abbiamo visto emergere la sfida del cosiddetto “Sud Globale” contro quel che rimane della vecchia leadership occidentale. Ma in realtà questa è più un’immagine propagandistica che una realtà operativa. Il Sud Globale è una sorta di etichetta retorica che ricopre una realtà molto differenziata, ricca di profonde contraddizioni e persino di feroci rivalità.

A capo del Sud Globale si sono posti i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), che quest’anno si allargano ad Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Iran, Etiopia ed Argentina. Altri allargamenti potrebbero avvenire in futuro.

È un Sud molto virtuale, che spazia dal Circolo Polare Artico, con la Russia, all’Antartico con l’Argentina, ma che è, in massima parte, situato ben a Nord dell’equatore (con le sole eccezioni di Brasile, Sud Africa ed Argentina). Ma soprattutto è una realtà politica molto confusa. Questi paesi, a parte rivendicare un maggior ruolo e una maggiore fetta di potere internazionale, non hanno sinora delineato un loro disegno di nuovo sistema internazionale.

Ad oggi, il loro maggior risultato è stato quello di svuotare l’utilità e il ruolo del G20, ridando così fiato e scopo all’alleanza dei paesi occidentali guidati dagli USA e dal G7 (che ha ormai perso definitivamente la Russia, che lo aveva per breve tempo trasformato in G8, e non è riuscito ad includere la Cina).

Il sistema della Nazioni Unite è paralizzato al livello del Consiglio di Sicurezza dai contrasti tra i 5 detentori del diritto di veto sulle guerre in Ucraina e in Medio Oriente ma, in compenso, non sembra avere alternative. La Cina ha apparentemente una qualche ambizione di ridisegnare questo sistema a sua immagine, ma la sua visione sino-centrica non raccoglie ancora grandi consensi. Al contrario, suscita timori e resistenze, in primo luogo nel suo vicinato, in Asia. Principalmente, il disegno cinese ha ancora troppe caratteristiche “imperiali”.

C’è chi vedrebbe con favore la formazione di due blocchi globali contrapposti, nella speranza di rieditare i meccanismi e gli equilibri della vecchia Guerra Fredda, su linee e con protagonisti diversamente aggregati. Ma la situazione sembra troppo incerta. Nel Sud Globale è ancora forte la presenza ideologica del “non allineamento”, che spesso giustifica anche la forza di ambizioni nazionaliste contrapposte. Questi paesi non vogliono essere parte di un blocco integrato, guidato da Pechino. D’altronde, la capacità e la volontà cinese di impegnarsi nella gestione delle crisi internazionali è ancora molto limitata, come abbiamo visto in occasione dell’ultima pandemia, nonché nel prudente assenteismo di fronte alle guerre in Ucraina e Medio Oriente.

L’iniziativa resta perciò ancora nelle mani del vecchio ed indebolito Occidente, che tuttavia non è solo meno potente di ieri, ma anche meno propenso ad esercitare attivamente la sua leadership e a sopportarne i grandi costi. Certo, ha reagito bene all’aggressione russa, ma ora sembra incerto sui futuri sviluppi della guerra: puntare alla sconfitta di Putin o a mantenere una situazione di stallo? Anche in Medio Oriente regna l’incertezza. Americani ed europei vorrebbero mettere fine al conflitto Israelo-palestinese con la creazione di due Stati separati e sovrani: ma questa soluzione non raccoglie consensi sufficienti né in Israele né tra i palestinesi. Può essere imposta dall’esterno? E a quali costi?

Purtroppo, oggi la gestione delle crisi e dei conflitti richiede costosi interventi diretti, dall’esito incerto e politicamente controversi, nonché la cooperazione attiva di numerose, ambiziose e litigiose potenze regionali.

Abbiamo quindi di fronte un anno difficilissimo, durante il quale l’obiettivo minimo è quello di mantenere in vita quel che resta degli equilibri internazionali.

Un ruolo chiave potrebbe essere giocato, a sorpresa, dall’Unione Europea, che è un po’ il “cigno nero” di questa situazione: un’entità da cui nessuno sembra aspettarsi niente di risolutivo, ma che, in realtà, negli ultimi anni, ha sorpreso un po’ tutti per la sua resilienza e per la determinazione con cui è riuscita ad affrontare molte gravissime crisi, interne ed estere. Vorremmo essere nuovamente sorpresi.

Una pesante eredità per la Democrazia americana

L’8mbra di Donald Trump si allunga sulle prossime elezioni presidenziali – e per il Congresso – negli Stati Uniti. È un’ombra minacciosa, non soltanto per quanto l’ex presidente potrebbe fare se tornasse in carica, ma anche per l’effetto dirompente sugli equilibri politici e istituzionali degli Stati Uniti dei suoi guai con la giustizia, l’ultimo dei quali potrebbe addirittura vederlo escluso dalla corsa per la Casa Bianca.

Le primarie repubblicane finite prima di iniziare?

I sondaggi accreditano l’ex presidente di un vantaggio abissale (fino al 63%) nella corsa alla nomination repubblicana e lo vedono leggermente in vantaggio sul democratico Joe Biden nella sfida di novembre.

L’idea che un candidato alternativo a Trump possa accumulare da una vittoria nelle primarie in Iowa o New Hampshire un tale slancio da superare l’ex presidente sembra così remota da apparire accademica. I sondaggi a livello statale vedono primeggiare Trump ovunque, già a partire dall’Iowa, quasi sempre con distacchi non troppo dissimili dal voto nazionale. Dopo il ‘super martedì’ 5 marzo, quando ben sedici stati selezioneranno i delegati a sostegno dei candidati per la convention repubblicana di Milwaukee a luglio, l’ex presidente dovrebbe quindi aver già risolto la questione nomination.

Dopo la cattiva performance dei candidati appoggiati da Trump alle elezioni di metà mandato del 2022, si è pensato che il Partito Repubblicano si potesse orientare verso figure meno controverse (sebbene non meno radicali), come il governatore della Florida Ron DeSantis, fresco di trionfale riconferma.

Nei mesi successivi è apparso chiaro tuttavia che quest’ipotesi non aveva una solida base. Invece di insistere sulla sua maggiore ‘eleggibilità’ in base al suo record economico e di resistenza alle regolamentazioni anti-Covid (molto impopolari nella destra Usa), DeSantis ha rilanciato su un’agenda tutta incentrata su una feroce battaglia culturale anti-progressista, spesso spostandosi su posizioni più estreme dello stesso Trump su questioni come l’aborto. Lo stesso hanno fatto altri candidati come l’imprenditore Vivek Ramaswamy. Eppure, in due DeSantis e Ramaswamy raccolgono intorno al 15% dell’elettorato conservatore. Chiaramente gli elettori di destra preferiscono l’originale alle copie.

I candidati non-trumpiani (come l’ex vice-presidente Mike Pence) o dichiaratamente anti-trumpiani (come l’ex governatore del New Jersey Chris Christie) alla nomination repubblicana sono note a piè di pagina nel libro delle primarie. L’unica apparente eccezione è la grande speranza dei conservatori tradizionali, l’ex governatrice della South Carolina ed ex ambasciatrice Usa all’Onu (sotto Trump), Nikki Haley. Per quanto magnificata dalla stampa e sostenuta da un numero crescente di ricchi donatori, Haley non è una candidata forte – è anzi molto debole. Dopotutto, langue a un misero 11% nei sondaggi nazionali. In Iowa, da cui dovrebbe partire l’assalto all’ex presidente, oscilla intorno al 16%, ben 35 punti sotto Trump.

L’opposizione fantasma

La stagione delle primarie dei Repubblicani che si aprirà la settimana prossima sembra avere già un esito scontato. Dal momento in cui la nomination sarà sicura, ogni forma di opposizione residuale a Trump in campo conservatore si scioglierà, e tutto il partito e l’elettorato conservatore si stringeranno attorno all’ex presidente, come del resto hanno largamente fatto negli ultimi anni.

Dopo l’elezione del 2020, quando i tentativi dell’ex presidente di invalidare la vittoria di Biden sono culminati nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 da parte di una folla di suoi sostenitori, era frequente imbattersi in Repubblicani che, soprattutto dietro le quinte, contavano sul fatto che Trump fosse finito. L’evidenza in senso contrario però ha cominciato ad accumularsi ben presto.

La notte stessa dell’attacco al Campidoglio, in cui cinque persone erano rimaste uccise, 139 rappresentanti e otto senatori repubblicani si rifiutarono comunque di certificare la vittoria di Biden, senz’altra giustificazione se non quella di mantenere consenso in una base elettorale convinta nonostante l’evidenza contraria che l’elezione fosse stata truccata.

Poco dopo, l’opposizione dei Repubblicani impedì che il secondo impeachment di Trump sfociasse nella sua formale destituzione.

Solo due Repubblicani, entrambi costretti poi a lasciare il partito, hanno successivamente partecipato all’inchiesta della Camera sull’assalto al Campidoglio, conclusasi con la raccomandazione di incriminare l’ex presidente per insurrezione.

E quando le incriminazioni sono arrivate, Trump non ha perso consensi tra i conservatori. Se un effetto c’è stato, al momento sembra più quello di avere galvanizzato la destra, persuasa che Trump sia vittima di incriminazioni motivate politicamente. L’ex presidente, è il caso di ricordare, è indagato sia a livello federale che in Georgia per aver tentato di invalidare l’elezione del 2020, nonché per trasferimento e possesso illegale di documenti secretati (sempre a livello federale) e violato le leggi sul finanziamento elettorale nello stato di New York.

La forza di Trump è la debolezza di Biden

Sicuro o quasi di ottenere la nomination, Trump può guardare con ottimismo a novembre. L’ex presidente resta un candidato estremamente controverso alla luce dei suoi guai giudiziari, della sua retorica sempre più estrema, dei suoi istinti autoritari. Ciò nonostante, ha guadagnato consensi in settori elettorali chiave per i Democratici, come i maschi neri e latini.

La sua carta vincente è l’impopolarità di Biden, che non riesce a scollarsi dal 40% dei conensi. Nonostante l’economia sia cresciuta a ritmi sostenuti e la disoccupazione sia ai minimi storici, il presidente sconta l’effetto dell’inflazione (tornata sotto controllo, ma dai livelli più alti dai primi anni ’80), l’ansia per la perdurante immigrazione, e soprattutto la percezione che sia troppo avanti negli anni per un altro mandato.

Al contrario del 2016, questa volta Trump può contare su un’infrastruttura organizzativa – il cosiddetto Project 2025, creato dal think tank ultraconservatore Heritage Foundation – per mettere in atto un’agenda di governo radicale. Il piano è quello di svuotare l’amministrazione federale di personale di carriera e sostituirlo (almeno nelle posizioni chiave) con persone selezionate sulla base dell’assoluta lealtà a Trump. Il Dipartimento di Giustizia verrebbe così asservito alla Casa Bianca e usato non solo per eliminare le minacce giudiziarie (Trump potrebbe anche auto-graziarsi dai reati federali se fosse già stato condannato) e perseguire gli avversari politici. Non a caso negli Usa anche pensatori di destra parlano di una prossima deriva autoritaria.

Trump ha creato un conflitto epocale tra volontà popolare e diritto

Una seconda presidenza Trump, tuttavia, non è scontata. Biden potrebbe recuperare terreno e sconfiggere l’ex presidente, come ha fatto nel 2020. Un’eventuale condanna in uno dei quattro processi penali potrebbe intaccarne il consenso tra gli indipendenti e anche i repubblicani (un terzo dei quali si dice indisponibile a sostenerlo in questo caso).

Oppure Trump potrebbe essere escluso a priori, se la Corte Suprema dovesse confermare la sentenza con cui la più alta corte del Colorado ha dichiarato Trump ineleggibile perché colpevole di insurrezione.

La Corte Suprema non dovrebbe esprimersi verosimilmente prima di un paio di mesi. Si tratta forse della sentenza più importante – senz’altro la più attesa – della storia degli Stati Uniti. In sostanza i nove giudici – sei conservatori (la metà dei quali nominati dallo stesso Trump) e tre progressisti – si trovano di fronte alla questione se, in una democrazia costituzionale, il giudizio sull’eleggibilità di un cittadino discenda in ultimo dalla legge o dal corpo elettorale.

Qualunque l’esito, una parte dei cittadini sentirà il verdetto come illegittimo, allargando ulteriormente le divisioni nel già ultra-polarizzato elettorato americano.

Legge o politica? Stato di diritto o volontà popolare? La storia degli Stati Uniti (e non solo) è anche il costante tentativo non solo di far convivere le due cose ma di renderle parti complementari di un insieme organico. Oggi sono separate e anzi in conflitto tra loro. Già prima di concludersi tra un anno o cinque, la vicenda politica di Donald Trump ha lasciato una pesante eredità per la democrazia americana.

“Make America Great Again”. Il remake

“Trump.2: la vendetta”. Sembra solo una battuta facile, di fronte alla possibilità di un ritorno del profeta del populismo americano per un secondo, straordinario, mandato alla Casa Bianca. Ma non è affatto una battuta. La vendetta è esattamente non solo il sapore, ma anche la cifra della nuova impresa di Trump. È stato lui stesso ad evocarla: “sono la vostra vendetta” ha detto ai suoi sostenitori. Ma, nel Trump 2024, la vendetta ha due significati: diversi e coincidenti solo nella narrazione dello stesso Trump. Ed è proprio la capacità o meno di farli coincidere, anche per il suo elettorato, la chiave di un possibile (troppo presto per dire probabile) ritorno alla Casa Bianca.

Il primo significato è quello da sempre implicito nel MAGA, il nostalgico slogan Make America Great Again che ha trascinato le fortune elettorali di Trump. Lo slogan – ricorrente nelle campagne populiste, sempre pronte ad evocare passate età dell’oro –  nella versione trumpiana, in realtà, più che un richiamo nostalgico è un grido di battaglia. Nel tribalismo partigiano che domina l’America di oggi, il MAGA è diventato l’inno della rivolta e della rivalsa di larghe fasce di elettorato, decise ad esigere vendetta da un establishment politico-economico-culturale che sentono lontano, ostile e, soprattutto, estraneo: colletti blu colpiti e piegati dalla globalizzazione, tradizionalisti spaventati dall’affermarsi di nuovi diritti e di nuovi protagonisti sociali, quella Middle America che ce l’ha fatta, ma avverte, con crescente insofferenza, lo stigma di avere solo il diploma e non la laurea.

Ma Trump è, anzitutto, esaltazione egocentrica e questa vendetta sociale è, in realtà, soffocata dalla seconda: la sua, personalissima, vendetta contro chi ha lavorato per spodestarlo. La confusione dei due piani è insistita ed esplicita. L’obiettivo di una nuova presidenza, dice Trump, è “sradicare marxisti, fascisti e i delinquenti radicali di sinistra che mentono, rubano e barano sulle elezioni”. È un’ipoteca pesante e sinistra sul prossimo spoglio elettorale, che rischia di essere già uno spartiacque della democrazia americana, ancor più di tre anni fa. Ma per questa democrazia americana, come la conosciamo, la prova più dura sembra arrivare subito dopo, in caso di vittoria di Trump. L’ex presidente, infatti, si propone di ridisegnare in modo inedito, i confini e le competenze della presidenza, prefigurando una sorta di Casa Bianca in salsa latinoamericana.

Dimenticate il Watergate e tutte le vicende (più un buon quarto della produzione di Hollywood), in cui le istituzioni Usa hanno saputo contrastare e sconfiggere pericolose deviazioni, da qualunque parte venissero. A colpi di decreti presidenziali, se occorre, Trump ha già detto che intende porre fine all’indipendenza del Ministero della Giustizia e dell’Fbi, che non sono “un quarto braccio del potere” e vanno portate sotto l’autorità diretta della Casa Bianca. Contemporaneamente, pensa di eliminare le garanzie e le tutele di migliaia di dipendenti pubblici contro il licenziamento, con l’obiettivo di imbottire la burocrazia di personale leale e fidato. “Dobbiamo evitare – chiarisce il futuro candidato repubblicano – che burocrati senza faccia possano perseguitare conservatori, cristiani o i nemici politici della sinistra”. Il repulisti, in particolare all’Fbi e alla Giustizia, è, cioè, la premessa per scatenare, al contrario, una campagna di inchieste e incriminazioni contro i suoi avversari politici.

Emerge, qui, una fragilità del sistema americano, dove molte garanzie e tutele – come l’indipendenza dell’amministrazione pubblica – sono frutto di consuetudini, tradizioni, buona educazione, si potrebbe dire, piuttosto che di leggi ben fissate e sono, dunque, vulnerabili e scavalcabili. Ma questa offensiva non avverrebbe nel vuoto. Si fa fatica, infatti, ad immaginare, nell’America al calor bianco immediatamente successiva ad una nuova vittoria di Trump, la tempesta di panico e rivalsa che avvilupperebbe una Casa Bianca impegnata ad attaccare ad alzo zero, con tutti i mezzi, i suoi avversari, e a ridisegnare la presidenza, mentre combatte, contemporaneamente, contro tutti i suoi processi e, dal 2025, possibili incriminazioni.

Riuscirebbe a navigare la tempesta una Casa Bianca caotica e contradditoria, come quella del primo Trump? No. Ma il Trump 2 si annuncia molto diverso, disciplinato e coerente. Squadre di avvocati sono già al lavoro per consolidare i nuovi poteri presidenziali, mentre è in corso lo screening per reclutare il personale della nuova amministrazione. Uno screening, ha rivelato la stampa, tutto ideologico, volto ad eliminare qualsiasi nostalgico del partito repubblicano di Reagan o Bush. L’obiettivo dichiarato è mettere in marcia un’amministrazione di destra, questa volta, “efficiente”.

Efficiente, in realtà, è dire poco, per un’amministrazione che dovrebbe essere capace di rastrellare milioni di immigrati illegali, radunare migliaia di homeless in appositi campi (l’alternativa, nel programma, è la prigione), mobilitare anche i militari contro un’ipotetica ondata criminale, mentre intimidisce e riduce al silenzio l’opposizione politica.

In prospettiva, il Trump.2 non avrebbe freni. Non la magistratura, che non è in grado (altro elemento di fragilità) di rendere operative sanzioni e sentenze contro un presidente in carica. Non il vecchio partito repubblicano, i cui esponenti, nella prima presidenza Trump, hanno bloccato o vanificato molte iniziative del presidente: l’obiettivo immediato è proprio di tagliare fuori il vecchio Grand Old Party. Non, infine e soprattutto, il Congresso, dove la sola ricandidatura di Trump segnerà la sconfitta dell’establishment e il riallineamento in blocco di deputati e senatori alla nuova guida populista. Non aspettatevi un altro Mike Pence, capace di rintuzzare la rivolta del 6 gennaio.

Il Green Deal europeo in pericolo

Il Green Deal europeo, nato a fine 2019, ha mostrato grande resilienza dinanzi alle crisi che lo hanno attraversato, dalla pandemia alla crisi energetica. La legge climatica europea adottata nel 2021 ha introdotto per la prima volta un obiettivo vincolante di riduzione delle emissioni di lungo periodo e il pacchetto legislativo Fit for 55 – inclusivo di misure di adeguamento della legislazione precedente e di nuove iniziative –  ha definito standard regolatori internazionali in materia di transizione verde.

In quattro anni, il quadro normativo si è arricchito di molte nuove proposte e rinvigorite misure, facendo dell’Unione Europea un’apripista a livello globale nella definizione delle politiche a sostegno della neutralità climatica. Tra queste misure, la riforma dell’Emission Trading Scheme (ETS), la riforma delle direttive rinnovabili (REDIII), efficienza energetica (EED), performance energetica degli edifici (EPBD), e dei regolamenti sugli standard emissivi per auto e furgoni, sui settori non soggetti all’ETS (ESR) e sull’uso e modifiche d’uso del territorio e delle foreste (LULUCF), la regolamentazione delle emissioni di metano nel settore energetico e l’introduzione del meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (carbon border adjustment mechanism, CBAM).

Nel 2024 si apre per la politica climatica europea una fase delicata. Le proposte del pacchetto Fit for 55 sono per la maggior parte state adottate o hanno raggiunto la fase dell’accordo politico e dunque potranno verosimilmente chiudersi prima delle elezioni europee il prossimo giugno. Guardando alla prossima legislatura però, i maggiori rischi di stallo per il Green Deal Europeo riguarderanno principalmente l’implementazione delle numerose misure approvate in questi anni.

Grande attenzione sarà perciò dedicata ad attutire gli impatti sociali che la transizione, se condotta in modo disordinato, potrà portare con sé. Nel corso dell’anno appena passato a livello europeo si è infatti manifestata una crescente politicizzazione del tema nei dibattiti domestici di molti Stati membri. Mentre in precedenza la politica climatica era concepita come puramente tecnica, c’è ora una maggiore consapevolezza della trasformazione necessaria per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione.

In Olanda nel corso del 2023 si è affermato un movimento di protesta del settore agricolo contro la riduzione del 50%   entro il 2030 di emissioni inquinanti; in Germania, il bando delle caldaie a gas al 2024 ha scatenato reazioni anche all’interno della stessa coalizione di maggioranza. Pur riaffermando l’impegno nel perseguimento degli obiettivi del Green Deal, anche in Italia si è manifestata una crescente polarizzazione politica sul tema della decarbonizzazione. Durante il 2023, rappresentanti della maggioranza di governo hanno per esempio chiesto di diluire una direttiva volta a migliorare l’efficienza energetica degli edifici e di rivalutare i piani di eliminazione graduale dei motori termici alimentati a benzina e diesel.

Questo genere di dinamiche suggeriscono che l’agenda climatica otterrà un’inconsueta centralità nelle prossime elezioni europee e nazionali e che l’eventualità di una crescente polarizzazione sul tema rimane un rischio per la fase di implementazione del Green Deal a livello locale. Uno spostamento a destra dell’asse del Parlamento europeo potrebbe in qualche modo avere un impatto sugli sviluppi delle politiche europee ancora meno toccate dalla legislazione in materia di sostenibilità come, ad esempio, la politica agricola.

Appare invece affrettato ipotizzare una regressione delle politiche energetiche a sostegno della decarbonizzazione, mentre è possibile che ci sia una revisione della pianificazione finanziaria o, non meno preoccupante, delle tempistiche della transizione. Sul piano della governance, il 2024 sarà ugualmente un anno impegnativo: il prossimo esecutivo UE dovrà occuparsi dei target intermedi al 2040 previsti dalla legge europea sul clima.  Come previsto dal Regolamento (UE) 2018/1999 e sulla base dell’obiettivo comunitario di riduzione dei gas serra del -55 % al 2030 rispetto al 1990, i governi nazionali dovranno inoltre consolidare l’aggiornamento dei propri Piani nazionali Energia e Clima (NECPs) entro giugno 2024 secondo le direttive inviate loro dalla Commissione Europea a fine 2023.

Il 2023 è stato anche un anno significativo per un altro obiettivo del Green Deal, quello di rafforzare la competitività dell’UE nella transizione. La normativa sull’industria a zero emissioni nette (Net Zero Industry Act), emersa con la crescente geopolitizzazione e securitizzazione delle catene del valore nel contesto delle tensioni tra USA e Cina, propone una riarticolazione della decarbonizzazione intorno a filiere domestiche. Nel contesto di questo dibattito, è tornato il tradizionale dibattito in merito all’erogazione di nuovi strumenti di sostegno finanziario – con i paesi nordici a favore di schemi di sussidio nazionale, sfruttando allentamenti nella disciplina degli aiuti di stato, e paesi con ridotti margini di manovra fiscale, come l’Italia, che rischiano di non poter sfruttare le opportunità industriali della transizione.

Nel 2024, dunque, la conversazione sul più ampio Piano Industriale dell’Unione continuerà. Sarà, infine, un anno importante anche per la definizione di una più strutturata dimensione esterna del Green Deal. A partire, in particolare, dalla riconfigurazione dei flussi energetici che ha restituito una maggiore centralità al Mediterraneo, con cui la cooperazione resta tuttavia ancora embrionale e frammentata.

Un nuovo anno per le Afriche

Contrassegnato dalla sua diversità, il continente africano deve affrontare sfide significative. Le trasformazioni guidate dalla crescita demografica, dall’urbanizzazione e dalle nuove tecnologie coincidono con gli effetti del cambiamento climatico, delle crisi geopolitiche e delle nuove rivalità strategiche. Molti occhi sono ora rivolti al continente, non solo a causa delle sfide di vecchia data  che le “afriche” devono affrontare, ma soprattutto per le nuove opportunità che offrono.

Alcuni “afro-ottimisti” definiscono l’Africa come la nuova frontiera della geopolitica e dell’economia mondiale, la Cina di domani o un futuro El Dorado. Altri “afro pessimisti” la vedono come la perfetta illustrazione delle “tre parche mortali” di Malthus: guerre, epidemie e carestie.

Più realisticamente, è opportuno analizzare le opportunità, i rischi e le sfide di un continente e di Stati contrastanti, in pieno fermento, che, come un vulcano, portano fertilità, creatività e vulnerabilità. L’Africa raddoppierà la sua popolazione entro il 2050 per raggiungere circa 2 miliardi di abitanti, ovvero più del 20% della popolazione mondiale, con una percentuale crescente di giovani. Ciò può, a seconda delle strategie seguite, costituire una leva per lo sviluppo oppure una bomba a orologeria. Alcune aree verranno integrate nel “sistema mondiale” mentre altre verranno emarginate.

Nelle analisi della  grande transizione che vive il continente, occorre non solo distinguere le aree geografiche che sviluppano ciascuna proprie dinamiche, ma anche gli ambiti economici, politici e geopolitici, tenendo in debita considerazione, nel contempo, le caratteristiche comuni di un continente che sta da 60 anni dentro un processo unitario discontinuo, a tratti deludente, ma che ha finito per porre le basi di una visione panafricana condivisa e destinato  a svilupparsi nel futuro.

Economia ferita ma vivace

L’Africa è il continente più vario del mondo, sia dal punto di vista climatico, ambientale, sociale e politico, sia da quello economico e demografico. Tra i 54 Stati africani ci sono certamente alcuni tratti comuni, come l’economia della rendita, i poteri politici personalizzati, il peso dei referenti identitari rispetto ad una coscienza nazionale. Alcune economie hanno registrato una forte crescita dopo l’indipendenza (Botswana, Mauritius), mentre altre sono regredite (Madagascar, Zimbabwe). Stanno emergendo alcune potenze come il Sudafrica, l’Etiopia o la Nigeria, mentre alcuni stati sono senza sbocco sul mare o in conflitto (come la Somalia,  i due Sudan o alcuni Stati del Sahel).

Secondo il rapporto 2023  della BAD (Banca Africana dello Sviluppo), la crescita media stimata del PIL reale in Africa è rallentata al 3,8% nel 2022, rispetto al 4,8% nel 2021, a fronte delle grandi sfide seguite allo shock del Covid-19 e all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Nonostante questo rallentamento economico, 53 dei 54 paesi africani hanno mostrato una crescita positiva. Le cinque regioni del continente rimangono resilienti con prospettive stabili a medio termine.

Tuttavia, il rapporto invita anche a tener conto degli attuali rischi globali e regionali. Questi rischi includono l’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari e dell’energia, l’inasprimento delle condizioni finanziarie globali e il connesso aumento dei costi del servizio del debito interno. Il cambiamento climatico – con i suoi effetti negativi sulle forniture alimentari e il potenziale rischio di un cambiamento politico nei paesi con elezioni nel 2024 – pone minacce altrettanto temibili.

Nel 2023-24, L’Africa diventerà la seconda regione a più rapida crescita al mondo dopo l’Asia, dimostrando così la continua resilienza della sua economia, nonostante i molteplici shock globali. Ma, secondo l’edizione 2023 del rapporto della Banca africana di sviluppo intitolato “Africa Economic Outlook 2023 – Mobilitare i finanziamenti del settore privato per il clima e la crescita verde”, la crescita prevista dipenderà dalle condizioni globali e dalla capacità del continente di rafforzare la propria resilienza economica.

Si prevede un consolidamento della ripresa dall’impatto della pandemia di COVID-19, con una crescita del PIL del 4,3% nel 2024, rispetto al 3,8% del 2022. Circa 22 paesi registreranno tassi di crescita superiori al 5%. Il rapporto raccomanda azioni politiche vigorose, tra cui l’incoraggiamento delle industrie verdi e la fornitura di garanzie su larga scala per ridurre i rischi associati agli investimenti del settore privato nella gestione delle ricchezze naturali del continente. Pur evidenziandone le sfide, l’African Economic Outlook 2023 si concentra principalmente sulle opportunità per mobilitare investimenti privati ​​e know-how e sfruttare il vasto capitale naturale del continente per combattere il cambiamento climatico e promuovere la transizione verso una crescita verde.

Nel 2023-2024, le  cinque economie africane con le migliori performance nel periodo pre-Covid-19 cresceranno di media oltre il 5,5% e riconquisteranno il loro posto tra le dieci economie più dinamiche del mondo. Questi paesi sono Ruanda (7,9%), Costa d’Avorio (7,1%), Benin (6,4%), Etiopia (6,0%) e Tanzania (5,6%). Ma, più in generale, anche altri paesi africani registreranno la stessa crescita: Repubblica Democratica del Congo (6,8%), Gambia (6,4%), Libia (12,9%), Mozambico (6,5%), Niger (9,6%), Senegal (9,4%) e Togo (6,3%).

Il rapporto raccomanda l’adozione di misure forti per affrontare questi rischi, che includono un mix di politiche monetarie, fiscali e strutturali, tra cui:

– un inasprimento rapido e aggressivo della politica monetaria nei paesi con elevata inflazione e un inasprimento moderato nei paesi con basse pressioni inflazionistiche. Un efficace coordinamento delle azioni fiscali e monetarie ottimizzerà i risultati degli interventi mirati, volti a controllare l’inflazione e le pressioni di bilancio.

– Rafforzare la resilienza attraverso la stimolazione del commercio intra-africano, soprattutto per quanto riguarda i manufatti, al fine di attenuare gli effetti della volatilità dei prezzi delle materie prime sulle economie.

– Accelerare le riforme strutturali per rafforzare la capacità dell’amministrazione fiscale e investire nella digitalizzazione e nella governance elettronica per migliorare la trasparenza, ridurre i flussi finanziari illeciti e aumentare la mobilitazione delle risorse nazionali.

– Migliorare la governance istituzionale e adottare politiche in grado di mobilitare i finanziamenti del settore privato, in particolare nel contesto di progetti completamente nuovi, resistenti ai cambiamenti climatici e alle pandemie, e mobilitare le risorse dell’Africa per uno sviluppo inclusivo e sostenibile.

– Adottare azioni decisive per ridurre i deficit di bilancio strutturali e l’accumulo di debito pubblico nei paesi ad alto rischio di difficoltà debitoria o già in una situazione di difficoltà debitoria.

Questo rapporto evidenzia, inoltre, l’importante ruolo dell’immensa ricchezza naturale dell’Africa e sottolinea l’urgenza di accelerare l’azione per il clima e le transizioni verdi al fine di guidare lo sviluppo inclusivo e sostenibile del continente.

Crescita economica senza sviluppo

Tuttavia, l’attuale mancanza di  crescita economica ha contribuito a ridurre le disuguaglianze solo in modo limitato, e questo solo in un terzo dei paesi della regione. In tal modo, anche a causa della forte crescita demografica, circa un terzo della popolazione continua a vivere in estrema povertà. Attualmente, il 70% dei poveri del pianeta vive in Africa. Inoltre, i progressi compiuti in questi ultimi anni sono stati in parte minacciati dalla pandemia di COVID-19. Quest’ultima, infatti, ha già portato ad un netto calo dei trasferimenti di fondi della diaspora, una manna essenziale per molte persone. Nel 2019, questi pagamenti sono stati complessivamente più di 48 miliardi di dollari, circa l’equivalente dei fondi pubblici e globali destinati agli aiuti allo sviluppo nel continente.

Inoltre, quasi il 90% dei posti di lavoro esistenti in Africa sub-sahariana rientrano nel settore informale. Anche al di fuori dell’agricoltura – che rimane il settore dominante –, questo tasso supera il 75%. La regione soffre anche di carenza di posti di lavoro e mancanza di prospettive per i giovani. Tuttavia, è solo sviluppando il settore formale che  sarà possibile includere i più giovani, aumentare la base imponibile e garantire un’assicurazione sociale, favorendo così l’emergere di una classe media con un certo potere d’acquisto.

L’innovazione è un importante motore di crescita anche in Africa,  dove vive un’imprenditorialità giovane e dinamica, che investe in start up e incubatori. Un altro potenziale motore di crescita risiede nella sua ricchezza di materie prime. La dipendenza da quest’ultimo, però, comporta anche dei rischi, legati alla fragilità del settore di fronte agli shock dei fattori esterni, nonché al debito e alla corruzione. Anche la ricchezza delle materie prime contribuisce solo debolmente alla prosperità della popolazione e rappresenta, seppur parzialmente, un ostacolo alla diversificazione economica. Tuttavia, questa diversificazione è essenziale per lo sviluppo di un’economia sostenibile.

Proprio l’impoverimento di massa, nonostante statistiche ottimiste, merita una profonda analisi per le ripercussioni che ha sui processi politici e geopolitici. Occorre, a nostro avviso,  archiviare gli entusiasmi esagerati dei processi di democratizzazione che non hanno portato democrazia ma “democrature” pressoché’ ovunque, persino in Senegal, una volta vetrina di democrazia. Organizzare elezioni, avere formali istituzioni scimmiottate da modelli extra africani, imitare modelli autocratici cinesi o russi, non rispettare la libertà di stampa, rendere eterna la permanenza al potere, mettere la museruola agli oppositori, clochardizzare un intero popolo nelle città e nelle campagne non significa democratizzare l’Africa.

Trentaquattro anni d’inganno democratico (1990-2024) devono cessare. E, nella loro complessità e ambiguità, i colpi di stato evidenziano la stanchezza e la delusione dei popoli nei confronti di questa parodia di democrazia dell’uomo solo al comando. Si riparta da zero con l’affermazione solenne che non c’è democrazia senza l’accesso di tutti ai beni essenziali. Basic needs are basic rights deve diventare il motto dei processi della nuova democratizzazione del continente. E questa scelta la devono fare gli africani, senza l’alibi del cattivo colonizzatore che opprime. La democrazia, prima ridà la vita alla maggioranza, poi cerca le vie istituzionali per la partecipazione e la gestione del potere. Solo a partire da questo si potranno capire le dinamiche politiche e geopolitiche in corso nel continente e che saranno oggetto della nostra attenzione nelle prossime edizioni dell’Africa che verrà nel 2024.

Trump alla Casa Bianca: i rischi per l’Europa

A pochi giorni dall’inizio del ciclo delle primarie e a poco meno di dieci mesi dalle elezioni presidenziali negli USA sembra inevitabile la prospettiva che l’ex Presidente Trump sarà il candidato del Partito Repubblicano. Mentre sul fronte del Partito Democratico non sembrano esservi alternative alla candidatura dell’attuale Presidente in carica, malgrado il pesante handicap dell’età, qualche problema di salute, l’avvio di una procedura di “impeachment” e le peripezie giudiziarie del figlio. Siamo quindi verosimilmente in presenza di una replica della sfida fra Biden e Trump, con i sondaggi che in questi giorni danno il candidato repubblicano in testa sia pure di misura.

La prospettiva di un ritorno di Trump

Allo stato attuale è difficile fare previsioni sull’impatto che potranno avere sull’esito delle elezioni del novembre 2024 l’evoluzione della situazione della economia americana, l’andamento del mercato del lavoro negli USA, le problematiche di sicurezza interna, la gestione dei flussi migratori, le prospettive della guerra in Ucraina, la ripresa del conflitto israelo-palestinese, gli sviluppi della competizione globale con la Cina oltre a numerose altre variabili. Al netto comunque di questi fattori di incertezza ci sono concrete probabilità di un ritorno di Trump alla Casa Bianca, anche perché apparentemente i processi in corso nei confronti dell’ex Presidente da parte di varie magistrature statali e federali, per reati di varia gravità, non sembrano scalfire il sostegno né della maggioranza del partito repubblicano né dello zoccolo duro dell’elettorato repubblicano.

La prospettiva di un ritorno di Trump alla Casa Bianca, possibile anche nel caso di condanna in uno dei quattro processi intentati contro l’ex Presidente, è quindi un rischio concreto e plausibile. E una prospettiva di questo tipo, che rappresenta una minaccia per la democrazia negli USA e un incubo per un importante componente dell’elettorato americano, costituirebbe una fonte di enorme preoccupazione anche per gli alleati europei degli USA. Anche perché questa volta Trump, consapevole che nel suo precedente mandato alla Casa Bianca non era riuscito a realizzare il suo preoccupante programma elettorale per le resistenze del cosiddetto “deep state”, ha già minacciato di attuare un drastico ricambio di personale nella Amministrazione a tutti i livelli con l’obiettivo di potersi circondare esclusivamente di collaboratori leali e fedeli.

Pur scontando la notoria imprevedibilità dell’ex Presidente, e le scarse indicazioni finora fornite su un suo ipotetico programma di presidenza per la politica estera (al di là di alcune note formule che fecero la sua fortuna nel 2016 e di un prevedibile ritorno al mantra dell’isolazionismo americano in nome dell’America First), ma proprio alla luce della traumatica esperienza dei quattro anni dal 2016 al 2020 è facile prevedere che per gli europei un ritorno di Trump alla Casa Bianca comporterebbe enormi problemi di gestione del rapporto con il maggiore alleato.

Se si devono prendere per buone alcune dichiarazioni di Trump sulla guerra in Ucraina, e soprattutto le resistenze manifestate anche di recente da esponenti repubblicani in Congresso sulle forniture di armi a Kyiv, ma anche i pregressi rapporti di Trump con Putin, la linea di una prossima amministrazione repubblicana sul conflitto potrebbe subire un cambio radicale di rotta, magari con una iniziativa mirata a far cessare il conflitto imponendo agli ucraini cessioni territoriali. Non a caso la strategia di Putin sul terreno in Ucraina punta chiaramente a guadagnare tempo in attesa che, con Trump alla Casa Bianca, sia possibile definire rapidamente un’intesa con gli USA, magari forzando la mano al presidente ucraino.

Gli alleati europei e la NATO

Gli alleati europei degli USA che avevano condiviso la strategia americana di reazione all’aggressione russa dell’Ucraina (condanna e isolamento della Russia, sostegno con tutti i mezzi al Paese aggredito senza un diretto coinvolgimento nel conflitto) si troverebbero nella difficile posizione di dover decidere se continuare a sostenere l’Ucraina (opzione peraltro improbabile) o allinearsi alla nuova politica di Washington. Con il rischio di vedersi marginalizzati nel caso che Trump opti per la soluzione di un dialogo diretto con Putin sulla testa dell’Ucraina e degli alleati europei.

Altra vittima di un ritorno di Trump al potere negli USA potrebbe essere la NATO. L’Alleanza Atlantica, in crisi di credibilità dopo l’affrettato e tragico ritiro dall’Afghanistan deciso da Washington senza una seria previa consultazione con gli alleati, aveva ritrovato una sua ragion d’essere e una sua credibilità proprio grazie alla reazione alla guerra in Ucraina. E alla decisione della Amministrazione Biden di coinvolgere gli alleati europei in questa reazione. Non è un mistero che Trump non crede nella NATO e ancor meno nella valenza strategica del partenariato transatlantico (al massimo può fidarsi solo di alcuni europei attentamente selezionati).

Anche senza pensare all’ipotesi estrema di un ritiro degli USA dalla NATO (che magari potrebbe piacere a Trump ma che incontrerebbe resistenze nel Congresso) appare verosimile quindi che la solidità e la credibilità della NATO possano subire un serio ridimensionamento nel caso di una vittoria di Trump. O che comunque Trump chieda agli alleati europei un ben più consistente impegno per la loro sicurezza.

Verosimile anche attendersi che in nome dell’ ”America First”, una Amministrazione americana a guida Trump riprenda la pratica di misure protezionistiche, a tutela di produzioni locali e posti di lavoro negli USA, minacciati dalla concorrenza dall’estero. Con la conseguenza che, nel contesto di un minore interesse per le sorti del partenariato transatlantico, l’Europa ne sarebbe la prima vittima. Con il venire meno dell’interesse degli USA per l’Europa come partener strategico, e con una probabile maggiore concentrazione di interesse per l’indo-pacifico, potrebbero poi anche entrare in crisi anche quelle forme di cooperazione, come ad esempio il “Trade e Technology Council” su cui europei e americani fanno attualmente affidamento per regolare in maniera cooperativa temi di interesse comune ma potenzialmente divisivi.

I rapporti con la Cina

Sui rapporti con la Cina un ritorno di Trump alla Casa Bianca avrebbe invece un impatto limitato. In fondo su questo tema era prevalsa una sintomatica continuità nelle politiche degli USA fra l’Amministrazione repubblicana e quella democratica, entrambe potendo contare su un sostegno bipartisan anche in Congresso su una linea che tende a considerare la Cina la principale minaccia geo-politica per gli USA da contrastare con una robusta politica di contenimento. Sotto questo profilo poco cambierebbe per gli europei, che continuerebbero a dover definire una linea (possibilmente comune) nei confronti di Pechino che non scontenti Washington, ma che consenta di non rompere irreversibilmente con Pechino. Il de-risking nei confronti della Cina continuerebbe ad ispirare la linea europea, in un contesto in cui però concertazione e consultazione con gli USA potrebbero diventare più problematiche.

Infine una vittoria di Trump contribuirebbe verosimilmente a rafforzare anche in Europa pulsioni nazionaliste, populiste. Darebbe argomenti (soprattutto in alcuni Paesi europei) a formazioni politiche dichiaratamente sovraniste ed euro-scettiche. Potrebbe consolidare antiche diffidenze e incomprensioni fra Paesi membri della UE radicate in culture politiche diverse e contrapposte. Ed accentuare le distanze fra alleati europei più o meno vicini alla linea del nuovo/vecchio presidente americano.

In una parola l’Europa rivivrebbe tutti i problemi e le criticità sperimentate nel corso del primo mandato di Trump. Probabilmente in quadro di maggiore criticità date le circostanze di un ritorno di Trump alla Casa Bianca. A meno che il ritorno di un Presidente americano così poco sensibile alle preoccupazioni e agli interessi degli europei non possa stimolare gli europei a tradurre in realtà il sogno di una autonomia strategica dell’Europa.

foto di copertina EPA/AMANDA SABGA

L'articolo Trump alla Casa Bianca: i rischi per l’Europa proviene da Affari Internazionali - Politica ed economia estera.

La Finlandia chiude temporaneamente le frontiere con la Russia

Il 28 novembre 2023 la Finlandia ha annunciato la chiusura temporanea di tutti i valichi di frontiera con la Russia in seguito all’anomalo incremento di ingressi di richiedenti asilo provenienti da paesi terzi. Gli otto varchi sono stati chiusi gradualmente nel corso di una settimana, dal 24 al 30 novembre.

L’intelligence finlandese ipotizza che l’accesso sia stato facilitato dalle autorità russe al fine di destabilizzare l’ordine interno del Paese. Il coinvolgimento del Cremlino, che nega le accuse definendole provocatorie, sarebbe riconducibile alle contromisure tattiche e strategiche che minacciò di adottare in occasione dell’accesso della Finlandia nella NATO.

L’inchiesta del quotidiano finlandese Iltalehti

A rendere note le dinamiche del coinvolgimento della Russia è un’inchiesta del quotidiano finlandese Italehti, secondo cui negli ultimi mesi il Cremlino ha facilitato la possibilità per migranti, provenienti principalmente del Corno d’Africa e dal Medio Oriente, di richiedere e ottenere visti temporanei in Russia tramite le proprie ambasciate. Secondo l’inchiesta e i servizi di intelligence finlandesi, l’accesso in Russia è stato funzionale ad un successivo reindirizzamento verso le frontiere del territorio dell’Unione Europea, con il supporto del servizio di sicurezza russo (FSB). In seguito alla chiusura dei valichi di frontiera tra Finlandia e Russia, il quotidiano Italehti ha chiarito che il Cremlino ha interrotto la concessione dei visti nei paesi interessati. La vicenda contribuisce all’allontanamento tra Helsinki e Mosca.

I rapporti russo-finnici

Per lungo tempo, la politica estera della Finlandia è stata caratterizzata da una posizione di neutralità. Tuttavia, a partire dalla fase iniziale della crisi ucraina nel 2014, un progressivo allineamento con l’Alleanza Atlantica ha iniziato a prendere forma. Con il suo ingresso nella NATO, avvenuto ad aprile 2023 in risposta all’invasione russa dell’Ucraina, la Finlandia ha provocato l’irritazione di Mosca, che ha interpretato questa decisione come un attacco alla propria sicurezza nazionale e ha quindi dichiarato l’intenzione di adottare contromisure tattiche e strategiche.

Su queste basi si giustifica l’inchiesta del quotidiano finlandese Iltalehti e la dichiarazione del primo ministro finlandese Orpo secondo cui sarebbe Mosca ad orchestrare l’ingresso dei richiedenti asilo. Tale afflusso, infatti, “rappresenta una seria minaccia per la sicurezza nazionale”, secondo Markku Hassinen, vicecapo della guardia di frontiera finlandese. Anche l’Estonia, interessata da simili pressioni geopolitiche, di fronte all’aumento del numero dei richiedenti asilo provenienti dal suo confine orientale, si è dichiarata pronta alla chiusura totale delle proprie frontiere con la Russia.

NATO e UE a sostegno della Finlandia

A favore della decisione del primo ministro finlandese, l’agenzia Frontex ha dispiegato lungo il confine con la Russia agenti della guardia di frontiera e altro personale, a “dimostrazione della posizione unitaria dell’Unione Europea nei confronti delle sfide ibride che interessano uno dei suoi membri”.

La Finlandia gode del supporto dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea, che hanno manifestato appoggio e solidarietà. Ursula von Der Leyen, Presidente della Commissione Europea, ha definito vergognosa la strumentalizzazione dei migranti da parte della Russia, rappresentando un esempio di come la Russia stia portando avanti una strategia ibrida per fare pressione non solo sulla Finlandia, ma anche sui paesi vicini, come dichiarato da John Stoltenberg nella conferenza stampa del 27 novembre 2023. La preoccupazione relativa a questo tipo di attacchi ibridi era già stata evidenziata dalla Presidente della Commissione Europea nel 2021, in concomitanza con una situazione analoga verificatasi al confine tra Polonia e Bielorussia.

Uno schema consolidato

Questa strategia ibrida adottata dalla Russia risponde a uno schema consolidato negli ultimi anni, attraverso cui regimi più o meno autocratici hanno strumentalizzato flussi di migranti per esercitare pressioni su Paesi vicini. Nel 2020 fu il presidente turco Recep Tayyip Erdogan a minacciare di consentire ai richiedenti asilo presenti sul proprio territorio di raggiungere la Grecia per ottenere un accordo migliore sugli aiuti economici dall’Unione Europea. Nel 2021 fu la volta della Bielorussia di Lukashenko, che strutturò un piano analogo, al confine con la Polonia, come rappresaglia alle sanzioni economiche europee dovute alle violente repressioni che fecero seguito alle contestate elezioni. Questi esempi, insieme con i recenti avvenimenti in Finlandia, evidenziano la vulnerabilità dell’Unione Europea a tal riguardo, data la sensibilità mostrata sul tema dagli Stati membri.

Di fronte alla necessità di coordinamento dell’Unione Europea, lo scorso ottobre il Consiglio Europeo ha approvato una normativa nell’ambito del Nuovo Patto sulle Migrazioni e l’Asilo, stabilendo il quadro di riferimento che consente agli Stati membri di affrontare situazioni di crisi nel campo dell’asilo e della migrazione, ivi compresa la strumentalizzazione dei migranti.

foto di copertina EPA/OLIVIER MATTHYS

L'articolo La Finlandia chiude temporaneamente le frontiere con la Russia proviene da Affari Internazionali - Politica ed economia estera.

Obamacare nel mirino di Donald Trump

Che Donald Trump ce l’avesse con l’Affordable Care Act (ACA), meglio noto come Obamacare, è cosa risaputa. In questi giorni l’ex Presidente e probabile candidato di punta per i Repubblicani per le presidenziali del 2024 è di nuovo partito all’attacco della legge del 2010 voluta da Barack Obama e firmata nel 2010 in materia sanitaria, malgrado i precedenti fallimenti di cancellarla e le varie promesse di sostituirla.

Obamacare e i repubblicani

Obamacare ha ampliato la platea di americani aventi diritto a una copertura sanitaria federale, con un’estensione dei soggetti coperti da Medicaid, il programma federale che fornisce aiuto ai cittadini con basso reddito salariale voluto da Johnson nel 1965.

I Repubblicani si sono sempre dichiarati contrari a tale riforma, portando avanti una campagna aggressiva per smantellarla: nel 2017, quando detenevano la maggioranza sia alla Casa Bianca che al Congresso, fu il Senato (a maggioranza GOP) a respingere la richiesta di abrogazione partita dal quarantacinquesimo Presidente e approvata dalla Camera dei Rappresentanti. Celebre fu il voto contrario di un Repubblicano di ferro come l’allora Senatore dell’Arizona, John McCain.

Uno smacco che Trump non ha recentemente esitato a definire “un momento molto basso per il Partito Repubblicano”. I Repubblicani ci riprovarono con le midterm del 2018, venendo schiacciati da un’onda blu democratica che ormai aveva capito che quello doveva essere il cavallo di battaglia da difendere a tutti i costi. Obamacare è stata di nuovo salvata dalla Corte Suprema nel 2021, pochi mesi dopo l’insediamento di Joe Biden, che ha respinto gli sforzi Repubblicani di annullare la legge. Da quel momento la maggioranza dei Repubblicani ha capito che usare gli attacchi di Obamacare per fare campagna elettorale era in realtà una partita persa in partenza.

Il dibattito sulla sanità ancora aperto

L’ACA è diventato estremamente popolare negli Stati Uniti. Lo scorso maggio un sondaggio di KFF, istituto di ricerca sulle policy in materia sanitaria, ha evidenziato come quasi il 60% degli americani sia favorevole a Obamacare, un sostegno che continua ad aumentare dall’inizio della pandemia di COVID-19. Nel 2020 il 79% degli statunitensi – di cui 66% di elettori Repubblicani – ha dichiarato di non volere un annullamento delle protezioni garantite dall’ACA da parte della Corte Suprema.

Il dibattito sulla sanità è largamente dominato dai Democratici e lo stesso Joe Biden si è impegnato durante il suo mandato in tal senso, definendo la sanità “un diritto e non un privilegio” per gli americani. Nonostante i dati parlino chiaro però Trump non si vuole arrendere. In un post su Truth Social dello scorso novembre, ha di nuovo attaccato l’ACA, definendolo una spesa senza controllo e non un buon modello di sanità.

I costi della sanità negli Stati Uniti sono aumentati: secondo i Centers for Medicare & Medicaid Services nel 2022 essi sono saliti a 4400 miliardi di dollari, con una previsione di 6800 miliardi di dollari di spesa per il 2030. Questi aumenti, nonostante lo stop pandemico, non sono però dovuti a Obamacare, piuttosto ad altre cause come l’incremento dei costi delle tecnologie in campo medico, sempre più avanzate, una salute sempre più precaria degli americani, il metodo con cui gli operatori sanitari vengono pagati – sulla quantità delle prestazioni sanitarie e non la qualità -, l’inflazione rampante e l’invecchiamento della popolazione.

La  sanità sarà un altro campo di battaglia delle presidenziali in arrivo nel 2024. Tuttavia, dopo cinque volte che Trump millanta nuovi piani sanitari che non ha ancora veramente svelato o proposto, ci si chiede se anche queste recenti affermazioni non siano in realtà un regalo di Natale anticipato per i Democratici, da sempre difensori di Obamacare e che non hanno mai escluso nei loro programmi elettorali di arrivare un giorno a una democratizzazione della sanità, all’abbassamento dei prezzi dei farmaci e alla garanzia di una buona qualità sanitaria in tutte le specialità, in un Paese in cui ancora ci si domanda se l’accessibilità universale alle cure sia o no un diritto.

foto di copertina EPA/SARAH YENESEL

L'articolo Obamacare nel mirino di Donald Trump proviene da Affari Internazionali - Politica ed economia estera.

La Tunisia a un bivio con il Fondo Monetario Internazionale

Se le proteste che hanno portato alla Primavera araba sono iniziate in Tunisia, la promessa di una società più democratica ed egualitaria nel Paese nordafricano non si è, però, realizzata. La Tunisia è stato l’unico Paese a emergere dalle rivolte regionali con una nuova democrazia. L’esperienza, tuttavia, è naufragata dopo che Kais Saied – eletto alla presidenza nel 2019 – ha preso il monopolio del potere nel luglio 2021.

È così riemersa la paura della repressione. Dalla metà di febbraio 2023, gli arresti e le condanne di personaggi pubblici, soprattutto politici, si sono accelerati, minando un’opposizione disorganizzata e divisa. Nel frattempo, ampie fasce della popolazione si sono concentrate sui bisogni più immediati di fronte all’aggravarsi della crisi economica e si sono sempre più allontanate dalla politica.

Il Presidente Saied ha tentato di mantenere il suo sostegno, in calo, spingendo su politiche nazionaliste. Ha incarcerato i membri dell’opposizione in un’azione che sembra volta a rafforzare la sua posizione nei confronti di fasce di popolazione frustrate dalla precedente classe politica. Saied ha anche mosso accuse di stampo xenofobo ai migranti subsahariani, accusandoli di cospirare per cambiare l’identità della Tunisia e alimentando, di conseguenza, un’impennata di attacchi violenti contro questa minoranza vulnerabile.

Un quadro economico preoccupante

Dal punto di vista economico, il Paese sta ancora scontando un decennio di crescita lenta. Dopo la rivolta del 2011, il governo tunisino ha in parte combattuto l’aumento della disoccupazione assumendo centinaia di migliaia di dipendenti pubblici. Oggi, il settore pubblico è quindi il principale datore di lavoro del Paese, e metà del bilancio annuale viene speso per gli stipendi pubblici. Allo stesso tempo, gli investimenti pubblici e privati in infrastrutture e ricerca sono diminuiti in modo significativo, determinando un forte calo della crescita del PIL.

Anche i fattori esterni hanno intaccato l’economia tunisina: la pandemia di Covid-19 ha portato a un crollo del turismo, mentre l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha portato a un’impennata dei prezzi delle materie prime. L’aumento dell’inflazione – in particolare dei prezzi dei generi alimentari – e la carenza di beni di prima necessità hanno eroso il tenore di vita dei tunisini.

In questo contesto, il debito pubblico tunisino è salito alle stelle, raggiungendo quasi il 90% del PIL nel 2022, in un quadro che vede la necessità di contributi finanziari significativi per mantenere gli attuali livelli di spesa. Le agenzie di rating hanno declassato il Paese, che sta lottando per il pareggio di bilancio. L’ultimo declassamento è avvenuto a giugno, quando Fitch ha abbassato il rating della Tunisia a CCC-. Di conseguenza, l’accesso ai mercati finanziari internazionali è stato praticamente precluso, visti i tassi di interesse proibitivi (oltre il 20%) che questo rating sovrano comporterebbe.

Sebbene il deficit delle partite correnti si sia ridotto e la liquidità in valuta estera sia migliorata negli ultimi mesi grazie all’aumento delle entrate turistiche e delle rimesse dei tunisini che lavorano all’estero, il ripianamento del debito estero continuerà a essere estremamente impegnativo. Con 2,6 miliardi di dollari americani di rimborsi previsti per il 2024 (tra cui un’obbligazione in euro in scadenza a febbraio, equivalente a 900 milioni di dollari), non è ancora chiaro come il governo sarà in grado di ottenere fondi sufficienti per far fronte a queste passività. Il progetto di bilancio per il 2024 prevede prestiti dall’Algeria e dall’Arabia Saudita, oltre ad altre fonti esterne ancora sconosciute.

L’accordo con il FMI e il ruolo dell’UE

Nonostante queste difficoltà nel finanziamento, la Tunisia non ha ancora firmato un accordo con il FMI. Nell’ottobre 2022, la Tunisia e il FMI hanno concordato i termini di un prestito del valore di 1,9 miliardi di dollari americani, volto a stabilizzare l’economia. Tuttavia, Saied ha rifiutato l’accordo, temendo disordini sociali dovuti al taglio dei sussidi e alla riduzione dei salari del settore pubblico.

Gli europei – in particolare l’Italia – hanno fatto pressione sul FMI per riaprire i negoziati e hanno offerto incentivi per convincere Saied ad accettare un accordo rivisto, nonostante le loro divisioni interne su come trattare la Tunisia. Queste pressioni sono dovute soprattutto al fatto che le ricadute economiche di un default del debito potrebbero aumentare ulteriormente il numero di persone – sia cittadini tunisini che migranti provenienti dall’Africa subsahariana – che lasciano la Tunisia per l’Europa. Mentre alcuni Stati membri dell’UE, come la Germania, hanno assunto una posizione più critica nei confronti della svolta autoritaria di Kais Saied, nel finale gli interessi migratori, di sicurezza ed economici dell’Italia e, in parte, della Francia sembrano aver prevalso all’interno dell’UE.

L’UE ha offerto incentivi alla Tunisia per accettare un accordo con il FMI. Dopo la visita a Tunisi di Giorgia Meloni e successivamente della Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen e del Primo Ministro olandese Mark Rutte, a giugno l’UE ha offerto 900 milioni di euro di assistenza macrofinanziaria a condizione di un accordo con l’FMI e 105 milioni di euro per la cooperazione congiunta sulla gestione delle frontiere e sulle misure anti-contrabbando per ridurre l’immigrazione irregolare in Europa.

Nonostante il supporto offerto dall’UE, la probabilità di una revisione dell’accordo tra Tunisia e FMI è diminuita. Ad agosto, Saied ha rimosso il capo del governo, Najla Bouden, che era stata direttamente coinvolta nei negoziati con il FMI, e l’ha sostituita con un funzionario più accomodante, Ahmed Hanachi. Da allora, la Tunisia non ha presentato nessuna proposta d’accordo rivista al FMI. A ottobre, il presidente ha rafforzato la sua posizione licenziando il ministro dell’Economia Samir Saied, dopo che quest’ultimo aveva affermato che un accordo con il FMI avrebbe inviato un messaggio rassicurante ai creditori esteri della Tunisia.

La Tunisia ha anche rifiutato parte dei fondi offerti dall’UE. Il 3 ottobre, Saied ha rifiutato la prima tranche di aiuti finanziari dell’UE, dichiarando che questo importo era contrario all’accordo tra le due parti e che si trattava solo di “carità”. Non sono chiare le ripercussioni di questo rifiuto sul resto degli incentivi finanziari dell’UE.

Davanti a un bivio

Ci sono ovvie ragioni per cui la Tunisia dovrebbe ottenere un prestito dal FMI. L’accettazione di un accordo invierebbe un segnale rassicurante ai partner e ai creditori stranieri della Tunisia. Potrebbe incoraggiare gli Stati arabi del Golfo a fornire ulteriore sostegno finanziario sotto forma di prestiti governativi, depositi presso la banca centrale e investimenti nell’economia. Questo darebbe respiro al governo tunisino. Ma l’attuazione delle riforme richieste dai termini del prestito potrebbe scatenare proteste antigovernative da parte del principale sindacato del Paese (l’UGTT) e, di conseguenza, una repressione guidata dal governo. Per evitare questo scenario, il presidente stesso potrebbe istigare le proteste e le rivolte usando la retorica nazionalista per addossare al FMI la responsabilità di qualsiasi misura impopolare richiesta dal prestito.

Uno scenario di mancato accordo, tuttavia, avrebbe conseguenze molto più gravi e potenzialmente catastrofiche. Senza un prestito, la Tunisia faticherebbe a trovare fonti di finanziamento alternative per far fronte ai rimborsi del debito estero previsti. Saied potrebbe quindi ricorrere a un default strategico politicamente motivato, seguito da negoziati per la ristrutturazione del debito estero del Paese. Alcuni economisti tunisini e sostenitori del presidente sostengono questo approccio: affermano che dichiarare bancarotta sul debito estero consentirebbe al governo di elaborare un piano di ristrutturazione con i creditori e sostengono che l’impatto sull’economia sarebbe abbastanza limitato, grazie ai controlli sui capitali della Tunisia e alla bassa esposizione del settore bancario alle obbligazioni estere. Ma questo approccio comporta un grande rischio, poiché un fallimento legato al debito estero potrebbe portare a una corsa alle banche tunisine e destabilizzare il settore finanziario.

Dal punto di vista politico, un default e le sue ripercussioni socioeconomiche potrebbero aprire la porta a una pericolosa spirale di violenza sociale e criminale. Potrebbe anche incrementarsi la migrazione irregolare verso l’estero, con i tunisini in fuga dal crescente caos politico ed economico. Potrebbero scoppiare proteste diffuse contro i disastrosi effetti sociali della fallimentare politica economica del presidente, provocando una risposta violenta contro imprenditori e oppositori politici per i loro presunti legami con l’Occidente, nonché contro i diplomatici occidentali e la comunità ebraica locale.

Bilanciare supporto economico e rispetto dei diritti

Alla luce di questi due possibili scenari, l’Unione Europea e l’Italia dovrebbero continuare a incoraggiare le autorità tunisine a negoziare con il FMI, che rimane la via meno destabilizzante dal punto di vista politico ed economico per la Tunisia, se percorsa con la dovuta attenzione. Come minimo, un accordo rivisto dovrebbe includere tagli alla spesa ridotti rispetto alla proposta precedente, in particolare con riguardo ai sussidi energetici.

Allo stesso tempo, l’Italia e l’UE dovrebbero essere cauti ed evitare di trasformare le loro comprensibili preoccupazioni sulla stabilità della Tunisia in un assegno in bianco per il presidente. In particolare, dovrebbero fare pressioni sulle autorità affinché mettano fine agli abusi perpetrati contro i migranti e impediscano potenziali attacchi contro i politici dell’opposizione, gli uomini d’affari e la comunità ebraica locale. Al di là delle considerazioni umanitarie, ciò servirebbe all’obiettivo generale dell’Italia di contenere l’immigrazione: dopo tutto, gli attacchi contro la minoranza subsahariana hanno stimolato l’emigrazione, una tendenza che si accelererebbe se la persecuzione governativa diventasse ancora più severa.

Pur sostenendo l’accordo, tuttavia, l’UE e l’Italia dovrebbero anche prepararsi alla possibilità che la Tunisia continui a rifiutarlo e dichiari un default sul debito estero. In questo scenario, l’Unione dovrebbe essere pronta a offrire finanziamenti di emergenza al Paese per facilitare le importazioni di grano, medicinali e carburante. Nel fare ciò, l’UE dovrebbe armonizzare le posizioni degli Stati membri per evitare agende conflittuali. Sono già emerse divisioni tra Paesi come Germania e Italia su come affrontare la deriva autoritaria della Tunisia. Per questo motivo, il riconoscimento dell’importanza della stabilità interna potrebbe fornire un terreno comune per superare le divisioni e aiutare a prevenire una nuova ondata di violenza contro i migranti.

L'articolo La Tunisia a un bivio con il Fondo Monetario Internazionale proviene da Affari Internazionali - Politica ed economia estera.

Una strategia italiana per l’Indo-Pacifico

Ultima uscita del 2023 su AffarInternazionali dei podcast sulla politica estera italiana. In questa quarta puntata, proponiamo un approfondimento sulle prospettive italiane nei confronti dell’Indo-pacifico attraverso l’analisi della strategia informale e delle azioni di policy messe in campo dai governi italiani negli ultimi anni. Il podcast è curato da Leo Goretti, responsabile del programma Politica estera dell’Italia dell’Istituto Affari  Internazionali e direttore di The International Spectator, con il supporto di Filippo Simonelli, Junior Researcher del programma Politica estera dell’Italia, in dialogo con Gabriele Abbondanza, Marie Curie Fellow alla Università Complutense di Madrid, Associate Researcher all’Università di Sydney e Associate Fellow allo IAI.

https://www.affarinternazionali.it/wp-content/uploads/2023/12/Podcast-AI.mp3

L'articolo Una strategia italiana per l’Indo-Pacifico proviene da Affari Internazionali - Politica ed economia estera.

Malta verso la presidenza dell’OSCE

Sempre più presente sulla scena marittima mediterranea, in prima linea nell’Unione europea, convinta aderente al Commonwealth, membro non permanente del Consiglio di sicurezza, Malta si prepara ad assumere la presidenza dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) facendo valere la sua condizione di neutralità. In un momento di stallo dell’Organizzazione, ora che  la Russia ha posto il veto alla candidatura della Lituania perché appartenente alla Nato, Valletta beneficia del suo non allineamento.

La posizione maltese  rinvia ai lontani anni Ottanta del secolo scorso, quando l’Isola definì il suo status internazionale impegnandosi a non dare assistenza a navi da guerra di Stati Uniti e Unione Sovietica. L’Italia ebbe allora un ruolo di garante che è tuttora attivo col Trattato del 1980 di riconoscimento della neutralità, mai denunciato dalle due Parti.

Ora Valletta riscopre i vantaggi della sua antica scelta raccogliendo i frutti di una dinamica diplomazia multilaterale che ha generato anche una sorta di alleanza con Turchia e Libia e che potrebbe giovare alla soluzione del conflitto russo-ucraino, tema che ad ottobre è stato affrontato in un forum ospitato a Valletta.

La funzione dell’Osce

Punto di arrivo di un processo di distensione Est-Ovest iniziato negli anni Settanta del secolo scorso con la storica Conferenza di Helsinki, l’OSCE ha via via accresciuto il suo ruolo in settori come la prevenzione dei conflitti, la sicurezza militare e la stabilità regionale, la dimensione socio-economica, la tutela delle minoranze.

Varie sono le sue missioni di monitoraggio nell’Europa orientale e nei Balcani, come quella svolta in Ucraina dal 2014 per verificare  sul campo la situazione di crisi del Paese, terminata al momento dell’invasione russa. Questa missione (affidata ad  osservatori civili) non ha raggiunto i suoi scopi di prevenzione a causa dell’aggressività russa. Una nuova centralità potrebbe profilarsi tuttavia per l’OSCE in Ucraina qualora si addivenisse a un cessate il fuoco.

Da parte degli Stati Uniti, pur mantenendosi le posizioni di condanna verso la Russia, si riconosce che l’OSCE è “un’importante organizzazione per affrontare i temi dei diritti umani e politici in Europa”. Con ciò sottintendendo che l’Organizzazione è al momento la sede migliore per riprendere a dialogare in un contesto multilaterale con Mosca, ponendola difronte alle sue responsabilità.

Neutralità “attiva” di Malta

“Malta è uno Stato neutrale che persegue attivamente pace, sicurezza e progresso sociale tra tutte le nazioni aderendo ad una politica di non allineamento e rifiutando di partecipare a qualsiasi alleanza militare ». Questo il dettato costituzionale maltese da cui risulta che l’Isola non è neutralizzata  per volontà di Potenze esterne, ma che ha scelto liberamente di essere al di fuori di schieramenti internazionali e di  alleanze militari.

Tale condizione non ha impedito a Malta di accedere nel 2004 alla Ue nel presupposto che la neutralità non sarebbe stata compromessa dalla Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) dell’Unione. Più di recente, in un simposio organizzato a marzo con l’ex segretario generale dell’Osce  Ambasciatore Thomas Greminger, Valletta ne ha verificato la compatibilità con la solidarietà alla causa ucraina. Quanto alla NATO, l’Isola non ne fa ovviamente parte, ma dal 2008 aderisce all’iniziativa NATO Partnership for Peace.

La  neutralità maltese, concepita nel 1979 per contrastare le mire egemoniche di Gheddafi, si è con gli anni consolidata. A riconoscerla sarebbero stati, in varie forme,  Algeria, Arabia Saudita, Bulgaria, Cina, Commonwealth, Corea del Nord, Francia, Grecia, Iugoslavia, Marocco, Movimento non allineati, Qatar, Unione Sovietica. Questo asseriscono fonti maltesi. In realtà l’unico riconoscimento formalmente documentato è quello italiano. Il nostro Paese, per evitare che l’aggressività di Tripoli lambisse la Sicilia, favorì l’iniziativa di cui si fece garante con il citato accordo del 1980 che prevede una clausola di assistenza militare qualora l’indipendenza dell’Isola sia minacciata.

Gli sponsor del governo di La Valletta

Senza deflettere da una linea di sostegno all’Ucraina (la Russia deve “ritirarsi immediatamente dall’intero territorio dell’Ucraina” ha dichiarato il ministro Ian Borg), Valletta punta ora alto. In suo favore, vi è l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti  che hanno pubblicamente espresso il proprio grazie per la candidatura all’OSCE.

Innegabile inoltre l’approvazione di Mosca, formulata di certo in funzione anti Paesi baltici. Tuttavia, le simpatie russe sono di vecchia data. Forse risalenti al periodo della spregiudicata politica contro la NATO del premier Dom Mintoff o al vertice tra Bush e Gorbachev tenutosi in acque maltesi nel 1989. In quel contesto maturò il riconoscimento sovietico della neutralità maltese. Ma la Russia potrebbe ora essere stata consigliata dalla Turchia che a Malta è legata, come detto, da un’intesa trilaterale che include Tripoli.

Basso profilo, invece, da parte dell’Italia che ha tuttavia riaffermato il sostegno all’OSCE in occasione dell’ultimo Consiglio ministeriale. Le relazioni italo-maltesi sono da sempre eccellenti ma il nostro Paese è  frustrato da decenni di  trattative senza fine per risolvere le questioni migratorie comuni relative a soccorsi ed accoglienza. Ora Valletta ha però bisogno di un vasto sostegno dei Paesi OSCE, Italia compresa, per far fronte alla fase post conflitto ucraino.

L’Italia potrà così giocare il ruolo che la sua “relazione speciale” con l’Isola le consente . E potrà anche chiedere a Malta di sviluppare quel Partenariato mediterraneo dell’OSCE che, ove Tripoli acconsentisse a partecipare, potrebbe aiutare a risolvere la crisi libica.

foto di copertina EPA/GEORGI LICOVSKI

L'articolo Malta verso la presidenza dell’OSCE proviene da Affari Internazionali - Politica ed economia estera.

La partita sulle migrazioni in Europa si gioca sui rimpatri

Sia l’Italia che l’Unione Europea hanno reso i rimpatri un caposaldo di una politica migratoria efficace, oltre a cercare di prevenire le partenze. Tuttavia, uno sguardo ai numeri rivela una realtà molto diversa. Nel 2022, in Italia, solo 2.790 migranti irregolari sono stati effettivamente rimpatriati su un totale di 28.185 ordini di rimpatrio emessi, con un tasso pari al 9,9%. I dati disponibili per i primi due semestri del 2023 mostrano solo un lieve miglioramento, con un tasso di rimpatrio del 12,3%. Sebbene a livello europeo la situazione possa sembrare più positiva, con un tasso di rimpatri effettivi rispetto agli ordini emessi del 21% nel 2022, il quadro non può comunque considerarsi soddisfacente. Da questo emerge come, nonostante l’enfasi politica sui rimpatri, la maggior parte delle persone a cui non viene riconosciuto il diritto d’asilo non ritorni effettivamente nel proprio paese d’origine.

I dati sui rimpatri

A livello europeo, il rapporto tra ritorni effettivi dopo un ordine di rimpatrio e ordini emessi nello stesso anno è diminuito nel tempo. Questo valore, che nel 2013 era del 43,1%, è sceso al 20,8% nel 2022. Emergono poi enormi differenze a livello nazionale.

Nonostante la Francia emetta il maggior numero di ordini di rimpatrio, Parigi riesce effettivamente a rimpatriare un numero molto limitato, approssimativamente il 17% nel periodo 2008-2022. L’Italia non spicca certamente tra i paesi ‘virtuosi’ in termini di rimpatri, con una performance che oscilla tra l’8,8% e il 25% nel periodo 2008-2022. Invece, nello stesso periodo, la Germania registra un tasso di rimpatri effettivi del 67%.

In ogni caso, nonostante le disparità tra i vari paesi europei, è chiaro che nessun paese membro si avvicina a raggiungere un tasso del 100% in termini di rimpatri effettivi su ordini di rimpatrio. In generale, l’obiettivo di garantire una politica di rimpatrio efficace sembra ancora essere lontano dall’essere raggiunto.

Le difficoltà dei rimpatri e il Piano europeo

Dato il basso rendimento europeo in materia di rimpatri, il Nuovo patto sulla migrazione e sull’asilo proposto dalla Commissione Europea nel 2020, che si propone di riformare l’intero sistema di accoglienza e asilo a livello europeo, sottolinea proprio la necessità di adottare strumenti efficaci per aumentare i rimpatri.

Tra le problematiche evidenziate che ostacolano una politica di rimpatri efficace, e che il nuovo piano europeo mira a contrastare, emergono lacune procedurali nei sistemi di asilo e rimpatrio, inefficienze nei sistemi di rimpatrio nazionali e una mancanza di armonizzazione a livello europeo.

Le proposte originarie della Commissione miravano proprio a migliorare i meccanismi interni introducendo, tra le altre cose, la pratica obbligatoria di procedure rapide alle frontiere, l’istituzione di un coordinatore dell’Unione europea per la politica di rimpatrio, la promozione di rimpatri volontari e l’istituzione di una nuova forma di solidarietà tra i paesi membri sotto forma di sostegno logistico e finanziario nei rimpatri, i cosiddetti ‘paesi sponsor’.

Queste proposte sono state accolte solo in parte dagli stati membri. I recenti negoziati a livello europeo, con un netto impegno da parte dell’Italia, hanno ad esempio allentato le regole per l’identificazione dei ‘paesi sicuri’ verso cui i rimpatri possono essere effettuati, riconoscendo che questi criteri saranno stabiliti a livello nazionale e includendo in questo modo, almeno nelle intenzioni italiane, anche i paesi di transito come la Tunisia. Queste nuove regole conferiscono maggiore autonomia e flessibilità ai singoli paesi membri, sia nell’identificazione dei paesi sicuri, sia nella verifica del legame tra migrante e paese, potenzialmente aumentando il numero di paesi verso cui è possibile effettuare un rimpatrio.

La necessità di cooperazione con i paesi terzi

Tuttavia, al di là delle varie problematiche interne, emerge chiaramente un altro punto. A livello europeo, le nazionalità per cui vengono emessi il maggior numero di ordini di rimpatrio non coincidono con quelle per cui si registrano il maggior numero di ritorni effettivi. Nel periodo 2013-2022, Marocco, Albania e Algeria sono i paesi di origine con il maggior numero di ordini emessi, mentre Serbia, Albania e Ucraina sono quelli con il maggior numero di rimpatri effettivi. Le principali cause di questa discrepanza, che possono contribuire al fallimento delle politiche di rimpatrio, sono legate alla presenza (o assenza) di accordi di riammissione con i paesi di origine.

Per Serbia, Albania e Ucraina, esistono tali accordi, mentre per il Marocco, paese di origine del maggior numero di migranti irregolari in Europa, i negoziati per un accordo di questo tipo sono iniziati nel 2000 senza giungere a soluzioni concrete. Lo stesso si può dire per l’Algeria, dove i negoziati sono iniziati nel 2002 senza essere conclusi. Queste dinamiche si riflettono in Francia, dove vengono emessi il maggior numero di ordini di rimpatrio verso cittadini marocchini e algerini, con pochi effettivi rimpatri. In Germania, invece, il maggior numero di ordini di rimpatrio è verso cittadini serbi e albanesi, paesi con cui l’UE ha accordi di riammissione rispettivamente dal 2008 e 2006, spiegando forse il tasso di rimpatrio più elevato di Berlino.

In Italia, la maggior parte degli ordini di rimpatrio riguarda cittadini marocchini, tunisini, e albanesi. Nelle intenzioni del governo, il memorandum tra UE e Tunisia dovrebbe quindi migliorare la situazione italiana in materia di rimpatri. In ogni caso, è evidente che la cooperazione con i paesi terzi rappresenta un nodo cruciale da affrontare.

I legislatori europei e italiani sembrano aver compreso il punto e, oltre alle riforme menzionate in precedenza, mirano a intensificare la cooperazione con i paesi terzi, sfruttando tutti i mezzi a disposizione dell’UE, dalla politica allo sviluppo e alla possibile leva del codice dei visti, come emerge dalle conclusioni del Consiglio europeo di febbraio 2023. Nel settembre 2023, il vicepresidente Schinas si è recato in Africa per negoziare la questione rimpatri con Guinea, Costa d’Avorio e Senegal. Tuttavia, i recenti sforzi dell’Unione Europea in questo campo dimostrano come ottenere la cooperazione dei paesi terzi sia più facile a dirsi che a farsi. Ad esempio, nel memorandum tra UE e Tunisia, firmato nel luglio 2023, l’Unione Europea, con l’Italia in prima linea, mirava a ottenere l’approvazione per il trasferimento di cittadini terzi verso paesi di transito come la Tunisia. Tuttavia, la Tunisia stessa si è opposta a questo piano, confermando la sua cooperazione sui rimpatri, ma soltanto per i cittadini tunisini.

Nonostante le difficoltà nel negoziare accordi con i paesi terzi, gli sforzi europei devono concentrarsi proprio su questo. Il punto cruciale rimane sempre lo stesso: anche se le riforme interne, sicuramente necessarie, possono portare a un miglioramento dei meccanismi di rimpatrio, senza una chiara cooperazione con i paesi d’origine, l’intensificazione dei rimpatri risulta essere una sfida persa in partenza.

L'articolo La partita sulle migrazioni in Europa si gioca sui rimpatri proviene da Affari Internazionali - Politica ed economia estera.

La crisi umanitaria in Libia dopo la catastrofe di Derna

La Libia è uno dei paesi più instabili e pericolosi del mondo, la sistemica instabilità politica e la costante crisi economica la pongono tra i 20 stati più fragili secondo il Fragile State Index. Il Paese è privo di un’autorità centrale dallo scoppio della guerra civile nel 2014, durante la quale due governi si sono contesi la leadership della Libia facendo affidamento su diverse milizie irregolari. Le Nazioni Unite riconoscono il Governo di Unità Nazionale (GNU), i cui principali sponsor finanziari e militari sono la Turchia e il Qatar. Il GNU ad oggi controlla solo parte della Tripolitania (la regione nord-occidentale del Paese). La maggior parte della Libia è invece nelle mani del Governo di Stabilità Nazionale (GNS), che fa affidamento sulla forze militari del generale libico Khalifa Haftar, il quale a sua volta riceve supporto materiale e finanziario dall’Egitto, dagli Emirati Arabi Uniti e, indirettamente, dalla Russia tramite i mercenari della Wagner, presenti anche in molte altre regioni dell’Africa.

Nonostante un cessate il fuoco permanente accordato dalle due parti nel 2020, i negoziati mediati dalla missione UNSMIL dell’ONU non hanno portato ad un trattato di pace vero e proprio. Anche se la frequenza degli scontri armati è diminuita, non vi è ancora un esecutivo capace di garantire l’ordine e la pubblica sicurezza, inoltre le due parti ancora non sono riuscite ad accordarsi sulle tempistiche e le modalità di future elezioni che non si tengono nel Paese da ben 9 anni.

La situazione per la popolazione civile resta tragica, i libici devono far fronte sia alla devastazione del conflitto armato che alla penuria di beni di prima necessità. A questi due mali vi si è aggiunta più di recente la catastrofe naturale dell’uragano Daniel che ha investito il Mediterraneo. La Libia resta inoltre uno dei principali hub della tratta di esseri umani, laddove numerosi migranti africani in cerca di miglior vita in Europa diventano vittima dei trafficanti.

Le condizioni di vita e il dramma dei migranti

Nel 2022 la situazione umanitaria ha visto un relativo miglioramento grazie al cessate il fuoco. Il numero di sfollati interni è sceso del 58% tra il 2020 e il 2022 (da 316.000 a 134.000) secondo l’OCHA. Questi numeri suggeriscono una minore percezione del rischio della popolazione civile dopo l’implementazione del cessate il fuoco, che ha probabilmente spinto alcuni sfollati a tornare nelle loro aree abitative, precedentemente abbandonate a causa degli scontri armati. Ma ad inizio 2023 le persone che necessitano assistenza umanitaria sono ancora più 300.000, oltre un terzo di questi sono minori (dati UNICEF).

I civili soffrono soprattutto per lo scarso e infrequente accesso all’acqua potabile e ai più basici servizi igienici, anche le catene di approvvigionamento alimentare hanno subito serie perturbazioni anche a causa della guerra in Ucraina. La Libia infatti dipende per più del 50% del suo fabbisogno di grano e cereali dall’Ucraina e dalla Russia, l’invasione russa ha comportato un aumento dei prezzi proibitivo per la popolazione libica. Il COVID rimane una minaccia all’interno del Paese a causa del bassissimo tasso di vaccinazione (34%) e l’inadeguatezza degli ospedali sul territorio a monitorare l’andamento dell’epidemia, il che aumenta il rischio di diffusione anche per altre malattie respiratorie. 

La situazione è ancora più precaria per i 700.000 migranti (dati Nazioni Unite) presenti in Libia, provenienti principalmente da altre regioni dell’Africa e dal Medio Oriente e diretti verso l’Europa. Gruppi armati affini alle forze di sicurezza di entrambi i governi rivali sono soliti detenere i migranti in condizioni disumane all’interno di strutture detentive improvvisate, spesso non adatte a contenere così tante persone. Torture, stupri e sparizioni ad opera dei carcerieri sono all’ordine del giorno in questi centri detentivi, i miliziani chiedono riscatti fino ai 5.000$ per il rilascio delle loro vittime. Un recente rapporto dell’ONU ha dimostrato la connivenza delle autorità libiche con tali pratiche disumane, l’UE, che collabora con il GNU per contenere i flussi migratori, ha dovuto negare il suo coinvolgimento. Il rapporto ha comunque inevitabilmente sollevato ancora una volta la controversa questione sull’utilizzo dei fondi europei.

La catastrofe di Derna

Una nuova tragedia umanitaria si è abbattuta sulla Libia la notte del 10 settembre. Al passaggio dell’uragano Daniel sul Paese, due dighe sono collassate nei pressi della città di Derna nel nordest del Paese sotto il controllo del GNS, il centro abitato è stato investito da un’enorme e violenta massa d’acqua. Il bilancio, ancora provvisorio, nella regione colpita dall’uragano è di più di 4.300 morti, almeno 8.300 dispersi, oltre 40.000 sfollati e circa 10.000 edifici danneggiati, con i danni maggiori registrati a Derna, dove il 25% della città è rimasto inghiottito dal fango e dalle macerie. Con questi numeri, l’uragano Daniel passa tristemente alla storia come la catastrofe naturale più devastante nella storia del Paese.

Interi quartieri sono stati spazzati via e infrastrutture critiche quali ponti, autostrade e ospedali, rendendo la vita ancora più difficile ai sopravvissuti. Si sono immediatamente mobilitate le Nazioni Unite e diverse ONG per soccorrere la popolazione locale. L’UE ha subito stanziato 5,7 milioni di euro in aiuti umanitari e ha fornito, tramite il meccanismo di Protezione Civile, strumenti chiave per gestire l’emergenza, quali ad esempio medicine, generatori e veicoli di soccorso. La catastrofe ha anche fortemente aumentato il rischio di diffusione di malattie infettive trasmesse via acqua, l’OCHA ha registrato migliaia di casi di diarrea tra la popolazione locale, un’infezione di questo tipo in simili condizioni precarie può portare anche alla morte.

La catastrofe di Derna è arrivata in un momento in cui i libici stavano lentamente cercando di riprendere il controllo delle loro vite, approfittando della cessazione delle ostilità. L’arrivo dell’uragano ha avuto un effetto psicologico devastante, ha rafforzato l’impressione che la tragedia libica non avrà mai fine e che i libici siano condannati ad una sofferenza perpetua. Senza un’autorità centrale legittima per governare il Paese, sarà impossibile ristabilire l’ordine e gestire adeguatamente la risposta ai disastri naturali.

Questo articolo, a cura di Iacopo Andreone, è stato scritto in collaborazione da Orizzonti Politici e Affari Internazionali, la rivista di IAI, nell’ambito del progetto sulle crisi umanitarie nel mondo.

foto di copertina ANSA/VIGILI DEL FUOCO + UFFICIO STAMPA

L'articolo La crisi umanitaria in Libia dopo la catastrofe di Derna proviene da Affari Internazionali - Politica ed economia estera.

Le prospettive della diplomazia italiana verso l’Indo-Pacifico

Nonostante non sia tradizionalmente una delle aree di interesse primario della politica estera italiana, la macroregione dell’ “Indo-Pacifico” sta assumendo una priorità crescente per i policy-maker del nostro paese. I recenti incontri ai massimi livelli – specie quelli tra la Presidente del consiglio Giorgia Meloni e il Primo ministro dell’India Narendra Modi – segnalano una nuova consapevolezza dell’importanza di quella che è una delle regioni più dinamiche a livello globale da numerosi punti di vista.

Una nuova centralità per l’Indo-Pacifico

Dalla genesi del termine, fino alla formulazione delle diverse strategie nazionali, il concetto di Indo-Pacifico assume una connotazione non solo geografica, ma anche politica. Se la regione comprende certamente l’Asia meridionale e l’Oceania, nelle varie strategie nazionali il suo perimetro viene di volta in volta articolato fino ad abbracciare anche l’Asia orientale, gli Stati Uniti o persino parti dell’Africa. Ma l’Indo-Pacifico è soprattutto un costrutto politico, legato agli obiettivi dei singoli stati, e definibile attraverso la loro visione della regione. A una concezione incentrata sulla crescente competizione sino-americana se ne possono affiancare altre più focalizzate sul ruolo di attori regionali terzi, come l’India, portatori di una visione regionale autonoma. L’Unione europea ha a sua volta promosso un proprio specifico approccio, attraverso l’annuncio di una Strategia europea dedicata nel 2021.

Nell’Indo-Pacifico sono inoltre operative numerose organizzazioni multilaterali, di tipo economico e politico: non solo organizzazioni strutturate (prima fra tutte, l’ASEAN), ma anche formati più̀ flessibili, come nel caso delle forme di cooperazione “minilaterali” promosse dagli Stati Uniti. L’accresciuta importanza politica della regione è strettamente connessa con quella economica. L’Indo-Pacifico ospita infatti alcune delle economie che hanno contribuito maggiormente alla crescita globale negli ultimi decenni (non solo Cina e India, ma anche l’Indonesia), ed è cruciale per i traffici marittimi globali: lo stretto di Malacca è oggi uno degli stretti più trafficati al mondo.

In questo quadro, si inserisce una serie di rivalità e conflitti più o meno latenti che rendono l’Indo-Pacifico un teatro cruciale da un punto di vista strategico. Se è vero che le organizzazioni internazionali – non solo la già citata ASEAN, ma anche la SAARC o i numerosi fora costituiti da stati rivieraschi e insulari – già da molti anni offrono una cornice cooperativa strutturata, le rivalità tra attori interni alla regione – o esterni, come nel caso degli Stati Uniti e della loro “coesistenza competitiva” con la Cina – rendono il terreno più accidentato per iniziative diplomatiche di ogni sorta, dalla diplomazia più tradizionale a forme di collaborazione economica o soft power. È in questo contesto complesso e segnato da spinte ambivalenti che si inserisce l’azione della diplomazia italiana verso la regione.

Quale posto per la diplomazia italiana

Nel secondo dopoguerra, la posizione diplomatica italiana è stata espressione di una democrazia liberale, di un paese dalla forte tradizione euro-atlantica, ma anche di uno Stato con risorse limitate. A causa di questi vincoli, l’Indo-Pacifico non ha avuto storicamente un ruolo paragonabile a quello dei pilastri fondamentali della politica estera dell’Italia: l’integrazione europea, l’alleanza con gli Stati Uniti e lo sguardo verso il Mediterraneo, a cui si è associato il ruolo che l’Italia ha svolto a livello multilaterale, cercando di agire da “ponte” tra culture e stati diversi.

Nell’Indo-Pacifico, la diplomazia italiana è oggi senz’altro ben radicata: sono attive ben 15 Ambasciate, 11 Consolati e 14 Uffici commerciali. A dispetto di questa presenza significativa, e nonostante alcune importanti iniziative negli ultimi mesi, non è tuttavia ancora stata formulata una strategia nazionale per l’Indo-Pacifico, ma solo un documento programmatico che si propone come contributo italiano alla Strategia europea per la regione.

Nei confronti dell’Indo-Pacifico, la diplomazia italiana ha quindi portato avanti finora un’agenda incentrata sulla dimensione europea, in cui l’enfasi è stata posta soprattutto grandi temi, con un approccio inclusivo: concertazione multilaterale, tutela ambientale e prevenzione dei disastri naturali, rispetto del diritto internazionale. In parallelo, l’azione italiana si è orientata in maniera pragmatica a supportare la presenza delle aziende del nostro paese nei promettenti mercati della regione: non solo a livello di esportazioni ma anche di partecipazione ai grandi programmi industriali e di investimenti pubblici promossi dai governi regionali in settori come la difesa, l’energia e le infrastrutture. Emblematica a questo riguardo è la pubblicazione di report dedicati da parte delle ambasciate italiane in loco.

Ciò̀ implica, come corollario, un interesse italiano alla stabilità e alla sicurezza delle principali linee marittime nell’Indo-Pacifico, essenziali per il commercio. Anche qui l’approccio italiano si è inserito nella più ampia cornice europea: va segnalata, in particolare, l’operazione Atalanta, che vede le marine militari europee impegnate a pattugliare un’area compresa tra Mar Rosso, Golfo di Aden e Oceano Indiano. Dalla sicurezza di quest’area, direttamente contigua al bacino mediterraneo, passa la possibilità di un forte sviluppo diplomatico e di cooperazione da parte italiana verso la regione nei prossimi anni. Tale sforzo, probabilmente, sarà tanto più efficace quanto la tensione nella regione resterà moderata. Un approccio basato sulla diplomazia economica e multilaterale, infatti, risentirebbe pesantemente dell’acutizzarsi delle tensioni politiche nella regione.

foto di copertinaEPA/M.A.PUSHPA KUMARA

L'articolo Le prospettive della diplomazia italiana verso l’Indo-Pacifico proviene da Affari Internazionali - Politica ed economia estera.

Relazioni Italia-Cina: la Belt and Road initiative non è l’unica strada

La Belt and Road Initiative (BRI), assieme al Memorandum of Understanding (MoU) ad essa legato sottoscritto tra l’Italia e la Repubblica popolare cinese a marzo 2019, è stata una delle questioni di politica estera più delicate nel dibattito pubblico italiano degli ultimi cinque anni. Per comprenderne appieno il significato, bisogna guardare in maniera più ampia all’evoluzione storica delle relazioni italo-cinesi, in particolare dalla riapertura dei rapporti diplomatici avvenuta nel 1970.

Le relazioni Italia-Cina prima del MoU

Italia e Cina sono legate sin dall’antichità da rapporti di carattere non solo culturale, ma anche commerciale. Già nel 1866 il Regno d’Italia sottoscrisse un Trattato di amicizia, commercio e navigazione con la Cina imperiale; in seguito alla rivolta dei Boxer, nel 1901-2, l’Italia ottenne la concessione di Tianjin, mentre negli anni Trenta le rispettive rappresentanze diplomatiche vennero elevate al livello di ambasciata. Tuttavia, dopo il congelamento dei rapporti seguito alla nascita della Repubblica popolare cinese, solo a partire dalla fine degli anni Settanta le relazioni si sono pienamente sviluppate in ambito economico e commerciale.

Grazie alle riforme promosse dalla dirigenza comunista post-Mao, negli ultimi decenni la Cina si è resa protagonista di una rapida crescita economica che ha portato ad un processo di modernizzazione interna. Alla crescita economica, ulteriormente accelerata a seguito dell’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, ha corrisposto l’emergere di nuove ambizioni a livello internazionale. Espressione emblematica è stata proprio il varo della Belt and Road Initiative da parte del Presidente Xi Jinping nel 2013: un’iniziativa di carattere non solo geo-economico, ma dalle chiare implicazioni geopolitiche e persino geoculturali.

È a fronte di questo nuovo attivismo cinese che nel 2015, in occasione del 45° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Cina, l’allora Ministro degli Affari Esteri italiano Paolo Gentiloni aveva annunciato la visione strategica “Road-to-50” per i rapporti tra i due paesi nei successivi cinque anni. Nel 2017 era stato poi formalizzato un Piano d’azione, che mirava a potenziare la partnership tra Italia e Cina, estendendola dai tradizionali settori economici, commerciali e finanziari a quelli culturale, scientifico-tecnologico, ambientale e turistico. Particolare enfasi veniva posta sulla complementarità tra le economie, sulle strategie di innovazione industriale e sull’integrazione finanziaria. Infine, sempre nel 2017, Gentiloni era stato l’unico capo di governo del G7 a partecipare al primo Forum della Belt and Road Initiative (BRI), in un contesto caratterizzato da intense discussioni su possibili investimenti cinesi nelle infrastrutture italiane, specie portuali (Genova e Trieste).

L’Italia entra nella BRI – ma fino a quando?

Con l’avvento del governo Conte I nel 2018, si era registrata un’apertura ulteriore nei confronti della Cina. Il culmine di questa cooperazione veniva sancito nel marzo 2019 con la firma del già citato MoU sulla BRI durante la visita di Xi Jinping in Italia. In quella circostanza, il presidente del Consiglio aveva sottolineato come la firma del MoU rappresentasse “un accordo quadro non vincolante”, con finalità di cooperazione economica e commerciale.

Un ruolo di particolare rilievo nel percorso che aveva portato alla firma del MoU era stato svolto dall’allora Ambasciatore di Cina in Italia Li Ruiyi, che aveva lavorato per promuovere la cooperazione tra i due paesi, individuando cinque settori prioritari: manifattura, servizi, risparmio energetico, trasporti intelligenti e green economy. L’ambasciatore aveva identificato opportunità legate all’evoluzione dell’economia cinese, alla sua apertura verso l’esterno, alla Belt and Road Initiative come strumento di connettività e investimento, e alle iniziative culturali, in un’ottica win-win.

Tuttavia, negli anni successivi alla firma del MoU si sono verificate delle difficoltà che hanno frenato notevolmente la cooperazione sino-italiana. Anzitutto, nonostante le rassicurazioni del governo italiano sulla natura principalmente economica dell’accordo, la firma del Memorandum ha da subito sollevato preoccupazioni strategiche tra gli alleati tradizionali, sia in Europa che negli Stati Uniti. Questo fatto, unito al peggioramento della percezione della governance cinese a seguito dello scoppio pandemia da Covid-19 tanto nella comunità internazionale quanto agli occhi dell’opinione pubblica italiana, ha reso di fatto la presenza dell’Italia nella BRI sempre più precaria.

La decisione da parte italiana di non rinnovare il MoU, ufficializzata pochi giorni fa dal governo Meloni, era quindi nell’aria da tempo. La sfida adesso per il nostro paese è quella di come gestire al meglio il mancato rinnovo, di modo che non precluda il prosieguo di una dinamica positiva nelle relazioni bilaterali tra Roma e Pechino.

foto di copertinaANSA/ALESSANDRO DI MEO

L'articolo Relazioni Italia-Cina: la Belt and Road initiative non è l’unica strada proviene da Affari Internazionali - Politica ed economia estera.

Al-Sisi verso la riconferma in un Egitto sempre più fragile

Da domenica 10 a martedì 12 dicembre, i cittadini egiziani verranno chiamati alle urne in occasione delle elezioni presidenziali. I residenti all’estero, invece, hanno già votato tra il 1 e il 3 dicembre .

Nonostante il risultato sembri scontato – con la rielezione del presidente uscente Abd al-Fattah al-Sisi, al potere dal 2013, anno in cui rovesciò il presidente Mohammed Morsi  – va sottolineato che le attuali dinamiche politiche egiziane mostrano un Paese in una fase di fragilità prolungata dovuta soprattutto (ma non solo) a un’economia fortemente in crisi. In un contesto del genere, se il futuro a breve termine del regime sembra solido, quello a lungo termine appare meno certo.

Le presidenziali egiziane nel segno di al-Sisi

Le elezioni presidenziali in Egitto sono a maggioranza assoluta con la possibilità di un secondo turno: se nessuno dei candidati raccoglie un numero di preferenze superiore al 50%, i due più votati vanno al ballottaggio, che si svolge invece a maggioranza semplice.

L’attuale presidente al-Sisi ha vinto con oltre il 95% dei voti le ultime due tornate elettorali (nel 2014 e nel 2018), anche se entrambe le votazioni sono state definite una farsa da diverse organizzazioni locali e internazionali. Infatti, al-Sisi ha vinto alle urne contro candidati riconosciuti come suoi sostenitori: Hamdin Sabahi nel 2014 e Moussa Mustafa Moussa nel 2018.

Nonostante nel 2018 avesse promesso di non ricandidarsi, al-Sisi correrà quindi per un terzo mandato consecutivo – per “soddisfare le richieste del popolo egiziano”, a detta sua. In caso di vittoria, molto probabile, al-Sisi verrà confermato al potere fino al 2030 dal momento che la durata del mandato presidenziale è stata aumentata da quattro a sei anni con la riforma costituzionale del 2019, la stessa che, approvata tramite referendum, ha introdotto la possibilità di un terzo mandato consecutivo come capo di Stato.

Anche in quella occasione, svariati osservatori indipendenti parlarono di brogli e pressioni esercitate dalle forze di sicurezza in favore della riuscita del suffragio – alla fine passato con l’89% dei voti e un’affluenza di poco superiore al 44%. Celebre, ad esempio, il caso denunciato dal Wall Street Journal di voti comprati in cambio di denaro o cibo.

I “rivali” di al-Sisi e il caso Tantawy

Secondo la Costituzione egiziana, chiunque voglia partecipare alle presidenziali deve raccogliere a sostegno della propria candidatura le firme di 20 parlamentari o 25 mila elettori provenienti da almeno 15 governatorati (con un minimo di mille firme a governatorato). Al termine ultimo per la deposizione delle candidature (il 16 ottobre), oltre all’ex generale nonché presidente uscente, solo altri tre candidati sono riusciti a rispettare i requisiti minimi stabiliti dall’autorità nazionale elettorale egiziana.

In ordine cronologico, il primo rivale di al-Sisi a depositare la propria candidatura è stato Farid Zaharan, leader del Partito socialdemocratico ed ex attivista di sinistra negli anni Settanta. Nonostante sia considerato tra i volti principali dell’opposizione, Zaharan rimane vicino alla dirigenza dei servizi di intelligence egiziani e di conseguenza ad al-Sisi stesso, che dal 2010 al 2014 ne è stato il capo.

Il secondo candidato a presentarsi come sfidante è stato Abd al-Sanad Yamama, segretario del più antico partito liberale d’Egitto, il Wafd. Infine, anche Hazem Omar del Partito popolare repubblicano (nazionalisti), ex imprenditore e attuale sostenitore di al-Sisi, si è ufficialmente candidato il 14 ottobre.

Gli altri potenziali candidati, tra cui la leader del Partito Dostour (liberali) Gameela Ismail, non sono riusciti a raggiungere i requisiti minimi per partecipare alle elezioni. Rimane emblematico però il caso di Ahmed Tantawy, ex segretario del Partito al-Karama, di orientamento nasseriano (socialismo arabo), contro il quale è stato avviato un processo il 7 novembre. Tantawy, infatti, è stato accusato e poi arrestato insieme ai suoi più stretti collaboratori e alcuni familiari con generiche accuse di cospirazione e divulgazione di fake news o materiale elettorale non autorizzato. Lo stesso Tantawy aveva inoltre denunciato più volte l’atteggiamento intimidatorio delle forze di polizia durante i suoi comizi o agli stand adibiti alla raccolta firme per la sua candidatura.

Nonostante non si possa considerare una sorpresa – nel 2022 fu costretto a dimettersi dal suo ruolo di deputato per andare in autoesilio a Beirut -, l’arresto di Tantawy rimane parte di una vasta campagna di repressione del regime in vista della tornata elettorale portata avanti su più fronti, anche digitali. Ad oggi, più di 200 persone (tra cui molti attivsti) sono state arrestate con accuse di terrorismo, diminuendo drasticamente il già risicato spazio lasciato nella sfera pubblica a società civile e opposizione politica.

La grande protagonista delle elezioni: la crisi economica

Sebbene la campagna elettorale si sia svolta sottotono, visto il risultato scontato, la grande protagonista di questa tornata è la crisi economica che da anni soffoca la società egiziana.

La stessa scelta di anticipare le elezioni – inizialmente previste nella primavera del 2024 – è dovuta alla crisi economica. L’inflazione ha superato il 40% e la svalutazione della moneta ha raggiunto il 50%, mentre il 30% degli egiziani vive sotto la soglia di povertà (dati CAPMAS, ente statistico egiziano) – percentuale che secondo la Banca mondiale si attesta invece intorno al 60%.

Nonostante la campagna infrastrutturale e la politica estera portate avanti da al-Sisi in nome di una rinnovata grandeur egiziana, le autorità hanno deciso di anticipare le elezioni per evitare un aumento del malcontento, da un lato, per l’eventuale peggiorare della situazione economica, dall’altro, per le dolorose riforme economiche e finanziarie che verranno adottate nei prossimi mesi.

A preoccupare in particolar modo la classe dirigente egiziana sono le riforme strutturali del sistema economico – tra cui il passaggio a un regime permanente di tasso di cambio flessibile e la riduzione del debito pubblico – alle quali è vincolato il prestito da 3 miliardi di dollari accordato nell’ottobre del 2022 con il Fondo monetario internazionale (Fmi). 

Diversi analisti hanno sottolineato che, nonostante il prestito del Fmi e l’entrata nel gruppo BRICS del Cairo (prevista nel gennaio 2024), le problematiche dell’economia egiziana sono legate a debolezze strutturali dovute alla dipendenza dai beni alimentari importati (sui quali ha impattato negativamente la guerra in Ucraina), il monopolio dell’esercito su diversi settori produttivi e politici e la carenza di risorse idriche che, oltre al settore primario, influenza anche la produzione energetica del Paese nordafricano.

Infine, vanno ricordate altre tematiche che occupano uno spazio importante all’interno del dibattito pubblico egiziano come, ad esempio, la questione palestinese e le relazioni con Israele, la disputa con l’Etiopia e la stabilità di Paesi confinanti come Sudan e Libia.

Se la vittoria alle urne di al-Sisi appare certa, il regime inizia a mostrare alcune debolezze strutturali che non possono più essere ignorate dal ceto dirigente egiziano. Con una povertà dilagante, un’economia arenata e la conseguente impopolarità di al-Sisi fare affidamento unicamente sull’esercito e sui partner internazionali potrebbe risultare una strategia fallace sul lungo termine.

foto di copertina EPA/WAEL HAMZEH

L'articolo Al-Sisi verso la riconferma in un Egitto sempre più fragile proviene da Affari Internazionali - Politica ed economia estera.